ENZO RAISI
ENZO RAISI
BOMBA
€ 19,00 i.i.
BOMBA O
NON bomba
O NON
bomba Bologna, 2 agosto 1980
Alla ricerca ossessiva della veritá
MINERVA EDIZIONI
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ENZO RAISI, politico e Deputato della Repubblica, è coordinatore regionale per l’Emilia-Romagna di Futuro e Libertà. È anche il responsabile nazionale della propaganda di FLI, è stato amministratore del Secolo d’Italia. Imprenditore, ha un’azienda di packaging in Spagna. Giornalista pubblicista.
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2 agosto 1980. Una bomba esplode alla Stazione di Bologna, provocando una vera e propria strage. Enzo Raisi (allora giovane militante della destra bolognese) in partenza per il militare si salva per pochi attimi. 2005. Enzo Raisi divenuto nel frattempo Deputato della Repubblica, membro della commissione Mitrokhin, indaga sui documenti provenienti dagli archivi degli ex paesi dell’est e scopre nuovi elementi che raccontano una versione molto diversa da quella conosciuta fino ad oggi. Un libro-inchiesta in cui vicende pubbliche e private si intrecciano alla ricerca della verità fino ad oggi non emersa. Una pubblicazione che contiene per la prima volta un CD con tutti i documenti della commissione Mitrokhin legati alla terribile strage di Bologna del 2 Agosto 1980.
BombA o non
bomba
Una coincidenza è una coincidenza. Due coincidenze sono un indizio. Tre coincidenze rassomigliano ad una prova. (Agatha Christie)
BombA o non
bomba Bologna, 2 agosto 1980
Alla ricerca ossessiva della veritá di Enzo Raisi
Direttore editoriale: Roberto Mugavero Editor: Paolo Tassoni Redazione: Valentina Zaffagnini Impaginazione: Francesco Zanarini
Immagini di © 2012 - Paolo Ferrari
© 2012 Minerva Soluzioni Editoriali srl – Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Deroga a quanto sopra potrà essere fatta secondo le modalità di legge. ISBN: 978-88-7381-444-3 Minerva Edizioni via Due Ponti, 2 – 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 – Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com email: info@minervaedizioni.com
Enzo Raisi
BombA o non
bomba Bologna, 2 agosto 1980
Alla ricerca ossessiva della veritรก
Minerva Edizioni
Questo libro lo dedico a mia madre. Purtroppo se n’è andata molto presto, troppo presto, ma rimane sempre nel mio cuore e nei mie pensieri, a lei devo tutto.
Voglio anche dedicarlo a una mia collaboratrice, Annamaria Azzini, che è scomparsa mentre stavo scrivendo il libro.
Last but not least, lo dedico anche a tutti i giovani di destra che come me hanno sofferto le conseguenze di quel 2 agosto 1980 e ai familiari delle vittime della strage del 2 agosto 1980 nella speranza di aver dato un contributo alla verità e a capire perché quel tragico giorno i loro cari persero la vita.
Infine voglio ricordare, attraverso questo mio lavoro, le tante vittime dimenticate del Lodo Moro. Erano ebrei, molti italiani come me, ammazzati solo perché di religione ebraica, come il piccolo Stefano Gay Tachè, un bimbo di due anni ucciso nell’attentato alla Sinagoga di Roma il 9 ottobre 1982. Lo Stato italiano si è dimenticato per molti anni di loro, non risultavano neanche tra le vittime del terrorismo, i loro assassini sono in libertà. Una vergogna da cancellare e spero di contribuire a farlo anche con questo libro.
Un ringraziamento particolare a tutti coloro che mi hanno dato un contributo importante per la realizzazione di questo lavoro, senza di loro non ci sarei mai riuscito: Gian Paolo Pelizzaro, Gabriele Paradisi, François de Quengo de Tonquédec, Barbara Ricciuti, Lorenzo Manfro, Valerio Cutonilli, Rosario Priore, Lorenzo Matassa, Alessandro Pellegrini, Giuseppe Cossiga. Un ricordo affettuoso va anche all’amico scomparso On. Enzo Fragalà, anche a lui devo molto.
Allegato al libro il lettore troverà un Cd con quasi mille pagine di documenti ufficiali, alcuni formalmente secretati, ma già apparsi sul sito www.toni-depalo.it. È una scelta di trasparenza e chiarezza, che dovrebbe essere la norma in un Paese democratico e civile. In risposta anche a chi, su argomenti così delicati come quello trattato in questo libro, preferisce la cultura del complotto e dei teoremi.
Introduzione
Le motivazioni che mi hanno indotto a scrivere questo libro sono tante. In primo luogo il desiderio di terminare un lavoro iniziato tanti anni fa, quando incominciai a studiare il processo della strage del 2 agosto 1980 e successivamente quando ho lavorato alla nuova pista che emerse durante l’attività della Commissione Mitrokhin. Un lavoro che avevo incominciato per senso di giustizia e anche per quello che ha significato per un giovane di destra di Bologna, sul piano umano e politico, quella maledetta strage. Volevo lasciare una testimonianza storica di un evento tragico, chiarire alcuni fatti che sono stati spesso distorti dai soliti negazionisti che pervicacemente negano ogni verità, al di là di quella giudiziaria. Volevo rendere intelligibili i tanti documenti che erano per altro già resi noti in quello che considero forse il miglior libro sulla strage di Bologna, Dossier strage di Bologna. La pista segreta (Giraldi editore, Bologna 2010) degli amici Gian Paolo Pelizzaro, Gabriele Paradisi e François de Quengo de Tonquédec, ma che proprio per il suo contenuto esclusivamente documentale non era alla portata di chiunque. Volevo anche spiegare ai giovani che non hanno vissuto gli anni Settanta e Ottanta, quelli dello scontro generazionale, che cosa significasse per un giovane di destra militare a Bologna e vivere quella tragedia. Per questo motivo ho fatto la scelta insolita di alternare capitoli di vita privata a capitoli in cui illustro i fatti e i documenti: una scelta forse ardita, ma che spero paghi in termini di comprensione da parte del lettore. Ho incluso tre interviste. La prima è al magistrato Rosario Priore, persona che ho apprezzato molto per il lavoro che ha svolto nella lotta al terrorismo, per la sua capacità di inquadrare gli eventi terroristici nel loro corretto contesto internazionale. Le analisi che compie nella sua breve intervista sono una testimonianza molto importante. 11
Introduzione
La seconda è al collega Giuseppe Cossiga, un caro amico tramite il quale ho avuto la possibilità di incontrare in due occasioni conviviali il padre, il Presidente Francesco Cossiga, una persona di cui serbo uno splendido ricordo e che mi diede importanti conferme su ciò che accadde il 2 agosto 1980 a Bologna. Nelle sue dichiarazioni, Giuseppe sostanzialmente conferma le tesi che suo padre dichiarò anche a me direttamente, aggiungendo un passaggio chiave a cui non avevo mai fatto caso. Suo padre parlò sempre di trasporto palestinese di una bomba, non di semplice esplosivo. Un dettaglio che fa la differenza, come si capirà dalla lettura del libro. La terza intervista è al mio amico Alessandro Pellegrini, ottimo penalista bolognese che ha seguito in diverse città d’Italia i tanti processi di stragi che hanno insanguinato il nostro Paese. Alcune sue affermazioni, come quelle che minimizzano il golpe Borghese o che negano le responsabilità di elementi di estrema destra in alcune stragi, come quella di piazza Fontana e piazza della Loggia, non le condivido e nel testo spiego ampiamente per quali motivazioni. La sua è comunque l’importante testimonianza di una persona protagonista in quelle vicende giudiziarie, una persona perbene che ha fatto del suo lavoro una missione e per questo ho ritenuto importante riportare anche il suo pensiero. Infine allegato al libro il lettore troverà molti importantissimi documenti, a cominciare dalla relazione della Commissione Mitrokhin nella parte relativa alla strage di Bologna. Molti di questi documenti sarebbero secretati e l’ho scoperto quando, recandomi all’archivio storico del Senato dove sono conservati, mi è stato impedito di rileggerli nonostante fossi stato componente della Commissione Mitrokhin e all’epoca li avessi letti. Ho trovato la cosa scandalosa, figlia della cultura di un Paese che ha paura di fare i conti con la propria storia e allora come atto di disobbedienza civile, avendoli in copia e sapendo che peraltro erano già stati pubblicati in alcuni siti della rete, ho pensato che fosse giusto riproporli in questa occasione. Per il lettore sarà un’occasione unica di verificare la verità sul 2 agosto 1980 attraverso documenti ufficiali italiani e stranieri. Di farsi da solo un’idea su quanto realmente accaduto, su fatti che se non supportati da documenti ufficiali appaiono incredibili, non reali e invece purtroppo sono accaduti. È impensabile, per un Paese che dal 1945 ha adottato un sistema democratico. Quei documenti non fanno onore a una parte delle nostre istituzioni, a cominciare da una fetta del sistema giudiziario e del sistema politico: sono un vero e proprio macigno che sicuramente farà discutere, ma la democrazia è prima di tutto trasparenza. E io credo nella democrazia e nella trasparenza. 12
Bomba o non bomba
Mentre scrivevo il libro e a causa delle ricerche legate proprio alla sua conclusione, sono sopravvenute alcune importanti novità, a cominciare dal caso di Mauro Di Vittorio, l’esponente di Autonomia Operaia romana, presente tra le vittime e di cui si è occultato fino ad oggi il passato politico, le motivazioni per cui quel giorno fosse a Bologna e altro. Queste nuove scoperte hanno prodotto un mio interrogatorio da parte del magistrato che si occupa delle nuove indagini, uno strano silenzio da parte dei soliti negazionisti, ma soprattutto la sensazione di essere osservato da qualcuno che volesse sapere in anticipo cosa realmente avessi scoperto. Tanti episodi strani mi hanno fatto capire che non ero più “solo”, anche se la compagnia non era certamente scelta da me. Alcuni personaggi ambigui che mi hanno avvicinato proponendomi importanti documenti hanno completato il quadro. Non solo. Mentre illustravo ad alcuni amici i nuovi elementi trovati nel corso della ricerca, mi è stato fatto notare che alcune novità che avevo riscontrato, a cominciare da quella del giovane di autonomia romana morto nella strage e la stessa presenza di Christa-Margot Fröhlich, erano contenute in un libro di fantasia scritto nel 1990, Strage, uscito per i tipi di Rizzoli e scritto da tale Jules Quicher. Il libro fu ritirato dalla circolazione a causa di una denuncia e poi riproposto nel 2010 da una nuova casa editrice e con il vero nome dell’autore, Loriano Macchiavelli e la prefazione addirittura di Libero Mancuso, il pm del processo che portò alla condanna dei tre dei Nar. Non sapevo dell’esistenza di quel libro e devo dire che anch’io ho trovato strana questa coincidenza. Macchiavelli è un romanziere amico di Paolo Bolognesi, il Presidente dell’Associazione delle Vittime del 2 Agosto, il negazionista per eccellenza. Credo e spero che sia un romanzo frutto solo di fantasia, certo è che Mancuso molti dei documenti che io ho trovato avrebbe dovuto conoscerli, perché erano riportati nelle carte dell’istruttoria. Sapeva chi era la Fröhlich e immagino, almeno per il suo bene, anche chi fosse Di Vittorio. Non vado oltre, perché non amo trarre conclusioni solo sulla base di supposizioni, sono abituato a parlare solo con le carte e con prove inattaccabili, certo è l’ennesima coincidenza che ho trovato lungo il mio percorso di studio in questa vicenda e devo dire che incominciano a essere molte, troppe. Fortunatamente la mia esperienza e naturale diffidenza mi hanno aiutato a superare questi piccoli ostacoli e ad arrivare alla conclusione del libro, che vuole essere una testimonianza per tutti coloro che non si arrendono mai, anche quando il lavoro che hai di fronte ti appare impossibile. La sete di giustizia e verità, come ha dimostrato tante volte la storia, fa miracoli e rende possibili cose che nessuno pensava potessero diventare tali. Non sono abituato a dare lezioni a nessuno, posso però dire che tutta questa storia mi ha insegnato due cose: la prima è che bisogna studiare bene i fatti prima di parlare a qualsiasi titolo, in modo particolare quando si parla di temi delicati come questo, soprattutto se si vuol essere credibili; il secondo che nella vita non ci si deve fermare mai, mai, soprattutto quando si crede di fare una cosa giusta. E questa era una cosa giusta. 13
Capitolo
1
La ricerca ossessiva della verità Era il 2005, luglio stava finendo e faceva un gran caldo. Verso sera mi chiamò l’amico Alessandro Pellegrini e con la sua classica freddezza mi chiese se potevo raggiungerlo velocemente da Linde, un locale in centro, a Bologna. Mi doveva parlare, aveva detto, di una cosa molto importante. Alessandro è stato uno degli avvocati che hanno seguito in tutta l’Italia i numerosissimi processi per le varie stragi attribuite, a torto o a ragione, all’eversione nera. C’era stata una generazione più anziana, quella dell’avvocato Gianfranco Bordoni padre (che più avanti fu sostituito dal bravissimo figlio Gabriele), dell’avvocato Antonio Lisi, padre del mio collega deputato Ugo, dell’avvocato Adriano Cerquetti e dell’amico Marcantonio Bezicheri; quest’ultimo, a forza di difendere i camerati in tribunale, non solo conobbe ingiustamente la prigione, ma morì povero e dimenticato da tutti. Poi era nata una generazione di penalisti più giovani, che si fecero le ossa proprio in quei processi per strage. Ne faceva parte, tra gli altri, l’amico Gianni Correggiari, che da giovane era un esponente della destra moderata e a cinquant’anni, fulminato sulla via di Damasco, ha avuto una conversione estremista tanto da diventare un alto dirigente di Forza Nuova. Poi c’era Alessandro che, oltre che mio avvocato penalista, è sempre stato un grandissimo amico. A lui devo tanto, sia in termini di amicizia che in termini professionali. Ho avuto diverse cause penali per la mia attività politica, le ho vinte tutte e Alessandro non mi ha mai chiesto nulla. Ho voluto ricordare questi avvocati, e chiedo scusa a quelli che ho dimenticato, perché furono un gruppo di professionisti che sostennero processi estenuanti, rimettendoci sul piano personale ed economico, visto che si accontentavano il più delle volte solo della copertura delle spese vive. Avevano, inoltre, risorse ridicole rispetto alle controparti, pubblici ministeri e parti civili, eppure ne uscirono spesso vincitori. Tranne che in un caso: il processo per la strage di Bologna. Nonostante l’inconsistenza delle prove dell’accusa e gli episodi inquietanti che lo circondarono, come la scoperta che pm e parti civili si riunivano presso la sede del Pci bolognese in via Barberia, allora dovettero soccombere. Ma “mancò la 15
Capitolo 1
fortuna non il valore”, perché veramente combatterono nelle condizioni più avverse che si possano immaginare, eppure non sfigurarono proprio come l’esercito italiano a El Alamein. Quell’incontro che mi proponeva Alessandro era il momento che avevo atteso da anni. La svolta che mi avrebbe permesso di capire cosa veramente accadde quel maledetto 2 agosto 1980, la mia ossessione giovanile. Arrivato al locale, Alessandro mi riferì di un colloquio che aveva avuto con Gian Paolo Pelizzaro, cronista specializzato nel giornalismo di indagine e uno dei due consulenti che in Commissione Mitrokhin lavoravano sulla strage di Bologna. L’altro era Lorenzo Matassa, magistrato della Procura di Palermo. Si occupavano, insieme al compianto Enzo Fragalà, della ricerca dei documenti sulla nuova pista emersa nel corso dei lavori della Commissione. Quella stessa ricerca a cui, di lì a poco, anche io mi sarei dedicato senza sosta. Furono loro a scrivere la relazione finale su questo tema. Pelizzaro e Matassa erano due veri e propri mastini, bravissimi a seguire la traccia dei documenti, a evitare depistaggi, a garantire il rigore della ricerca, a coprirmi le spalle dagli attacchi degli avversari che cercarono in tutti i modi di delegittimare il mio lavoro. Senza di loro, onestamente, non sarei mai riuscito ad arrivare al grande risultato di far riaprire le indagini sul 2 agosto. Non avevano un carattere facile e non mancò qualche screzio. Lo stesso Fragalà, ogni tanto, si lamentava del loro “ardore”, che con il senno di poi io chiamerei “mistica della verità”. Avevano capito di esserci arrivati davvero vicino, alla verità, ma che il tempo non giocava a loro favore. Alle volte esasperavano atteggiamenti e richieste, ma se non lo avessero fatto non avremmo mai conseguito l’eccezionale risultato che raggiungemmo in seguito. Pelizzaro era una fonte inesauribile di informazioni che poi, immancabilmente, venivano confermate dai documenti che via via incontravamo. Probabilmente Pelizzaro aveva una grande capacità come ricercatore e sapeva relazionarsi positivamente con persone delle istituzioni che, credendo nella giusta causa della verità e nella sua correttezza professionale, lo aiutavano nella ricerca attraverso un corretto e trasparente rapporto professionale. Ciò che è certo è che, a ogni traccia, seguiva la scoperta di un documento. Era come un gioco, una caccia al tesoro. Matassa era il rigore in persona. Da magistrato aveva un modo di lavorare molto professionale. Verificava e sezionava ciascun indizio, ciascun documento. Accertata la sua attendibilità, non lasciava nulla al caso, era molto scrupoloso, corretto, determinato. Dimostrava, anche da consulente, di essere un bravissimo magistrato. Senza queste due persone l’Italia non saprebbe che esiste un’altra possibile verità sul 2 agosto 1980. 16
La ricerca ossessiva della verità
Ma cosa aveva saputo di così importante Pellegrini da farmi uscire di corsa e sfidare la canicola di una torrida estate bolognese? Quando iniziò a parlare smisi di rimpiangere l’aria condizionata e dimenticai che per quella “convocazione” così anomala avevo dovuto abbandonare sul tavolino di casa una birra ghiacciata di cui già pregustavo il piacere. Pelizzaro era a Bologna per incarico della Mitrokhin. Aveva scoperto negli archivi della questura un fascicolo polveroso intestato a un certo Thomas Kram. Sinceramente quando Alessandro mi disse il nome rimasi un po’ deluso. Ma chi era questo Kram e che legame aveva con la strage di Bologna? Kram merita un capitolo a parte, ma è importante sapere che in quel fascicolo c’erano già gli elementi per avere certezza in ordine a due notizie di non poco conto. La prima: quali terroristi erano realmente e sicuramente a Bologna il giorno della strage e perché si trovassero lì. La seconda: i tentativi maldestri da parte di esponenti della Procura bolognese di non dare alcun rilievo a una serie di informazioni pervenute nel marzo 2001 dall’allora capo della polizia italiana Gianni De Gennaro e in cui si faceva esplicito riferimento al terrorista Kram e a un suo coinvolgimento nella strage. (Nota 1). Dalle carte del fascicolo emergeva, tra le altre cose, che il terrorista Thomas Kram, membro del gruppo Separat e delle Cellule Rivoluzionarie tedesche, passò la notte a Bologna tra il primo e il 2 agosto 1980. Si diceva anche dove: all’Hotel Centrale di via della Zecca 2. Inoltre, si scopriva che l’8 marzo 2001 De Gennaro aveva mandato una comunicazione ufficiale alla questura e quindi alla procura di Bologna nella quale si associava il nome di Kram alla strage di Bologna. Il capo della polizia adempiva così a una commissione rogatoria internazionale promossa dalle autorità giudiziarie della Repubblica Federale di Germania. Ma la cosa più inquietante che appresi quella sera fu la condotta tenuta dalla procura di Bologna in seguito a quella segnalazione. L’allora procuratore di Bologna, Enrico Di Nicola, con il quale poi ebbi un rapporto burrascoso che alla fine mi portò a togliergli il saluto, pensò bene di affidare la questione al dottor Paolo Giovagnoli, già pm in uno dei processi della strage di Bologna, come se ci si potesse aspettare che un magistrato smentisse sé stesso facendo nuove indagini su un caso che lo aveva visto vincente in uno dei processi collegati alla condanna in via definitiva di Francesca Mambro, Valerio Fioravanti (nel 1996) e Luigi Ciavardini (nel 2007). Nessuno se lo sarebbe potuto aspettare. Io non l’avrei fatto. E avrei avuto ragione: il dottor Giovagnoli, infatti, si limitò ad aprire un modello 45, quello che riguardava le notizie non aventi valore di reato, fascicolo 788/01-k, mise l’informativa del capo della Polizia italiana insieme alla lettera di una mitomane 17
Capitolo 1
tedesca, che aveva scritto alle autorità italiane dicendo di voler essere ascoltata perché sapeva di essere indagata, e il 27 marzo 2002 archiviò il tutto per via amministrativa, come prevede la procedura del modello 45, senza nemmeno passare dal Gip per l’iter di archiviazione. Si noti che nel testo dell’archiviazione Kram non venne nemmeno citato, il suo nome sparì nonostante la comunicazione del Capo della Polizia di Stato De Gennaro e non fu la prima volta, come vedremo. (Nota 2). Senza la scoperta di Pelizzaro, che dal 1999 seguiva con ostinazione e in assoluta solitudine la cosiddetta pista palestinese, tutto questo sarebbe rimasto sconosciuto all’opinione pubblica italiana. Tutto ciò fu sufficiente per decidere di attivarmi in prima persona. La settimana dopo, appena arrivato a Roma, cercai l’amico Roberto Menia, che con Fragalà era uno di due deputati di An in Commissione Mitrokhin. Gli spiegai il fatto, la rilevanza della questione e del nuovo filone di indagine che si era aperto sulla strage di Bologna e gli chiesi se potevo prendere il suo posto. Roberto non ci pensò un minuto. Disse al gruppo di fare la sostituzione e così iniziò il mio lungo, pesante lavoro nella commissione. Gli anni mi hanno ripagato di quella fatica, che si è rivelata per me una delle esperienze più belle e appaganti della mia carriera politica. Ma qual è la reale novità che sta alla base della nuova pista che ha portato alla riapertura delle indagini sulla strage di Bologna? Tutto ruota intorno al famoso Lodo Moro, la cui esistenza emerge per la prima volta proprio nell’ambito delle indagini svolte in Commissione Mitrokhin. Cosa sia il Lodo Moro lo chiarisce in modo ufficiale e senza più infingimenti Bassam Abu Sharif, portavoce dell’Fplp e consigliere speciale di Yasser Arafat, in un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera” il 14 agosto 2008. Il Lodo Moro era un patto che il defunto leader democristiano aveva stretto, negli anni Settanta, con la resistenza palestinese, in particolare con l’Fplp. Si trattava di un tacito accordo che assicurava una sorta di nulla osta al passaggio e al trasporto di armi ed esplosivi sul territorio nazionale operato dai palestinesi aiutati da gruppi eversivi italiani a essi collegati. In cambio, all’Italia veniva garantito di non essere colpita da attentati nel proprio territorio a eccezione fatta per gli interessi americani ed ebrei. Nei lavori della Commissione Mitrokhin emergono molti documenti, atti e personaggi che ruotano attorno al Lodo Moro e alla sua attuazione. A cominciare dalla figura principale, il vero artefice, la longa manus usata da Moro in questa trattativa: il colonnello dei carabinieri e ufficiale del Sismi Stefano Giovannone. Giovannone è l’ufficiale dei carabinieri e del Sismi, che dalla sede della nostra 18
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ambasciata a Beirut, operò in Medio Oriente per più di un decennio e fu il garante degli accordi con il mondo palestinese. La strage di Bologna del 2 agosto 1980 rientra a pieno titolo nella gestione del Lodo Moro. Ci rientra per il clima di minaccia di ritorsione che si era creato un anno prima per l’arresto del rappresentante dell’Fplp in Italia, Abu Anzeh Saleh, a causa del sequestro dei missili a Ortona appartenenti a quella organizzazione. Rientra per le persone che erano presenti quel giorno a Bologna e che non erano lì per caso, ovviamente, come qualcuno ha voluto farci credere. Rientra per i tanti atti omissivi compiuti dagli organi inquirenti nel corso delle indagini sulla strage, in collaborazione con i nostri servizi, che tra l’altro operarono diversi depistaggi sempre e solo con uno scopo: tenere segreto il Lodo Moro. L’obiettivo della segretezza era vitale, sia per gli interessi nazionali e per la salvaguardia dei rapporti con il mondo arabo, sia perché qualora si fosse arrivati a una pubblica conoscenza del Lodo Moro si sarebbe dovuto affrontare anche l’inquietante paradosso della morte di Moro stesso. Il primo aspetto era sicuramente molto delicato, perché avrebbe messo in discussione una linea di politica estera che l’Italia portava avanti dai tempi di Enrico Mattei e che aveva garantito un rapporto preferenziale dell’Italia con il mondo arabo rispetto ad altri paesi occidentali: in fin dei conti il Lodo Moro è figlio delle scelte di Enrico Mattei. Ma il secondo aspetto è ancora più inquietante, infatti, come è emerso dai documenti della Mitrokhin e da diversi processi svolti in Italia, dal traffico d’armi ed esplosivi dei palestinesi traevano giovamento anche le Brigate Rosse, ossia quella stessa organizzazione terroristica che, per un clamoroso e cinico destino, uccise barbaramente Aldo Moro, ossia l’artefice di quel Lodo. Non a caso emergono documenti che dimostrano il tentativo estremo di salvare il leader democristiano, soprattutto da parte dei suoi famigliari, ma anche da parte di Giovannone, proprio attraverso l’intervento dell’Fplp, come ci ricorda lo stesso Abu Sharif in una sua intervista. Tentativi purtroppo andati a vuoto, ma che sono uno dei paradossi di tutta questa vicenda. Tra la morte di Moro, la strage di Bologna e tutte le vicende a essa collegate, a cominciare dai depistaggi effettuati durante le indagini, c’è un filo conduttore: si chiama Lodo Moro o Lodo Mattei ed è la nostra politica estera con il mondo arabo. Questo è l’elemento chiave di partenza per comprendere gli elementi nuovi che hanno portato la Procura di Bologna a riaprire l’inchiesta sulla strage di 19
Capitolo 1
Bologna, alla luce del lavoro documentale che è stato svolto dalla Commissione Mitrokhin e successivamente. Solo attraverso questa lettura si riesce a rendere comprensibile una vicenda sicuramente complessa, ma che volutamente è stata resa difficilmente intelligibile ai piÚ, per mantenere il riserbo su una questione di interesse nazionale.
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Capitolo
1
bis
Il “lodo Moro” - Le stragi “dimenticate” e i morti “invisibili” Perché il fatto che i nostri vertici investigativi sapessero della presenza di un terrorista tedesco legato ai palestinesi e l’avessero tenuta accuratamente nascosta è così importante? La presenza di un estremista di sinistra avrebbe anche potuto essere casuale, quindi il fatto di per sé può suscitare curiosità e interesse, ma non è certo una prova che quel tedesco, il signor Kram, sia colpevole di qualcosa. E infatti non è Kram che ci interessa adesso, ma il meccanismo che i nostri vertici investigativi hanno fatto scattare per renderlo invisibile alle indagini. Questo meccanismo ci rimanda al “Lodo Moro”: una pagina lunga e importantissima della nostra politica estera segreta. Io sono un cittadino italiano ormai di mezza età, buon frequentatore da sempre di giornali e telegiornali, con una laurea in scienze politiche e abbastanza attento a ciò che accade nel mondo e non solo attorno al proprio ombelico. Eppure la prima volta che mi hanno accennato al “terrorismo palestinese in Italia” non ne sapevo praticamente niente. Oggi so che, solo in Italia, tra il 1973 e il 1986, i terroristi palestinesi o filopalestinesi delle varie fazioni hanno ucciso almeno 83 persone, e ne hanno ferite, spesso molto gravemente, oltre 227. La cifra comprende vittime italiane colpite in Italia o all’estero, vittime italiane o straniere di attentati eseguiti in Italia, o su navi e aerei italiani. Considerato che su questo argomento è veramente difficile trovare notizie, il mio conteggio potrebbe essere impreciso, ma per difetto. Ammesso che i morti siano “solo” 83, sono tanti. Però noi non ne sappiamo niente, non se ne parla mai, non c’è mai una commemorazione, non c’è un’associazione dei parenti delle vittime, mai una trasmissione televisiva, mai un articolo su nessun giornale in occasione di nessun anniversario. Addirittura il Quirinale, quando istituì la Giornata della Memoria per le vittime del terrorismo e pubblicò un grosso volume sull’argomento, non inserì nessuna delle vittime del terrorismo palestinese. Il silenzio sull’argomento è tale che addirittura in Internet, dove ormai tutto si riversa, nei siti in italiano non si trova quasi niente. E quel poco che si trova è superficiale, scarno, molto incompleto. Deve esserci un motivo per il quale un paese, che pure non è avaro di commemorazioni e trasmissioni 21
Capitolo 1 bis
televisive dedicate alla cronaca nera, decida di rimuovere completamente 83 morti. E deve esserci un motivo per il quale questa rimozione è perfettamente bi-partisan, anzi tri-partisan: l’ha iniziata il centro, ed è proseguita con la destra e la sinistra al governo. Quella che segue è una trattazione veloce, semplificata e incompleta del terrorismo palestinese in Italia. In seguito vedremo come la politica italiana, attraverso il Lodo Moro, abbia affrontato il problema. In sintesi, la Democrazia Cristiana ha tentato un grande compromesso che, alla fine, è costato la vita all’ideatore stesso di quel compromesso, Aldo Moro. In nome della solidarietà internazionale e della lotta all’imperialismo, la sinistra ha chiuso tutti e due gli occhi. Alcune frange dell’estrema sinistra hanno collaborato attivamente con i “colleghi rivoluzionari” palestinesi. La destra, come al solito, ha fatto poco, ma quel poco (alcune interrogazioni parlamentari a proposito delle rapidissime scarcerazioni dei terroristi palestinesi) mi è stato utile per ricostruire, da storico dilettante, la cronologia “politica” del Lodo Moro. Ma andiamo per ordine. “Lodo” è un termine desueto, usato ormai quasi solo in ambito giuridico, e sta a significare “accordo tra le parti”. “Moro” sta per Aldo Moro, importante uomo politico democristiano che, tra i molti incarichi ricoperti, è stato anche Ministro degli Esteri per quasi 4 anni e mezzo tra il 1969 e il 19741. Il “Lodo Moro” è quindi, mi si scusi la pedanteria, “l’accordo ideato da Aldo Moro”. Per prima cosa occorre dire che questo “lodo”, apparentemente, non è mai stato messo per iscritto. Poi vedremo che probabilmente il lodo non è propriamente di Moro, che Moro ne è solo l’importante sottoscrittore, perché l’ideatore e garante per almeno 10 anni è stato il colonnello del servizio segreto militare Stefano Giovannone2. Poi magari ragioneremo anche sul fatto che il Lodo Moro-Giovannone altro non fosse che la naturale continuazione della politica estera di Enrico Mattei. Ma intanto affrontiamo il primo ostacolo: devo mettere al centro del mio racconto storico-politico un accordo internazionale che apparentemente non esiste, o meglio, che non è mai stato messo su carta, protocollato e bollato. Il Lodo non sarebbe mai stato formalizzato. Aldo Moro, nato in Puglia nel 1916, morto (di morte violenta) a Roma nel 1978. Studente brillante, già nel 1941 ottiene all’università di Bari le docenze di filosofia del diritto e di politica coloniale. Moro è stato, tra l’altro, Primo Ministro per 4 volte tra il 1963 e il 1976 per un totale di 5 anni e 2 mesi e Ministro degli Esteri per quasi 4 anni e mezzo tra il 1969 e il 1974, gli anni cruciali di perfezionamento del “Lodo”). 1
Stefano Giovannone: Ufficiale dei Carabinieri, ha fatto parte della scorta di Aldo Moro. Agli inizi degli anni ’70 fu inviato a Beirut come responsabile per il Sismi dell’area Medio Orientale. Fu il garante per il nostro Paese del “Lodo Moro”. Morì all’età di 64 anni nel luglio 1985 portando via con sé i segreti relativi alle trattative Stato/palestinesi.
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Ce lo dice l’unica fonte italiana che ne abbia mai parlato pubblicamente con cognizione di causa: Francesco Cossiga. A più riprese, in lettere e interviste, Cossiga ha detto di conoscere gli estremi dell’accordo, ma di non averlo mai visto “per iscritto”. In una delle sue ultime uscite sull’argomento, in una Lettera al Direttore pubblicata dal “Corriere della Sera” il 15 agosto 2008, così riassumeva la vicenda: «Caro Direttore (…) ho sempre saputo non da carte o informazioni ufficiali – che mi sono state sempre tenute segrete –, dell’esistenza di un “patto di non belligeranza” segreto tra lo Stato italiano e le organizzazioni della resistenza palestinese, comprese quelle terroristiche quali la Fplp (…). Questo patto fu ideato e concluso da Aldo Moro, che padroneggiava in modo eccezionale la materia e che aveva una straordinaria capacità di guida dei servizi di intelligence nonché delle forze speciali poste a loro ausilio e di cui disponeva direttamente saltando la scala normale gerarchica, a motivo della totale fiducia che gli uomini di questi apparati avevano per lui. Le clausole di questo patto prevedevano che le organizzazioni palestinesi potessero avere basi anche di armamento nel Paese, che avessero libertà di entrata e uscita e di circolazione senza essere assoggettati ai normali controlli di polizia (…). Nessuno mai disse di tutto ciò né quando fui sottosegretario alla Difesa con una delega politica, voluta da Moro, per la struttura Gladio, né da ministro dell’Interno, da presidente del consiglio e da inutile inquilino del Palazzo del Quirinale. Me ne accorsi però quando Moro mandò me, allora ministro, fortemente riluttante per scrupoli di correttezza e legalità di cui lui sorrise, ad incontrare la moglie e il figlio del generale Miceli, capo del servizio segreto militare, arrestato e in carcere con il mandato di che cosa egli dovesse dire o non dire o occultare sotto l’eccezione del segreto all’autorità giudiziaria. Me ne accorsi quando da ministro dell’Interno il Sds del Ministero scoprì che gli uomini dell’Olp erano dotati a difesa delle loro residenze di armi pesanti; poiché erano coperti da immunità diplomatica in quanto inquadrati nella rappresentanza diplomatica della Lega araba: mi fu detto di non preoccuparmi ed io riuscii a convincerli a dismettere l’artiglieria pesante e accontentarsi di quella leggera! Me ne accorsi durante il sequestro di Moro quando la polizia e i carabinieri mi riferirono che avevano sentore che si sviluppassero azioni parallele e vere e proprie trattative via terrorismo internazionale di sinistra sostenuto dall’Est servizi segreti della Jugoslavia e della Ddr-resistenza palestinese, con l’ausilio di strutture militari italiane, azioni aventi come scopo la liberazione di Moro attraverso scambi di prigionieri a livello internazionale. Infruttuosi i tentativi di un sottosegretario nominato ad hoc, di un ministro dell’Interno, di un presidente del consiglio e poi di un, se pur inutile, capo dello Stato, di sapere qualcosa. Certo mi meravigliai quando il capo di una organizzazione terroristica palestinese 23
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con un telegramma inviatomi tramite la nostra residenza del Sismi a Beirut mi intimò di restituirgli un missile terra-aria intercettato da una normale pattuglia della Stradale e pilotato per la strada da un noto esponente della sinistra extraparlamentare! In questo quadro è non solo verosimile ma probabile assai che la strage di Bologna sia stata causata dallo scoppio involontario di una-due valigie di esplosivo trasportate in base all’“accordo” da esponenti palestinesi e destinata a obiettivi esteri e non, come da accordi, italiani. E sorrido quando vedo gli uomini politici misurarsi tra di loro sui punti e le virgole delle leggi di riforma dei servizi di informazione, quando la riforma se la faranno “loro” quando vorranno e come riusciranno a farla anche in relazione ai rapporti di forza, non certo determinati del potere politico! E non pretendano i politici di conoscere i veri segreti di Stato: purtroppo non c’è più neanche la vigilanza del Partito Comunista che qualche volta ce ne metteva a parte!» Cossiga non ha visto il Lodo, ma si è accorto delle sue conseguenze e ce le elenca. Già, ma perché un paese come l’Italia, inserito stabilmente nella Nato, e come tale “alleato” di Israele, elabora una politica segreta di collaborazione con il terrorismo anti israeliano? Qualcuno sostiene che siamo il paese cattolico per eccellenza, e i “cattolici di vecchio stampo” per duemila anni hanno dato la colpa agli ebrei per la crocifissione del Cristo. Va bene, forse c’è un velo di antiebraismo di fondo nella politica di tradizione cattolica in Italia e quindi anche negli uomini che i vecchi democristiani hanno scelto per dirigere i servizi segreti. Ma ci sono fatti più concreti, più razionali ai quali dobbiamo guardare. Possiamo pensare che tutto inizi nel 1945, quando ancora Israele moderna non è stata fondata. Il 28 aprile 1945, 3 giorni dopo la fine in Italia della II Guerra Mondiale, il partigiano bianco Enrico Mattei3, 39 anni, marchigiano, ragioniere, figlio di un sottufficiale dei Carabinieri, venne nominato da Cesare Marzagora commissario liquidatore dell’Agip. Com’è noto, invece di vendere l’industria petrolifera creata dal fascismo, Mattei pensò che poteva essere tentata una operazione di risanamento e di espansione. Nel 1953, creando l’ENI, diede vita a una società petrolifera in grado di competere, almeno per certi aspetti, con quelle che lo stesso Mattei chiamava, con un’espressione che poi molti gli hanno copiato, le “Sette Sorelle”, le compagnie che allora detenevano in maniera quasi completa l’oligopolio mondiale del petrolio: cinque compagnie statunitensi, una Enrico Mattei naque ad Acqualagna il 29 aprile 1906. Fondò l’Eni nel 1953 e coraggiosamente ruppe l’oligopolio “delle sette sorelle” che dominavano l’industria petrolifera mondiale, attraverso un rapporto privilegiato col mondo arabo. Morì nel 1962 in un misterioso incidente aereo probabilmente provocato da chi a livello internazionale non apprezzò la sua coraggiosa politica industriale in campo energetico.
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inglese, e una anglo-olandese. Mattei aveva seguito una strategia ben precisa. Con alle spalle un paese che era uscito sconfitto dalla guerra e che aveva ceduto all’Inghilterra e alla Francia il controllo del Mediterraneo, Mattei pensò che, per ricominciare, l’Italia dovesse creare rapporti privilegiati con i paesi petroliferi del Medio Oriente e del Nord Africa. Nel 1957, per uscire dalla posizione marginale in cui le Sette Sorelle vorrebbero continuare a tenerlo, Mattei offre alla Persia (oggi Iran) un contratto in cui l’Agip tiene per sé solo il 25% dei profitti, la metà del classico 50% che le Sette Sorelle invece impongono a tutti gli stati sin dagli anni Venti. Il fatturato che produce l’Eni e il peso geopolitico che l’Italia ha inaspettatamente riconquistato nel Mediterraneo portano molti a sostenere che Mattei sia il vero ministro degli esteri italiano. Fino alla sua morte, nel noto e controverso incidente aereo nei cieli di Pavia il 27 ottobre 1962. L’Eni passa sotto la guida di Cefis, uomo più prudente, ma il lavoro di Mattei viene proseguito in prima persona dalla politica, che con i “cavalli di razza” democristiani, Moro e Fanfani, prosegue la marcia di avvicinamento ai paesi arabi, in cui si sommano l’ambizione di giocare un ruolo di potenza locale nel Mediterraneo e l’esigenza di garantirsi un accesso privilegiato alle fonti energetiche. Il grande disegno, secondo molti analisti, sembra completarsi nella notte tra il 31 agosto e il primo settembre 1969, quando un colpo di Stato progettato e preparato in un albergo di Abano Terme, in provincia di Padova, depone il re della Libia Idris, molto vicino all’Inghilterra, e lo sostituisce con il colonnello Gheddafi. In un libro recente due studiosi4 riassumono così la situazione: «Il 1969 segna il definitivo capovolgimento dell’esito della seconda guerra mondiale, dopo appena un quarto di secolo: il Regno Unito, tra le potenze vincitrici, ora è un’importante isola del Nord Europa, a cui resta, nel Mediterraneo, solo la rocca di Gibilterra; al contrario, l’Italia, nazione sconfitta, è diventata la potenza egemone nell’area ed esercita un’influenza crescente anche in Medio Oriente e nell’Africa nera». Se il lascito di Mattei era che l’Italia poteva riavere un ruolo internazionale importante legandosi ai paesi arabi, gli anni Settanta hanno dato alla politica italiana un motivo in più per coltivare i buoni rapporti con il Medio Oriente: il terrorismo palestinese. Come sia iniziata la storia del terrorismo palestinese è noto: subito dopo la Seconda Guerra Mondiale l’Occidente, sentendosi in colpa per l’aver agito tardivamente contro l’Olocausto, appoggiò la fondazione dello stato di Israele. Il Mario Josè Cereghino e Giovanni Fasanella, “Il golpe inglese. Da Matteotti a Moro”: le prove della guerra segreta per il controllo del petrolio e dell’Italia, Ed. Chiarelettere, 2011, pag. 238.
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problema è che, dopo due millenni di “diaspora”, ormai nelle terre bibliche di Israele non vivevano più gli ebrei, ma degli arabi autoctoni, e solo dopo la fine della Prima Guerra Mondiale poche decine di migliaia di “sionisti” avevano iniziato a tornare verso Gerusalemme. Sulle carte geopolitiche dell’epoca, la zona si chiamava “Palestina”. Lo stato di Israele fu fondato formalmente nel maggio 1948. Lo spazio vitale per i nuovi israeliani, inevitabilmente, è stato ottenuto riducendo lo spazio vitale per i vecchi palestinesi. L’occidente ha spalleggiato gli israeliani, gli arabi hanno spalleggiato i palestinesi, e la situazione si è ben presto fatta critica, violenta. Quattro guerre “convenzionali” (quelle con carri armati, bombardieri e navi) sono state combattute nel 1948, 1956, 1967 e 1973 tra tutti gli stati arabi confinanti (appoggiati dal blocco sovietico) e il giovane e piccolo stato di Israele, appoggiato dal blocco occidentale, soprattutto dagli Usa. Le guerre “convenzionali” hanno sempre visto la vittoria di Israele. Dopo la sconfitta del 1967, i leader palestinesi hanno imboccato con decisione la via del terrorismo internazionale. “Internazionale” perché al terrorismo “locale” avevano fatto ricorso sino ad allora entrambe le fazioni. Dopo la sconfitta nella Guerra dei Sei Giorni del ’67, i palestinesi decisero di allargare il raggio d’azione e di attaccare gli interessi di Israele in tutto il mondo. Non solo gli interessi di Israele, però, ma anche quelli di tutti quei paesi che con Israele collaboravano, o comunque di quei paesi che con Israele avevano relazioni, spesso anche solo economiche. Questo, nelle intenzioni, avrebbe indotto l’occidente ad allentare i vincoli di solidarietà con Israele, e contemporaneamente avrebbe costretto gli “Ebrei” a stare sulla difensiva in ogni angolo del mondo, obbligandoli a un immane e costosissimo lavoro di “security”. Mi scuso per la stringatezza della narrazione che obbliga a una certa superficialità, ma così stanno le cose quando, il 23 luglio 1968, l’Italia si trova suo malgrado a salutare l’esordio della strategia dei dirottamenti aerei e il primo dirottamento della storia d’Europa5. Quel giorno, poco dopo il decollo da Roma-Fiumicino, tre componenti del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina dirottano il volo El Al tra Roma e Tel Aviv con 48 persone a bordo, facendolo atterrare ad Algeri. Qui, con la collaborazione delle autorità locali, terranno prigionieri gli ostaggi israeliani per 39 giorni, fino a quando Israele non acconsentirà a liberare 16 palestinesi detenuti per atti di terrorismo. Al termine del dirottamento, il goPer essere precisi, alcuni analisti ritengono che l’esordio del terrorismo palestinese in campo aereonautico possa essere avvenuto il 12 ottobre 1967, quando un’esplosione a bordo ha fatto precipitare nel Mar Egeo un aereo in volo da Atene a Cipro, uccidendo tutte le 66 persone a bordo, ma manca un’interpretazione univoca del fatto.
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verno algerino ritenne di non dover arrestare i dirottatori. L’azione ottenne molta attenzione dai media, e non a caso Zehdi Lahib Terzi, l’uomo che per 16 anni guidò la delegazione palestinese all’Onu, in un’intervista al “New Yorker” disse: «Il sequestro del Volo 426 ha contribuito alla sensibilizzazione del mondo alla nostra causa risvegliando l’attenzione dei mass media molto più efficacemente di vent’anni di discussioni alle Nazioni Unite». Al primo dirottamento partito da Roma6 hanno fatto seguito negli anni successivi almeno 110 episodi di attacchi agli aerei, compresi i “classici” dirottamenti, ma anche aerei attaccati mentre si trovavano a terra, aerei fatti esplodere in volo e i casi in cui una bomba nascosta a bordo non ha funzionato o è stata trovata per tempo. Solo gli attacchi agli aerei e/o aeroporti hanno causato più di 1200 morti e poco meno di 500 feriti. L’Italia è stata teatro di un altro dirottamento il 29 agosto 19697. Il 28 luglio 1971 i controlli aggiuntivi che la El Al faceva sui propri passeggeri hanno sventato un primo tentativo di caricare una bomba a bordo di un aereo in partenza da Roma8. L’Italia viene poi colpita a terra: il 4 agosto 1972 una serie di bombe fanno esplodere quattro serbatoi del terminale petrolifero del porto di Trieste, all’epoca il più grande del Mediterraneo, un impianto strategico per l’Unione Europea e per la NATO. 140mila tonnellate di petrolio bruceranno per giorni, oscurando l’intera regione9. Dodici giorni dopo nel mirino torna Roma. Il 16 agosto 1972, dopo diversi tentativi falliti in altre parti del mondo, i palestinesi riescono a far esplodere una bomba su un aereo della El Al appena decollato da Fiumicino. Il piTrattandosi di un volo Roma-Tel Aviv è ragionevole immaginare che a bordo ci fossero diversi italiani, o al limite israeliani di origine italiana. Non ho trovato però una lista dei passeggeri, quindi non ho riscontri. 7 Poco dopo il decollo da Fiumicino, sul cielo di Brindisi, viene dirottato il volo TWA 840 (Roma-Atene-Tel Aviv) con 113 persone a bordo. I 2 dirottatori, saliti allo scalo di Roma-Fiumicino sono Leila Khaled e Salim Issaoui e dicono di appartenere alla Brigata Che Guevara del Movimento di Liberazione della Palestina. L’aereo, dirottato a Damasco, evacuato dei passeggeri, viene fatto esplodere. Quattro donne israeliane vengono trattenute dalle autorità siriane fino al 1° settembre. Due uomini israeliani in ostaggio vengono trattenuti per 6 settimane dalle autorità siriane e scambiati con due piloti siriani detenuti in Israele. Altre fonti dicono che lo scambio di prigionieri è avvenuto a dicembre, e ha riguardato 71 militari egiziani e siriani. 8 Dei giovani arabi consegnano una valigia contenente una bomba a un’ignara ragazza olandese che sta per imbarcarsi su un volo Roma-Tel Aviv. 9 In tutto si conteranno diciassette feriti e diversi comuni evacuati (Dolina, Ceresana, Bagnoli). Il 6 agosto, con un dispaccio lanciato da Damasco e diramato dall’agenzia Wafa di Beirut, la paternità dell’attentato viene rivendicata da “Settembre Nero”. Settembre Nero è uno dei vari gruppi della galassia terroristica palestinese. Prende il nome dalla repressione, iniziata il 16 settembre 1970 da Re Hussein di Giordania contro i campi militari palestinesi ospitati nel suo territorio. La repressione, sanguinosissima, fu la risposta a una serie di attentati operati da palestinesi residenti in Giordania. Nel suo libro, Stateless, Salãh Khalaf (Abu Iyãd), capo della sicurezza di Arafãt e membro fondatore di al-Fatah, scrisse che: «Settembre Nero non era un’organizzazione terroristica, ma era piuttosto un’unità ausiliaria del movimento di resistenza, in un periodo in cui quest’ultimo non era in grado di realizzare pienamente il suo potenziale politico e militare. Gli appartenenti negarono sempre qualsiasi legame tra la loro organizzazione e al-Fatah o l’OLP». 6
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lota ha modo di effettuare un atterraggio di emergenza a Fiumicino e salvare i 148 passeggeri perché nel frattempo sugli aerei israeliani le stive dei bagagli erano state blindate e l’esplosione aveva quindi sfogato verso l’esterno, non verso l’interno10. Forse, il 15 settembre 1973 a Roma viene sventato all’ultimo momento un attentato contro l’aereo che da Israele ha portato il Primo Ministro Golda Meir in Italia da Papa Paolo VI per un’udienza privata (così dovevano essere gli incontri, visto che ufficialmente il Vaticano non riconosceva la legittimità dello stato di Israele)11. Segue una serie di eventi minori, come alcuni arresti alla frontiera con l’Austria di palestinesi armati di tutto punto12, l’invio, da un ufficio postale di Roma, di lettere-bomba indirizzate a obiettivi israeliani in tutto il mondo13, arresti alla frontiera con la Francia di un commando di Settembre Nero14 e un attacco all’aeroporto di Fiumicino sventato all’ultimo momento15. Due settimane dopo, il 27 aprile1973, a Roma, Vittorio Olivares, viene ucciso per sbaglio da un terrorista palestinese16 che, arrestato, dice di averlo scambiato per il Caposcalo a Roma della EL AL. Il 17 giugno 1973 a Roma vengono arrestati due arabi dopo l’esplosione accidentale di un detonatore avvenuta su un taxi a bordo del quale trasportavano un ordigno da loro stessi confezionato17. La bomba era nascosta in un “mangianastri” che due giovani arabi, Ahem Zahid e Ali Ashen, avevano regalato a due ignare ragazze inglesi conosciute poco prima a Roma. I due verranno processati all’inizio del 1973, prosciolti e scarcerati. L’azione era stata rivendicata dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina - Comando Generale. 11 Alcune fonti, citando “informazioni riservate”, indicano che subito prima dell’arrivo della Meir a Roma un commando palestinese dislocato su due furgoni e armato di alcuni lanciamissili Strela si era appostato all’esterno dell’aeroporto di Fiumicino per colpire l’aereo in arrivo da Israele con la Meir a bordo, e solo un intervento dell’ultimissimo minuto da parte di agenti del Mossad avrebbe sventato la minaccia. La circostanza non sembra chiara e non compare esplicitamente negli organi di stampa dell’epoca. Le fonti parlano di un’azione “segreta” e in quanto tale non indicano riscontri precisi. Molte fonti indicano come data dell’attentato contro la Meir il 5 settembre 1973 (vedi avanti), data in cui cinque palestinesi armati di lanciamissili Strela vengono arrestati a Ostia, anche in questo caso con l’accusa di voler abbattere un aereo della El Al. Questo arresto di settembre è ben riportato sui media, ma a settembre non sembra esserci stata nessuna visita della Meir in Italia, quindi la circostanza, a oggi, non è chiara. Alcune ipotesi vorrebbero che gli arresti fossero eseguiti effettivamente a gennaio 1973, ma resi noti, per qualche motivo, solo a settembre, inscenando per la stampa un nuovo arresto. Non è chiara l’utilità di una tale, eventuale, manovra. 12 27 gennaio 1973. 13 Spedite il 31 gennaio 1973. 14 15 marzo 1973. Secondo la polizia italiana, dovevano colpire le ambasciate di Israele e di Giordania. 15 Il 4 aprile 1973 due cittadini iraniani, Akbar Mirzaqa Ghoulam e Riza Shirazi Bahrami, sono arrestati all’aeroporto di Fiumicino perché trovati in possesso di due pistole e sei bombe a mano. Si preparavano ad attaccare il check-in della El Al. Saranno processati per direttissima e condannati a quattro anni e mezzo di reclusione. L’Fplp ne chiederà la remissione in libertà e il 9 agosto i due, dopo il pagamento di una cauzione, saranno scarcerati. 16 Secondo alcune fonti l’attentatore era lo studente siriano Moulhan Saif-Din Al Mamoun, secondo altre fonti Zaharia Abou Saleh, 23 anni, libanese. L’agguato è avvenuto in via XX Settembre. 17 Hamit Abdue Shilby, cittadino giordano, e Abdel Hadi Nakoa, cittadino siriano, saranno scarcerati nell’agosto successivo e faranno perdere le loro tracce: il giordano imbarcandosi su un aereo all’aeroporto di Milano-Linate, il siriano facendosi accompagnare a Napoli. 10
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Si arriva al 5 settembre 1973. Sembra sia questa la data in cui i servizi segreti italiani,18 grazie a informazioni fornite dagli israeliani, catturano, in un appartamento presso Ostia, cinque terroristi che stavano preparando un attentato con lanciamissili terra-aria Strela di fabbricazione sovietica, con i quali avrebbero dovuto colpire un aereo della compagnia di bandiera israeliana El Al19 durante la fase di decollo o atterraggio, quando l’aereo è più lento. Anche in questo caso molte fonti, probabilmente facendo confusione, parlano di un possibile attentato contro Golda Meir20. Al ministero degli Esteri italiano giungeranno dall’Olp sollecitazioni per il rilascio dei detenuti, con l’impegno di non tentare altre azioni terroristiche in Italia. Le sollecitazioni saranno accolte. Il 30 ottobre 1973, in base a direttive impartite al direttore del Sid generale Vito Miceli dal presidente del Consiglio Mariano Rumor e dal ministro degli esteri Aldo Moro, due dei terroristi, Al Tayeb Al Fergani e Ahmed Ghassan, ottengono, su cauzione, la libertà provvisoria. Il 31 ottobre vengono imbarcati e trasportati segretamente in Libia su un aereo del Sid denominato “Argo16”.21 Ad accompagnare in Libia i terroristi ci sono quattro ufficiali del SID: il colonnello Giovan Battista Minerva, il capitano Antonio Labruna, il colonnello Stefano Giovannone e il tenente colonnello Enrico Milani. Il colonnello Giovannone è un elemento centrale in tutta la vicenda del Lodo Moro, lo ritroveremo spesso “sulla scena del delitto”. Il controspionaggio del SID, l’Ufficio D, diretto dal generale Gian Adelio Maletti. I cinque arrestati sono: Ali Al Tayeb Al Fergani, Ahmed Ghassan Al Hadithi, Amin El Hindi (che risulterà essere il numero due dei servizi di sicurezza di Al Fatah e braccio destro di Abu Ayad), Gabriel Khouri, Mohammed Nabil Mahmoud Azmi Kanj. Secondo alcune fonti, vero bersaglio dell’attentato sarebbe stata la primo ministro israeliana Golda Meir. Questa versione sarebbe stata tenuta nascosta alla stampa a causa del grave imbarazzo che avrebbe causato ai servizi segreti italiani che non erano stati in grado di prevenire il fatto. 20 Questa opzione viene data per certa da molte fonti, soprattutto filo-israeliane e anglosassoni. La conferma una fonte insospettabile: Nemer Hammad. Hammad in quegli anni (e fino al 2005) era il “delegato nazionale palestinese a Roma”, definizione complicata per uno stato che, non esistendo formalmente, non può avere un vero e proprio “ambasciatore”. Ha raccontato Hammad in un’intervista: «A Roma c’era stato il fallito attentato a Ostia, dove dei palestinesi di Al Fatah avevano cercato di colpire con un missile l’aereo di Golda Meir.» I ricordi di Hammad purtroppo non sono chiari sulla data, anche se il riferimento a Ostia invece che a Fiumicino potrebbe indicare l’episodio di settembre piuttosto che quello di gennaio. L’intervista a Hammad è contenuta nel libro di Alberto La Volpe, Diario segreto di Nemer Hammad, ambasciatore di Arafat in Italia, Editori Riuniti 2002, pag. 45. 21 L’aereo aveva il nome in codice “Argo 16”, e, com’è noto, precipiterà in circostanze mai chiarite a Marghera tre settimane dopo, il 23 novembre 1973, causando la morte dei quattro membri dell’equipaggio. Nel corso delle indagini del giudice Carlo Mastelloni, che sospettava la responsabilità dei servizi segreti israeliani come ritorsione per la liberazione dei terroristi palestinesi, i servizi segreti italiani (nella persona del direttore del Sismi, l’ammiraglio Fulvio Martini) nel 1988, appellandosi al Segreto di Stato, rifiutarono di fornire la lista delle missioni svolte recentemente dal velivolo. La decisione dei Servizi fu confermata il 25 giugno 1988 dal primo ministro in carica, Ciriaco De Mita, e l’anno dopo, il 3 agosto, formalizzata definitivamente con un voto all’unanimità del comitato parlamentare per i servizi di sicurezza presieduto dal democristiano Mario Segni. 18 19
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E probabilmente è nell’arco di queste giornate che nasce il Lodo Moro. Ha raccontato il rappresentante dell’Olp in Italia, Nemer Hammad in un’intervista: «A Roma c’era stato il fallito attentato a Ostia, dove dei palestinesi di Al Fatah avevano cercato di colpire con un missile l’aereo di Golda Meir. E gli attentatori furono arrestati (…) Il colonnello Giovannone fece venire in Italia, clandestinamente, una “delegazione” palestinese alla quale fu permesso di parlare con i loro connazionali detenuti. Il risultato della missione fu positivo per l’Italia. Nel senso che i palestinesi detenuti furono segretamente rilasciati con l’impegno che non ci sarebbero stati più attentati in Italia22». Gli altri tre palestinesi arrestati con i lanciamissili sono invece trattenuti in carcere e l’apertura del processo per loro è prevista per il 17 dicembre. Il 17 dicembre 1973, il giorno del processo, all’aeroporto di Fiumicino è entrato in azione un commando di 5 uomini di Settembre Nero che, nell’arco di 16 ore, uccide 32 persone e ne ferisce gravemente altre 18. L’azione inizia con un assalto a un aereo Pan American in attesa di decollare per Beirut con 69 persone a bordo. Il lancio di alcune granate incendiarie al fosforo dentro i portelloni dell’aereo provoca 30 morti e 18 feriti. 4 morti sono italiani: i terroristi chiedono la liberazione di 2 palestinesi detenuti in Svizzera. A seguire, i terroristi uccidono un agente della guardia di finanza, Antonio Zara, sequestrano 5 poliziotti italiani e un dipendente dell’aeroporto, si impadroniscono di un aereo della Lufthansa e decollano per Atene portandosi al seguito l’equipaggio dell’aereo tedesco e i 6 ostaggi italiani. Da Atene, dopo aver ucciso un ostaggio italiano, Domenico Ippoliti, ripartiranno per Damasco, e poi per il Kuwait, dove nella tarda serata del giorno 18 la fuga si concluderà e saranno liberati i cinque poliziotti italiani e i membri dell’equipaggio dell’aereo tedesco. Qui i dirottatori vengono «presi in consegna dall’Olp» (sic). Verranno messi agli arresti a Tunisi. La loro liberazione verrà chiesta (e ottenuta) durante il dirottamento del volo British Airways del 22 novembre 197423. La dichiarazione di Hammad, la descrizione dell’atto di nascita del Lodo Moro, è nel libro di Alberto La Volpe, Diario segreto di Nemer Hammad, ambasciatore di Arafat in Italia, Editori Riuniti 2002, pag. 45. 23 La vicenda innescherà in Italia una polemica tra il ministro dell’interno Taviani e il generale Gianadelio Maletti del Sid, che dirà di avere preavvertito il ministro di quanto stava per accadere. Il ministro smentirà. L’inchiesta sulla strage non approderà a risultati concreti. Scrive Miguel Gotor, nel libro Il memoriale della Repubblica: «La notizia relativa al presunto ruolo svolto dal servizio segreto militare Italiano [nell’attentato di Fiumicino, NdR] non ha trovato finora riscontri certi, ma l’allora sottosegretario alla Difesa Pietro Buffone e il generale della guardia di finanza Vittorio Emanuele Borsi hanno testimoniato che la strage, organizzata dai servizi segreti libici, ebbe l’assenso del capo del SID Miceli […] Soltanto nel maggio 1989 la Cassazione confermò in via definitiva la condanna all’ergastolo per Abu Nidal, riconoscendolo come mandante dell’attentato». Il governo italiano scagiona la Libia, perché non può permettersi di mettere a repentaglio i rapporti con Tripoli. Le 6 vittime Italiane sono: Antonio Zara, agente della Guardia di Finanza, Domenico Ippoliti, caposquadra della società ASA, e, morti per le bombe 22
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In Italia, sei mesi dopo, nel marzo 1974, gli ultimi 3 attentatori di Ostia verranno scarcerati dietro il pagamento di una cauzione di 60 milioni di lire versata dai nostri Servizi. Come tutti i detenuti in libertà provvisoria non dovrebbero lasciare il paese in attesa del processo. Inutile dire che anche di loro, immediatamente, si perdono le tracce. Dalla velocità con cui, sin dai primissimi attentati in Italia, i terroristi palestinesi vengono scarcerati e riaccompagnati a casa, si deduce che una certa propensione a “non immischiarsi” da parte delle nostra autorità è sempre esistita. Ma il Lodo è qualcosa di più. Tutti i principali analisti che recentemente hanno tentato di ricostruire per tabulas la genesi del Lodo Moro concordano che l’accordo è stato raggiunto nel corso del 1973, ma non c’è certezza sul mese. Sono agli atti di diverse inchieste giudiziarie i fonogrammi riservati che Giovannone in quell’anno inviava a Moro sollecitando l’accordo «perché se non lo firmiamo noi, lo faranno altri», ma poi i dati acquisiti sembrano, almeno in parte contraddirsi: se gli italiani già scarceravano rapidamente i palestinesi nell’ottobre 1973, perché nel dicembre di quello stesso anno c’è la sanguinosissima strage di Fiumicino?24 Le ipotesi sono diverse, ma già all’epoca25 un coraggioso giornalista, Pietro Zullino, raccoglie, e soprattutto pubblica, lo sfogo di un ufficiale dell’intelligence italiana, il capitano Corrado Narciso, fratello di una delle vittime dell’attentato di Fiumicino26. Zullino trova e consegna al giudice Rosario Priore, incaricato delle indagini, le prove che il nostro servizio segreto militare (che allora si chiaincendiarie, Raffaele Narciso, ingegnere, Giuliano De Angelis, funzionario dell’Alitalia, la moglie Emma Zanghi e la figlia Monica De Angelis, di nove anni. Vedi anche il volume di Salvatore Lordi e Annalisa Giuseppetti Fiumicino 17 dicembre 1973. La strage di Settembre Nero, Rubbettino, 2010, pag. 182). Secondo gli autori, questa è una strage che non solo è impunita, ma anche senza memoria. Non c’è stata una vera inchiesta, non c’è una ricorrenza storica, nell’aeroporto di Roma c’è solo una targa che si vede a malapena dedicata ad Antonio Zara che non specifica i motivi della morte. Il giudice Rosario Priore ha tenuto l’inchiesta per un anno e conosceva i nomi dei responsabili, ma non è stato supportato dai politici. Non sono state chieste le rogatorie internazionali per portare e giudicare queste persone in Italia. Agli inizi del 1974 il ministro Moro si recò in vari paesi del Medio Oriente, ma non avanzò nessuna richiesta. Il motivo di questa scelta non lo conosco. Forse era ancora in piedi il Lodo Moro (…). Quei terroristi poi hanno trovato la morte per regolamenti di conti interni alle varie fazioni di guerriglieri palestinesi, furono uccisi dalla Forza 17 di Arafat. Va detto anche che le agenzie palestinesi di quell’epoca condannarono apertamente il gesto di Settembre Nero. 24 (Nota: le “stragi palestinesi di Fiumicino” sono 2. La seconda è avvenuta il 27 dicembre 1985. Verrà descritta brevemente più avanti. 25 Marzio Bellacci, Raffaello Uboldi e Pietro Zullino, Fiumicino. Perché è accaduto, “Epoca” n. 1212/1213, 30 dicembre 1973, pp. 28-38; Pietro Zullino, Fiumicino. Un ufficiale accusa il governo, “Epoca” n. 1215, 13 gennaio 1974, pp. 18-19; Pietro Zullino, Abbiamo portato al giudice il documento su Fiumicino. Perché il capitano Corrado Narciso ha deciso di parlare, “Epoca” n. 1216, 20 gennaio 1974, p. 16 (Corrierino di Roma) 26 (Nota: il Capitano Corrado Marciso, in forza al SIOS, i servizi informativi dell’Aeronautica Militare, è fratello dell’ingegnere dell’Eni Raffaele Narciso, una delle vittime arse vive dalle granate al fosforo lanciate nei portelloni del Boeing 707 della Pan American)
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mava Sid) aveva più volte segnalato alle autorità politiche l’imminenza di un attentato palestinese. Zullino da Roma e alcuni articoli del “Times” da Londra27 individuano il ruolo della Libia, che avrebbe finanziato un gruppo di palestinesi dissidenti per punire l’Italia di aver aperto trattative (attraverso, ovviamente, l’Eni) con l’Arabia Saudita per una grossa fornitura di petrolio. Questa è una costante del Lodo Moro: l’accordo raggiunto con la componente maggioritaria di Fatah (la corrente di Arafat rappresentava circa il 60% del movimento palestinese) era una garanzia forte, ma non assoluta. Basti pensare che nel corso degli anni più intensi del terrorismo palestinese le varie fazioni hanno stretto alleanze con gruppi rivoluzionari di mezzo mondo e con molti servizi segreti. Le liste dei principali attentati antiebraici di quel periodo vedono spesso la corivendicazione, assieme ai vari gruppi palestinesi, dei tedeschi, prima della Baader-Meinhof e poi dalla Raf, degli italiani dei Comitati Comunisti Rivoluzionari e delle Brigate Rosse28, dei nipponici dell’Armata Rossa Giapponese, del Fronte Farabundo Martì, addirittura di un gruppo nord coreano, dell’Esercito Segreto per la Liberazione dell’Armenia, l’“Esercito di Liberazione Nazionale Nucleo Ernesto Che Guevara in solidarietà con il popolo palestinese” o il Movimento 19 Aprile della Colombia, in Cile il Fronte patriottico Manuel Rodriguez, in Danimarca l’“Autonomia Anti Sionista” e “Toffah”, le “Aquile dell’Unità Nazionale” in Yemen. In Turchia il “Fronte Marxista Leninista della Propaganda Armata contro Camp David e I “Figli della Terra”, e l’Organizzazione della Vendetta Islamica, in Libano, dove le sigle “tradizionali” palestinesi, tradizionalmente laiche e marxiste, gradualmente hanno lasciato il posto a formazioni più attente alla religione, come le Farl, Amal, la Brigata Nera, la Jihad Islamica e infine Hezbollah e Colonel Gaddafi ‘uses oil revenues to finance terrorism’», “The Times”, 4 gennaio 1974; Evidence of Gaddafi financing of terrorism, “The Times”, 17 gennaio 1974; Terrorists’ air tickets ‘issued in Libya’, “The Times”, 21 gennaio 1974. Rome treats Gaddafi story with caution, “The Times”, 7 gennaio 1974; Italians discuss report in ‘The Times’, “The Times”, 24 gennaio 1974.) 28 Le Brigate Rosse hanno rivendicato assieme alle Farl, gruppo libanese dove erano confluiti molti fuoriusciti del FPLP, l’omicidio avvenuto a Roma il 15 febbraio 1984, del diplomatico statunitense Leamon Hunt, responsabile logistico-amministrativo della Forza Multinazionale nel Sinai. L’azione è stata rivendicata dalle Br-Pcc (Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente) e della Frazione Armata Rivoluzionaria Libanese con un documento nel quale, a fronte del riacutizzarsi delle tensioni internazionali, viene affermata la necessità di un intervento antimperialista. L’azione è stata infatti compiuta congiuntamente. Dall’autorità giudiziaria di Roma saranno accusati dell’omicidio anche quattro cittadini arabi in quanto appartenenti alla Farl: i libanesi Josephine Abdo, Fayes Daher e Jacqueline Esber e il marocchino Abdallah El Mansouri. Gli imputati italiani delle Brigate Rosse saranno tutti assolti. In precedenza, nel novembre 1979, emissari del FPLP avevano consegnato, a Cipro, un carico di armi a un gruppo di brigatisti che le aveva trasportate in Italia a bordo di una barca a vela, il “Papago” nella quale erano Mario Moretti, Riccardo Dura, Andrea Varisco, Sandro Galletta e Massimo Gidoni. Il materiale, destinato a varie organizzazioni terroristiche europee, comprendeva fucili mitragliatori, bazooka, bombe anticarro e antiuomo, esplosivo plastico (600 kg), detonatori di vario tipo e migliaia di cartucce. Un carico simile era arrivato in Italia, sulle coste laziali, anche nell’agosto 1978. In quel caso i destinatari furono i CoCoRi (Comitati Comunisti Rivoluzionari). 27
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le mille trasformazioni dei gruppi di obbedienza iraniana, irachena, sciita, libica, siriana… in Perù Sendero Luminoso e i Tupac Amaru, negli Usa le Pantere Nere e poi, collaborazioni occasionali con gruppi jugoslavi, dell’Africa sub sahariana, e anche qualcosa in India e Pakistan. Insomma una ragnatela infinita di rapporti. Tutto questo solo per dire che il Lodo Moro aveva un suo senso. Il terrorismo palestinese esisteva, era ben organizzato, era in grado di colpire ovunque, aveva occhi e orecchie da mille parti, armi esplosivi e documenti falsi che viaggiavano nelle valigie diplomatiche e spesso aveva anche il consenso dei media e di molte cancellerie. Non è strano che gli italiani abbiano cercato il compromesso con i palestinesi. Un compromesso che non sempre ha funzionato. Come dicevamo all’inizio di questo capitolo, dopo Olivares e i 32 morti della prima strage di Fiumicino, ci sono stati almeno altri 49 morti “di pertinenza italiana”, compresa la seconda strage palestinese rimossa dalla storia del nostro paese: la seconda strage di Fiumicino, quella del 27 dicembre 1985. Quel giorno 4 uomini di Al Fatah Consiglio Rivoluzionario (l’organizzazione di Abu Nidal) attaccano, con AK 47 e bombe a mano, i banchi di accettazione della El AL e della Twa all’aeroporto Leonardo da Vinci, uccidendo 13 persone e ferendone 6529. Moro era morto nel 1978, il colonnello Giovannone era morto durante l’estate del 1985 e forse per qualcuno era venuto il momento di rompere definitivamente il lodo. Ma vediamo brevemente cosa “tecnicamente” sia stato il lodo per uno dei suoi protagonisti. Bassam Abu Sharif, portavoce del Fplp e consigliere speciale di Yasser Arafat, in un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera” il 14 agosto 200830, così lo spiega: «Ho seguito personalmente le trattative per l’accordo. Aldo Moro era un grande uomo, un vero patriota. Voleva risparmiare all’Italia qualche mal di testa. Non l’ho mai incontrato. Abbiamo discusso i dettagli con un ammiraglio, gente dei servizi segreti, e con Stefano Giovannone. Incontri a Roma e in Libano. L’intesa venne definita e da allora l’abbiamo sempre rispettata [...]» e ancora: «Ci veniva concesso di organizzare piccoli transiti, passaggi, operazioni puramente palestinesi, senza coinvolgere italiani. Dovevamo informare le persone opportune: stiamo trasportando A, B, C… Dopo il patto, ogni volta che venivo a Roma, due auto di scorta mi aspettavano per proteggermi. Da parte nostra, garantivamo Le vittime sono 13, di 5 nazionalità: 4 greci: Paternia Fotiadi di 24 anni, Meidani Efrosini, 50 anni, Demetrio Arghiropulos, 72 anni, Adam Meletios di 58 anni; 2 messicani: Donato Miranda Acosta di 53 anni e Genoveva Jaime Cisneros di 25 anni; 4 americani: Frederick Cage, Don Melend di 31 anni, Natascia Sophie Simpson di 12 anni e John Buonocore di 20 anni; 1 algerino: Mustaphà Diedda di 21 anni e 2 Italiani: Francesco Della Scala di 57 anni e Elena Tommarello. Oltre a 65 feriti. Anche 3 terroristi vengono uccisi dalla pronta reazione degli agenti israeliani di stanza a Fiumicino, mentre il capo del commando Mohammed Sharam viene catturato vivo. 30 “Corriere della Sera”, 14 agosto 2008, pagina 19, intervista di Davide Frattini. 29
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anche di evitare imbarazzi al vostro Paese, attacchi che partissero direttamente dal suolo italiano», specificando che a essere informati fossero i servizi segreti italiani. Nei lavori della Commissione Mitrokhin emergono molti documenti, atti e personaggi che ruotano attorno al Lodo Moro e alla sua attuazione. A cominciare dalla figura principale, il vero artefice, la longa manus usata da Moro in questa trattativa: il colonnello dei carabinieri e ufficiale del Sismi Stefano Giovannone. Giovannone è conosciuto come il Lawrence d’Arabia italiano per i tanti anni passati a Beirut e per il suo ruolo chiave nei rapporti tra il nostro paese e il mondo arabo negli anni Settanta e primi anni Ottanta. La strage di Bologna del 2 agosto 1980 rientra a pieno titolo nella gestione del Lodo Moro. Vi rientra per il clima di minaccia di ritorsione che si era creato un anno prima per l’arresto del rappresentante del Fplp in Italia, Abu Saleh, a causa del sequestro dei missili a Ortona appartenenti a quella organizzazione. Vi rientra per le persone che erano presenti quel giorno a Bologna e che non erano lì casualmente, come qualcuno ha voluto farci credere. Vi rientra per i tanti atti omissivi compiuti dagli organi inquirenti nel corso delle indagini sulla strage, in collaborazione con i nostri servizi, che tra l’altro operarono diversi depistaggi sempre e solo con uno scopo: tenere segreto il Lodo Moro. L’obiettivo della segretezza era vitale, sia per gli interessi nazionali e la salvaguardia dei rapporti con il mondo arabo, sia perché qualora si fosse arrivati a una pubblica conoscenza del Lodo Moro si sarebbe dovuto affrontare anche l’inquietante paradosso della morte di Moro. Il primo aspetto era sicuramente molto delicato, perché avrebbe messo in discussione una linea di politica estera che l’Italia portava avanti dai tempi di Enrico Mattei e che aveva garantito un rapporto preferenziale dell’Italia con il mondo arabo rispetto ad altri paesi occidentali: in fin dei conti il Lodo Moro è figlio delle scelte di Enrico Mattei. Ma il secondo aspetto è ancor più inquietante; infatti, come è emerso dai documenti della Mitrokhin e da diversi processi svolti in Italia, dal traffico d’armi ed esplosivi dei palestinesi traevano giovamento anche le Brigate Rosse, ossia quella stessa organizzazione terroristica che, per un clamoroso e cinico destino, uccise barbaramente Aldo Moro, ossia l’artefice di quel lodo. Non a caso emergono documenti che dimostrano il tentativo estremo di salvare il leader democristiano, soprattutto da parte dei suoi famigliari ma anche da parte di Giovannone, proprio attraverso l’intervento del Fplp, come ci ricorda 34
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anche lo stesso Abu Sharif nella sua intervista. Tentativi purtroppo andati a vuoto, ma che sono uno dei paradossi di tutta questa vicenda. Addirittura Carlos “Lo Sciacallo” in più di un’occasione ha detto di aver collaborato alle trattative per liberare Moro. Tra la morte di Moro, la strage di Bologna e tutte le vicende a essa collegate, a cominciare dai depistaggi effettuati durante le indagini, c’è un filo conduttore: si chiama Lodo Moro o Lodo Mattei ed è la nostra politica estera con il mondo arabo. Solo attraverso questa lettura si riesce a rendere comprensibile una vicenda sicuramente complessa, ma che volutamente è stata resa difficilmente intelligibile ai più, per mantenere il riserbo su una questione di interesse nazionale.
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