Giancarlo Roversi
Bologna... Amarcord La gente, i luoghi e gli umori dal 1900 al 1940
Primo Tempo
Minerva Edizioni
Giancarlo Roversi
Bologna... Amarcord La gente, i luoghi e gli umori dal 1900 al 1940 Primo Tempo
Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Roberto Sernicola Grafica e impaginazione: Francesco Zanarini L’editore rimane a disposizione per gli eventuali aventi diritto che non sia stato possibile rintracciare Prima edizione settembre 2013 © 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata.
ISBN: 978-88-7381-351-4
Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com
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INTRODUZIONE
Care
I
vecchie cartoline...
manifesti pubblicitari, le cartoline, le locandine, le affiche per dirla con un termine d’antan, formano un universo comunicazionale di straordinaria valenza storica e ricchezza di informazioni perché registrano incisivamente momenti, situazioni e umori della realtà sociale ed economica del tempo in cui videro la luce, creando un unico filo conduttore che parte dalla fine dell’Ottocento per giungere fino ai nostri giorni. Sono palpitanti documenti di storia, di cultura e di costume solo apparentemente minori perché ci tramandano il ricordo vivo, quasi tangibile, di tranche de vie e di industriosità unici nel loro genere, mantenendone vivo il ricordo lungo l’inesorabile scorrere affievolente del tempo. Diversamente da altri oggetti da collezione che sono per loro natura elitari, le cartoline – ma non altrettanto i manifesti che invece richiedono una sensibilità culturale molto raffinata e anche risorse da investire – si fanno raccogliere da tutti, qualunque sia la matrice intellettuale o sociale, proprio grazie al loro linguaggio immediato che non richiede decodificazione e che sa parlare al “colto e all’inclita”. Ecco cosa scriveva nel 1901 Carlo Ferraris in un articolo pressoché sconosciuto apparso nella rivista Pro linfatici: «I mirabili progressi delle arti grafiche che permettono di riprodurre gli oggetti con una precisione di linee ed una perfezione di prospettiva ormai insuperabili, non potevano trovare mezzo migliore per rendere nota e popolare l’immagine di tutto ciò che hanno di insigne la natura e l’arte. La cartolina illustrata, a tutti i vantaggi della cartolina comune, aggiunge il pregio di presentarvi la vista cara e gradita di qualche bellezza creata dalle arcane forze cosmiche o dalla sapiente opera dell’uomo: è un fascino a cui nessuno ormai sa più resistere... E le cartoline non si distruggono, ma accuratamente raccolte e disposte in album di svariata forma ed eleganza, conservano la memoria dell’atto cortese che voi avete compiuto mandandole. In questa turbinosa vita moderna che tanti ricordi travolge e distrugge, la cartolina illustrata gioverà a salvare il vostro nome dal naufragio nel gran mare dell’oblio. Essa infine è una forma d’arte resa ministra in pari tempo dell’utile, dell’affetto e dell’istruzione». Dopo gli esordi, il cammino di questi cartoncini illustrati si è trasformato in una vera e propria marcia trionfale. La cartolina, prima della crisi della fine del millennio indotta dall’entrata in scena dei nuovi più asettici mezzi di comunicazione elettronica (i telefoni cellulare con gli sms e internet), è diventata così uno fra i più duttili, singolari e diffusi mezzi di comunicazione di massa, spianando la strada alla civiltà dell’immagine e segnando essa stessa uno stadio della nostra evoluzione espressiva. Per questo si può tranquillamente parlare di una vera civiltà della cartolina. La ricerca e la raccolta di quei lontani pregiatissimi pezzi mantengono viva oggi la passione del collezionismo. Ma anche qui si è avuto un grosso salto di qualità. Dal collezionismo, sia generico che tematizzato, fine a se stesso di una volta, si è passati a un collezionismo più consapevole dei precipui valori culturali e iconografici delle cartoline, viste non più come un seducente supporto di immagini variopinte o comunque interessanti, ma come una fonte storica talora imprescindibile e come un documento visivo insostituibile, spesso il solo rimasto a testimoniare scorci e particolari urbani scomparsi e scene di vita e di costume da tempo
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tramontate. In tal modo esse vengono ad assolvere una funzione culturale di straordinaria rilevanza, entrando a buon diritto nella branca di studio dell’iconografia, fra le scienze ausiliarie della storia, per quanto attiene alla loro classificazione, schedatura e utilizzazione. Senza parlare poi dell’opera di capillare diffusione culturale svolta dalle cartoline. Ma qui il discorso rischierebbe di diventare troppo lungo. Un
lungo e intrigante viaggio
attraverso
40
anni di vita e di storia all’ombra delle
Due Torri
Anche le immagini che danno corpo a questo volume provengono da una collezione, quella dell’autore, e attraverso il loro snodarsi è possibile ripercorrere un lungo e intrigante viaggio attraverso 40 anni di vita e di storia all’ombra delle Due Torri: Bologna… Amarcòrd, che nel titolo riecheggia un grande film di Fellini. Ma in questo caso l’amarcord (letteralmente “mi ricordo”) va pronunciato non alla romagnola con la “o” aperta, ma con la “o” chiusa propria del dialetto bolognese. Più che di un titolo si tratta di un biglietto da visita che svela immediatamente il taglio e il contenuto di questo libro iconografico retrospettivo. Ne sono protagonisti i palazzi, le chiese, le ville, le piazze, le strade, anche quelle minori di Bologna e dei suoi dintorni, ma soprattutto la gente con tutte le sue vibrazioni che uno sceneggiatore d’eccezione, il tempo, fa rivivere attraverso le immagini ingiallite. Sono le testimonianze visive di come era la città e di come eravamo noi prima che il traffico veicolare imponesse la sua dura tirannia, sostituendosi all’uomo nel ruolo di eroe incontrastato della scena urbana. Una scena urbana quella che traspare dalle vecchie cartoline, in cui a volte il silenzio si fa quasi materico, cadenzato in sottofondo dal ritmo lentissimo della vita di ogni giorno. La città ritrova in queste immagini la sua funzione primaria di struttura ad uso e consumo dell’uomo, in una parola, la sua dimensione umana: un’ideale catarsi che le purifica e le libera da tutti gli elementi inquinanti della civiltà tecnologica. Questa rievocazione iconografica non intende però indulgere a commemorazioni o celebrazioni in chiave nostalgica del passato né vuole accreditare la retorica e lo stereotipo del “buon tempo antico”. Dentro gli scorci della città ovattata che l’obiettivo ha fermato, dietro i volti apparentemente sereni immortalati dal fotografo si celano infatti i piccoli e grandi problemi che l’uomo porta da sempre con sé. Queste immagini sono soprattutto documenti di costume e di ambiente che debbono farci riflettere sul cammino compiuto in un quarantennio di vita bolognese e indurci a rispettarne i valori. A fare da sottofondo quasi didascalico alle vedute, offrendo una testimonianza viva e autentica degli umori di quegli anni, sono le riproduzioni fedeli delle impressioni di viaggiatori italiani e stranieri, di letterati come pure di alcuni vibranti articoli della stampa locale del periodo ripercorso.
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1. INIZIA IL VIAGGIO... Ottocento addio, benvenuto novecento! a dare l’annuncio è il “cannone di Filopanti”
«A
mezzanotte in punto il cannone di Filopanti dalla lunetta di San Michele in Bosco ha indicato ai desti e ai dormienti che è cominciato il nuovo anno, l’ultimo del secolo XIX». A dare questa stringata notizia sono i giornali usciti a Bologna il primo gennaio del 1900. A causa della stagione rigida e dell’abbondante neve caduta nei giorni precedenti, che aveva reso precario il transito delle vetture del tram a cavalli, una folla meno numerosa degli anni passati si era raccolta lungo la Via Panoramica (l’attuale Via Codivilla) per assistere allo sparo del grosso obice che, fin dal 1886, portava ai bolognesi e agli abitanti della pianura l’annuncio festoso che un altro anno aveva esaurito il suo ciclo. A volerne l’installazione sul colle suburbano era stato Quirico Filopanti, filosofo, matematico e parlamentare di sinistra, che aveva dovuto battersi contro l’indifferenza e l’opposizione della stampa cittadina e di una parte dei bolognesi. Il cannone continuò il suo meritorio servizio di messaggero del nuovo anno fino al 1915, quando venne richiamato alle armi per lo scoppio della guerra. Nello stesso attimo in cui l’orologio di Piazza e il cannone di Filopanti davano ufficialmente il segnale di partenza dell’anno 1900 (non del nuovo secolo che sarebbe iniziato un anno dopo, nel 1901), l’abside di San Francesco, completamente liberata dalle sovrastrutture barocche ad opera di Alfonso Rubbiani, divampò della luce sfavillante dei fuochi di Bengala fra le esclamazioni di meraviglia del folto pubblico accorso in Piazza Malpighi. E mentre nei principali circoli cittadini, come quello della “Bohème” e il “Felsineo”, impazzavano le feste danzanti tra lo scorrere di fiumi di champagne, la gente comune, in assenza di feste pubbliche, doveva accontentarsi di girovagare in allegre brigate per le strade o di ammirare il grande albero di Natale eretto nella chiesa evangelica di Via del Carbone (oggi Venezian), rimasta aperta tutta la notte con ingresso libero. Questo deludente panorama era destinato a cambiare di lì a un anno con l’avvento del nuovo secolo, quello del progresso con la P maiuscola, atteso da tutti come apportatore di benessere, di giustizia sociale e di pace universale.
Il Comune
chiude il bilancio in attivo!
Altri
tempi...
La Bologna che si appresta ad affacciarsi all’alba del XX secolo è una città ancora chiusa nelle sue mura medievali, destinate due anni più tardi a cadere sotto gli inesorabili colpi del piccone demolitore tra la gioia degli innovatori e il rimpianto dei cultori delle memorie patrie. È una città dove fervono i commerci e le industrie, installate soprattutto nella parte nord occidentale del centro storico, verso la stazione ferroviaria, in un’area un tempo verdeggiante di orti. Sullo scranno di sindaco siede il liberale Alberto Dall’Olio, che è riuscito a chiudere il bilancio del 1899 con un avanzo di oltre 55.000 lire e che ha varato un progetto di riforma tributaria con l’aumento del dazio su alcuni prodotti. Bologna, che dopo Messina è in quegli anni la meno tassata d’Italia e vanta un reddito pro capite superiore agli altri tredici
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grandi capoluoghi italiani, ripone molte speranze nel secolo che sta per aprirsi, ma che nella percezione spicciola della gente si è avviato proprio con l’apparizione del 9 al posto dell’8 sul calendario. Per accoglierlo degnamente l’anno successivo si fanno le cose in grande e viene creato un apposito comitato di festeggiamenti che, sui giornali e nei manifesti murali, invita tutti i bolognesi a scendere in Piazza e nelle strade per fare baldoria portando «qualsiasi strumento per strimpellare, lampioncini, fiaccole, candele, lampade e gioconda gaiezza». Finalmente il momento fatidico del passaggio vero del secolo è giunto nella notte fra il 31 dicembre 1900 e il 1° gennaio 1901. Due minuti prima dello scoccare dell’attimo cruciale un trombettiere dei pompieri lancia due squilli dalla ringhiera del Podestà e un altro farà altrettanto dalla Torre dell’Orologio. Sono in programma anche fuochi pirotecnici, esecuzioni canore di società corali, concerti musicali di fanfare, fiaccolate, gruppi mascherati, ecc.; ma la pioggia viene a guastare al festa. Nuovo secolo bagnato, secolo Tutti lo sperano, invece...
fortunato.
La Piazza è tutta una grande marea di ombrelli neri che la rendono ancor più cupa nella fioca illuminazione dei lampioni a gas, mentre le bande, riparate sotto i portici, danno fiato ai loro strumenti. Poi, verso mezzanotte, tutti tendono l’orecchio per udire il botto del cannone di San Michele in Bosco che arriva alle 23.58 e fa iniziare il secolo a Bologna con due minuti di anticipo. La torre del Podestà si illumina di fuochi di Bengala mentre dalla sua cima parte un razzo destinato ad accendere una girandola sulla gradinata di San Petronio, ma la pioggia non fa sprigionare la scintilla e si deve ricorrere ai fuochi d’artificio. La Piazza è un tripudio di voci e di suoni mentre tutti attendono l’estrazione del biglietto della lotteria del bue grasso, un poderoso quadrupede che nei giorni precedenti ha fatto il giro trionfale della città. Il possessore del numero vincente potrà portarselo a casa. L’idea di questa lotteria popolare è piaciuta a tutta la cittadinanza e per molti anni ancora sarà la nota saliente della notte di San Silvestro in attesa che faccia la sua comparsa il “Vecchione”. Finalmente sulla balconata del Podestà appare il numero del fortunato biglietto. Intanto la pioggia continua a cadere. Secolo bagnato, secolo fortunato dice qualcuno. Tutti lo sperano. Ci penserà poi la storia a smentirli! Dopo poco più di un decennio la guerra infiamma e insanguina l’Italia e l’Europa. Per la sua inaudita portata e per la sua tragica violenza viene chiamata la “Grande guerra” per antonomasia. Ma per le generazioni successive, che hanno avuto come termine di paragone l’altro immane conflitto planetario, infuriato fra il 1940 e il ’45, quella del ’15-’18 resta soltanto la prima guerra mondiale. Passati gli anni bellici Bologna riprende la sua vita consueta e con essa riprendono i tradizionali festeggiamenti in Piazza per la notte di San Silvestro. Dopo il tempo dell’austerità, delle parate militari e delle feste per la vittoria, i bolognesi riscoprono i piccoli piaceri quotidiani. E mentre viene rimossa la caratteristica incastellatura di legno destinata a proteggere da eventuali bombardamenti la fontana del Nettuno che si riaffaccia orgogliosa alla luce, i negozi si riempiono di generi alimentari e di articoli di moda.
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I
grandi interventi urbanistici cambiano il volto della città
Anche il volto del centro urbano si è rinnovato. Il Palazzo di Re Enzo è stato liberato dalle case che lo opprimevano e restaurato da Rubbiani. Sono scomparse le vecchie viuzze e le casupole tra Via Orefici e Via Rizzoli, è iniziato l’ampliamento di Via Ugo Bassi. Il comune è retto fin dal 1914 dal Partito Socialista che ha come suo protagonista indiscusso e amato dal popolo Francesco Zanardi, il mitico “sindaco del pane”, per avere realizzato il primo forno pubblico di panificazione in Italia per sfamare i meno abbienti durante gli anni di guerra. Originario di Poggio Rusco nel mantovano, Zanardi – che gestiva una farmacia molto accreditata – lasciò un’impronta incisiva nell’amministrazione civica e venne in seguito eletto deputato. I problemi sociali comunque restano: all’inizio del 1919 i disoccupati in città sono 20.000. Intanto le forze della destra si fanno più agguerrite: in città e nelle campagne aumentano gli scontri e le provocazioni che culmineranno nei tragici fatti di Palazzo d’Accursio del 21 novembre 1920 e poi nella successiva presa di potere in Italia da parte del Partito Nazionale Fascista. In questo clima tormentato i bolognesi dimenticano per qualche istante le gravi tensioni sociali e la notte di San Silvestro si raccolgono ancora in Piazza per dare il benvenuto al nuovo anno. Fino al 1922 il rituale è quello del passato: dopo il colpo di cannone, la balconata del Palazzo del Podestà si accende ai razzi di Bengala e la folla prorompe in cori di evviva, fischi, suoni, botti. Solo
dal
1923 è
il rogo del
Vecchione
ad annunciare il nuovo anno
Del “Vecchione” invece nessuna traccia, ma è questione di poco tempo. Bisogna attendere la “normalizzazione” portata dall’avvento del regime. Sarà proprio al momento dell’esordio del sindaco fascista Puppini nel Capodanno del ’23, che il caratteristico fantoccio di cartapesta e stracci, imbottito di petardi, farà la sua prima comparsa in Piazza Maggiore. L’innovazione è promossa dalla società “I Fiù dal Dutour Balanzòn” che appronta un programma in cui spiccano un corteo con bande musicali e luminarie, la lettura del testamento dell’anno vecchio, l’estrazione dei premi della lotteria e il Veglione Azzurro. Ovviamente a mezzanotte, dopo lo sparo del cannone di San Michele, con un petardo si dà fuoco all’anno morente, impersonato dal “Vecchione”, fra un tripudio di fasci di luce variopinti, canti, suoni, grida e lancio di dolciumi. Il popolare vecchione è dunque un’invenzione dei primi anni Venti. Rimarranno certamente delusi i molti bolognesi e soprattutto tanti “contastorie” che lo credono ancora un retaggio di un’antica tradizione che invece non è mai esistita. In passato, è il caso di ripeterlo, l’arrivo del nuovo anno era celebrato soprattutto in famiglia o nei circoli privati senza alcun festeggiamento pubblico, se si eccettuano lo sparo del cannone, qualche fuoco di Bengala in Piazza e un po’ di baldoria per le strade. Il nuovo rituale incontra l’apprezzamento dei nuovi reggitori del Comune e della popolazione e viene ripetuto per il resto degli anni ’20 e negli anni ’30, entrando a far parte del folclore locale. Per dare il benvenuto al 1924, anno bisestile, in Piazza Maggiore, al posto del vecchione, fa (inaspettatamente) la sua apparizione un pupazzo con le sembianze di una “vecchia” che divampa dopo il lancio del primo razzo: un segno di buon augurio, pensano in tanti.
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2. IL VENTO DEL PROGRESSO Arriva
L
il tram elettrico
a scena urbana muta. Fra le sue pieghe fa la sua comparsa uno strano mostro sferragliante che inaugura la stagione dei grandi trasporti collettivi urbani, quella indotta dal Progresso (con la P maiuscola ovviamente!). È il tram elettrico che soppianta quello a cavalli, ormai patetico e retrò, e che diventa una presenza familiare per tutti i bolognesi, dapprima timidamente e poi sempre più protagonista della vita della città come mostrano le vecchie cartoline. Nella storia del servizio tranviario bolognese la notte fra il 10 e l’11 dicembre 1903 segna una tappa di eccezionale rilievo: l’adozione dell’energia elettrica come forza motrice nei trasporti pubblici al posto della trazione animale. L’avvenimento, una vera prova generale in vista dell’entrata in servizio ufficiale dei tram elettrici avvenuta nel febbraio del 1904, si svolge in sordina, alla presenza di pochi intimi e con la complicità delle ombre profonde di una fredda notte d’inverno. Lontana da occhi indiscreti la prima vettura elettrica compie alle 22,30 del 10 dicembre una corsa sperimentale tra la stazione ferroviaria e Porta Santo Stefano attraverso le vie Indipendenza, Rizzoli e Santo Stefano. L’allegro sferragliare della vettura, non più preceduta dal ritmico zoccolare dei ronzini, e lo sfavillio delle luci richiamano l’attenzione degli irriducibili nottambuli e dei pochi soliti bene informati che si danno convegno in Piazza Maggiore per inneggiare al nuovo simbolo del progresso. Di questo giorno memorabile ci restano echi vivaci nella stampa cittadina i cui resoconti ci permettono di ripercorrere e di conoscere da vicino la vicenda dell’elettrificazione del servizio di trasporti urbano. Il Resto del Carlino dell’11 dicembre in un articolo dal titolo epifonetico (Il tram elettrico!) così descrive l’avvenimento: «Ieri sera si è fatta la prima prova del tram elettrico con la vettura n. 6. Erano su di essa il direttore del tram cav. Parenzo, il direttore dei lavori per l’impianto elettrico ing. Ellebuch che conduceva la carrozza, l’ing. Maurizio Fris della Thomson-Houston pure dirigente i lavori e vari altri tecnici della Società tranviaria, il Nobili costruttore delle carrozze. V’erano inoltre il direttore dei telefoni e alcuni tecnici, l’ispettore dei telegrafi e telefoni dello Stato cav. Cuboni ed altri funzionari. Tutti questi sono interessati ... per influenza, giacché la corrente ad alta tensione dei tram ha un’influenza sui telefoni e i telegrafi. I primi cambiano le loro linee, mettendo il doppio filo ed isolando le condutture in guisa da evitare spiacevoli incidenti nel caso di rotture: e i tram pagano loro 37 mila lire; i telegrafi faranno la conduttura sotterranea dei loro fili lungo Via Indipendenza con una spesa di 30 mila lire circa. E così sicuri tutti: pubblico, telegrafisti, telefoniste e comunicazioni. La carrozza percorse rapidamente Via Indipendenza. Al Bar Centrale, in Piazza molta gente si fermava soddisfatta e lieta al passaggio; alcuni applaudivano. La vettura proseguì per Via Santo Stefano. Il sindaco, l’assessore Poggi, i consiglieri Fabbri, Donnini, Gancia e qualche altro che uscivano dal Consiglio salirono sulla carrozza e parteciparono all’esperimento, che riuscì egregiamente. Ritornati in Piazza la direzione del tram offerse lo “champagne” in onore dell’ing. Ellebuch e della Thomson che ha compiuto
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l’impianto elettrico così bene riuscito alla prima prova. E il sindaco fece agli ingegneri e alla Società i migliori auguri, anche nell’interesse del Comune e del servizio pubblico. Poco dopo la mezzanotte la carrozza fece il giro della Piazza Vittorio Emanuele e riprese la marcia rapidamente alla volta della Zucca. Le carrozze uscite dall’officina Nobili sono solide, forti, comode e belle e fanno onore ai costruttori. L’impianto elettrico ormai è completo e speriamo che tra pochi giorni il tram elettrico tanto desiderato percorra le linee ultimate». Al Carlino fa eco il Giornale di Bologna - Gazzetta dell’Emilia che, tra l’altro, ci testimonia l’attesa della cittadinanza per i tram elettrici. «Ieri sera alle 22,30 una vettura dei tram elettrici fece la sua comparsa in città per un esperimento. Benché questo fosse stato tenuto celato anche alla stampa, pure una folla numerosa si riversò in Piazza Vittorio Emanuele per ammirare la vettura del tram elettrico che salendo dalla stazione centrale per Via Indipendenza si spinse fino a Porta Santo Stefano. Nella vettura si trovavano il direttore dei tram cav. ing. Parenzo, l’ingegnere Maurice Fris della Compagnia Thomson, l’ing. Hellebuch che conduceva la vettura, l’ing. Minguzzi, l’ispettore dei telegrafi cav. Cuboni, il direttore dei telefoni Canovi, i signori Nobili costruttori delle vetture dei tram, il contabile della Società sig. Frangois nonché i rappresentanti della stampa cittadina e vari impiegati ai tram. Terminato il Consiglio comunale il Sindaco con diversi assessori e consiglieri entrarono nella vettura che si era fermata in Piazza e fecero una gita per Via Farini. Prima che la vettura rientrasse alla stazione centrale, il Direttore dei tram cavalier Parenzo volle con squisita cortesia offrire lo “sciampagne” agli invitati nel caffè Cobianchi, mentre di fuori moltissime persone, malgrado l’ora tarda, stavano ammirando una delle belle vetture che ai primi dell’anno venturo subentreranno alle vecchie carrozze a cavalli. Verso la mezzanotte la vettura del tram rientrò alla stazione della Zucca. La vettura per la sua eleganza, solidità e capacità ha fatto buona impressione al pubblico che siamo certi accoglierà favorevolmente i tram elettrici da tanto tempo attesi con ansietà». 1904:
in tram a
San Michele
in
Bosco
Visto il felice esito dell’esperimento la Società anonima Les tramways de Bologne, dopo avere realizzato alla Zucca un’apposita centrale a vapore per la produzione in proprio di energia elettrica e avere addestrato i conducenti delle nuove vetture, attiva una seconda linea da Piazza Maggiore a San Michele in Bosco lungo la quale, il 19 dicembre 1903, si svolge una corsa di prova. Nel febbraio del 1904 i nuovi tram elettrici fanno definitivamente la loro comparsa ufficiale sulle linee urbane, suscitando l’immancabile curiosità della cittadinanza. La Gazzetta dell’Emilia del 10 e 11 febbraio 1904 riporta la cronaca dettagliata dell’avvenimento: «Stamani verrà iniziato il servizio a trazione elettrica sulle linee Zucca e Indipendenza. Le partenze avranno luogo sulla linea Indipendenza tanto da Piazza Vittorio Emanuele che dalla Ferrovia ogni cinque minuti a cominciare dalle 7 antimeridiane, sulla linea della Zucca ogni dieci minuti a cominciare dalle 7,20 antimeridiane. Il servizio cesserà sulla linea della Zucca alle 20,30 e sulla linea Indipendenza alle ore 22. Sino a nuova disposizione è vietato l’accesso al pubblico sulla piattaforma anteriore della vettura.
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Durante i primi giorni su ogni vettura elettrica farà servizio una guardia municipale. Il municipio ha messo a disposizione per questo servizio 12 guardie municipali e la questura 6 guardie di P.S. Il Consiglio d’Amministrazione della Societè des Tramways ha stabilito di rimandare alla prossima primavera, in occasione dell’apertura di nuove linee, l’inaugurazione ufficiale del servizi a trazione elettrica, che di fatto, come abbiamo già detto, comincerà domani nelle linee di Via Indipendenza e Zucca. Desiderando però il Consiglio stesso di festeggiare in qualche modo l’inizio del nuovo sistema di trazione, ha rimesso al Sindaco lire 100 perché siano distribuite fra le cinquanta famiglie più bisognose e più meritevoli di essere soccorse. Il Sindaco, grato alla Società di questo atto generoso e benefico, ha di buon grado assunto l’incarico d’accordo colla Congregazione di Carità. I tram elettrici seguitano a funzionare ottimamente sulle due linee di Via Indipendenza e della Zucca. Molta gente seguita a stazionare in Piazza Vittorio Emanuele e lungo la Via Indipendenza, per ammirare le belle vetture elettriche costruite dalla Ditta Nobili, abbondantemente rischiarate all’interno da quattro lampadine elettriche e comodissime per la capacità loro, che permette ai passeggeri di non stare pigiati come le acciughe. Lodevole è pure la disposizione dei cartelli reclame tanto all’esterno che all’interno delle carrozze, dovuta al sig. Ambrosi che ne ha assunto l’impresa. La reclame non deturpa per nulla i carrozzoni. Speriamo che fra breve anche sulle rimanenti linee verrà adottata la trasformazione dei tram che ha tanto incontrato il favore del pubblico». A mano a mano che i nuovi mezzi di trasporto si vanno integrando nella scena urbana bolognese, cominciano a farsi strada le prime perplessità degli utenti, puntualmente recepite dalla stampa locale. Ai vari problemi connessi ai trasporti cittadini a trazione elettrica è dedicato un sapido articolo della Gazzetta dell’Emilia del 21 febbraio 1904 (A proposito dei tram elettrici!) col quale caliamo il sipario su questa breve carrellata retrospettiva. «Proprio un anno fa, cioè il 20 febbraio 1903, la Gazzetta dell’Emilia, dopo avere osservato che era più agevole scendere e salire sui tram dalla parte sinistra e che ne conseguiva come corollario la necessità che le vetture percorressero sempre il binario sinistro là dove il binario è doppio o dove è doppio per gli scambi, aggiungeva che a Milano la “Edison” aveva adottati per i suoi tram tali precauzioni e che sarebbe stato bene che sul buon esempio di Milano anche la Thomson di Bologna si fosse subito occupata dell’importante argomento per agevolare lo scendere e il salire sulle vetture e per evitare la massima parte delle disgrazie. L’assennato consiglio della “Gazzetta dell’Emilia”, dato quando la posa dei binari non era stata ancora effettuata e quando la Ditta f.lli Nobili aveva appena ricevuta la commissione delle nuove vetture per i tram elettrici, non fu ascoltato; e così oggi Bologna – unica forse fra tutte le città munite di tram elettrici – presenta lo spettacolo di vetture elettriche che sono buone soltanto per i ... mancini e che – in opposizione a quanto ha finora insegnato la logica e imposto la sicurezza dei pedoni – tengono la destra. Noi vogliamo credere e sperare che non sia necessaria una grande spesa per spostare da destra a sinistra gli sportelli e i gradini delle vetture e per disporre in senso inverso gli aghi degli scambi; e che perciò sarà tolto in breve questo inconveniente che, stando alle lettere che pervengono al nostro e agli altri giornali locali, non siamo i soli a deplorare e che salta immediatamente agli occhi di tutti, specialmente dei forestieri, pei quali la moda illogica della discesa a destra è una novità a cui non sono avvezzi. Le lettere, però, non muovono alla Società dai tram elettrici questa sola osservazione: molte lamentano anche la tariffa inconcepibilmente elevata a 15 centesimi per il percor-
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so intero della linea di Santo Stefano. Non si comprende come mai si possa fissare una tariffa di tre soldi per un percorso che sembrerà lungo a Bologna, ma che per se stesso è assai più breve dei tragitti che in altre città si compiono con due soldi soltanto, anche se la trazione è ancora a cavalli. I due soldini che si pagano per recarsi da Porta Vescovo a Porta Nuova in Verona, o dalla stazione al Bassanello in Padova, insegnino, senza parlare delle grandi città come Milano e Torino dove con due soldi ci si può far scarrozzare per una mezz’ora. Osserviamo anzitutto che se a Bologna stessa le linee della Zucca e degli Alemanni, che devono essere più brevi di quella di Santo Stefano soltanto di qualche decina di metri, si percorrono con due soldi soltanto, non è affatto giusto che per recarsi dalla Piazza Vittorio Emanuele a Chiesa Nuova se ne debbano pagare tre. In secondo luogo, volendo pure sorvolare sulla lunghezza dei percorsi che in altre città si pagano la sola miseria di un soldo nella mattina fino alle ore 9 e di due soldi nel corso della giornata e anche sui precedenti, costituiti, a favore della nostra tesi, dalle due linee della Zucca e degli Alemanni di Bologna, noi richiamiamo l’attenzione della Società dei tram elettrici su queste nostre considerazioni. Il tram a cavalli conduceva fino all’altro ieri con due soldi fino allo Sterlino e altrettanto fa oggi il tram elettrico. Così verrebbe da dire che “si stava meglio quando si stava peggio”. E allora è possibile e giusto considerare una corsa, e farla passare come tale, il tratto Sterlino-Chiesa Nuova, mentre la Società stessa non attribuisce a questo nuovo tratto che l’importanza e quindi il valore di mezza corsa, facendo pagare per l’intero percorso dalla Piazza Vittorio Emanuele a Chiesa Nuova centesimi 15 in luogo di 20? Perché precisamente gli abitanti della nuova zona Sterlino-Chiesa Nuova, posti oggi in condizione di fruire finalmente del tram, devono essere - pur trovandosi entro cinta - i principali sacrificati, dovendo essi pagare una tariffa superiore a quella imposta agli abitanti degli altri sobborghi? Si noti poi, per giunta, che gli operai – numerosissimi in quella plaga – perché provenienti da San Ruffillo, Palazzaccio, Monte Donato ecc., sono in tal modo privati del beneficio della tariffa ridotta a cinque centesimi nelle ore del mattino, perché per essi la tariffa ordinaria di quindici centesimi risulta ridotta soltanto a centesimi dieci. La riforma dunque s’impone e noi siamo certi che la Società provvederà sollecitamente in omaggio all’equità e anche al proprio interesse e per cattivarsi sempre più l’animo del pubblico, che dimostra dal canto suo d’assecondarla con tanta larghezza. Tanto più che essa non deve dimenticare che tutti i diritti eventualmente acquisiti coi capitolati di concessione per mantenere in vigore la zoppicante tariffa di 15 centesimi a nulla servirebbero se mancasse la dovuta armonia fra gli interessi della Società e gli interessi del pubblico, soltanto dal quale essa deve ripromettersi la propria fortuna». Sul
tram della
Pasquetta
dai
Giardini
all’osteria
L’entrata in servizio dei nuovi tram elettrici stimolò i bolognesi, i tanti che all’inizio del secolo abitavano ancora nel nucleo urbano, a spostarsi comodamente nei dintorni della città per fare delle belle gite. Le escursioni domenicali verso la riviera romagnola o in montagna erano ancora di là da venire. Così molti petroniani già nel 1903 vollero sperimentare l’emozione delle nuove vetture a trazione elettrica per la classica scampagnata di Pasquetta. In realtà Bologna non ha mai avuto tradizioni particolarmente significative legate al periodo della Pasqua, se
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si eccettuano quelle gastronomiche – basate sull’agnello e sulle uova col salame – e quelle liturgiche, comuni del resto a tutta l’Italia. La rituale scampagnata del lunedì di Pasqua risale proprio agli esordi del Novecento ed è appunto figlia dell’introduzione dei nuovi mezzi di trasporto pubblici di massa e del progressivo affermarsi di biciclette, motocicli e automobili che spinse i bolognesi a trascorrere i giorni di Pasqua fuori porta. Andare anche solo ai Giardini Margherita a Porta Santo Stefano era un’esperienza emozionante per gente che si accontentava ancora di poco. Ecco, fedelmente narrato da un brillante cronista della Gazzetta dell’Emilia, come i bolognesi trascorsero la Pasquetta del 1903: «Favorita da un sole splendido la giornata di ieri fu festeggiata allegramente dai nostri concittadini. L’aria mite e del tutto primaverile aveva consentito alle belle signore e alle più vezzose ragazze di far pompa di vesti dai colori chiari e adornarsi coi cappelli larghi di paglia. E le “pagliette” maschili si fecero vedere quasi ufficialmente per la prima volta per le vie di Bologna. Toilette chiare e cappellini di ogni foggia si ammirarono nel pomeriggio, tutti rivolti alla periferia per respirare a pieni polmoni e digerire la colazione e... prepararsi al pranzo serale. I trams di Strada Santo Stefano partivano ogni tre minuti dalla Piazza sovraccarichi e deponevano centinaia e centinaia le persone alla Barriera dei Giardini Margherita, ove la Banda Municipale eseguì con la sua solita bravura il suo scelto programma. E, oltre questa folla di pedoni, circolavano numerose vetture pubbliche e private e numerose biciclette. Il doppio binario, prolungato di fuori di Porta Santo Stefano ha consentito alla Società dei tram di fare un frequente servizio di vetture con soddisfazione del pubblico». La passeggiata ai Giardini Margherita per il lunedì di Pasqua rimase per molti anni uno svago classico per i petroniani che potevano provare anche l’emozione di una bella gita in barca nel laghetto, con tanto di possibili e indesiderati naufragi come accadde per la Pasquetta del 1907 quando, a causa di uno scontro fra due barchette, alcuni giovani finirono in acqua «fra le grida di spavento e di soccorso» da parte delle signore presenti alla scena. Altra meta tipica era l’arrampicata sul colle di San Luca dopo essere arrivati in tram fino al Meloncello, con successiva discesa per il ritorno lungo l’accidentato sentiero dei “Brigoli” fino a Casalecchio dove si riprendeva il tram per Bologna. Ma c’era anche, per chi poteva permetterselo e amava le emozioni “forti”, il rientro in funivia fino al Ghisello. Per ricreare il clima e gli umori di questi momenti, diamo ancora la parola a un cronista della Gazzetta dell’Emilia che rievoca la Pasquetta fuori porta del primissimo secondo dopoguerra: «Il lunedì di Pasqua il tradizionale esodo cittadino verso le colline è stato imponente. I più anziani, che si sono mossi con la famigliola al completo e con abbondanti cibarie, hanno percorso quel pezzo di strada sufficiente per mettersi a sedere in libertà sull’erbetta di qualche proda o di qualche prato. I più giovani, riunitisi in comitive gioconde e rumorose, hanno affidato alle loro robuste gambe il compito di portarli più in alto e lontano possibile. Mete preferite: Casalecchio e San Luca. Per ore ed ore i tram con un ritmo acceleratissimo (li abbiamo visti correre alla distanza di un centinaio di metri l’uno dall’altro quasi senza interruzione) hanno trasportato i gitanti dalla zona bassa della città ai capolinea delle parti alte, fra Porta Castiglione e Sant’Isaia. Un nota poco simpatica, anzi assai fastidiosa, è stata conferita dai soliti motociclisti che hanno voluto ad ogni costo fare le gare di velocità e di rumore sulle strade periferiche affollatissime. Piene zeppe tutte le osterie della periferia: prosciutto e vino consumati al tavolo dell’oste non perdono il loro sapore e la loro poesia».
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Ma
c’è l’automobile in agguato:
la grande sfida da torino a
Bologna
del
1902
A partire dall’inizio del Novecento non solo il tram ma anche l’automobile si appropria sempre più della scena urbana come dimostrano le immagini d’epoca. Quasi timidamente, sbuffante e strombazzante e terribilmente lenta invade a poco a poco le strade, non solo quelle cittadine ma anche quelle del territorio e, incredibile a dirsi, inizia a cimentarsi in gare di velocità su lunghe distanze. Nascono le prime corse di automobili che vedono la città delle Due Torri protagonista sia con le edizioni della Targa Florio, sia con la Bologna-Raticosa. Ma non basta. Nel 1902, in novembre, il capoluogo emiliano è infatti protagonista di una delle prime gare automobilistiche italiane sul percorso da Torino a Bologna che vide le gesta del principe Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, e del cavalier Coltelletti, un ricco industriale piemontese. Il primo alla guida di un (senza apostrofo!) automobile (allora era ancora di sesso maschile) Fiat appositamente realizzato, e il secondo a bordo di una Panhard 20 cavalli, portata a 28 con un’apposita maggiorazione. Un vero duello non solo fra aristocrazia e alta borghesia, ma anche fra la nascente industria automobilistica italiana e la già affermata casa francese. La sfida mobilitò l’attenzione dei giornali e dell’opinione pubblica dell’intero paese e, in particolare, dell’Emilia e di Bologna dove era fissato il traguardo. Il cavalier Coltelletti viaggiava con la moglie – una «bella signora», scrivono i cronisti – e il «macchinista», mentre il Duca degli Abruzzi era solo e pilotava personalmente la vettura. La gara si svolse il 24 novembre con partenza da Villanuova, alle porte di Torino, dove si erano dati appuntamento il presidente della Camera dei Deputati, onorevole Villa, e parecchi giornalisti e appassionati di automobilismo. A rappresentare la famiglia reale sconsigliata a intervenire a causa del cattivo tempo, solamente c’era la duchessa Elena d’Aosta, giunta su una Fiat guidata da Storero. Tanta
folla a
Borgo Panigale
ad attendere i piloti
A Borgo Panigale, luogo di arrivo della corsa, un inappuntabile servizio telegrafico tiene informato il pubblico sullo svolgimento della gara. Nonostante la pioggia, che in Piemonte e parte dell’Emilia ha ridotto le strade a un pantano, la competizione si rivela fin dall’inizio avvincente e seguita da una folla entusiasta che lungo tutto il percorso sostiene i contendenti, non senza qualche patema provocato da alcuni indisciplinati. La prima fase della gara vede il Duca degli Abruzzi, partito per secondo, impegnarsi in una appassionante rimonta nonostante il cambio di un freno guastatosi sul ponte del Tanaro. Poi, all’improvviso, il colpo di scena. A Borgo Panigale arriva un telegramma che annuncia il ritiro del Duca: quando ha già guadagnato 12 minuti e sta ormai per raggiungere Coltelletti, il violento impatto contro un paracarro provoca la rottura di una ruota. L’abbandono della corsa è inevitabile, anche perché a nulla è valso l’aiuto di una Fiat 12 cavalli che la Fiat ha mandato di scorta. Al nobile sportman non resta che consolarsi con una rustica colazione in una casa colonica prima di far rientro a Torino assieme a Giovanni Agnelli e al capo collaudatore e segretario dell’azienda Vincenzo Lancia, lo stesso che nel 1906 fonderà una propria fabbrica
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d’auto. Con l’uscita di scena del Duca il cavaliere può filare dritto verso Bologna a raccogliere la vittoria. Lo precedono lungo il tragitto alcuni appassionati del motore che sulle loro vetture raccolgono gli applausi della gente che li scambia per i protagonisti dell’epica gara, fra essi il marchese Stanga di Cremona, il futuro asso del volante Bugatti. A Borgo Panigale una grande folla è ad attendere il trionfatore, il “Cavaliere”. Molti sono arrivati col diretto da Torino. C’è anche il marchese Ginori di Firenze e ci sono nobili e industriali che portano i più bei nomi della Jet society italiana. Un’ovazione accoglie l’arrivo di Coltelletti e signora, cui il sindaco di Borgo Panigale, Vittorio Legnani, porge un omaggio floreale. Dopo un minuto giunge anche la Fiat di scorta al Duca, guidata dal meccanico Felice Nazzari, che ha proseguito la sua corsa, rosicchiando minuti su minuti alla potente vettura francese del cavaliere: potenza dell’industria italiana! Volare
ooh ooh
… Il
cielo di
Bologna
cambia faccia
Automobile e aeroplano in fondo hanno un innegabile legame di parentela; un legame che agli inizi del nostro secolo era molto più stretto di oggi in quanto entrambi costituivano due dei simboli più evidenti del “Progresso”: un nume in cui la gente – non importa di quale strato sociale – riponeva una fede quasi messianica, mentre ai nostri giorni rappresenta soltanto un vecchio idolo ormai decaduto. Ma l’automobile e l’aeroplano stavano anche a dimostrare lo sforzo dell’uomo di vincere le distanze, di liberarsi dalle catene che ne condizionavano i movimenti in terra e in aria, di superare la lentezza a volte esasperate nelle comunicazioni. 1911: Il Resto
del
Carlino
organizza il primo circuito aereo italiano
Fra i tanti primati che detiene Bologna vi è anche quello di avere organizzato, nel lontano 1911, il primo circuito aereo italiano. La gara, indetta da Il Resto del Carlino, si svolse dal 17 al 20 settembre sul percorso Bologna-Venezia-Rimini-Bologna. Lungo l’intero circuito – scrive un cronista dell’epoca – «era tutto un anello ininterrotto di mani tese all’aiuto, di occhi intenti all’ammirazione, di cuori aperti all’augurio». I risultati di questa autentica primizia nella storia dell’aviazione italiana furono molto brillanti. Ciò grazie alla perfetta organizzazione e all’entusiastica collaborazione prestata da trentotto comitati sparsi lungo il tragitto, sia nelle città maggiori come Ferrara, Rovigo, Padova, Rimini e Forlì, sia in centri minori, ma non meno importanti per la sicurezza dei concorrenti, come quelli di Mira, Goro, Sant’Arcangelo e Ozzano dell’Emilia. Collegate fra loro per telefono, tutte le postazioni entrarono puntualmente in azione all’alba del giorno di partenza. II percorso prescelto dagli organizzatori del Carlino non fu tra i più ardui dato il carattere di vero e proprio test che assumeva la manifestazione. Non mancavano però le difficoltà. Da Bologna a Ferrara gli atterraggi (allora si diceva “atterramenti”) in caso di emergenza non apparivano dei più facili. Ma era soprattutto la laguna di Venezia, «intricata di condutture e di fili», a impensierire gli aviatori che dovevano scendere sul campo di volo del Lido. Di qui 170 km, percorribili sia sorvolando il mare aperto sia la zona del Delta del Po, separavano i concorrenti dal traguardo di Rimini, sistemato su un campo di corse ippiche adattato alla
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meno peggio. Più facile invece il tratto tra Rimini e Bologna lungo il quale l’orientamento di quei primi pionieri del cielo era facilitato dal tracciato della Via Emilia e da quello della ferrovia. Per concessione del Ministero della Guerra furono tenute sgombre le piazze d’Armi di Ferrara, Padova e Faenza per atterraggi d’emergenza come in realtà capitò ai due piloti francesi Gaubert e Deroye. Sulla scorta della relazione dei commissari sportivi pubblicata nel 1912 è possibile non solo seguire lo svolgimento del rally aereo ma di conoscere gli umori dei bolognesi di fronte a questo sconosciuto spettacolo andato in scena nel cielo sopra le Due Torri. Punto di partenza è il vecchio ippodromo Zappoli appena fuori Porta San Felice, trasformato in campo d’aviazione senza troppe pretese. Dopo un periodo di bel tempo che aveva messo in euforia gli organizzatori e gli appassionati di aeronautica, la mattina del 17 settembre le condizioni atmosferiche appaiono decisamente avverse. Mentre il pubblico che affolla l’improvvisato aerodromo guarda deluso il cielo gravido di pioggia, una fitta sequela di telegrammi e fonogrammi allarmati giunge ai commissari di gara incaricati di compilare il bollettino meteorologico da consegnare ai trasvolatori. Da Venezia una telefonata avverte che una violenta bufera imperversa sull’Adriatico, rendendo assai problematico l’atterraggio sulla stretta lingua di spiaggia fra il mare e l’Hotel Excelsior. Un terreno, quello litoraneo, tra l’altro assai infido e nuovo per gli aviatori. Quei
pazzi delle macchine volanti
Nonostante il clima per nulla promettente, l’aviatore francese Gilbert Le Lasseur de Ranzay spicca per primo coraggiosamente il volo verso Ferrara. Il suo apparecchio si allontana fra la nebbia, ondeggiando paurosamente per le forti raffiche di vento che lo flagellano. Dopo di lui si alzano da terra i velivoli di cinque piloti militari. Dopo un volo davvero avventuroso, l’arrivo sulla Laguna fa tirare un sospiro di sollievo a tutti i piloti che la mattina del 20 settembre sono pronti a sfidare nuovamente le insidie del cielo, lanciandosi nell’ultima avventura, quella che, sul rettifilo delle Via Emilia come guida sicura, li condurrà fino a Bologna. L’attesa fra la folla è enorme. Lungo tutto il percorso, nelle campagne e alla periferia delle città poste sulla via consolare, sono numerosissimi gli spettatori con gli occhi rivolti al cielo alla ricerca di una sagoma in movimento preannunciata dal rombo di un motore. Il successo di pubblico è favorito anche dalla giornata di festa nazionale (l’anniversario della presa di Roma nel 1870) e dalla novità dello spettacolo. Le postazioni telefoniche approntate per la circostanza danno di volta in volta comunicazione dei passaggi dei velivoli su Cesena, su Forlì, su Faenza. A Bologna una folla strabocchevole attende l’arrivo dei concorrenti e tutti abbozzano qualche pronostico sull’esito della competizione. L’attesa si fa spasmodica. Finalmente, poco dopo l’annuncio del passaggio di un velivolo a Castel San Pietro, «ecco sorgere, alto sopra la linea diritta della torre Asinelli, un punto che si ingrandisce velocemente», scrive un cronista. Si tratta dell’apparecchio del francese Frey, il primo concorrente partito da Rimini, seguito dopo poco dai cinque piloti militari italiani e dal francese Deroye, accolto dall’abbraccio festoso del connazionale Le Lasseur de Ranzay che si era ritirato durante la tappa Bologna-Venezia, a causa di un rovinoso atterraggio a Bosaro.
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Dopo un attento controllo dei tempi viene stilata la classifica finale che vede ai primi cinque posti i rappresentanti dell’aeronautica militare italiana: un successo insperato, una vera apoteosi per i colori nazionali. Ma anche un successo incontestabile per l’intera manifestazione aerea e per i suoi organizzatori. Avere riportato a Bologna otto dei nove aviatori in gara è un exploit che ha dell’eccezionale. Un exploit – come sottolinea la cronaca del tempo – che segna un salto di qualità nella pratica aeronautica e dischiude ai voli nuovi imprevedibili orizzonti dopo le difficoltà, i rischi e le critiche degli anni precedenti. Unico neo, rilevato da tutti, la mancata partecipazione dei piloti civili italiani che, assieme ai francesi e a quelli dell’aeronautica militare, avrebbero offerto nuovi entusiasmanti motivi spettacolari. Perfetta l’organizzazione e capillari le postazioni di informazione telefonica e di assistenza. Valorosi, infine, i piloti sempre all’altezza di ogni situazione, anche insidiosa, e scrupolosamente ligi alle disposizioni del regolamento, come nel caso dell’obbligo di percorrere un giro dimostrativo su Padova, per accontentare le attese degli abitanti, obbligo rispettato da tutti. Anche lo spettacolo voleva la sua parte. Il “progresso”
porta anche il primo cinematografo
Nel Mercato di Mezzo, prima degli sventramenti urbanistici che all’inizio del secolo ne cancellarono l’antica fisionomia, ferveva la vita dei bolognesi. I vecchi edifici sul lato tra le attuali Via Artieri e Via Calzolerie, costituente il secondo lotto degli interventi urbanistici, vennero demoliti per ultimi, nell’autunno del 1914. In uno si apriva la “Locanda dei Quattro Pellegrini”, uno dei posti più tipici di Bologna, frequentata da molti viaggiatori di passaggio. Nato dall’incorporazione dell’adiacente “Albergo Bella Venezia” e completamente rinnovato alla fine dell’Ottocento, possedeva – come informa un depliant pubblicitario del tempo – un «gran numero di camere per alloggio riducibili anche in comodi appartamenti per famiglie, sale da pranzo terrene e ai piani superiori con servizio di trattoria e ristoratore alla carta e di tavola rotonda, salotti di ricevimento, ampio locale ad uso di caffè avente comunicazione coll’albergo provvisto di giornali e arredato di decente servizio». Vi si poteva pranzare a tutte le ore godendo un’ottima cucina con vini nazionali ed esteri e con possibilità di usufruire di personale poliglotta. Altri vantaggi erano il «comfort moderno, i servizi di argenteria, l’illuminazione elettrica, l’impianto di caloriferi e i prezzi modicissimi con sconti per viaggiatori e corrieri». Sotto il portico della bassa casa contigua si apriva la nuova pescheria, inaugurata nel 1817 nel grande vano che aveva già ospitato il vecchio macello bovino della città e dotata di un impianto di irrigazione continua per mantenere fresco il pesce e pulito il locale mediante l’acqua non ancora inquinata del sottostante torrente Aposa. Il vasto ambiente accolse nel 1905 il cinema Marconi, uno dei primi a diffondere a Bologna il nuovo spettacolo inventato dai fratelli Lumière. La tela per le proiezioni era tesa in mezzo alla sala, consentendo di seguire l’azione filmica da entrambe le parti. Ovviamente i posti che si trovavano sul lato della visione in trasparenza avevano un prezzo inferiore. Nell’oscurità si udiva la voce robusta del commentatore che descriveva i momenti cruciali del film, sottolineati in musica da un solerte pianista con motivi melodiosi o allegri e accordi travolgenti a seconda delle sequenze sceniche, invitando poi gli spettatori a uscire con un impetuoso finale.
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E
dopo il film, i biassanot mangiano le crescentine al prosciutto
di
Castagnari
Sempre sotto il portico, poco oltre l’ingresso della pescheria, era situato un celebre forno, quello di Camillo Castagnari, produttore di un ricercatissimo pane di tipo viennese e francese, già premiato all’Esposizione del 1888 e, aggiunge un annuncio pubblicitario, «preferito sulle tavole dei primari alberghi e ristoranti, delle più distinte case e delle famiglie più aristocratiche». Ma a dargli rinomanza erano soprattutto le crescentine al prosciutto, sfornate calde e croccanti tutta la notte e vendute attraverso una piccola buchetta per la gioia dei molti biassanot del tempo. Alla base della torre Asinelli sorgevano le caratteristiche botteghe dei battirame, la cui rumorosa attività fu causa di molte lamentele da parte degli abitanti della zona e venne talvolta bloccata dagli antichi governanti bolognesi per timore che nocesse alla stabilità del monumento-simbolo cittadino. Coi loro colpi cadenzati di martello i battirame accompagnarono le ascensioni e le discese compiute nel 1878 da Luciano Monari e Luigi Galloni che si servirono dell’asta del parafulmine. Ai suoi piedi, fino agli ultimi anni del secolo scorso, si riunivano i facchini per cucinare allo spiedo i gatti catturati al laccio durante la notte. «Una volta – commenta Alfredo Testoni – il facchino mangiava, dormiva e faceva tutto nella strada». Sempre nella Rocchetta dell’Asinelli, sino agli inizi del Novecento, esisteva un piccolo caffè frequentato fino alle ore piccole dai cocchieri dei fiacre che sostavano sotto le Due Torri e dalle mondane ospiti dei vicini postriboli di Via dell’Inferno. «Ciò – scrive Alessandro Cervellati – attirava i nottambuli e nel caffettuccio non si faceva economia di parole oscene e di gazzarre. Spesso scoppiavano liti fra lenoni, militari e prostitute mentre la gran torre assisteva impassibile».
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