BUIO COME IL VETRO (Giorgio Baietti, Minerva Edizioni)

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giorgio baietti

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Gli uccelli che erano sugli alberi gli parlavano e lui capiva; avevano iniziato a raccontargli tutto quello che ascoltavano dai sospiri degli uomini in ogni tempo e in ogni spazio. E quel giorno gli avevano confidato quello che a lui interessava e serviva maggiormente. I due vetri non erano nient’altro che un mezzo, potentissimo, favoloso, tutto quello che vuoi, ma solo un mezzo per permettere agli uomini di aprire gli occhi veramente e vedere la vera essenza delle cose. Era una seconda nascita, la visione di un neonato fatta con gli occhi di un adulto.

buio come il vetro

Giorgio Baietti, laureato in Lettere e in Sociologia, è insegnante e giornalista, oltre che studioso di storia alternativa ed esoterismo. Dal 1986 si occupa del mistero di Rennes-le-Château, dove è praticamente di casa e trascorre diversi periodi dell’anno. È autore del libro su Rennes-le-Château che ha riscosso maggiore successo in Italia (L’enigma di Rennes-leChâteau, Edizioni Mediterranee, 2003), del thriller I guardiani del tempo (PIEMME, 2009) e di altri saggi e racconti sullo stesso tema. Da molti anni tiene conferenze e seminari in tutta Italia e ha partecipato a diverse trasmissioni televisive (RAI, Mediaset) e radiofoniche.

MINERVA

Giorgio Baietti

buio come

il vetro Minerva

Una storia vera e incredibile allo stesso tempo; la realtà e la fantasia si fondono e mai parola fu più appropriata! Il protagonista è, infatti, il vetro; un vetro miracoloso che dal Medioevo arriva ai giorni nostri, passando per le mani di un cardinale amico di Leonardo da Vinci che per nasconderlo fa costruire una chiesa bizzarra e piena di simboli alchemici e dove, nell’Ottocento un parroco sarà assassinato la notte del suo compleanno perché, forse, aveva capito qualcosa di questo grande mistero. E il mistero avvolge anche la straordinaria e improvvisa ricchezza di un altro parroco che, nello stesso periodo, a pochi chilometri di distanza, costruisce un piccolo impero in un paese in cui, dal Medioevo, si fabbrica proprio il vetro. Poi il buio e il silenzio coprono tutto, fino ai giorni nostri, quando un timido insegnante agli esami di Maturità deve correggere la tesina di una strana e bellissima studentessa dal titolo “Pink Stones”, dedicata a due rockstar, Syd Barrett e Brian Jones, fondatori, rispettivamente, dei Pink Floyd e dei Rolling Stones e alla loro ossessione per un pezzo di vetro! Ovviamente lui ne vorrebbe sapere di più ma la ragazza scompare il giorno precedente gli orali e la sua ricerca proietterà il professore dentro un mondo che è quello di tutti i giorni, ma con piccoli particolari inquietanti e popolato di personaggi che non sono mai quello che sembrano. Solo guardando attraverso quel vetro antico si può trovare la soluzione all’enigma ma non tutti gli occhi possono farlo, altrimenti la luce non cancellerà mai il buio. Mai!


Dedicato a Magnus e Bunker perché Alan Ford è un universo di emozioni in otto lettere Dedicated to Brian and Syd wherever they are…



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PRIMO “Una cosa impossibile ma verosimile è sempre preferibile a una cosa possibile ma poco convincente” (Aristotele)

Isola di Sant’Eugenio, 17 gennaio 1250 Simplicius si teneva stretto ai forti rami dell’euforbia arborea per non cadere. Quella pianta spontanea era uno degli emblemi dell’isola insieme al monastero che svettava sulla cima più alta e stagliava la sua figura imponente contro il cielo scuro percorso da lampi. Qui era custodita e venerata la tomba del santo che aveva dato il nome all’isola, Eugenio, vescovo africano di Cartagine, spintosi fino a qui settecento anni prima, per sfuggire alle persecuzioni dei Vandali e portare la parola di Dio tra le perdute genti. Si racconta che vi fosse giunto utilizzando come nave proprio quest’isola e poi l’avesse ancorata in questo punto per un motivo preciso. Leggenda, realtà? Simplicius non s’interrogava su questo, nella sua vita tutto aveva visto e ascoltato e aveva imparato a non giudicare o a dare qualcosa per scontato. Spruzzi di acqua salata giungevano fino a lui, nonostante il mare tempestoso fosse a più di cento piedi sotto, ma le onde sempre più alte volevano accorciare la distanza. La salita non era poi così lunga, ma i suoi settantun anni si facevano sempre più pesanti. «Alla tua veneranda età dovresti riguardarti», gli ripeteva sempre fratel Gaddo con la forza delle sue ventinove primavere, «sei il più anziano del convento e non possiamo perderti per una febbre o una caduta». Lui la febbre non la conosceva perché le erbe che sapeva cogliere e triturare lo avevano sempre salvato da qualsiasi pesti-


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lenza, ma cadere in una giornata come questa di vento freddo e rotolare giù dal sentiero ripido scavato nella roccia, era una probabilità molto forte. Gli spuntoni di pietra aguzzi e taglienti non avrebbero perdonato. Eppure doveva arrivare in cima, lassù al monastero dove lo attendevano quattro cavalieri dal bianco mantello e dalla rossa croce sul petto, i Poveri soldati di Cristo e del Tempio di Salomone, più comunemente noti come Templari. Simplicius sapeva di certe voci che circolavano sul loro conto e che li dipingevano a tinte fosche: soldati, speculatori, banchieri, gabellieri, spergiuri, maghi, adoratori di una testa barbuta... voci che lui non ascoltava. Perché sapeva. Non era un indovino e non poteva conoscere quale futuro avrebbe riservato loro il destino ma era certo di quello che, di lì a poco, avrebbe unito le loro esistenze. Per sempre. Giunto finalmente al portone centrale si voltò ancora a guardare le onde terribili che, oggi, volevano riprendersi questo pane di roccia di fronte alla costa e inabissarlo per sempre insieme al convento e ai suoi occupanti. Il pensiero era andato subito ai suoi ospiti: come avevano fatto ad arrivare? Va bene che la terraferma era a poco più di novecento piedi di distanza, in estate bastava una buona nuotata, ma con un mare simile equivalevano a una traversata fino in Terrasanta. Ma già, i Templari non si spaventano di fronte a nulla e riescono in tutto quello che fanno. Soprattutto, questo gli interessava, delle dicerie non sapeva che farne perché quelle non avrebbero certo potuto aiutarlo nella grande impresa. Il pesante portone di legno era accostato, segno che tutto era pronto per l’incontro. Il luogo scelto, lo scriptorium, era il più indicato a ospitare delle persone. La stanza che solitamente era occupata dai frati amanuensi, vedeva radunati attorno al grande tavolo i quattro cavalieri e fratel Ovidio, un frate che Simplicius conosceva da più di vent’anni e nel quale nutriva


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la totale fiducia. Nessun altro. E questa scelta, sicuramente, avrebbe dato da pensare agli altri confratelli nei giorni seguenti, perché non è normale ricevere in totale segretezza quattro estranei, pur sempre monaci, ma così lontani dal loro modo di vivere la grande missione di servitori di Dio. Al suo arrivo tutti e quattro i templari si erano alzati dalle panche su cui erano rimasti immobili e senza aprire bocca per tutto il tempo della loro permanenza. Erano stati inviati lì, proprio in quella giornata terribile, dal loro gran maestro e questo significava serietà, significava impegno totale e dedizione assoluta, significava vita o morte. Il balivo, il più alto in grado tra loro, aveva salutato Simplicius con l’abbraccio simbolico che si fa tra confratelli, anche se tra loro e i Lerinensi c’era la stessa affinità che vi può essere tra un leone e un topo: entrambi hanno quattro zampe ma le usano in modo diverso. «Benvenuti, benvenuti, benvenuti», il triplice saluto sanciva l’inizio di quella che sarebbe stata una giornata da iscrivere nella memoria di quel piccolo convento battuto dai venti della tramontana in inverno e incendiato dal sole in estate. Il luogo era stato scelto duecento anni prima dall’abate Hortensio, uomo pio e morto in odore di santità e quello che stupiva, o meglio, non doveva stupire viste le peculiarità del sant’uomo, era che lui quell’isolotto non lo aveva mai visto. Lo aveva semplicemente scelto stando su un’altra isola, molto lontana, a occidente, lungo le coste della Provenza, chiamata Lerins e quel nome sarebbe divenuto il loro emblema. Sì, ultimamente c’erano stati diversi dissapori con il vescovo di Noli cui l’isola competeva per territorio e che non era mai entrato in sintonia con quello spirito monastico. Si mormorava volesse chiudere il monastero e trasferire tutti loro insieme alla tomba di Eugenio; ma al momento Simplicius non ci badava perché prima di tutto c’era da portare a termine la Missione.


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«Cari confratelli in Dio, vi sono grato di aver sfidato le intemperie e aver messo in serio pericolo la vostra stessa vita per giungere qua ma è per una causa giusta e grandiosa», i quattro templari avevano stretto con forza l’elsa delle spade che portavano, nonostante il divieto di entrare armati in un luogo sacro. «Affido a voi un messaggio di vitale importanza, esso giunge da remote lande e da remote genti ed è stato tramandato affinché sia giustamente realizzato», Simplicius aveva dovuto bere da un calice di legno grezzo una sorsata d’acqua perché sentiva che le parole gli uscivano dalla gola in modo aspro e non poteva mettersi a tossire proprio adesso. «È un impegno immenso che vi richiediamo, ma siamo certi che voi siete e sarete le uniche persone che potranno darvi il giusto compimento. Io posso solo dirvi che tutto ciò darà grandi frutti nel corso del tempo, tanto tempo e chi li coglierà varrà più di un re e di un imperatore. Nulla di ciò che è stato sarà mai così». I quattro Templari si erano alzati nello stesso istante perché sapevano che l’incontro era terminato. Erano monaci ma, soprattutto, uomini pratici che odiavano gli inutili convenevoli e le spiegazioni superflue. Quello che doveva essere detto, stabilito e confermato era racchiuso nella gialla pergamena arrotolata che l’abate stringeva nella mano. Basta, adesso era tempo di rientrare e di mettere in pratica tutto ciò di cui si era detto e, soprattutto, non detto. Simplicius e fratel Ovidio erano usciti dal monastero insieme a loro, fermandosi alla staccionata che impediva di precipitare nello strapiombo bianco di schiuma delle onde che si infrangevano sempre più forti. La piccola barca dei Templari si alzava e abbassava puntando verso la costa; sembrava una foglia perduta nel vento, flebile come il respiro notturno di un neonato che, però, si è già certi che diventerà un uomo forte


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e invincibile. Giunti a riva, i quattro uomini avevano tirato la barca in secca e, senza voltarsi si erano inerpicati lungo il sentiero che conduceva verso l’entroterra, la loro meta. Nemmeno un minuto andava sprecato. Anche per i Leriniani, lì sull’isola, era tempo di lavorare, perché la grande opera aveva mille sfaccettature e ognuna andava curata nei dettagli. «Riusciranno?». La domanda di Ovidio era rimasta senza risposta. Callistus era come assente, piccole gocce d’acqua salmastra arrivavano fino al suo viso, ma a lui, adesso, non interessava più il mare; il suo sguardo puntava verso l’alto, lassù, oltre le colline scure dove muore il giorno, perché lì e soltanto lì sarebbe nata la luce nuova che tutto avrebbe rischiarato. Anche una giornata come questa.


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SECONDO

Lamporo, 17 giugno 1991 Il dottor, professor Michelangelo Monti da circa venti minuti schiacciava in modo forsennato il pulsante della biro nera che la banca gli aveva regalato per l’apertura del conto corrente. Soldi non ne aveva depositati molti, perché un supplente di italiano più che altro preleva, ma ormai la biro era sua e la poteva usare per scrivere quel dannato indirizzo che attendeva con tanta impazienza. Per la terza volta aveva provato a telefonare al Provveditorato agli studi di Savona ma la linea era sempre occupata. Sicuramente erano altri docenti precari come lui che tempestavano di telefonate gli uffici scolastici di tutta Italia per avere un incarico da commissario agli esami di maturità che sarebbero iniziati tra pochi giorni. Questa per tutti loro (compreso Michelangelo) era una risposta fondamentale perché aveva tre obiettivi: guadagnare denaro, fare punteggio per la graduatoria delle supplenze e farsi una vacanza. Eh sì, perché per una stravagante normativa, i docenti precari avevano diritto a un trattamento superiore rispetto ai colleghi di ruolo e, infatti, erano definiti come “estranei all’amministrazione” e, quindi, potevano alloggiare in hotel a quattro stelle invece che a due o al massimo a tre, riservato a chi aveva il posto fisso. Tutto questo e altro ancora Michelangelo lo aveva appreso da Mariangela Cotto, una sua compagna d’università che sapeva tutto-ma-proprio-tutto su qualsiasi argomento che riguardasse l’universo-scuola. Anche lei era una precaria, ma s’impegnava allo stremo per avere una cattedra stabile e sicuramente la avrebbe avuta prima di lui.


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Tuut, tuut, libero, finalmente! «Signor Monti, ci sono due posti vacanti per le sue classi di concorso: Liceo Classico e Istituto Magistrale. Cosa sceglie? Deve decidere. Adesso!». La voce femminile che gli aveva risposto era fredda, neutra e non lasciava nulla all’immaginazione, nemmeno il tempo. Il fatto, poi, che lo avesse semplicemente denominato “Signor”, senza nemmeno l’ombra di un “Prof ” o almeno un “Dott”, lasciava intendere quanto le importasse di lui e dei suoi dubbi esistenziali. Adesso! Come si fa a decidere in pochi secondi quello che ti impegnerà per un mese? Ci fosse stata Mariangela al suo posto avrebbe fatto, come sempre, la scelta giusta, esatta, perfetta, ma lui non era lei e scegliere non era mai stato il suo forte. Anche alle superiori dove aveva optato per Geometra, trovandosi a gestire cinque anni di inferno tra materie che non amava e compagni che lo isolavano proprio per quel suo essere avulso dall’ambiente. Si era rifatto all’università, optando per Lettere moderne, una facoltà che gli proponeva corsi allettanti come Estetica estemporanea o Storia dell’agricoltura medievale, ma anche Storia dell’agricoltura nel Medioevo, oppure Geografia antropica della Bolivia e Glottologia dei dialetti Bantu dell’Africa equatoriale, tutte cose interessantissime, ma di scarso valore commerciale. Infatti, da ben cinque anni da quel fatidico giorno di marzo in cui aveva ricevuto l’applauso di tutta la commissione per il meritatissimo centodieci e lode, la sua carriera si era fermata a una manciata di supplenze di due o tre mesi e all’arrotondamento con ripetizioni di italiano per gli studenti della locale scuola media. Anche il suo nome era un’antitesi: Michelangelo e non aveva alcun rapporto con l’arte, Monti e viveva a Lamporo, in mezzo alle risaie vercellesi, il posto più piatto dell’universo.


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«Allora?», il tono impaziente dell’impiegata non lasciava margini di scampo: doveva decidere e il più in fretta possibile, pena l’esclusione dalle nomine. Velocemente, Michelangelo ragionò sul fatto che gli studenti liceali avessero più esigenze e che, dovendo lui esaminare e valutare temi e tesine, fosse meglio optare per una più tranquilla scuola per future maestre. «Magistrale», aveva risposto con una sicurezza e una sintesi che non pensava di possedere (in genere faceva mille giri di parole, pieni di “cioè, forse, potrei, mi scusi, se fosse possibile, al limite...”). La donna all’altro capo del telefono non aveva dato segni di apprezzamento per questo suo immane sforzo, limitandosi a lasciargli l’indirizzo e l’orario in cui si sarebbe dovuto trovare a scuola. La località era Cairo Montenotte, entroterra di colline, trenta chilometri di curve dal mare, riviera, sabbia, sole, dove, invece, si trovava il Liceo Classico. Vedi a scegliere di fretta? Lui avrebbe voluto ritornare sui suoi passi e scegliere l’altra scuola, ma l’inflessibile impiegata non gli aveva dato nemmeno il tempo di aprire bocca, chiudendo la telefonata con un «... giorno», che non era chiaro se fosse preceduto da un «buon». E adesso? Di colpo svaniva l’obiettivo numero tre, la vacanza, perché avere il mare a trenta chilometri è come non averlo, soprattutto, per uno come Michelangelo che da sei mesi non possedeva un’automobile. L’aveva distrutta in una sera di nebbia mista a pioggia, tornando da Vercelli dove abitava (e sta tuttora) Rossella. Lei era (e lo è tuttora) la sua ragazza. Per Michelangelo quella doveva essere una serata specialissima di sesso sfrenato e, a riguardo, voleva sfoggiare dei preservativi colorati e profumati ai frutti di bosco (il gelato preferito di Rossella) che aveva trovato su un catalogo, pagandoli il triplo del prezzo normale. Aveva previsto tutto, comprese le battute da dire al momento topico, del tipo: «Lo vuoi un bel cono?», oppure «ho una cosa da darti che non ti


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stancherai mai di possedere» e ancora, «in attesa dell’estate, gustati questo...», tutte frasi che, ne era certissimo, avrebbero divertito ed eccitato la sua ragazza, portandola al settimo o ottavo cielo. Dai cieli altissimi si era ritrovato di colpo sotto terra, nel garage dove Rossella lo aveva ricevuto per non farsi notare troppo dai vicini. Chissà perché, proprio quella sera non lo aveva invitato a salire in casa, preferendo parlare in macchina. Il sorriso stentato di lei, il suo guardare qualsiasi cosa meno lui, l’abbraccio moscio e il bacio sfuggente che gli aveva dato su una guancia avevano completato il quadro. Rossella, in quella sera di nebbia mista a pioggia, gli aveva confessato di sentirsi a disagio e di voler ritrovare se stessa per ritrovare il loro rapporto che era un po’ spento. Lui avrebbe voluto urlarle: «accendiamolo subito», strappandole la biancheria intima e possedendola per due ore e un quarto sul sedile posteriore della sua Peugeot 205 che si sarebbe riempita dell’aroma afrodisiaco dei frutti di bosco. Le labbra e le gambe serratissime della ragazza, oltre al suo sguardo duro, lo avevano convinto a non buttarsi in un’impresa che non era sicuro di portare a termine (il quarto d’ora riusciva a garantirlo, le restanti due ore appartenevano più al mondo dei sogni e dei desideri). Per questo Rossella proponeva una pausa di riflessione e che appena fosse stata pronta lo avrebbe cercato e tutto sarebbe ripartito alla grande. La pausa era durata cinque mesi e venti giorni, durante i quali lei non si era mai fatta viva e Michelangelo aveva attraversato una specie di limbo nel quale si accomunavano i ricordi delle cose fatte insieme che sembravano tutte stupende e favolose (in realtà il loro rapporto non aveva mai compreso nel vocabolario questi termini, comunque...) e, quindi, rendevano doloroso il distacco. Il dolore era poi acuito da alcune voci che gli erano giunte all’orecchio e che parlavano di diverse


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relazioni che la ragazza avrebbe avuto in quel periodo e, forse anche prima, ma il giovane supplente aveva deciso stoicamente di non ascoltarle. Per farla breve, dopo cinque mesi e venti giorni lei lo aveva cercato e lui aveva subito risposto. Dimenticavo, la Peugeot 205 era andata distrutta dopo una serie di cappottamenti in una risaia in località Fontanetto Po, perché il guidatore, forse sovrappensiero per l’esito nefasto della serata, non aveva visto una curva a gomito, l’unica nel raggio di quaranta chilometri. Michelangelo non si era fatto quasi nulla, a parte un grande spavento e una ferita in mezzo alla fronte che gli aveva lasciato una leggera cicatrice rotonda che, da lontano, sembrava una kundalini. I soccorritori avevano consegnato allo sfasciacarrozze ciò che restava del suo unico mezzo di trasporto e qualcuno gli aveva pure rubato la scatola dei dodici preservativi profumati e colorati che era l’oggetto di maggior valore che gli rimaneva di quella serata. Pensando ai primi due obiettivi, i soldi e i punti, il nostro docente si apprestava a prepararsi per il grande viaggio: 196 km che si traducevano in quattro ore di treno e corriera per raggiungere l’agognata meta. In valigia aveva messo anche due costumi da bagno, così, tanto per fare, anche se era pochissimo convinto che li avrebbe mai indossati. Ad ogni modo, l’importante era andare in provincia di Savona, sia per la sua bellezza, sia per la sua tesi di laurea. Questa era incentrata sull’antica e ormai scomparsa cattedrale di Savona che sorgeva sul promontorio detto del Priamar e oggi occupato da un’enorme fortezza fatta costruire dai genovesi dopo aver espugnato la città e distrutto, appunto, la bellissima chiesa. Era stato un lavoro difficile e meticoloso che lo aveva impegnato per diversi mesi, con spostamenti continui nella città ligure per ricerche nelle biblioteche e negli archivi parrocchiali e sopralluoghi lungo le mura della fortezza per cercare tracce


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dell’antica costruzione. Il suo sforzo era stato ripagato con il massimo della valutazione e in lui era nata una vera passione per questa città e i suoi dintorni. Della corposa tesi aveva poi mandato copie al vescovo, al sindaco, al presidente della provincia e alla redazione del giornale locale. Tutti avevano risposto con una lettera standard di ringraziamenti ed elogi per l’opera interessantissima e meritoria di sviluppi futuri. Tutti, tranne il presidente della provincia: va beh, tre su quattro è già un risultato. Alle 21.30, come sempre, aveva telefonato a Rossana ma, stranamente, lei non rispondeva e al quindicesimo squillo aveva abbassato la cornetta. Visto il caldo torrido di quella pianura infinita, pensava, sarà sicuramente uscita a fare una passeggiata nel viale alberato della stazione ferroviaria. Si era affacciato alla finestra dove si godeva un panorama a trecentosessanta gradi di risaie allagate che riflettevano come uno specchio il Monte Rosa in grande e irraggiungibile lontananza. Lamporo era tutto qui, alcune case, un campanile e pianura totale, ma a Michelangelo piaceva molto e non se ne sarebbe mai potuto staccare. Era l’autunno la sua stagione preferita, quando le nebbie avvolgono tutto e si vede solo la luce arancione dei lampioni che riesce a vincere il bianco lattiginoso solo per alcuni metri, poi il nulla assoluto. Gli piaceva camminare tutto solo per quelle strade conosciute e osservare le case da cui filtrava la luce azzurra dei televisori accesi durante l’ora della cena, entrare nei vicoli bui e pensare che all’interno ci si potesse nascondere qualsiasi mistero. L’estate, con la sua luce onnipresente, cancellava ogni dubbio e lasciava agli occhi la realtà abbacinante e aspra di un paese di pianura afoso, pieno di zanzare e nient’altro. Alle 22.45 pensava che Rossella avesse goduto abbastanza del fresco del viale alberato e che ci si potesse parlare, ma nulla; stessa situazione alle 23.15 e


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alle 23.50, al sedicesimo (meglio abbondare) squillo Michelangelo abbassava definitivamente la cornetta per non alzarla più. Dove poteva essere la sua adorata ragazza? Si vede che il caldo di quella serata infinita non le permetteva di rientrare nel suo appartamento al terzo piano senza ascensore, termoautonomo, composto da angolo cottura, soggiorno, bagno e camera... ah, quella camera, dove il letto a una piazza e mezza con le lenzuola blu elettrico, aveva convissuto con i momenti straordinari della loro passione. Con un sorriso sulle labbra si era buttato sul proprio letto a ripensare a quelle nottate, addormentandosi così, sicuro che da un momento all’altro lo avrebbe svegliato il suono insistente del telefono nel quale la sua dolce Rossella avrebbe riversato tutto il suo amore e le sue scuse per non essersi fatta trovare. Lo aveva svegliato, invece, l’aria un poco più fresca e il sole delle cinque e trenta del mattino che gli batteva in pieno viso. Si era alzato, dandosi una rapida lavata mentre in cucina saliva lentamente il caffè. Alle sei, prima di salire sulla corriera che lo avrebbe portato alla stazione di Crescentino per prendere il primo dei quattro treni per arrivare a Cairo Montenotte all’appuntamento delle dieci, poteva arrischiare una telefonata. Avrebbe sicuramente svegliato la ragazza ma, vista la situazione, lei, tra uno sbadiglio e l’altro, avrebbe trovato le parole giuste per dirgli che lo amava e avrebbe pensato a lui durante tutto il periodo che li teneva separati. E lo avrebbe pure ringraziato per quella levataccia! Al diciannovesimo squillo aveva capito che i casi erano tre: o aveva il sonno durissimo, o il telefono aveva la suoneria abbassata, o il telefono era guasto. L’ipotesi che non fosse rientrata a casa non la prendeva nemmeno in considerazione: aveva sofferto già abbastanza per quella storia e non voleva aggiungere altro male al male. E poi tra dieci minuti la corriera sarebbe partita e non era il momento di


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perdersi in congetture. Via, altra vita, altri pensieri, Rossella non scappava di certo. Corriera, corsa, treno, corsa, altro treno, lunga sosta in stazione e ancora treno. Alle dieci e quarantacinque, finalmente Michelangelo entrava nell’Istituto Magistrale Statale “Prospero Marzelletti”, milletrecentottantadue metri dalla stazione, percorsi in un tempo da primato olimpionico con pesante valigia e ingombrante borsa a tracolla (se ne poteva fare una nuova specialità atletica, tipo biathlon o triathlon, visto che erano tre soggetti in movimento), dove era arrivato in ritardo a causa di una coincidenza saltata. La scuola era ospitata in un antico edificio, alto e imponente, con le inferriate alle finestre che, a prima vista sembrava una fortezza, un monastero per monache di clausura. O un carcere. Nell’atrio l’aveva bloccato una bidella giunonica che a stento riusciva ad abbottonare il camice, chiedendogli in modo brusco chi fosse e chi cercasse. Lui aveva risposto nell’ordine alle domande, ottenendo in cambio un: «A quest’ora ci si presenta?», dopo aver guardato l’ora su un orologio a muro che andava avanti di dieci minuti, rispetto al suo precisissimo cronometro, unico regalo di Rossella in sei anni di relazione (pausa di riflessione compresa). Stava per obiettare, mostrando il polso, che il ritardo c’era, ma non così esteso, che il donnone gli aveva mostrato la stanza dove era già in corso la riunione preliminare e che si sbrigasse. Michelangelo entrava in modo trionfale, sbattendo la porta e buttando a terra con la valigia una sedia sulla quale era appoggiata una pila di fogli che si erano sparsi dappertutto. Se fosse arrivato in tempo, avrebbe potuto lasciare i bagagli nell’albergo lì vicino, darsi una rinfrescata e, magari, prendere anche un caffè per presentarsi nel migliore dei modi. Ma questa è un’altra storia, dove tutto procede secondo i piani e, soprattutto, funzionano i treni.


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Silenzio di tomba: attorno a un grande tavolo di legno massello su cui forse Napoleone aveva consultato le mappe durante la Campagna d’Italia del 1796 (visto che aveva soggiornato a Cairo Montenotte), cinque persone lo osservavano, quattro in modo severo. A capotavola un uomo brizzolato, sicuramente il presidente della Commissione, alla sua destra una donna secca dall’età indefinibile, capelli rosso tinta e occhiali con la catenella azzurra, vicino a lei un uomo tarchiato e con pochi capelli e riporto regolamentare, poi una donna sulla quarantina dal viso spento e pallido. E, infine, lei, una bellissima ragazza con i capelli biondi raccolti dietro la nuca da una matita, vestitino rosa leggero da cui emergeva un seno prosperoso e, sicuramente due gambe da favola che, però, il grande tavolo napoleonico occultava. Tutti gli occhi erano puntati su di lui o, a scelta, sulla montagna di fogli che cospargevano il pavimento. «Presumo lei sia il Commissario di Italiano, vero?!», la voce del Presidente, l’uomo a capotavola, lo aveva colto mentre si perdeva nei pensieri sulle gambe della collega. Il tono e quel «presumo» lasciavano capire quale fosse il suo indice di gradimento in quel frangente. Tutti lo guardavano e Michelangelo guardava loro. Qualcosa bisognava pur fare. «Va beh, farò io le presentazioni così speriamo di terminare questi benedetti lavori», il tono era sempre il medesimo e lo sguardo che il Presidente faceva uscire dagli occhiali appoggiati a metà naso era ancora peggio. Di seguito aveva indicato ogni persona presente, facendo precedere la materia insegnata ai nominativi: Pedagogia e Psicologia, nonché membro interno, professoressa Lanziani Toscoemiliano (donna secca dall’età indefinibile); Filosofia, professoressa Albignani (donna sulla quarantina dal viso spento e pallido); Matematica, professor Firelli (uomo, l’unico, tarchiato e con riporto); Inglese, profes-


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soressa Tania Robaldo (la stupenda creatura con le favolose gambe misteriose). Di lei, quella che gli interessava, aveva saputo anche il nome di battesimo, sicuramente un segno. «E lui è l’insegnante di Italiano, Pierangelo Monte». Oh, non c’era proprio verso che di essere chiamato “prof ”. Stava per correggere nome e cognome, ma la prof. di Pedagogia, Lanziani Toscoemiliano era intervenuta, dichiarando che lei per le undici, cadesse il mondo, doveva fare delle commissioni e non era lì per perdere tempo. «Questo non certo per colpa nostra», aveva risposto il Presidente, guardando tutti i commissari seduti e tralasciando volutamente Michelangelo, reo di cotanta colpa. In poche occasioni della sua vita lui si era sentito così totalmente escluso e odiato e l’episodio più recente risaliva alla morte della madre, cinque anni prima, e all’essere ritenuto dall’unico fratello, dalla cognata e dai parenti tutti, un peso che non si doveva assolutamente sopportare. Appena terminate le esequie, infatti, la partecipazione al dolore e la compassione per quel giovane studente universitario che era rimasto completamente solo (papà era già al cimitero da otto anni), si erano subito trasformate in un totale distacco senza concessioni, perché, come ripeteva sempre Albina, la moglie di suo fratello, Michelangelo deve essere autonomo e non pesare sugli altri. Tutto ciò comportava imparare da zero a essere autosufficiente: cucinare, lavare, stirare, rammendare, gestire la casa. E piano piano lui era riuscito nel compito, attraverso gastriti per le schifezze che preparava e ingurgitava, camicie rosa a causa delle lavatrici mixate, bruciature e punture, rispettivamente da ferro da stiro e da ago, stanchezza straordinaria per le pulizie in casa e gli altri lavori che, prima, gli erano completamente esentati dalla madre. Nonostante l’impegno profuso, da cognata e fratello era sempre e comunque considerato un elemento negativo e


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quindi tenuto a debita distanza. A Michelangelo, ovviamente, questo pesava molto, ma non tanto per l’aspetto materiale (sicuramente la domenica e le feste comandate avrebbe preferito passarle davanti a una bella tavola imbandita e non con i suoi miseri piatti improvvisati), quanto per non aver nessuno con cui ricordare i tempi felici in cui esisteva una famiglia Monti e nulla lasciava presagire un finale simile. Tania Robaldo era stata l’unica a tentare un sorriso nei suoi confronti e, addirittura, aveva scostato la sedia accanto a lei per farlo sedere. Michelangelo, dimenticata immediatamente l’accoglienza, si era buttato letteralmente verso la collega, gettando a terra la borsa che aveva a tracolla. Da lontano era notevole, ma da vicino era un concentrato di bellezza, freschezza, simpatia, sensualità, curve infinite, in poche parole, era una femmina con tutte le sette lettere maiuscole. «Allora, per concludere», sempre il Presidente, sempre odiosissimo, «domattina alle ore 7.30, puntuali» e, naturalmente, aveva guardato Michelangelo, «ci ritroveremo qui per il tema di Italiano, secondo i turni che abbiamo stabilito, lei Monti sarà impegnato per tutta la durata della prova, mentre i colleghi si potranno alternare secondo le esigenze. Per la correzione confido nell’esperienza della professoressa Lanziani Toscoemiliano che, gentilmente, ha offerto il suo prezioso aiuto. Bene, è tutto, a domani». Per l’ennesima volta in pochi minuti, Michelangelo era offeso e umiliato e non gli si lasciava il tempo di replicare e chiedere spiegazioni. Se il Commissario di Italiano, con tanto di nomina del Provveditorato agli Studi, era lui, a lui spettava la correzione dei temi, che c’entrava la “gentilissima” collega di Pedagogia e Psicologia, nonché membro interno? La cosa non sembrava nemmeno poi molto corretta. Si vede che tra i due c’era una conoscenza pregressa perché erano usciti insie-


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me dall’aula, ridacchiando per qualcosa che sicuramente non avrebbe divertito nessun altro. «Non te la prendere, il nostro presidente è un tipo particolare», aveva detto Tania che, oltre alla bellezza aveva pure il dono dell’empatia, «È il preside del Liceo Scientifico di Savona ed è stato collega della Lanziani, quindi tra i due c’è un certo feeling. Ah, si chiama Lodovico (con la O mi raccomando) Robetta». È vero, non si era manco presentato, segno che la cosa non gli interessava minimamente. Lodovico Robetta, già il nome e il cognome gli stavano antipatici. «Ma tu sei di ruolo?», aveva esordito la collega di Filosofia che vicino a Tania sembrava ancora più pallida e insignificante e alla risposta negativa aveva fatto una strana smorfia, allontanandosi senza aggiungere nulla, che so, “mi spiace”, “vedrai che lo sarai presto”, “dai, in fondo al mondo c’è di peggio”, “forza e coraggio”. L’altro uomo, il professore di Matematica, sembrava assorto in un mondo tutto suo e non pareva interessato né e lui né ad altro. Va beh, comunque c’era la splendida professoressa Robaldo che faceva scomparire tutto ciò che le stava attorno e che, a questo punto, era l’unico motivo per rimanere lì.


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L’albergo in cui avrebbe dovuto sistemarsi per quasi un mese di “vacanza” non era un quattro stelle come da disposizioni ministeriali e nemmeno un tre; era poco più di una pensione a una stella singola che qualche politico locale era riuscito a far triplicare solo nominalmente. La stanza di Michelangelo dava su un cortile interno oltre il quale passava la ferrovia che porta a Savona, quindi al mare, ai mega hotel con super comfort che si stava godendo quello che aveva optato per il liceo Classico e che, sicuramente, aveva trovato colleghi gentilissimi (filo-precari), e presidenti simpatici e affabili che se ne fregavano della puntualità. Ma non aveva trovato Tania! La visione della collega (tra l’altro le gambe, una volta emerse dal tavolone, erano ancora superiori alle aspettative) aveva fatto svanire la stanza che odorava di muffa, il letto troppo morbido, il bagno con una vasca scrostata e senza la doccia. Che differenza con Rossella. Già Rossella. La mattinata era volata e non aveva avuto modo di ritelefonarle. Aveva lasciato i bagagli affondare sul letto che doveva avere un materasso imbottito di ovatta e molle di cartone tanto si afflosciava ed era sceso in strada a cercare una cabina. Non si sarebbe fatto dissanguare dal telefono di bachelite nera che troneggiava sul comodino e che collegava con il mondo esterno schiacciando il tasto nove e pagando uno scatto il triplo del normale. La prima cabina non aveva la cornetta, nel senso che qualcuno l’aveva strappata e la seconda era occupata da due ragazzi che, sghignazzando, facevano proposte di notti di follie a qualcuna (o qualcuno) e che richiedevano come minimo una mezzora di dettagli e spiegazioni su come operare. La


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terza era libera e funzionante. Al sesto squillo Rossella aveva risposto. «Ah, ma ci sei? Pensavo non ci fossi. Ecco, non ti ho più sentita. Allora come va. Ti disturbo mica?». Come sempre, quando c’era da decidere, parlare, domandare, Michelangelo veniva preso da una folle loquacità, per cui, invece di andare subito al sodo faceva una serie di giri di parole che imbarazzavano chiunque. Non Rossella che lo conosceva bene e che, al contrario, aveva ben chiaro ciò che doveva dire. «Senti Michy, ti avrei scritto una lettera, ma a sto punto è meglio dirtelo subito: ho incontrato una persona, mi ha invitato a cena domenica e lunedì siamo stati insieme». Per un secondo quell’“insieme” poteva ancora significare qualcosa di normale, come insieme al cinema, a teatro, in gelateria, in discoteca... in chiesa a pregare, ma il secondo dopo anche quest’ultimo, patetico barlume di speranza era svanito. «Mercoledì abbiamo fatto l’amore e sento di amarlo. Non posso farci nulla, un incontro banale (è un amico di mio cugina e voleva che gli registrassi in cassetta un disco degli Eagles) è diventato per me una storia importante. Fattene una ragione, io ti voglio e ti vorrò sempre bene, ma questa è un’altra cosa. Fatti sentire. Ogni tanto». Tut tut tut. Non c’erano equivoci, lei aveva messo giù. Michelangelo era rimasto con la cornetta in mano ancora per qualche minuto, poi l’aveva abbassata, rimanendo dentro il caldo torrido della cabina (a differenza delle altre due questa era in pieno sole) nella speranza assurda che Rossella potesse richiamare, come se fosse a casa sua. Speranza remotissima anche se ci fosse stato; la conosceva bene e sapeva che se aveva chiuso in quel modo non si sarebbe più fatta viva, o almeno, non subito. Forse, quando il suo nuovo amore la avesse stancata, forse, lo avrebbe richiamato, ma presumibil-


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mente in autunno o sotto Natale, non prima. E lui l’avrebbe, ancora una volta, ripresa? No, assolutamente no! Ma che, scherziamo?! E che, uno è un burattino che si molla e riprende quando si vuole? Che ci provi a ripresentarsi; un calcio che la mando fino a Domodossola e quando ritorna, con un altro la spedisco alle Tremiti. Vieni, vieni che ti aspetto. Pazzesco, uno che non conosci, ci vai a cena la domenica e due giorni dopo ci sei già insieme? “Domenica cena e lunedì abbiamo fatto l’amore...giusto per non dare l’idea di una ragazza leggera che ci sta al primo appuntamento... e sento di amarlo”, ma era ieri ed io che per tutta la sera e la notte e il mattino l’ho cercata come un matto, io che mi preoccupavo che non le fosse successo qualcosa e lei era proprio con questo stronzo. Ma straccione, già ti piacciono dei quarti di calzette come gli Eagles, ma allora comprateli i dischi invece di andare a rompere le scatole alle ragazze per bene e che non si concedono al primo appuntamento e per di più fidanzate. Che poi sarebbe anche reato registrare le cassette che se lo sa la Finanza ti fa un culo così. Ecco, dovrebbe beccarlo a questo e dirgli: «Ci dica un po’, ma queste cassette da dove arrivano?» e poi un altro bel culo a Rossella, due bei verbali e due denunce, ecco cosa si dovrebbe fare con gente così, gente che non ha regole, gente che dovrebbe scomparire dalla faccia della Terra, gente che... si gode Rossella di mercoledì e da adesso, tutti i giorni della settimana. Con la testa piena di questi pensieri, Michelangelo era uscito dalla torrida cabina camminando senza una precisa meta. Cairo Montenotte non è un luogo di mare ma ha, comunque, angoli molto interessanti e piacevoli che, però, quel pomeriggio lui non riusciva a notare. Aveva attraversato Porta Soprana, l’antica porta che immette sulla strada principale, via Roma, percorrendola fino al fondo, incurante delle luci e delle vetrine che ne riempivano ogni me-


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tro quadro. Era giunto in una grande piazza e, per ripararsi dal sole totale, si era diretto verso un giardinetto dotato di panchine, di fronte a un asilo intitolato a “Giuseppe Bertolotti” con un drago rampante sopra il nome. Strano simbolo per un asilo, aveva pensato, ma poi Rossella aveva ripreso il posto dominante nella sua testa. Solo lei e i momenti trascorsi insieme e a quello che potevano ancora fare, progetti fantastici che non si sarebbero mai realizzati. Il fresco delle piante secolari e il fatto di essere comodamente seduto gli avevano calmato i bollori e riportato alla memoria tutto quello che, invece, c’era di sbagliato nel loro rapporto. Ed era davvero tanto, troppo. Già il fatto che non avevano praticamente amici la diceva lunga: ciascuno aveva le proprie amicizie, d’accordo, ma insieme non riuscivano a legare con nessuna coppia. Ci avevano provato diverse volte ma con esiti negativi se non catastrofici. Una volta, ad esempio, erano usciti un sabato sera con Paolo e Lorenza, una coppia che avevano conosciuto al corso prematrimoniale della parrocchia e tutto era andato abbastanza bene fino a quando la sua ragazza aveva avuto la brillante idea di andare in un bar dove facevano il karaoke. Accidenti a quel posto. L’altra coppia aveva rotto il ghiaccio cantando insieme “Yellow Submarine” dei Beatles e Lorenza aveva incantato la platea con mossette e sorrisi e il loro ritorno tra il pubblico era stato accompagnato da applausi e pacche sulle spalle. A loro due, invece, era toccata “Ruby Tuesday” dei Rolling Stones che è comica come un lunedì di pioggia e che doveva essere interpretata totalmente dalla voce. Che loro non avevano. Risultato, una serie di “buu” e fischi da parte del nutrito pubblico in cui Rossella aveva inserito anche i due con cui doveva nascere una grande amicizia. Per sistemare la faccenda aveva tirato in faccia a Lorenza un bicchiere di acqua tonica con ghiaccio e limone e tirato un


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calcio alla caviglia a Paolo che cercava di difendere colei che, presto, sarebbe divenuta sua moglie. Per poco non erano finiti alle mani e il proprietario del locale li aveva sbattuti fuori malamente. Da quel momento, al corso matrimoniale (avevano ancora tre lezioni prima di prendere il patentino) non si erano più guardati in faccia e le altre sei coppie, informate dell’accaduto, avevano fatto altrettanto, col risultato che alla festicciola di fine corso si erano ritrovati seduti su una panca, con due bicchieri di plastica in mano e un piattino con pizzette e paste secche ciascuno, mentre tutti gli altri, dalla parte opposta della sala ridevano, scherzavano e progettavano feste e viaggi da fare insieme, dando loro le spalle. Ovviamente, Paolo e Lorenza ne facevano parte. Il parroco, padrone di casa, che tutto vedeva e sapeva, alla fine della serata aveva congedato tutte le coppie con un sorriso e con l’invito a sposarsi il più presto possibile e metter su famiglia, mentre a loro due, solo a loro, seriamente aveva detto: «prima di sposarvi pensateci settanta volte sette». Situazione analoga con Claudia e Silvio, Olimpia e Riccardo, nonché con Roberta e Livio e Laura e Vincenzo, l’elenco degli incontri disastrosi si perdeva nei meandri della memoria. Non c’era una, dico una volta che lui e Rossella insieme avessero generato un moto di simpatia. Da soli non è che le cose andassero meglio. Se non litigavano è perché lui lasciava sempre correre. Anche a letto non è che facessero proprio faville; sì, lei aveva un corpo slanciato con due bellissime gambe (il suo punto forte, sempre evidenziato da ridottissime minigonne), ma non aveva praticamente seno, una prima misura scarsa di reggiseno che quando slacciava non lasciava nulla all’immaginazione. Eh no, bisognava reagire, dimenticare il passato e le recentissime corna e vivere appieno la nuova realtà. Non ci si può rovinare l’esistenza per una così. Una che porta la prima di reggise-


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no non ti può tradire! Per tutto il resto della giornata e, soprattutto, la notte, Rossella e il suo nuovo ragazzo avevano monopolizzato i pensieri di Michelangelo. Li immaginava insieme, felici e sorridenti nell’appartamento di lei, a fare l’amore tra quelle lenzuola blu elettrico (le stesse, a lei non piaceva molto fare il bucato) che avevano visto la loro passione, mentre la musica di quei maledetti Eagles si diffondeva tra le pareti, frammista alle loro risa e alle battute su di lui. Rossella sapeva ogni suo segreto e, sicuramente, adesso, proprio adesso stava spifferando tutto e, insieme, ridevano delle sue disgrazie. Si girava e rigirava nel letto facendo cigolare le molle, invocando un sonno che avrebbe cancellato tutto ma che non arrivava. Le tre e trenta e alle sette e mezza doveva essere pronto, fresco e pulito per iniziare una giornata massacrante e con delle premesse tremende, vista l’accoglienza che aveva avuto. Ma quella stronza non poteva tradirmi tra un mese quando avevo finito gli esami? A quest’ora avrei dormito come un neonato e sarei stato felice e appagato. Questo Michelangelo diceva a voce piuttosto alta e forse questa specie di mantra aveva fatto arrivare l’agognato sonno. Le due sveglie che aveva piazzato a tre metri di distanza l’avevano svegliato alle sei e cinquanta, alle sette e cinque era giù nella hall per la scarna colazione con brioche nel cellophan, cappuccino fatto da una macchinetta a gettoni e qualche fetta biscottata e marmellatine alla pesca. Dopo una sorsata di succo d’ananas che non sapeva d’ananas, era uscito dall’albergo per essere alle sette e venti davanti alla scuola. Era il primo, non avevano nemmeno aperto il portone. Finalmente oggi poteva far ricredere tutti e dimostrare quanto fosse puntuale e professionale. Aveva dovuto aspettare venti minuti buoni perché alle sette e quaranta si era presentata la bidella corpulenta che non l’aveva manco salutato, seguita pochi minuti


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dopo dal Presidente che si era limitato ad un cenno del capo. Michelangelo sperava almeno in un “bravo, complimenti per essere il primo”, ma attorno a lui solo silenzio e sguardi ostili. Alle otto meno sette minuti tutta la commissione era riunita, mancava solo la Lanziani Toscoemiliano che, pur essendo il membro interno, aveva deciso di venire più tardi per imprecisati impegni. Dei colleghi, solo Tania aveva scambiato con lui qualche parola (gli altri due commissari, “la spenta” e “riporto” ognuno a suo modo, parevano non accorgersi di lui). Lei era bellissima, unica, stupenda. Aveva messo un vestitino leggero da cui uscivano due polpacci pieni, sodi e abbronzati, preludio di gambe da capogiro (proprio come piacevano a lui e non le lunghe e troppo magre cosce di Rossella che, pure, lei tanto decantava), il seno era trattenuto a stento e poi, quei capelli biondi tirati su e bloccati con una molletta, ecco, questo era il punto che lo mandava fuori di testa: il collo di Tania, semplice, infantile, pulito, un posto dove Michelangelo avrebbe voluto trascorrere il resto dei suoi giorni. Il vociare dei ragazzi lo aveva riportato alla realtà. Finalmente Michelangelo poteva vedere da vicino gli studenti che avrebbe esaminato e valutato. La maggioranza erano ragazze e tra loro alcune veramente carine. Anche la sua presenza non era passata inosservata e aveva notato che alcune di loro lo osservavano e si giravano allegre verso la compagna di banco tenendo una mano sulla bocca per dire qualcosa che lo riguardava. Tutte lo guardavano e tutte ridevano. Per darsi un tono professionale e fingere di non essersi accorto di cotanto gradimento, Michelangelo fingeva di interessarsi ad alcune circolari che riguardavano il corretto svolgimento della prova e che erano piene di richiami a decreti legislativi che nessuno ha letto mai e una sfilza di parole avulse dal suo vocabolario, come da quello di qualsiasi essere umano normale.


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«Allora, visto che ci siamo tutti possiamo cominciare», il Presidente aveva fatto il suo ingresso trionfale e tutti gli studenti si erano alzati in piedi, anche se non era necessario. Si vedeva che la sua figura era molto nota in zona e gli esaminandi sapevano che era fondamentale il suo giudizio positivo. Dopo la scrittura alla lavagna delle quattro tracce scelte dal Ministero della Pubblica Istruzione: una di attualità, una di letteratura, una storica e una specifica del corso e aver consegnato ad ogni candidato numero due fogli protocollo a righe con tanto di timbro a secco e sigla presidenziale, tutti i commissari avevano iniziato la loro opera di vigilanza, controllando la grande aula da cima a fondo e girando incessantemente tra i banchi. Visto che quella era la sua prova, Michelangelo era costantemente richiesto per delucidazioni e spiegazioni sulle quindici o venti righe dei titoli dei temi che erano state scritte dagli stessi che avevano compilato le circolari di cui sopra, con il medesimo stile e chiarezza espositiva. La stragrande maggioranza aveva optato per l’attualità, un discreto numero per la letteratura, qualcuno per l’argomento che riguardava la professione di maestra elementare e, come sempre, nessuno il tema di storia. No, si sbagliava: uno, anzi, una l’aveva scelto. Era una ragazza che si era messa nell’ultimo banco, in fondo alla classe e distaccata dagli altri compagni, come se volesse starsene da sola e non c’entrasse nulla con loro. Era molto bella, ma si ostinava ad abbruttirsi con piercing e un trucco troppo pesante che le modificava i tratti del viso. Nonostante il caldo indossava dei pantaloni neri troppo lunghi e sporchi al fondo perché sicuramente ci camminava sopra e una maglietta, sempre nera, con al centro la linguaccia rossa, simbolo dei Rolling Stones (ecco che torna il ricordo tragico di “Ruby Tuesday”) e poi una sfilza di braccialetti di ogni forma e materiale. I loro sguardi si erano incrociati e lui aveva visto due stupendi occhi viola, bi-


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strattati da un ombretto nero micidiale che le toglieva qualsiasi traccia di tenerezza. Si era messo alle sue spalle per vedere che cosa scrivesse, e lei, a differenza di tutti i suoi compagni che, immediatamente, approfittavano della presenza dei professori per carpire informazioni e benevolenza, con la spalla aveva coperto il foglio, come se non volesse farlo copiare. Alle 10.57 la professoressa Lanziani Toscoemiliano si era degnata di fare la sua apparizione, sistemandosi alla cattedra in posizione centrale per dimostrare a tutti il suo potere. Sembrava davvero che quella scuola fosse sua e a sottolinearlo ci aveva pensato l’antipatica e massiccia bidella che pochi istanti dopo era comparsa sorridente con un vassoio su cui sbuffava una grande caffettiera, circondata da alcune tazzine e zuccheriera. Se non fosse arrivata la potentissima docente, difficilmente lo avrebbe fatto quel caffè. «Come procedono i miei rampolli?», la domanda della Lanziani rivolta a tutti i colleghi era in realtà diretta a Michelangelo, colui che avrebbe dovuto valutare tutta quella carta che si stava riempiendo di parole e pensieri, soprattutto, parole, tutte da leggere e correggere. Senza attendere la risposta, aveva iniziato un panegirico su alcuni allievi che, parole sue, erano a livelli universitari e anche oltre e che andavano assolutamente premiati. Tra questi, la numero uno era una certa Laura Valchetti che aveva dieci in tutte le materie e avrebbe meritato ancora di più se la convenzione numerica lo avesse permesso. Michelangelo l’aveva notata questa ragazza: tracagnotta, vestita con una camicetta con le maniche a sbuffo e una faccia piatta e antipatica. Si atteggiava a prima della classe e aveva pure l’aria scocciata, come di una che non dovrebbe essere lì perché non deve essere esaminata, visto che sa già tutto. Nel suo girovagare tra i banchi Michelangelo aveva buttato un occhio su quello che stava scrivendo e così, a prima vista, non gli


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era sembrato di trovarsi di fronte a un genio della letteratura (aveva scelto il tema di letteratura), ma sicuramente avrebbe dovuto esaminarlo con estrema cura per non smentire le aspettative della collega. Dopo le esaltazioni, la Lanziani era passata alle note dolenti, riguardanti un’alunna che, secondo lei, non andava ammessa e che non sarebbe stato male bocciare per dimostrare che quella era una scuola seria, di primissimo ordine, e che le mele marce non dovevano infettare quel “bel frutteto”. Certo che detto da un membro interno, la cosa aveva un aspetto del tutto particolare. «Quella Mina Bucenti non l’ho mai sopportata, già dal primo giorno di scuola», la voce della professoressa dal rossastro capel tinto usciva dalle sue labbra sottili come un sibilo. «Maleducata, irrispettosa, spudorata, contestatrice, svergognata, trasandata e amante del mistero», quest’ultimo appellativo aveva colpito Michelangelo che era sempre stato affascinato dall’esoterismo e dai suoi connotati. «Anche oggi ha voluto dimostrare la sua sfacciataggine, guardate come si è presentata agli esami» e con la mano ossuta e ricoperta di anelli aveva indicato la ragazza dell’ultimo banco, l’unica che aveva scelto il tema di storia. A lui non pareva che avesse poi nulla di così negativo (a parte i Rolling Stones per la faccenda del karaoke) e lo stesso pareva a Tania che teneva in bocca un sorriso di complicità. La collega di Filosofia, sempre più spenta e insignificante scuoteva la testa borbottando qualcosa che non era niente di bello, mentre il matematico sembrava interessato soltanto al suo riporto che continuava a lisciare come se fosse carta crespa. «Quella la dobbiamo bocciare, quella è un pericolo!».


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“Il sonno della ragione genera mostri. Il candidato spieghi questa asserzione del pittore Goya, motivando la sua scelta con riferimenti alla storia del Novecento e a episodi pregressi significativi della storia dell’umanità”. Il titolo del tema storico che una commissione al Ministero della Pubblica Istruzione aveva scelto era molto interessante ma difficile da sviluppare, eppure la studentessa Mina Bucenti, non solo era riuscita nell’intento, ma aveva fatto un piccolo capolavoro, pieno di citazioni e collegamenti, creando una mappa che univa le dittature del Novecento a vari momenti della storia più antica, arrivando allo sterminio dei Catari nel Tredicesimo secolo. Era precisa, dettagliata, circostanziata, insomma, un lavoro eccellente. Michelangelo lo aveva corretto per ultimo, proprio per rifarsi delle solite frasi fatte che aveva trovato nei temi di attualità (l’argomento era la fame nel mondo) e che proponevano rimedi banali (abbasso la fame, viva la vita), superficiali (riempiamo aerei di pane, salame e formaggio e li mandiamo nel Terzo Mondo), irrealizzabili (diamo a ogni povero la metà dei soldi di ogni ricco, così abbiamo un equilibrio perfetto) o assurdi (una bella guerra nucleare spazza via metà dell’umanità e l’altra metà vive in pace, con la dispensa piena zeppa e tutti sono felici e contenti). Rimettendo a posto il pacco dei temi dopo aver fuso la biro rossa a forza di tirarci sopra righe e scrivere giudizi e votazioni, si era accorto che ne mancava uno: quello di Laura Valchetti, il mostro sacro della classe. Accidenti, ci mancava solo questa: perdere un compito e proprio quello della cocca della Lanziani Toscoemiliano, roba da essere cacciato a pedate da tutte le commissioni d’e-


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sami d’Italia e avere annotazioni negativissime che avrebbero annullato per sempre l’agognata immissione in ruolo. Mentre Michelangelo, sudatissimo, ricontava tutti i fogli, era entrata la bidella corpulenta e sempre più odiosa che, senza dire nulla, aveva fatto cadere sul banco un protocollo a righe con tanto di timbro a secco e sigla del Presidente e un nome scritto in blu nell’angolo in alto a sinistra: Valchetti Laura. Pinzato con una graffetta metallica, c’era un altro protocollo con un panegirico di complimenti e motivazioni scritti a biro rossa che riempivano quasi due pagine per giustificare il dieci e mezzo che la ragazza meritava e che lui, Commissario di Italiano, doveva semplicemente trascrivere in nero sul registro dei voti. La sigla che vi era sotto, ALT, non era un monito ma una certezza: Aureliana Lanziani Toscoemiliano. Michelangelo era stato preso da una sorta di nervosismo represso, iniziando ad arrotolare e srotolare il tema, sapendo che, purtroppo, non poteva farlo a brandelli. «Ma come si permette questa di prendermi un tema senza dirmi nulla, correggerlo, dare un voto assurdo, dieci e mezzo, e farmelo recapitare da quella stronza della sua bidellona senza venire di persona a giustificarsi. Eh no, quando è troppo è troppo». I pensieri negativi che abbattevano Michelangelo erano tantissimi e si andavano ad accumulare alla terribile accoglienza e anche al tradimento di Rossella; insomma, era un periodo allegro come quello del funerale dei genitori. Ma era pur sempre un insegnante e, quindi, si era seduto alla cattedra a leggerlo. Quattro minuti dopo aveva due certezze: Valchetti Laura non sapeva scrivere, Aureliana Lanziani Toscoemiliano non sapeva correggere. L’elaborato affrontava il pensiero di Italo Svevo in modo elementare, limitandosi a ripetere che era mezzo italiano e mezzo tedesco e quindi aveva adottato


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quello pseudonimo. Poi, di colpo, passava ad un’analisi molto superficiale di Una vita, descrivendo la figura del protagonista che da Alfonso Nitti diventava Alfredo Natta, un’affarista che voleva solo far carriera in banca, una specie di yuppie ante litteram. Tutto questo nel primo foglio protocollo. Il secondo era totalmente differente. Con uno stile elevatissimo, la Valchetti analizzava in modo esaustivo il romanzo La coscienza di Zeno, con annotazioni e citazioni tratte da una trentina di libri e riviste specializzate. Peccato, però, che le parole non fossero le sue ma di Natalino Sapegno, celebre critico letterario di cui Michelangelo possedeva l’intera Storia della letteratura italiana in nove volumi, dal Duecento a oggi. Ne era sicurissimo, il tema che aveva in mano era la copia integrale, parola per parola, di ciò che il luminare riportava nel volume ottavo e che Michelangelo aveva utilizzato recentemente per un corso abilitante. E adesso? Bastava recuperare il volume e si sarebbe dimostrato senza smentita che l’alunna da dieci e mezzo non valeva nemmeno un tre, anzi, un due e mezzo e che aveva copiato da un foglietto che si era portata da casa. O che le avevano passato. Di colpo a Michelangelo era tornata alla mente la lunga permanenza che la ragazza aveva fatto in bagno, dalle dieci e venti alle dieci e cinquantasette (l’orario era segnato sul margine del foglio, come da regolamento per le entrate e le uscite durante gli esami) ed era rientrata in classe insieme alla sua tutrice Lanziani che, a quell’ora, si era degnata di prendere servizio. Ripensandoci, la Valchetti era come trasfigurata; sembrava che la lunga sosta alla toilette le avesse restituito il buonumore. Prima, infatti, era agitata, si dimenava sulla sedia e sudava copiosamente nella sua camicetta da educanda. Mordicchiava la biro e continuava a guardare l’orologio. Come per un appuntamento. Nella mente del commissario di italiano la scena si svolgeva come in un film: ecco che giunge l’ora pattu-


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ita, la studentessa raggiunge il luogo prefissato dove avviene l’incontro con la professoressa-tutrice, la quale le consegna la fotocopia che si è procurata dopo aver saputo quali sono le tracce dei temi. Probabilmente le avrà consigliato di cambiare qualche parola, oppure no, tanto, avrà detto, il commissario di italiano è solo un supplente che conta zero e il tuo tema lo correggerò io, quindi fai quello che vuoi. Ecco come si era svolta la faccenda il cui epilogo stringeva tra le mani. E adesso? L’impulso era di andare immediatamente dal Presidente e raccontare tutto. Non si poteva passare su un fatto tanto grave, era pazzesco, inammissibile, inaudito, assurdo. Roba da mettere sui giornali e in televisione. Pazzesco, inammissibile, inaudito, assurdo. E adesso? Erano trascorsi dodici minuti dalla scoperta scandalosa ed erano bastati a mitigare lo slancio giustizialista che animava Michelangelo. Uno scandalo non conveniva a nessuno e, vista l’autorità di cui godevano studentessa e professoressa, capacissimo che il giudizio si sarebbe ribaltato contro di lui che, al contrario, lì dentro contava ancora meno del famoso due di picche. Alla fine sarebbe addirittura emerso che era stato Natalino Sapegno ad aver copiato da Laura Valchetti e non viceversa! «Se hai finito con i tuoi compiti, che ne diresti di un gelato?». La voce di Tania bella e fresca come quello che prometteva gli era giunta alle spalle alleviandole un po’ dal gran peso. «Sì, possiamo andare». Oltre alla bellezza, la professoressa Tania Robaldo aveva anche il dono dell’empatia, cioè, capiva al volo le situazioni senza bisogno di parlare. Le era bastato, infatti, buttare un occhio sul tema che Michelangelo stringeva in mano per capire tutto. «È una schifezza, vero?» e senza attendere risposta, «capisco come ti stai sentendo. La Valchetti si è cucita addosso quest’immagine di perfezione ed è stata molto aiutata da chi


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sappiamo, ma dietro c’è molto altro. La sua è una famiglia molto influente e ha agganci a Roma, di qua e di là dal Tevere. Io le so queste cose perché, pur abitando a Genova, la mia famiglia è originaria di queste zone». Questa ragazza riusciva anche a leggere nel pensiero. «I Valchetti, del resto, sono romani e il padre di Laura è venuto qua a dirigere la vetreria di Altare e poi non se ne sono più andati. E sarebbe stato meglio perché ha combinato solo disastri e ha messo a serio rischio il futuro dello stabilimento e degli operai. Un inetto, insomma, ma con le spalle molto coperte e protezioni in altissimo loco. Il marito della Lanziani, Arrigo Toscoemiliano, è in affari con Valchetti, da cui si capisce il trattamento di superfavore che la giovane rampolla ha sempre goduto in questa scuola dove la tipa coi capelli rossi è quella che decide tutto». A Michelangelo faceva un enorme piacere che Tania fosse dalla sua parte e non avesse simpatia per la “rossiccia”; non gli risolveva la situazione ma gli faceva piacere. Restava sempre l’atroce dubbio se andare o no dal Presidente della commissione e mostrare le prove. Mentre usciva dalla scuola e, a fianco di Tania, si dirigeva verso la gelateria che fanno un gelato che se lo sognano in riviera, aveva provato a immaginarsi le varie scene del suo incontro con l’austero preside Robetta e tutte avevano un finale amaro e negativo. Per lui, ovviamente. Il Presidente non si sarebbe mai schierato contro la sua amica Lanziani, né contro una studentessa dalla potente famiglia e che, bene o male, vantava una pagella con tutti, dico, tutti dieci e che non era mai scesa sotto quella soglia per i cinque anni che era stata in quella scuola. Ma c’era la prova scritta... già, il tema. Sicuramente quello contava, eccome, era tutto lì, nero, anzi, blu su bianco e se il Presidente della commissione non ne teneva conto, si poteva portare al Provveditore agli Studi


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e se anche quello non voleva grane si poteva salire la scala gerarchica su su, fino al Ministro della Pubblica Istruzione, passando anche per giornali e televisioni. Insomma, si poteva creare uno scandalo nazionale. Sì, era fattibile, tolto per un piccolo particolare: protagonista di tutto sarebbe stato Michelangelo Monti. Detto questo, detto tutto! Lui amava, adorava i film d’azione in cui un uomo solo combatte contro il mondo ostile: gliene fanno di tutti i colori, è deriso, insultato, tradito, pestato a sangue, quasi ucciso, ma alla fine vince lui. Negli ultimi cinque minuti di proiezione ottiene tutto quello che nella precedente ora e mezza gli è fortissimamente negato. Ah, come se li godeva quei film! Ecco, appunto, film. Nella realtà Michelangelo sfuggiva qualsiasi responsabilità e non riusciva a lottare nemmeno per le cose che erano semplici e palesi, figuriamoci mettere in piedi un’impresa simile. E i viaggi a Roma al ministero e le telefonate, chi le pagava? Che cosa faccio adesso?, il solito dubbio stava prendendo il posto della furiosa rabbia iniziale e, ancora una volta, avrebbe avuto la meglio sul grande senso di giustizia che lui aveva dentro ma che non riusciva mai a tirare fuori. «Assaggia questo lampone e dimmi se non è qualcosa di sublime?». Tania, bellissima, ancor più bella con le labbra fredde e colorate gli stava porgendo il suo cono e la soluzione a tutti i suoi problemi. «Ma sì, chi se ne frega se questa stronzetta figlia di papà ancor più stronzo esce dalla maturità col massimo dei voti per colpa di una professoressa corrotta, marcia e schifosa. Adesso mi gusto questo gelato con questo schianto di femmina, tanto tra meno di un mese sono di nuovo a casa mia e questo sarà soltanto un ricordo. E con due punti in più per la graduatoria e qualche soldino extra che non guasta mai».


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Tania avrebbe fatto cambiare idea a chiunque in quel momento: bella e solare, aveva un modo tutto suo di ridere, buttando la testa all’indietro e facendo ondeggiare i capelli biondi che aveva sciolto. Quello che faceva letteralmente impazzire Michelangelo erano le pieghette che le venivano sul naso quando rideva e anche i suoi denti bianchissimi e perfetti sembravano dire a tutto il mondo: baciami, baciami, baciami. A tutto il mondo meno che a Michelangelo, infatti, proprio mentre lui stava per avvicinarsi ancora un po’ di più a quelle labbra così invitanti con la scusa di assaggiare anche il mirtillo, lei si era ritratta di colpo facendosi tutta seria. «Non voglio avere storie con colleghi!». Lui era rimasto con la bocca semiaperta, indeciso tra la voglia di baciare e di gustare ancora quel gelato che se lo sognano in riviera. Voleva ribattere che lui non ci stava assolutamente provando e che poi, a dirla tutta, non erano nemmeno colleghi perché lei era di ruolo, mentre lui era solo un supplente, estraneo all’amministrazione (con diritto all’hotel a quattro stelle, eh, intendiamoci), che non sapeva nemmeno se a settembre avrebbe ancora lavorato nella scuola. A dirla tutta tutta tutta, non sapeva nemmeno se a settembre, ma anche a ottobre, novembre e dicembre avrebbe lavorato da qualsiasi altra parte. Forse Tania aveva davvero il dono di leggere il pensiero perché gli aveva fatto un piccolo sorriso, abbandonando la faccia seria. «È che ho avuto una relazione che mi ha fatto soffrire molto con un collega del mio istituto. La nostra storia è finita da più di un mese ma mi dà ancora dei problemi. Lui non si è rassegnato e mi cerca in continuazione. Per questo non ho chiesto Genova o la riviera e mi sono rintanata qui». Michelangelo camminava al suo fianco ed era fiero del fatto che i maschi che incrociavano lo invidiassero palesemente. Gli sarebbe piaciuto


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essere un po’ più protagonista in quella vicenda ma, in fondo, si conoscevano solo da due giorni e lui era uno che si accontentava. Comunque, a passeggiare con Rossella non aveva mai provato nulla di simile. Sarà che la sua ex aveva la mania di camminare veloce come se si fosse sempre in ritardo ad un appuntamento e poi si fermava di botto appena vedeva una vetrina di scarpe e di mobili. Solo questo le interessava: scarpe e mobili. Sulle calzature ci si poteva anche passare sopra, calcolando di poterla accontentare con il suo magro stipendio da supplente (anche se i modelli che le piacevano e che cambiava in continuazione costavano un botto e mezzo), ma per i mobili erano dolori. Rossella si atteggiava a grande esperta di arredamento in virtù del fatto che aveva l’abbonamento a “Casa e case” e che sfogliava qualsiasi rivista in cui si trattasse di antiquariato. Frequentava assiduamente i vari mercatini da cui ritornava regolarmente stracarica di mobiletti, quadri, soprammobili e candelabri, tutte occasioni irripetibili che, invece, si ripetevano ogni quindici giorni, andando a intasare ogni angolo del suo miniappartamento, rendendo impossibile qualsiasi attività come, ad esempio, scrivere una lettera perché ogni tavolo era totalmente invaso da oggetti di inestimabile valore artistico. «Pensa che mi sono innamorata di lui perché mi dava sicurezza», le parole di Tania lo avevano fatto uscire da quelle stanze intasate di “cultura”, riportandolo a una realtà che aveva il gusto del lampone che gli colava tra le dita. «Il fatto che fosse alto quasi due metri, con due spalle così e un mento prominente con tanto di fossetta, hanno fatto il resto. Tutte le colleghe se lo mangiavano con gli occhi e lui, il professore di Educazione fisica più bello della città, godeva come un matto di questa qualifica. Piaceva da morire anche a mia madre che ne aveva fatto l’argomento principale delle


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chiacchierate con le amiche e inorgogliva persino mio padre che fa il sarto e che si beava tutto quando usciva dall’atelier con dei vestiti per lui taglia cinquantasei extra large. Sembrava che la felicità e il futuro della figlia fossero concentrati in quei metri di stoffa». E ovviamente a Michelangelo era venuto spontaneo raddrizzare il più possibile la schiena per guadagnare quei sei o sette millimetri che la lordosi gli aveva tolto. «All’inizio era una favola; camminavo a un metro da terra e a scuola regalavo i nove e i dieci perché ero felice. Mi sentivo amata e, soprattutto, protetta. Finalmente avevo al mio fianco una persona vincente, un uomo vero e non una mammoletta», e di nuovo Michelangelo cercava di accrescersi gonfiando il torace. «Tutto sembrava volgere al meglio, fino a quando non sono arrivati i primi colpi. Colpi veri, fatti con le sue mani che arrivavano sulla mia faccia, sulla pancia, sulla schiena... dovunque ci fossi io. Ho sperato che fosse solo un momento, qualche problema a scuola e, infatti, c’era stata la denuncia di un genitore che non aveva gradito veder tornare suo figlio dall’ora di ginnastica con dei lividi. Pare che questa fosse la prassi durante le sue lezioni ma adesso qualcuno si era stufato. E anche qualcuna! Sai, mi ha seguito più di una volta e non mi stupirei che fosse arrivato anche qui». Senza darlo a vedere, lui si era voltato un paio di volte per controllare se qualche gigante manesco li stesse seguendo. Le parole di Tania lo avevano colpito nel profondo e, di colpo, gli erano tornati alla mente alcuni episodi vissuti con Rossella e che confermavano il fatto che per lei contava poco più di nulla. Ad esempio, non aveva mai voluto presentarlo ai genitori, tirando fuori delle scuse del tipo “questa storia è solo nostra, non mettiamoci in mezzo altre persone” che poteva anche avere un senso, ma come mai quello con cui stava prima e svariati uomini che erano venuti dopo la fine del


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loro rapporto (probabilmente anche durante), si erano intrattenuti dai suoi genitori in ottimi pranzi e sontuose cene? Di questo era stato informato da un’ex collega che abitava sullo stesso pianerottolo e che era una – chesifacevasoloifattisuoienonamavaspettegolare – e, nonostante gli immani sforzi di riservatezza, sapeva tutto ma proprio tutto di tutti e ci aveva messo cinque, sofferti, secondi a spifferare il frutto delle sue spiate. Più guardava la ragazza che camminava al suo fianco, più sentiva un nodo allo stomaco, quello che gli veniva sempre quando percepiva qualcosa di grande. Come era bello e appagante stare lì con lei; come invidiava quel maledetto che aveva avuto tutto questo e moltissimo altro ancora e lo aveva buttato. Da qualche parte aveva letto qualcosa riguardo le perle ai porci. Sentiva gelosia, provava un sentimento di rabbia per quel collega che, oltre a Tania e a percepire lo stipendio (anche d’estate e con la tredicesima) senza dover nemmeno correggere dei compiti, aveva goduto (e probabilmente godeva ancora) dell’affetto dei genitori della ragazza. Era stato amato e stimato da loro, cosa che a lui non era mai capitata. A parte Rossella, anche con le altre ragazze non era mai riuscito a stabilire un rapporto positivo con gli ipotetici suoceri. Con Mirella, ad esempio, il tutto si era concluso nel giro di una giornata, anzi, mezza. Lei lo aveva invitato una domenica di aprile nella sua casa di campagna e Michelangelo si era presentato puntualissimo a mezzogiorno con un bel mazzo di rose per la madre. L’accoglienza era stata buona con strette di mano e sorrisi aperti. Poi si erano messi a tavola e, anche qui sorrisi e allegria, poi dopo il primo, Mirella aveva avuto la brillante idea di dire alla famiglia che il fidanzato aveva ben due lauree. «Oooh» generale, immediatamente seguito da «Ah» e da totale silenzio non appena si era appurato che il ragazzo andava avanti a supplenze saltuarie e le due lauree erano in


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Lettere e Scienze Politiche. Con l’arrivo in tavola dell’arrosto con patate la stella di Michelangelo era già tramontata e il saluto di commiato di papà e mamma della fidanzata era stato con un semplice cenno del capo e senza strette di mano e senza il dolce. Ma quella benedetta ragazza non poteva tirare fuori l’argomento “lavoro” dopo il caffè? La giornata di “festa” era finita e poco tempo dopo anche il fidanzamento. Comunque, inviti a pranzo non ce n’erano più stati, nonostante le insistenze di Michelangelo che avrebbe stoicamente sopportato la gelida accoglienza in cambio delle ottime portate. Con i genitori della ragazza successiva, Marina, i problemi non erano sorti per i titoli di studio poco remunerativi ma, al contrario, proprio perché li aveva. Loro, infatti, sognavano per la figlia minore un idraulico o un elettricista, visto che la maggiore si era da poco sposata con un muratore che sapeva a malapena leggere e scrivere ma che ti tirava su un muro in mezz’ora. Anche qui il pranzo di “conoscenza” si era concluso a metà perché il padre con una scusa si era alzato da tavola e nessuno se l’era più sentita di mangiare l’arrosto con patate che, a prima vista, sembrava un degno concorrente di quello della madre di Mirella. Con la terza e ultima ragazza, Romana, l’incontro non era stato rovinato da lauree o capacità lavorative, ma da Bizantina (i genitori erano amanti della storia antica), la sorellina di appena otto anni ma con una lingua sviluppatissima e che per tutta la durata del pranzo aveva sussurrato a Romana, ma in modo che tutti sentissero: «Ma come è brutto, è proprio brutto, ma perché lo hai preso così brutto? Erano molto più belli i ragazzi che ci portavi prima... e guarda come mangia, e guarda quanto mangia, sembra un morto di fame...non lo far più venire!». Né la sua amata fidanzata, né i di lei genitori avevano minimamente pensato di zittire quell’orribile bambina e, quindi,


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Michelangelo aveva dovuto abbozzare, fingendosi divertito da quei giudizi lapidari e, per non dare l’impressione di essere affamato (vero), aveva appena assaggiato l’arrosto con patate (degno compare degli altri due) e rinunciato al dolce adducendo di essere veramente sazio. Nonostante questa sua morigeratezza, le parole di Bizantina avevano colpito nel segno e, sia i genitori, sia Romana, per motivi diversi, non lo avevano piÚ voluto vedere. Punto, finito l’elenco degli inviti. E delle ragazze.


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