Narrativa Minerva Collana diretta da Giacomo Battara
Bassotuba è tornato
Bassotuba è tornato
di Fieorenza Renda
Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Giacomo Battara
© 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN: 978-88-7381-497-9 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 “40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 “Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com
Fiorenza Renda
Bassotuba è tornato
Minerva Edizioni
Prefazione I microversi. Mi piacciono sempre tanto, i microversi. Che non sono dei piccolissimi componimenti poetici, ma degli universi in miniatura. Chiamiamoli micromondi, se volete. Vi sembra un termine da fantascienza? Non lo è. Sto parlando di piccole comunità dalle dimensioni lillipuziane, in cui il tempo sembra scorrere in modo diverso rispetto all’ambiente circostante. E in cui vivono personaggi che lì, e solo lì, hanno un senso e un’identità. Potrei fare il letterario e l’esotico e parlarvi della Macondo di Garcia Marquez. O della mitica Palomar di Beto Hernandez. Ma non importa andare così lontano. Basta addentrarsi in certe vallate dell’appennino tosco-romagnolo, tanto per stare qui vicini, uscire un po’ dalle strade consuete, affrontare qualche strada di montagna e fermarsi al bar del Curvone o bar dello Sport che si incontra nel primo agglomerato di case. Sedetevi a un tavolino, osservate (e ascoltate) la gente, e capirete che cos’è un micromondo. Altri mondi strani e non troppo distanti da noi si trovano tra le nebbie e i campi arati della Bassa, quel territorio sospeso da sempre nel tempo e nelle pagine di Guareschi. Ed eccovi qui, adesso, davanti a un micromondo tutto nuovo: la Bagno di Guazza di Fiorenza Renda. Dove i preti si chiamano Padre Anarchico, e gli abitanti si chiamano Lenin, Galeazzo Palude oppure Soviet. Dove un po’ si ride, e si ride bene, e un po’ si piange, ma si piange bene. Fatevi un giro a Bagno di Guazza. Basta girare la pagina. Gianluca Morozzi
Questa è la storia di un’amicizia improbabile e di un bassotuba. Ma è anche la storia di molte altre cose. Il bassotuba è uno strumento a fiato che fa parte della famiglia dei flicorni, mentre l’amicizia come sappiamo, è una faccenda più complicata. Per le altre cose, basterà continuare a leggere...
Quella mattina Lenin si svegliò, come al solito, che neanche erano le sei. E come al solito, dopo un primo momento di perplessità, si ritrovò incazzato come una bestia e senza un motivo particolare. Sempre come al solito, si mise a sedere sul letto e si guardò attorno. Le cose erano esattamente come le aveva lasciate la sera prima; i pantaloni ripiegati sulla sedia, le bretelle pendule sulla spalliera, la camicia appesa dietro la porta e le scarpe ordinatamente affiancate sotto il termosifone. Lenin si passò una mano deformata dall’artrite sulla testa e afferrò la mascherina dell’ossigeno, inspirò rumorosamente e decise che alzarsi per farsi un caffé non avrebbe potuto peggiorare la situazione. La cucina era perfettamente in ordine, a parte se vogliamo, il carriolino per l’ossigeno in un angolo, che se ne stava di traverso e un poco stonava con il tripudio di fiori e uccellini della carta da parati. Niente pareva essere fuori posto. Lenin si appoggiò allo stipite del tinello fissando la parete. La porta d’ingresso si aprì e si richiuse piano, lui però non la sentì, o forse, non ci fece caso. La sua attenzione era interamente rivolta ai disegni della carta da parati. «Fanculo uccellini, fanculo non ti scordar di me, fanculo anche a voi!» Disse alzando la tazzina fumante in segno di saluto. 9
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La ragazza che era entrata senza troppo rumore appoggiò il sacchetto della spesa per terra e incrociò le braccia. «Buongiorno Nonno! Cuor contento il ciel l’aiuta, eh?» «Vorrei vedere te, vorrei vedere… Com’è che sei arrivata così presto?» «Non è presto. Dobbiamo andare che ci sono le prove. Non volevi andare alle prove?» «Boh. Che ci andiamo a fare. Tanto sono dei cani, sono». «Cani o non cani, hai promesso allo zio che saresti andato. Vestiti dai che facciamo tardi». Lenin sbuffò e finì di bersi il caffé. «Fa schifo. È venuto uno schifo!» «Quando mai, nonno!» La ragazza gli tolse delicatamente la tazzina di mano e la appoggiò sul tavolo. «Domani te lo preparo io il caffé, vedrai che viene buono». «Bah! Tua nonna sì. Lei lo sapeva preparare un caffé come si deve…» «Sì nonno, ora però andiamo che se no facciamo tardi…» La ragazza gli tolse la tazzina di mano, l’appoggiò sul tavolo da pranzo e afferrò il vecchietto per un gomito trascinandolo con una certa fermezza verso la porta di casa. Così Lenin e la nipote scesero più o meno faticosamente in strada, accolti da un giugno canicolare anche rispetto agli standard della Bassa. La ragazza lo aiutò ad entrare in auto, caricò il carriolino sui sedili di dietro, gli sistemò tra le mani la mascherina per l’ossigeno e mise in moto. 10
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«L’ha fatto apposta!» Esclamò Lenin indispettito. «Chi?!» Chiese senza voltarsi la nipote. «La Gina, no?! L’ha fatto apposta!» Continuò lui. «Ma a fare che?!» Sospirò rassegnata la ragazza. «A piantarmi in asso così!» Lenin incrociò le braccia, un muso lungo fino al parabrezza. «Insomma nonno, è morta! Mica se n’è scappata col lattaio!» Rispose la nipote sbuffando. «È lo stesso! Pur di farmi un dispetto questo e altro!» «Nonno, se non la finisci ti ci pianto io qua in mezzo al niente, poi te la fai a piedi col carriolino! Almeno dopo ti puoi lamentare per qualcosa!» Lenin sciolse le braccia e cominciò a rotearle dentro l’abitacolo. «Sei acida, sei…» «IO!?» «Tu tu… È la televisione… Voi giovani guardate troppa televisione! Inacidisce!» «Ma se neanche ce l’ho la televisione!» «E che vuol dire! Non bisogna mica avercela per guardarla!» «Se Dio vuole siamo quasi arrivati!» «Tua madre la televisione la guarda però!» «E che c’entra? Io non la guardo!» «Le colpe dei padri, in questo caso quelle delle madri, ricadono sui figli. Si sa!» La ragazza gli lanciò un’occhiataccia e inchiodò la Panda verde sul ciglio del marciapiede. Lenin serafico non mosse un dito e inspirò una boccata d’ossigeno. La nipote scosse la testa. 11
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«Ora vengo ad aprirti». «E non sbattere la portiera che c’ho le orecchie delicate!» «Sì nonno…» Lenin si affacciò dal finestrino agitando un braccio in direzione della nipote. «Ma di che cos’è fatta questa macchina? Di ondulato? Di eternit? Siamo fermi da trenta secondi e già sto lessandomi gli organi interni! Non è una cosa normale! E se poi la bombola dell’ossigeno si surriscalda e scoppia? Eh? L’assicurazione secondo te poi paga? Eh?! Paga secondo te?!!!» La nipote lo guardò malissimo. «Non lo so nonno, se l’assicurazione paga…» «E allora te lo dico io! Non paga l’assicurazione! Quelli non pagano mai! Figurati!» «SCENDI NONNO!!!!» «E scendo, scendo… Che se resto qui dentro ancora un poco mi puoi servire con la salsa verde! Dammi il braccio! Andiamo a sentire i guaiti di quegli animali, va...» Lenin, la nipote e il carriolino varcarono un portone di alluminio. Il Circolo Arci (ex Casa del Popolo) di Bagno di Guazza li accolse benevolo e condizionato. Lenin si guardò attorno con un certo compiacimento. C’era fresco e penombra. Scosse il carriolino con soddisfazione e avvicinò la bocca all’orecchio della nipote. «Eh eh… Sembrano peggio del solito!» Su un piccolo palco, un gruppetto eterogeneo di anziani, armati degli strumenti più disparati, stava 12
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tentando vanamente di allinearsi in semicerchio di fronte a un vecchio banco di scuola davanti al quale Galeazzo Palude, ormai piegato in due a causa di un’irreversibile lombo-sciatalgia, agitava una cannuccia verde al posto della bacchetta da direttore d’orchestra che si era dimenticato a casa. «Guardalo, pare Maga Magò travestita da comunista!» Sogghignò Lenin. «Nonno, stavolta ci cacciano!» Fece la ragazza preoccupata. «Devono solo provarci…» In un angolo una coppia di ragazzi si teneva per mano sorridendo, l’aria vagamente perplessa, ma non priva di un accenno di speranza. Un vecchietto magro, raggiante, avvoltolato in una polo rosa confetto si avvicinò a Lenin e alla nipote appoggiandosi a un bastone di plastica col quale, appena giunto a destinazione, provvide a colpire rumorosamente il carriolino porta ossigeno. «Allora siete venuti davvero! Bene, bene! Vi stavo aspettando!» «Allungalo di nuovo e vedi dove te lo infilo quel bastone!» Borbottò Lenin. Il vecchietto ridacchiò. «È di plastica morbida! Una cosa moderna caro! Non sarà peggio dei clisteri che ti fai dalla mattina alla sera, tanto lo so che te li fai! Sei sempre stato stitico!» La ragazza si mise tra i due separandoli. «Buoni! Zio ti ci metti pure tu? E non provocare, dai…» Il vecchietto abbracciò la ragazza scoccandole due bacioni sulle guance. 13
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«Come stai? E la mamma?» Lenin scostò bruscamente la nipote tirandola per un braccio. «Non è tuo zio! Al massimo il tuo pro zio! Cerchiamo di essere precisi! E tu? Dovevi baciarla per forza? Sbavi! Fai schifo fai! Il vecchietto ridacchiò di nuovo. «Che c’è Lenin, vuoi un bacetto pure tu? Guarda che te lo do senza problemi, su vieni qui che ti bacio tutto!» «Sediamoci! Stanno per cominciare!» Intervenne la nipote. Galeazzo Palude si schiarì la gola, scatarrò in un grande fazzoletto rosso poi diede il la. La Banda partì in quarta. Dopo un check sound che richiamava lo storico jingle anni ottanta della Mulino Bianco, le note della celeberrima Mamma Maria dei Ricchi e Poveri giunsero, prima timidamente, poi sempre più impetuose a saturare l’aria. Le teste dei musicisti e quelle degli spettatori si mossero in sincrono. La ragazza appoggiò la testa sulla spalla del fidanzato guardandolo con trasporto. Lui le sfiorò il mento. Il vecchietto in rosa si voltò verso Lenin: «Bah! Fan venire le carie da quanto sono sdolcinati! Lui è il pro nipote di Bertolazzi, lei ha origini non pervenute, pare, romagnole... Si sposano a settembre. Bertolazzi ha proposto la Banda per il ricevimento, speriamo che il repertorio pop li convinca! Servono fondi!» 14
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Lenin abbozzò: «Vedrai che ci ingaggiano. Guardali. Si vede che non capiscono un cazzo…» «Nonno!!!!» Lenin mise il broncio e finalmente si accinse a fare quello per cui era uscito di casa: ascoltare ancora una volta le prove della Banda Musicale di Bagno di Guazza. Tutto pareva andare per il meglio, il pubblico seguiva partecipe l’esecuzione canticchiando a tempo. Quando, arrivati a “Io muoio dalla curiooositaa-a-, ma devi dirmi la veeerità-a-à”, successe l’irreparabile: qualcuno o qualcosa si era mosso sconsideratamente urtando la Vedova Bortolotti, la quale, come l’incipit di un domino aveva incrinato l’equilibrio precario del Dottor Palmieri, che a sua volta aveva lasciato cadere a terra la copia de “il Resto del Carlino” di due giorni prima e che aveva trovato sul frigo dei gelati Algida. Il frigo dei gelati in questione si trovava al Circolo Arci sin dal lontano 1964, fatto recapitare dall’Algida medesima ed in comodato gratuito, alla ex Casa del Popolo onde perpetrare un riuscito tentativo di conquista della Bassa a colpi di cornetti ricoperti di cioccolato e granella di nocciola e senza spargimenti di panna. Indifferente ai gelati, tuttavia, il Dottor Palmieri si era impadronito di quella specifica copia del quotidiano in questione, non tanto per passione nei confronti di un giornalismo di qualità, quanto perché poteva venirgli buona per pulire la gabbia dei canarini. 15
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“Il Resto del Carlino”, cadendo, aveva però disgraziatamente colpito Caruso dritto sulla testa. Nessuno si fece male, ma il Destino che ogni tanto é carogna e spesso si annoia, perlomeno quando gli capita di stazionare nei circoli Arci (ex Case del Popolo), ci mise del suo, così Caruso si scosse dal torpore che gli era consueto ormai da un quinquennio e decise di rendere il suo personalissimo tributo. A differenza di quello che si potrebbe pensare, Caruso non era un anziano pensionato melomane. Caruso era un bastardo. Un vero bastardo. Incrocio di una meticcia a pelo lungo notoriamente di facili costumi e, pare, di un cane quasi da caccia. Giuseppe Garibaldi, storico (e unico) meccanico di Bagno di Guazza, lo aveva rinvenuto, come del resto aveva rinvenuto prima di lui e nell’ordine i randagi Bottazzo e Lazzari, coi quali aveva onorato la propria grande passione per l’opera ed i suoi interpreti più significativi, davanti alla porta di casa, in quella che solo un eufemismo avrebbe potuto definire una nebbiosa mattina di tardo autunno. Così, Caruso, era diventato l’ennesimo cane di Giuseppe Garibaldi, cosa che, se avesse avuto qualche nozione di storia contemporanea, lo avrebbe senz’altro reso maggiormente responsabile, nonché consapevole, del proprio ruolo in società. Ma i cani si sa, pur essendo animali determinati, hanno scarsa dimestichezza col concetto di omonimia e non amano troppo la storia, perciò nonostante i reiterati inviti a togliersi di mezzo rivoltigli dal Garibaldi che non 16
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voleva altri quattro zampe tra i piedi, e dalla di lui consorte, che per la cronaca di nome faceva Zaira e non Anita, Caruso non si arrese. Nemmeno per un momento. Restò stoicamente indifferente al lancio nella sua direzione degli oggetti più disparati, dal tradizionale stivale di gomma sino a quello di una bottiglietta di plastica a forma di madonnina che una cugina alla lontana della Zaira aveva portato per ricordo alla congiunta a seguito di un avventuroso viaggio a Lourdes organizzato dalla parrocchia nel settantadue, e che da allora faceva bella mostra di sé accanto a un santino di Berlinguer dotato di lumino perpetuo. Caruso aveva aspettato ed aveva avuto fede. I fatti confermarono che, oltre che fede, aveva pure avuto ragione. Un martedì sera, infatti, Garibaldi, tornò a casa da una serata a base di luganeghe e pignoletto, immalinconito e nostalgico. Si sedette sul motore di un vecchio trattore Landini al quale prima o poi avrebbe dovuto dare un’occhiata, e guardando un punto lontano nel cielo dove, se non ci fosse stata una nebbia spessa quanto un piumino danese, avrebbe potuto trovarsi la luna, iniziò a fischiettare l’internazionale. Caruso si avvicinò a quello che per lui era l’unico, vero eroe dei due mondi, visto che da qualche tempo e di nascosto dalla Zaira, aveva iniziato a passargli gli avanzi dei tortelloni burro e salvia che rimanevano dal pranzo della domenica, affiancò Garibaldi e lo guardò scodinzolando, poi chiuse gli occhi e concentratissimo, iniziò ad accompagnare l’internazionale con lunghi 17
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ululati cadenzati dal mozzicone di coda abilmente utilizzato a guisa di metronomo. Garibaldi rimase di sale. Sopraffatto dalla commozione smise di fischiettare e fece cenno al cane di seguirlo. Caruso non se lo fece ripetere due volte. Si infilò veloce come una scheggia sulla poltrona buona del salotto sulla quale si ripromise di rimanere, fatto salvi improcrastinabili bisogni fisiologici, per i sedici anni successivi. «Che significa? Un altro cane? Non avevamo detto che basta? Che poi muoiono e uno si dispiace e sporcano e fanno le puzze che poi in casa non si può stare se non con le finestre aperte e poi vien dentro un freddo che non ci si dura1?!» Chiese Zaira al marito, indicando Caruso che già che c’era s’era sdraiato per il lungo e aveva iniziato a russare. «Il cane resta…» «E perché?» Domando la Signora Zaira. «Perché canta!» Le rispose Garibaldi. «Che fa?!Canta?!» «Sì! Quando sente l’Internazionale, lui piglia su e canta!» «Di mo’ Beppe, che vi siete bevuti stasera al Circolo?» «Donna di poca fede, guarda!» «Mo’ casomai ascolto, vè…» Rispose Zaira incrociando le braccia. Garibaldi si mise sull’attenti e ricominciò a fischiettare. Caruso, che sarà pure stato un bastardo, ma scemo non era scemo, gli si accodò all’istante. 1 Un freddo porco 18
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La Signora Zaira a quel punto dovette ammettere che pareva più intonato lui di tanti volenterosi Compagni di Partito, si rassegnò e in nome dell’ideale andò a riempire una ciotola di acqua e un’altra con la paglia e fieno coi funghi che era rimasta dalla sera prima. Se i cani sorridono, quella sera Caruso sorrise, pensando che la musica era davvero una gran bella cosa. Così Garibaldi iniziò da quel momento a portarsi il cane anche alle prove della Banda, nella quale era entrato più per amore di corporazione che per un qualche tipo di talento recondito. Totalmente privo del seppur minimo orecchio musicale, era stato assegnato al triangolo, strumento che aveva imparato a colpire con veemenza e totale disinteresse per la partitura. Durante le prove Caruso restava a guardarlo estasiato, immobile. La coda a tempo. I membri della banda avevano accolto il cagnetto senza grossi problemi e con una certa benevolenza, che perdurò almeno fino a quando, durante un’esibizione alla fiera della salamella nella vicina Pieve di Rusco, Caruso non decise di lanciarsi in una serie di guaiti di accompagnamento del repertorio dei compagni musicanti. Quando gli ululati coprirono pure la grancassa, la Banda decise all’unanimità di rinunciare estemporaneamente al proprio triangolo e non senza dispiacere, rispedì Garibaldi e Caruso a Bagno di Guazza. Successivamente a quell’episodio, Caruso venne riammesso alle prove solo dopo che Garibaldi riuscì a procurargli una di quelle cuffie che proteggono le 19
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orecchie degli operai addetti ai martelli pneumatici. La cuffia compì il miracolo. Non sentendo più niente, Caruso non ritenne di doversi più impegnare in gorgheggi e acuti, le prove si susseguirono serene e il triangolo di Garibaldi tornò ad allietare, per quanto a sproposito, grandi e piccini accorsi ad applaudire la Banda e il suo rinomato repertorio. Ad ogni modo, il giorno in cui il nipote di Bertolazzi portò la fidanzata ad ascoltare le prove, purtroppo, “il Resto del Carlino” sfuggito al Palmieri scostò la cuffia dalle orecchie del cane, che improvvidamente, pensò bene di unirsi a sorpresa al “Mamma mmmaaaaa Mamma maaaariaaaaaaaa” del ritornello con un ululato che agghiacciò gli astanti. Il riposizionamento, per quanto istantaneo, della cuffia sulle orecchie di Caruso non fu sufficiente a tranquillizzare la fidanzata del nipote di Bertolazzi, ormai atterrita all’idea che il proprio matrimonio potesse venire associato ad una gran cagnara, anche solo per sbaglio. La nubenda, terrea, ringraziò i musicisti, declinò l’offerta omaggio, in caso di ingaggio, di uno o più pezzi dei fratelli Righeira e si volatilizzò in men che non si dica. La sala prove del Circolo Arci, (ex Casa del Popolo) di Bagno di Guazza, rimase fredda, grazie al condizionatore, e silenziosa. Insieme alla fidanzata del giovane Bertolazzi si erano dileguate pure le divise nuove. Caruso venne aspramente rimproverato, cosa che però non lo toccò minimamente, avendo un pelo sullo 20
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stomaco sviluppatosi sia per questioni fisiologiche che per attitudine al randagismo e che spesso, provvedeva a salvarlo da eventuali sensi di colpi nonché da possibili e circostanziali pedate. Lenin aveva assistito alla sequenza di eventi senza battere ciglio e con un certo, cinico, divertimento. «Un tempo mica dipendevamo dal primo Bertolazzi che passava per comprare le divise! Cani o non cani! Facevamo invidia pure a Raul Casadei e alla sua orchestra! Anzi, paura gli facevamo a Raul Casadei! Eravamo il terrore di Raul Casadei!!!! L’incubo delle balere della bassa!!!Bahhh!!!» Il vecchietto con la polo rosa annuì mestamente: «Oggi ai matrimoni vogliono altro… Non è più come ai nostri tempi! I ragazzi sono viziati!» Lenin inspirò rumorosamente dalla mascherina per l’ossigeno e tornò indietro a tanti anni prima. Pensò al suo di matrimonio. O perlomeno ci provò. I ricordi si accavallarono confusi. Era passato tanto tempo e lui cominciava ad essere molto stanco. Bagno di Guazza, giugno (inoltrato) del 1946 Dalla finestra della sua stanza, che poi sua era un modo di dire, dato che la condivideva con un paio di sorelle e quattro fratelli di cui due gemelli, ma di quei gemelli che non si somigliano, Lenin, se fosse stato in piedi, avrebbe potuto vedere campi coltivati a cereali, magari non floridissimi, ma a perdita 21
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d’occhio. Avrebbe potuto vedere anche suo padre, gli zii e suo nonno, mezzadri dei campi medesimi, intenti a forgiare due nuovi spaventapasseri che ricordavano nelle fattezze, in tutto e per tutto, la Signora Nilla Pizzi e il di lei Maestro, Signor Cinico Angelini, due tra le più note personalità radiofoniche dell’epoca, recentemente avvistate da diversi compaesani nei pressi del vecchio teatro di Pieve di Rusco mentre se le davano di santa ragione. Se poi Lenin si fosse affacciato sporgendosi un poco, avrebbe potuto vedere sua madre che col bricco di cicoria in una mano, guardava gli uomini di casa scuotendo la testa e della quale un osservatore particolarmente attento sarebbe stato in grado di interpretare il labiale, riducibile senza tema di smentita a un sonoro “guardali lì gli imbecilli a far pupazzi e i corvi a fare colazione”. Lenin però era ancora a letto. Non che stesse dormendo, no certo. Si limitava ad osservare i giochi delle prime lamelle di sole che testarde come muli si incaponivano a forzare le persiane. Era un giorno speciale. Il giorno in cui avrebbe finalmente coronato un grande sogno, cioè quello di potere avere una camera da letto tutta per sé. O quasi, dato che quel giorno alle ore undici in punto salvo ritardi o imprevedibili impedimenti di padre Anarchico, Lenin sarebbe convolato a nozze con la Gina e quindi a dirla tutta la camera avrebbe dovuto dividerla quanto meno con lei. Comunque, il matrimonio gli avrebbe consentito già quella sera di poter traslocare nel sottotetto che il padre della sua impellente mogliettina aveva riservato agli sposi da tempo immemore. Un bel sollievo, anche se nel sottotetto ci pioveva e prima del prossimo inverno 22
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avrebbe dovuto lavorarci un bel po’, se voleva restarsene all’asciutto. Ma era giugno, per giunta inoltrato e Lenin era contento di sposarsi. E, a onor del vero non solo o perlomeno non esclusivamente per non dovere continuare a dividere il proprio spazio vitale con un profluvio di fratelli e sorelle. In effetti Lenin amava la Gina. Cioè, se qualcuno glielo avesse chiesto avrebbe risposto di amarla, certamente. Anche se la definizione esatta del concetto di amore non gli era poi così chiara come gli era sembrato in un primo approccio di autoanalisi il giorno in cui le aveva chiesto di sposarlo. Era successo una domenica. E non è che lui glielo avesse proprio chiesto. Pioveva e Lenin e la Gina stavano giocando a rubamazzo vicino al camino. Lenin, che non aveva mai avuto buona memoria per le carte, se ne stava con lo sguardo perso a cercare di ricordare le ultime due mani, quando vide interrotto il corso dei propri pensieri dalla Gina che si schiarì la voce e lo guardò dritto negli occhi. «Sì» disse la Gina forte e chiaro. «Sì cosa?» «Ti sposo» «Davvero?» Fece Lenin sorpreso. «Certo». «E quando?» Chiese Lenin, più incuriosito che partecipe degli eventi. «A giugno, è ovvio» «Ah» «La terza domenica» «Ah» 23
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«Al mattino, così poi si pranza e non si va a letto appesantiti» «Ah» Gina giocò. «Toccava a te?», chiese Lenin piuttosto stordito dalle ultime novità che gli erano appena state comunicate. «Sì» «Non mi pareva» «Ti dico di sì» «Va bene Gina, tanto hai sempre ragione tu» «Appunto». Gina vinse la partita. Come al solito. Poi si voltò e comunicò ai parenti tutti la lieta novella. I parenti si congratularono, aprirono un lambrusco tenuto da parte per le grandi occasioni e brindarono alla coppia. Quella sera Lenin andò a letto un poco frastornato e assolutamente certo che la Gina avesse barato, anche se lui davvero, non se ne era accorto. Lenin e la Gina erano nati lo stesso giorno dello stesso anno, più o meno alla stessa ora e a nemmeno trenta metri di distanza. Avevano diviso il pane nero, le pannocchie di granoturco quando c’erano, la paura della guerra che comunque li aveva appena sfiorati, protetti com’erano stati dall’insensatezza smarrita della loro prima infanzia e un bel po’ di ceffoni che le loro mamme invece raramente lesinavano, onde compensare il periodo di diffusa carestia causato dai razionamenti, dal regime e dalla non sempre oculata gestione delle coltivazioni adottata dai mariti, che si ostinavano ad operare sperimentazioni futuriste in occasione delle semine, perlomeno fino a che non 24
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vennero spodestati dalle consorti, stufe di fare più fame del dovuto e decise ad auto determinarsi per il bene proprio e della prole. Per un certo e imprecisato numero di anni, Lenin fu convinto che la Gina, unica figlia femmina, per giunta di secondo letto di Giovannone Pedrini, fosse una delle proprie, numerose sorelline. I bambini delle due case coloniche attigue passavano quasi tutto il giorno insieme. Inoltre la Gina urlava e mordeva tale e quale alle altre bambine, rompeva le scatole e faceva la spia, tanto quanto il resto del tumultuoso gregge di femmine capellute con le quali Lenin condivideva episodicamente, in quanto episodico, il desco e la grande stanza affacciata sull’aia. Solo verso i sei anni Lenin si rese conto che la Gina non dormiva insieme a lui e alla sua famiglia, motivo per cui gli punse vaghezza che una qualche differenza, seppur irrilevante, tra tutte quelle fastidiose creature, doveva pur esserci. Il concetto gli si chiarì del tutto un giorno, quando subito dopo quella che avrebbe dovuto essere l’ora del pranzo, se solo ci fosse stato qualcosa da mangiare, Lenin non decise che era arrivato il momento di scoprire in cosa consistesse la differenza tra i maschi e le femmine. Masticando un radicchietto selvatico Lenin si avvicinò a Gina che stava scavando un buco sotto un albero per seppellirci un piccione morto. «Ciao. Che fai?» Le chiese. «Non lo vedi?» Rispose la bambina, impegnatissima a scavare. «Sì lo vedo» «E allora perché me lo chiedi?» «Così» 25
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«Mi fai perdere tempo» «Senti Gina, tu lo sai perché tu sei una femmina e io un maschio, a parte che c’hai i capelli lunghi e io invece ce li ho corti?» «Certo che lo so! Tu no?» Sbottò la Gina prendendolo in contropiede. «Sì! Ma voglio sapere se lo sai tu!» «Non è vero! Me lo chiedi perché non lo sai!» «Invece lo so!» «Invece non lo sai!» «Sì invece!» «No invece!» Lenin stava per mettersi a piangere, quando Gina impietosita smise di scavare e si fermò a guardarlo controluce. «E va bene, te lo dico: le femmine non hanno il pipino» «Cosa?!» «È così» «E come fate?» «A fare che?» «Con la pipì!» «La facciamo lo stesso, però non in piedi, ci sediamo» «Non ci credo» «Uffa!» «Scommetto che non è vero!» «Bene, scommettiamo che mi finisci la buca per il piccione che è così?» «Va bene!» Gina posò il legnetto con il quale stava scavando, scostò il piccione morto e alzò la gonna del vestitino onde comprovare la veridicità delle proprie 26
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affermazioni. Pochi secondi dopo Lenin, senza neanche rendersi conto di come fosse potuto accadere, era a terra, faccia a faccia, si fa per dire, col pennuto defunto. Lenin era stato atterrato da Soviet, di anni otto, fratello della Gina e unico figlio maschio e di primo letto di Giovannone Pedrini, che furibondo, lo stava incomprensibilmente minacciando agitandogli un lombrico vivo sotto il naso. «Porco! Cosa stavi facendo alla mia sorellina?» «Niente!» «Lascialo stare Soviet, non mi ha fatto niente per davvero!» Disse la Gina rimettendosi a scavare. «È un porco!» «No Soviet, non grufola, perciò non è un porco. È un bambino! Lascialo stare, dai... Aiutami a seppellire il piccione» «Va bene». Soviet, che di base non era un ragazzino rissoso, si fece convincere senza opporre grossa resistenza, mentre da quel giorno a Lenin furono chiare almeno due cose: che la Gina era sorella di Soviet e non sua e che i piccioni morti non le facevano tanto schifo quanto invece ne facevano a lui. Gli anni, pochi, erano passati comunque veloci e Lenin si era fatto le idee più chiare su quali fossero le differenze fisiologiche tra maschi e femmine, dato che in campagna e per di più nella bassa, le informazioni giravano in fretta e oltretutto, lapidarie. Dal canto suo Gina, sin dal raggiungimento dell’età della ragione aveva dato per scontato che un giorno avrebbe sposato Lenin, visto che avevano la stessa età, si conoscevano da sempre così come i loro 27
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genitori e che, dato non da poco, lui aveva un’innata e confortante propensione ad ubbidirle senza discutere. Gina odiava le discussioni ed essendo una ragazza ragionevole e tendenzialmente equilibrata aveva capito che era meglio un uovo oggi che un intero pollaio di improbabili galline domani. Perciò, il giorno del suo matrimonio si era alzata presto, si era rifatta il letto, si era spazzolata i capelli e aveva aspettato che si facesse un’ora adatta ad uscire di casa con i genitori, i nonni e il fratello, alla volta della chiesa. L’idea di sposarsi non le dispiaceva, anche se la cosa avrebbe inesorabilmente comportato la seccatura di dovere dividere la propria stanza da letto con qualcun altro, incresciosa situazione che un fato piuttosto benigno le aveva risparmiato, almeno fino a quel momento. Gina non si accorse che la madre, sulla soglia della cucina, stava guardandola commossa fino a quando non alzò la testa e la vide, le braccia strette al seno e gli occhi acquosi. «Mamma...» «Gina...» «Spero tanto...» «Cosa cara?...», rispose la madre asciugandosi una lacrima che le tentennava in bilico. «Che Lenin non russi, mamma. Lo sai che ho il sonno leggero. Vado a dare da mangiare ai conigli, ti aspetto fuori, prendi tu il bouquet?» La seconda signora Pedrini guardò la figlia che usciva dalla cucina e si chiese da chi avesse mai preso quella ragazza che a una prima, ma pure a una seconda occhiata pareva possedere meno romanticismo di un baccalà sotto sale, si riassettò il vestito buono e uscì 28
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anche lei in cortile, sotto il sole ormai alto di quel sabato, decisamente inoltrato, di giugno. In chiesa c’era tutto il paese. I cappelli in mano e le scarpe delle grandi occasioni. Il padre della Gina, che dal giorno della sua prima vedovanza, quando una sciagurata saetta in un triste giovedì pomeriggio aveva sciaguratamente colpito la sua dolce prima metà uscita nell’aia a ritirare il bucato, praticamente incenerendola, aveva deciso di prendere la vita con una qual certa filosofia, così scortò la figlia sin sull’altare, orgoglioso del suo passo determinato e del portamento fiero e dopo tutto indifferente nei confronti della palese inettitudine del promesso sposo a potersene fare carico. «Sei una gioia per gli occhi, Gina! Oggi sembri soffusa di una luce dorata...», disse Giovannone alla figlia denotando una proprietà di linguaggio ragguardevole per un mezzadro, tuttavia dedito bisogna dire, alla lettura della Bibbia e delle rare copie del Giornale di Romagna che di tanto in tanto gli finivano tra le mani e con le quali era uso incartare le uova per limitarne la rottura. Gina lo guardò serafica. «Grazie Papà. Ho fatto un impacco di olio d’oliva ai capelli, ieri, poi li ho sciacquati con l’aceto. Dicono che li renda lucidi e morbidi. Deve essere quello». L’uomo si voltò verso la sua seconda moglie, che ferma al primo banco, piangeva emozionata e anche lui si chiese come mai una donna tanto emotiva avesse partorito una ragazza che aveva in sé meno romanticismo di quanto potesse contenerne una bovazza2 di vacca. 2 Cumulo di escrementi bovini 29
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Giovannone aveva tuttavia grande fiducia nei disegni, a dire il vero spesso intellegibili, dell’Altissimo, sui quali raramente si poneva questioni o domande dirette. Così scrollò impercettibilmente le spalle e proseguì lungo la Navata. Quando fu davanti al futuro genero però, si lasciò scappare un sospiro. La vista di Lenin , pallido e smunto, gli procurava da sempre un leggero moto di tenerezza e un inconfessabile desiderio di prenderlo a calci nel sedere. Desiderio implementato in quell’occasione, da un inequivocabile crampo addominale. Maledicendo i cipollotti sott’olio dei quali si era straffogato la sera prima e il tempo, che correva inesorabile contribuendo al tracollo delle sue capacità digestive, il padre della Gina lasciò la mano della figlia in quelle del suo quasi marito e andò a sedersi. «Speriamo...», sussurrò alla moglie una volta raggiuntala. «Speriamo cosa?» «Dicevo così per dire. Speriamo». «E speriamo pure...», fece la moglie. Il banchetto di nozze era stato organizzato nel cortile della parrocchia onde poter, lasciando aperto il portone della chiesa, usufruire dell’accompagnamento alle danze dell’organo, che per l’occasione era suonato dalla Maestra Terenzia, originaria di Reggio Emilia e di ruolo alla scuola elementare del paese da qualche mese. La Maestra Terenzia era una giovinetta allampanata e antipatica, anche se musicalmente piuttosto dotata, cugina alla lontana del più giovane tra i consiglieri comunali di Bagno di Guazza. 30
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Correva voce che la Maestra Terenzia avesse chiesto il trasferimento nella bassa per fare dispetto a un suo fidanzato cittadino che a nemmeno un mese dalle nozze, aveva inspiegabilmente deciso di impalmare un’altra. Anche se chi avesse poi, in effetti, fatto un dispetto a chi, era un argomento che presentava ancora parecchi punti oscuri. Ad ogni modo, la festa che seguì la cerimonia fu un successone e tutti si divertirono molto. «Gran bella festa eh Gina?» «Sì Lenin, molto bella!» «Sei felice Gina?» «Può essere Lenin. Non è che posso escluderlo così su due piedi di essere felice, ti pare?» Lenin guardò la moglie. Gli pareva bella. Doveva esserlo senz’altro, in un modo tutto suo. Nelle giornate in cui il sole non aveva troppe nuvole intorno, gli occhi della Gina si striavano di un verdognolo molto particolare che a Lenin ricordava il greto del Secchia in estate. Forse non era una cosa troppo poetica da pensare, ma era la verità. E a Lenin piaceva pensare cose vere e anche dirle. E la Gina era una cosa vera. Intanto era lì. E lo aveva sposato. E non è che ci fosse poi molto da pensare, oltre a questo. E nemmeno da dire. Certo la Gina ogni tanto aveva delle uscite che lo lasciavano davvero perplesso costringendolo a rimuginare a lungo. Quando rimuginava, Lenin digrignava i denti in modo rumoroso e siccome la cosa lo metteva in imbarazzo, se proprio non riusciva a reprimere l’istinto a digrignare le mandibole producendo sinistri scricchiolii, allora si cercava un angolino tranquillo e aspettava che la crisi passasse. Le 31
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considerazioni sulla felicità appena esternategli dalla Gina provocarono quindi in Lenin un digrignamento che nemmeno i recenti bombardamenti erano riusciti a scatenare. Intanto che lui digrignava e digrignava, la Gina gli sorrise e dopo averlo baciato su una guancia si mescolò agli ospiti avvinghiata a Padre Anarchico, lanciandosi in una polca che molti giudicarono decisamente inappropriata. La festa comunque finì e i giorni, come sono soliti fare, passarono. Qualche mese dopo il matrimonio, Lenin, che in fin dei conti si era poi trasferito all’altro lato del cortile rispetto a quella che era stata la sua vecchia casa, un martedì sera, coadiuvato da una polentata al ragù di salsiccia che lo aveva reso più riflessivo del solito, si mise a pensare alle cose della vita, uscendosene con una battuta che, conoscendo la Gina, gli astanti, all’unisono, non esitarono a definire quantomeno “infelice”. «Dì Gina, mi pare che da che ci siamo sposati non è mica cambiato un gran che nella nostra vita. Eh? Sei d’accordo?» «Ah non è cambiato un granché?», replicò la Gina, serafica. «No! Beh quasi.. Secondo te è cambiato?», aggiunse Lenin notando, anche se troppo tardi, che la Gina aveva assunto un cipiglio inquietante e riconoscibile. «Mmh...» «Ehm... Scusa, Gina. C’è qualcosa che non va?» «Ma no! Figuriamoci! A parte che avere appena detto che avermi sposata o meno non ti fa nessuna differenza!!!! D’altra parte non devi scusarti. Se è 32
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quello che pensi hai fatto bene a dirlo. Almeno non ti verrà il fegato guasto!» «Io non so. Non so veramente se questo è quello che penso», balbettò Lenin, pentitissimo di avere aperto bocca. «Ah non lo sai?» «Non proprio», sussurrò lui, sempre più pentito. «Beh, vuoi sapere che penso io allora? Penso che tu quasi mai sai quello che dici Lenin, su tua stessa ammissione, oltretutto. Tu apri la bocca Lenin, ed emetti dei suoni. Non sempre comprensibili, Lenin». «Hai ragione Gina. Hai sempre ragione». «Appunto Lenin. E a proposito di ciò credo che sia meglio che tu esca e te ne vada alla Casa del Popolo a fare quattro chiacchiere e una bella partita a carte coi tuoi amici. Oppure, puoi andare a passeggiare. Nevica, ma potrebbe essere il male minore, Lenin. Sto pulendo i fagiolini. Con questo». Gina mostrò a Lenin un coltellaccio da cucina. «Potrebbe scapparmi la mano. Si sa mai, Lenin...». Odiando litigare e alzare la voce, la Gina aveva scoperto che un paio d’ore di assenza erano in grado di farle passare il nervoso senza troppe conseguenze ed usufruiva di questa tecnica collaudata ogni volta che se ne presentava la necessità. Quella sera, considerato che lei personalmente non aveva nessuna intenzione di muoversi di casa infradiciandosi i piedi, valutò che l’assenza dovesse essere per forza imputabile a Lenin perciò lo accompagnò, neanche troppo delicatamente, sull’uscio calcandogli il cappello in testa. «Ma Gina, fa freddo! Non mi va di andare al circolo!» «Pazienza Lenin, è per il tuo bene». 33
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«Ma non mi va!» «A me si però! Quindi...» «Quindi vado...», fece Lenin con un’ultima occhiata carica di rimpianto al caminetto acceso davanti al quale il cognato Soviet stava usando con discreta perizia una roncola per nettarsi le unghie. «Però viene anche lui alla Casa del Popolo!», disse indicando il cognato. Soviet che era sì concentrato, ma che nonostante ciò non si era perso una sola parola del battibecco tra la sorella e il marito, avendo imparato in quegli ultimi mesi che le discussioni tra quei due non si sa perché, ma finivano sempre per rivoltarglisi contro e che quindi era opportuno tenerle monitorate quanto più possibile, a uscire di casa non ci pensava proprio, perciò cercò riparo quasi fin dentro al camino, con la vana speranza, forse, di mimetizzarsi tra gli alari. L’unica cosa che ottenne però fu di riuscire a provocarsi l’immediata, nonché scenografica, combustione di un ciuffetto di peli della mano che stava sapientemente roncolandosi e una gelida occhiata della Gina, come al solito, più eloquente di qualche parola e molti discorsi. Soviet alzò lo sguardo sperando nell’appoggio del padre o della matrigna, che era di buon cuore ed era solita dargli man forte sulle questioni di principio. Ma ci sono cose che nascono in un certo modo e altre che no. Perciò a Soviet bastò una frazione di secondo per capire che prima avesse accompagnato alla Casa del Popolo il suo disgraziato cognato, prima sarebbe rientrato al calduccio. La Gina, dritta come una strada maestra, le braccia conserte, aspettò muta che fratello e marito uscissero di casa. Chiuse l’uscio e già più 34
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serena se ne tornò a decapitare i fagiolini che aveva lasciato incompiuti sul tavolo della cucina. Affondando nelle neve fresca fino al malleolo e infagottandosi nella sciarpa, Soviet ebbe un moto di stizza per la situazione nella quale il cognato lo aveva ingiustamente trascinato. «Certo che dovresti farti valere un po’ di più con tua moglie, Lenin!» «Anche tu con tua sorella, Soviet». «Ma non ti secca che faccia così?» «Così come, Soviet?» «Così come fa!» «Ti dirò Soviet...», fece Lenin improvvisamente consapevole di una verità che evidentemente stava covando da tempo tra le ceneri della sua recentissima adolescenza. «Ma sai che no? Non mi pesa per niente! La Gina prende le decisioni. Le ha sempre prese. Non è mica male! Con tutto quello che c’è da fare ogni giorno, non potrei occuparmi anche di quello, ti pare?!» Finì Lenin con un sorriso soddisfatto. «Hai bevuto Lenin?» «Solo acqua stasera, Soviet». «E ti fa quest’effetto? Comunque, contento tu...» Quando Soviet e Lenin arrivarono davanti alla Casa del Popolo di Piazza di Guazza, la piazza principale, nonché l’unica a dire il vero, di Bagno di Guazza, non potevano sapere che qualcosa stava per succedere. E che quel qualcosa avrebbe cambiato le loro vite e in qualche modo anche quelle dell’intero paese, per sempre. In un angolo della grande stanza imbiancata 35
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a calce che ospitava il bancone del bar del Circolo, in mezzo agli avventori, c’era infatti qualcuno che nessuno in tutta Bagno di Guazza sarebbe stato in grado di riconoscere, pur avendolo certamente già incontrato in più di un’occasione. Il Destino, decisamente infreddolito e parecchio annoiato finì di bere il chinotto senza ghiaccio che gli era stato servito e sbuffò. Odiava ammetterlo, ma pure lui, ogni tanto, si vedeva costretto dalle circostanze e dal tasso glicemico, a ricorrere a periodi più o meno lunghi di disintossicazione dall’alcol, cosa che raramente contribuiva al suo umore, già intaccato peraltro da quel tempaccio impossibile che per di più lo aveva sorpreso giusto in mezzo alla Bassa. "Tanto vale che faccia qualcosa, già che ci sono", pensò, sfregandosi le mani arrossate dal freddo e guardandosi intorno. Non gli ci volle molto a prendere una decisione. Del resto era un Destino con una lunga esperienza alle spalle, così sorrise e si mise comodo, complimentandosi con sé stesso per la propria perspicacia e rapidità di giudizio. Poi mosse appena le labbra e senza parlare, lasciò che quel che doveva, succedesse. Fu così che Galeazzo Palude, stimato rappresentante dell’ordine pubblico in quell’angolo innegabilmente umido di Emilia, abbandonò la bottiglia di grappa alla quale si teneva aggrappato come se ne andasse della propria vita e sbottò: «Sapete cosa ci manca ora che una Repubblica ce l’abbiamo?» La domanda colse impreparati i più che non immaginando come interpretarla, preferirono lasciarla 36
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cadere tornando ad argomenti meno impegnativi rispetto al referendum che qualche tempo prima aveva apparentemente cambiato parecchie carte in tavola. Galeazzo però non si arrese e proseguì imperterrito. «Avete capito si o no quello che vi ho chiesto?», insistette. «Fammi la cortesia Galeazzo, lascia perdere la Repubblica almeno stasera, personalmente non ho niente in contrario, anzi, mi sta pure simpatica. Ma temo di non poter dire la stessa cosa della mia venerabile madre che con questa storia del referendum mi sta facendo una testa quanto un covone da mesi. Le basta sentire la parola che subito la coglie una sincope e inizia a mettere a ferro e fuoco la casa ululando vituperi che neppure un indemoniato potrebbe concepire. Così a me vengono la nausea, i giramenti di testa, forse anche un accenno di gotta. Un po’ di pietà... Chiamala in un altro modo, che so, post Monarchia, chiamala come ti pare, ma ti supplico. Non ripetere quella parola!» «Quale parola? Repubblica?», fece Galeazzo Palude a cui la grappa aveva resettato qualsivoglia sensibilità. Chi gli si era tanto accoratamente rivolto era Don Giacomo Pozzo di Guazza, legittimo titolare di tutte le terre coltivate e non della zona e che molto democraticamente era uso trascorrere tutte le serate e anche buona parte dei propri pomeriggi alla Casa del Popolo, con grave nocumento, come abbiamo appena saputo, di Donna Luisa, vedova del compianto Barone Carlo Mercurio di Pozzo di Guazza, la quale reputava tale abitudine del figlio diletto un abominio insanabile, motivo per cui aveva ripreso a recarsi 37
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piuttosto assiduamente in chiesa col preciso intento di sottoporre l’Onnipotente a uno stress psicologico tale da indurlo a concederle la grazia di vedere sprofondare in un meandro paludoso e irreversibile l’odiata Casa del Popolo che tanto discredito stava portando alla sua nobile casata. Unico dubbio di Donna Luisa era quel nuovo Prete, che a vederlo e sentirlo di affidamento, gliene dava davvero poco. Già solo il nome, Padre Anarchico. Si era mai vista una cosa simile? Non prometteva niente di buono, ma si sa che in tempi bui e filo sovietici bisognava accontentarsi di quel che passava il convento o chi per lui. Così Donna Luisa, pur con scarsissima convinzione in merito alle capacità intermediatorie del nuovo acquisto della parrocchia, decise di prendere il Padreterno per sfinimento e iniziò a farsi accompagnare in Chiesa ogni giorno che il medesimo mandava in terra. «Coraggio Donna Luisa, non mi pare poi questa tragedia, suo figlio va per i sessanta, un’idea di quello che fa, seppur vaga, dovrebbe avercela! E comunque non c’è niente di male, due chiacchiere, qualche bicchiere di vino... La Casa del Popolo non è mica il purgatorio!» Aveva tentato di consolarla Padre Anarchico al termine di una lunga confessione che la nobildonna aveva tanto fortemente, quanto inutilmente, voluto. Donna Luisa non prese bene il commento di Padre Anarchico, sputacchiò tutto in giro come un irrigatore intasato, afferrò il proprio bastone da passeggio e colpì con tutta la forza del suo nobile e abbondante quintale il confessionale, incrinandolo in maniera irreparabile. 38