Bellemilia

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Gian Luca Taddia

“BELLEMILIA”

TRA LE PIETRE UN FIORE una storia privata

M inerva E dizioni


“BELLEMILIA”

TRA LE PIETRE UN FIORE

una storia privata Gian Luca Taddia Direzione editoriale Roberto Mugavero Editing Martina Mugavero Grafica e impaginazione Minerva Edizioni Immagine di copertina Paolo Righi - Meridiana Immagini Immagine retro copertina Gatto Cetti di Gian Luca Taddia Finito di stampare nel mese di Settembre 2013 per i tipi della Grafica Veneta, Trebaseleghe (PD)

Copyright 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978-88-7381-537-2

Minerva Edizioni Via Due Ponti,2 40050 - Argelato (BO) Tel. 051 6630557 Fax 051 897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com


Questa storia non è un romanzo. Nasce come un diario. Questa è la storia di un rapporto difficile, di una perdita, di un sogno che si avvera, di un dolore che ti resta appiccicato all’anima ma che al tempo stesso diventa motore trainante per nuova vita, nuovi dolori e nuove gioie. Questa storia la dedico a Marta, anche se non può più leggerla, né ascoltarla. Luca

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Prologo

F

atico a prendere sonno, mi succede spesso. Mi alzo un’altra volta per andare in bagno. Con tutta l’acqua che ho bevuto stasera è la seconda volta in un’ora. La notte di solito tengo due luci accese. Ho più di quarant’anni ma il buio totale non mi piace. Una è quella della cappa della cucina. Fin da piccolo mi è sempre piaciuta la sua luce. È una fiaccola tenue che in camera da letto arriva a malapena e solo quando gli occhi si sono abituati al buio. L’altra è un po’ più forte e sta nel salotto. Una lampada pesantissima, di quel sale rosa dell’Himalaya che ho messo sopra ad un piccolo comodino vicino alla porta. Solitamente la lascio aperta, ma stasera è chiusa perché da due giorni vive con noi la Cetti, una meravigliosa cucciola di certosino che ha sessantadue giorni esatti. Io e Barbara abbiamo deciso per il suo bene di abituarla poco per volta alla nostra casa facendola prima familiarizzare con un solo ambiente. Questo sia per proteggerla anche da una serie di pericoli che non saprei prevedere, ma che certamente potrebbero minacciare questo gattino così minuto, sia per la tranquillità di un tipo apprensivo quale il sottoscritto. Cetti sta nel palmo di una mano, ha due occhietti furbi e la

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vitalità di un cucciolo, ma è timida anche se non ama la solitudine e cerca sempre il contatto fisico. Unica femmina della cucciolata, al contrario dei tre fratelli maschi, non si riusciva a trovarle una famiglia adottiva… Così l’abbiamo adottata noi e ne siamo felici perché Cetti è la gatta più buona del pianeta. Questo è un dato di fatto inconfutabile. Già che ci sono vado di nuovo a bere un po’ d’acqua direttamente dalla bottiglia nel frigorifero. Di fianco al frigo una credenza con un televisore sopra e, più in alto, appeso al muro, un grande orologio inserito in una cornice arzigogolata di ferro battuto. Assomiglia a quegli orologi che stavano tra i binari della stazione di Parigi negli anni Trenta. Le quattro precise. Bevo e torno a letto. Dai che stavolta si dorme. È il venti di maggio ma di notte fa ancora freddo. Mi sdraio, mi copro con il lenzuolo e la coperta finto indiana e cerco di rilassarmi. Barbara al mio fianco dorme profondamente, beata lei. Passano due, forse tre minuti. Poi d’un tratto sento un rumore sordo, cupo, minaccioso, che pare venire da lontano ma in un attimo è qui, fortissimo, come un aereo che atterra sul tetto. Vibra tutto. «Barbara», grido, «il terremoto, il terremoto!».

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Quello che prima sembrava un martello pneumatico sotto il letto si trasforma nell’arco di cinque, sei secondi, in un vento terribile che fa ondeggiare paurosamente la casa. Va via la luce. Il rumore degli oggetti che cadono è assordante. Bottiglie, piatti, bicchieri, libri, mobilio. Non si vede niente. Provate a contare fino a ventidue. Per noi sono stati secondi eterni che non dimenticheremo mai. Realizzi che la tua vita potrebbe finire in quel momento. In quel momento, invece, inizia questa storia.

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CAPITOLO I

I

n realtà l’inizio risale a qualche mese prima. Mia madre, verso Natale, ha praticamente smesso di mangiare. Io e i miei genitori abitiamo in una casa che è una porzione di un vecchio fienile ristrutturato, nella campagna di Poggio Renatico. Loro al piano terra, circondati da un giardino che non è grande né particolarmente curato, ma è nostro, ed io al piano superiore con un ingresso indipendente. Abbiamo deciso di condividere un’unica casa perché l’avanzare degli anni rendeva loro difficile salire le scale fino al secondo piano di una palazzina a pochi chilometri da qui. Sono figlio unico e averli vicino mi dà l’idea di poter gestire meglio eventuali situazioni di emergenza. Quella del cibo inizia ad esserlo. Lei, la Marta, è una donna robusta, sempre incazzata, nervosa e ipocondriaca, che un paio di sere a settimana se ne va a giocare prima a tombola e poi, negli ultimi anni, al bingo. Ci va con un paio di amiche, quando possibile, oppure anche da sola. Soffre di un pesante stato depressivo conseguente alla morte improvvisa di suo padre quando ancora era giovanissima. Quel lutto l’ha segnata profondamente per lunghi anni, forse trenta o anche più.

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Ricordo tutta la mia infanzia e l’adolescenza condizionate da questo suo malessere. Per me le cose hanno cominciato a migliorare quando sono partito per Bari, dove mi aspettava un anno di servizio militare: era un distacco dall’ambiente di casa che temevo molto, ma che si sarebbe rivelato salutare. Mio padre, dopo essere andato in pensione, si è praticamente ritirato, per così dire, a vita privata. Lui a casa con il cane, lei a tombola oppure al bingo. Il loro rapporto, iniziato quando ancora erano ragazzini, ha retto negli anni, a differenza di me che sono molto più irrequieto e che, in quanto a relazioni, non sono mai stato particolarmente fortunato. Penso che avessero trovato un equilibrio basato sul fatto che ognuno, in fondo, si faceva gli affari propri. Si amavano a modo loro, erano invecchiati insieme e tanto bastava. Il passare degli anni aveva rafforzato il loro rapporto. Trascorrevano intere nottate leggendo le lettere che si mandavano da giovani e lei ancora si inalberava ricordando vecchi episodi mai chiariti, o chiariti in modo vago, che avevano tutti a che fare con alcune presunte infedeltà… Lei giovanissima, confinata in casa nella campagna bolognese di metà anni ’50 e lui in giro a cantare con le compagnie

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di rivista. Figurarsi! Sembravano le discussioni televisive tra Sandra e Raimondo di quella bellissima RAI in bianco e nero. Quella sera prima di Natale li avevo invitati a cena, su da me: una specie di evento che non capitava quasi mai. Avevo cucinato con Barbara un risotto e un po’ di carne e quella è stata l’ultima volta che ho visto mangiare mia madre quasi come una persona normale. Poco e lentamente, ma aveva mangiato. Era anche serena e non abbiamo nemmeno discusso, come invece facevamo sempre ogni volta che si parlava di qualcosa. Mi è piaciuta quella serata e la porto nel cuore ancora oggi. Ricordo lei, sul divano dopo cena, che diceva: «Sono proprio stata bene, che bella serata». Si era vestita con una camicetta rossa e una gonna nera e si era truccata come faceva di solito quando usciva. Credo che quella fu l’ultima volta che lo fece. Accusava da qualche mese forti dolori alla schiena. L’avevo convinta a fare accertamenti alla colonna vertebrale dai quali risultavano esserci tre ernie. Si era imbottita di antidolorifici e tutti pensavamo che quella fosse la ragione della sua inappetenza, un effetto collaterale dei farmaci. Lei, fino a qualche mese prima, era capace di cuocersi un piatto di tortellini alle tre di notte e mangiarseli tranquillamente.

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Non dormiva mai di notte. Dormiva di giorno. Era come sincronizzata con l’ora di Tokyo. La notte stava sveglia davanti alla tv e alle sei di mattina se ne andava a dormire con un bel Tavor da 2,5 milligrammi. Strano personaggio la Marta. Aveva le sue manie, le sue superstizioni. Io avevo imparato a riconoscerle anche se facevo finta di niente. Quando si accendeva una sigaretta, ad esempio, faceva scintillare l’accendino 5 volte a vuoto prima di fare la fiamma. Non ho mai capito da dove nascessero questi “rituali”, ma sono convinto fossero legati a qualche forma di scaramanzia o di fioretto. Il suo attaccamento nei miei confronti era totale, ma non positivo. Era di quelle madri talmente apprensive da disincentivare qualunque iniziativa. Una di quelle madri che trovavano sempre il modo giusto per dirti che sbagliavi. Era un’autorità mondiale di erogazione di sensi di colpa. A modo suo mi ha amato infinitamente, anche se non posso dire che avessimo un bel rapporto. Ognuno in fondo ama come può e come sa. Lei, nel bene e nel male, non si è risparmiata in questo e devo solo dirle grazie. Era comunque l’unica persona con la capacità di mandarmi fuori di testa dalla rabbia quasi sistematicamente.

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Mio padre sostiene che questo derivava dal fatto che fondamentalmente eravamo uguali e perciò ci scontravamo di continuo. Ci attaccavamo per qualsiasi cosa. Potevamo litigare persino su argomenti essenziali, come i minuti di cottura della pasta che, per lei, erano falsi rispetto a quanto indicato sulle confezioni. A volte addirittura li raddoppiava! Con mio padre avevo avuto un rapporto completamente diverso almeno fino alla fine dell’adolescenza. L’amore per la musica e le canzoni ci ha sempre in qualche modo legato. Ricordo come fosse oggi che lo aspettavo tornare dal lavoro, verso le 17,30 alla fermata dell’autobus. Abitavo a Bologna, a soli cinquanta metri dalla storica sezione del PCI della Bolognina dove, qualche anno più tardi, Achille Occhetto avrebbe chiuso un’epoca per molti versi irripetibile. Lo vedevo arrivare dall’incrocio fra via Lombardi e via Corticella e nel frattempo pensavo a quali dischi fargli ascoltare. Appena entrato, lo costringevo a commentare musica della quale a lui, la maggior parte delle volte, non poteva davvero importare. Erano i tardi anni Settanta e mi piaceva di tutto. Lo piazzavo sul letto della mia camera e via con Lou Reed, i Pink Floyd, i Dire Straits, i Kiss, l’adorato

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Alice Cooper. Anche musica italiana. A quell’età impazzivo per Renato Zero. Una vera mania. Difficile spiegare il perché, ma per uno che, come me, viveva enormi complessi, Renato rappresentava una sorta di rivincita. Una diversità provocatoriamente esasperata che s’imponeva all’attenzione di tutti. Il risultato fu che molti di coloro che si sentivano emarginati perché gay, prostitute, grassi, brutti, pazzi, o diversi in qualche modo da ciò che Gaber chiamava massa, si identificavano in lui. Aveva quel coraggio che a noi mancava. In fondo credo sia stato questo il seme del successo di Renato Zero. “Dietro a questa maschera c’è un uomo e tu lo sai”. Adesso lo sapevano tutti perché era lui che lo diceva per noi. La mia passione per la musica veniva da lontano e mio padre ne era il principale responsabile. Angelo, che ho sempre chiamato Teddy e raramente papà o babbo, da giovane aveva cantato nelle compagnie di rivista dove la serata era divisa tra comici, ballerine, cantanti. Quando si esibiva nelle stagioni in riviera, si arrampicavano sugli alberi di viale Ceccarini, a Riccione, per ascoltarlo. Aveva calpestato le assi di legno dei palchi di tutti i maggiori teatri italiani fino a quando, dopo un anno

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disastroso di servizio militare a Palermo nel quale si fratturò malamente una gamba, una volta tornato rifiutò varie proposte artistiche per un più rassicurante lavoro in banca. Guardavamo insieme tutte le trasmissioni nelle quali si cantava. Canzonissima, Sanremo, gli show del sabato sera. Era una tv di qualità. Nazionalpopolare fin che si vuole, ma con una classe che oggi non esiste più. I presentatori diventavano amici di famiglia. Pippo Baudo, Corrado, Mike Bongiorno, Enzo Tortora. Guardavi la tv e c’era gente come la Carrà, Mina che duettava con Battisti, Walter Chiari, Mastroianni, Sordi, Gassman, Manfredi, Panelli, Bice Valori, Alighiero Noschese. Che tempi! Se paragonati alla roba che passa adesso la televisione ti viene prima un nodo alla gola e poi un incazzo notevole. La cosa che ci piaceva di più erano comunque le canzoni. Morandi, Ranieri, Villa, Battisti, Mina, Di Bari, Al Bano, il mitico Quartetto Cetra, e mille mille altri. Andavo davanti alla finestra che era di fianco al televisore e fingevo di essere il direttore d’orchestra. Poi un giorno, a scuola, un tipo che non sopportavo e che spesso mi menava perché era uno stronzo (oggi li chiamerebbero fenomeni di bullismo), è

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arrivato in classe con quella sua faccia come il culo e una chitarra. Nell’ora vuota prevista per l’assenza di una prof, quello si è messo a cantare Lugano Addio di Ivan Graziani. Sono rimasto letteralmente folgorato da quella canzone meravigliosa, tanto da farmi comprare una chitarra: se ci riusciva quello stronzo ci sarei riuscito pure io. Avevo 14 anni e gli accordi di Lugano Addio sono i primi che ho imparato.

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CAPITOLO II

A

gennaio avevo costretto mia madre a fare accertamenti più invasivi. Era diventata l’ombra di ciò che era poco tempo prima. Prenotavo esami e visite e mi organizzavo con il lavoro per poterla accompagnare. Mi costava molto dal punto di vista nervoso: passare tempo con lei era una cosa complicata e mi metteva ansia. Inoltre la preoccupazione cresceva e il dispiacere di vederla così era devastante. Sarebbe stato l’inizio di un periodo davvero difficile per tutti noi. Avevo deciso di risparmiare a mio padre, che si muoveva a fatica, la lunga serie di visite, prenotazioni, colloqui, attese interminabili nelle corsie, ecc. L’avrei fatto io. La caricavo in macchina e la portavo in giro a fare ciò che si doveva fare, cercando di organizzare, incastrare, rendere compatibili i miei impegni di funzionario sindacale con le necessità della Marta e del Sistema Sanitario Nazionale che, a volte, sembra scientificamente operare al solo scopo di renderti la vita più difficile di quanto già evidentemente non sia, visto che stai male e devi frequentarlo tuo malgrado. Pare una bestemmia dirla così, ma questi mesi di grande difficoltà reciproca mi hanno avvicinato a

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mia madre più di quanto non fosse successo negli oltre quarant’anni precedenti. Eravamo piuttosto organizzati: si arrivava al parcheggio dell’ospedale dove cercavo il posto macchina più vicino all’entrata; poi scendevo e andavo a recuperare una sedia a ruote mentre lei mi aspettava in auto; l’aiutavo a scendere e una volta messa sulla carrozzina, operazione che diventava ogni giorno più avventurosa, la portavo su in reparto percorrendo velocemente i corridoi, scherzando sulla pericolosità delle nostre scorribande. Si divertiva apparentemente. Ricordo la fatica per cercare di trasmetterle serenità quando invece avrei voluto urlare. La sento ancora oggi, incollata sulla pelle, quella fatica. Credo che questo sia stato il regalo più bello che sono riuscito a farle. Non so quanto lei abbia potuto apprezzarlo, ma lo spero con tutto me stesso. Anzi ne sono certo. A fine gennaio il colloquio conclusivo con l’oncologo dell’ospedale di Bentivoglio. Eravamo seduti davanti a lui con lei che diceva: «... Le chiedo solamente di dirmi quello che ho in modo gentile senza usare termini forti perché io.... beh... ho molta paura e...». Lui era gentile e garbato in effetti.

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Questo però non cambiava la sostanza di quella che era una sentenza. Non ho mai saputo se lei avesse colto pienamente le parole del professore o se avesse dato alle stesse un significato diverso. Io capii benissimo. Un cancro addominale esteso, inoperabile, con la possibilità di un tentativo chemioterapico per tentare di ridimensionarlo. Siamo arrivati a casa che il Teddy ci aspettava in garage insieme al cane. Ricordo che ci siamo scambiati uno sguardo e gli si sono arrossati gli occhi quando io ho fatto leggermente di no con la testa mentre mia mamma era girata di spalle. Hanno provato con la chemioterapia, ma era così debilitata che non era in grado di reggerla. Ha fatto una sola seduta. La seconda volta le hanno martoriato un braccio senza nemmeno riuscire a trovarle una vena che non si rompesse alla sola vista di un ago. Sono andato dal professore per chiedere il da farsi e lui mi ha detto che tutte le terapie e gli appuntamenti erano sospesi e che ci potevamo ritenere liberi. Liberi da cosa poi? L’ho presa e l’ho portata a casa. Ho contattato l’Associazione Nazionale Tumori e la dottoressa che ha preso in carico mia madre mi insegnò come farle le flebo sotto pelle perché lei

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non poteva venire a casa nostra ogni giorno. Erano solo sali minerali e zuccheri. Per il resto, pillole a base di morfina e, almeno questo, il dolore quasi sparito. La scelta di non ricoverarla è stata difficile, ma consapevole. Avrebbe vissuto nella sua casa gli ultimi mesi o settimane della sua vita, insieme all’uomo che amava e al suo cane. Avrebbe dormito nel suo letto e vissuto fra le sue cose di sempre. Non era più minimamente autosufficiente. Dal letto alla carrozzina era un’impresa a volte insuperabile. Questa esperienza mi ha segnato profondamente. Solo chi ha convissuto con malati terminali può comprendere a fondo il senso di solitudine e di impotenza che si prova. Aspetti. Semplicemente aspetti che tutto finisca e l’unica speranza che ti resta è quella di immaginare una fine almeno dignitosa. Questa era la nostra situazione in quei mesi che vanno dal Natale 2011 al maggio successivo. Una situazione purtroppo comune a tante famiglie che, come la nostra, vanno avanti o cercano di farlo come riescono e come possono. In quelle settimane un famoso giornalista-intrattenitore appassionato di plastici ed omicidi san-

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guinolenti che due, tre sere la settimana occupa il primo canale della televisione di Stato, aveva fatto una discussione sul fine vita e sul ruolo che la politica dovrebbe avere riguardo a questi temi. Ruolo della politica? Ma vaffanculo va’! Dovrebbero inginocchiarsi davanti a gente come la famiglia Englaro e non permettersi nemmeno per un attimo di discutere di scelte così dannatamente private e, soprattutto, nessuno dovrebbe speculare sulla nostra pelle e sulla nostra dignità. Questo Stato ti lascia solo quando sei nella merda, ti lascia solo quando soffri come un appestato, ti lascia solo quando devi assistere un familiare non autosufficiente e non hai abbastanza soldi per permetterti un’assistenza domiciliare od ospedaliera a misura del problema che stai vivendo. Ti lascia solo sempre, tranne quando deve dirti che non puoi decidere come cazzo morire perché un politicante qualunque decide al posto tuo facendo, se necessario, leggi su misura per evitare la più elementare delle prerogative: decidere, quando proprio non ce la fai più, di dire basta.

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