CEFALONIA. L'esercito fantasma (di Marco Fornasari)

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Nato nel 1987 ad Annicco, piccolo paese in provincia di Cremona, Marco Fornasari è da sempre appassionato di storia, letteratura e musica. Dopo aver conseguito con lode le lauree in Lettere e in Filologia, ha progettato e coordinato interventi formativi e percorsi culturali. Lavora in modo stabile presso il Museo del Violino, nella città di Stradivari. Avvicinatosi alla Divisione Acqui per ragioni familiari, ha trovato negli scritti di soldati suoi coetanei l’ispirazione per la sua opera prima.

€ 12.00

cefalonia l’esercito fantasma

Arruolato giovanissimo all’interno della Divisione Acqui, un soldato, carico della sua umanità, affronta il viaggio verso il fronte. La solitudine della partenza lascia il posto all’amicizia e alla condivisione. L’esperienza individuale arriva a coincidere con quella collettiva. Dopo una tappa a Corfù, sbarca a Cefalonia in cui vive un arcobaleno di esperienze e sensazioni, subendo il fascino delle ragazze greche e rimpiangendo i genitori lontani, fino al terribile settembre 1943. Lettere, agende e diari rappresentano gli strumenti attraverso i quali la storia mondiale si risolve nell’ esperienza del protagonista. Odio, desiderio di vendetta e resa senza condizioni portano al limite estremo la tensione narrativa. Scampato alla strage, egli diviene un Internato Militare Italiano. La sua speranza nel futuro trova compimento: rimpatriato, incontra alcuni commilitoni, pochi, che gli restituiscono le tessere del puzzle non vissute in prima persona. La moglie, anni dopo, ci svela come un logorio latente abbia poi preso il sopravvento su quel ragazzo che osservava il mondo con gli occhi del soldato.

Minerva Edizioni

Un romanzo nato fra le migliaia di pagine dei veri diari e lettere dei nostri soldati morti nella tragedia di Cefalonia nel 1943.

Marco Fornasari

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Marco Fornasari

cefalonia l’esercito fantasma Romanzo

Minerva Edizioni

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Collana diretta da Giacomo Battara

cefalonia l’esercito fantasma

Marco Fornasari

Direttore editoriale: Roberto Mugavero Illustrazione di copertina: morskipas.it © 2014 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978-88-7381-534-1 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com


marco fornasari

cefalonia l’esercito fantasma Romanzo

Minerva Edizioni



Prologo

Nessuno ci chiede o suggerisce di farlo, ma noi ci chiniamo e prendiamo tra le mani un po’ di terra, priva di umidità, asciutta, farinosa, di un colore chiaro, forse sbiadito dal sole della storia. La pelle brucia a contatto con quella sabbia che, polvere di vetro, logora la carne. Minuscoli granelli fendono le dita e si insinuano, come parassiti, negli incavi, sotto le unghie. Tra i riflessi perlacei riusciamo ancora a cogliere tracce di smalto color rubino, lucide, come vernice fresca, intiepidita dal sole. Acre, l’odore del sangue torna alle mie narici in una realtà che tende a coincidere con il ricordo. Forse quella terra, per lungo tempo calpestata, beve il nostro vigore per vendicarsi e farsi beffe di noi; oppure per amore, l’ha trattenuto, affinché non venisse disperso o ulteriormente oltraggiato. Ormai il mio pugno stringe se stesso tra le mani e la carne si morde da sé. Ricordo il sole di settembre, qui, ma oggi sembra volerci bruciare: il mare genera un riverbero impietoso. Tutti siamo abbacinati dai bagliori che colpiscono indistintamente le persone, la nave ferma al molo e la scogliera. Il silenzio è incredibile: una banda di ottoni, riunitasi per l’occorrenza, emette vibrazioni gutturali, ma nessuno di noi le sente. Siamo in colloquio con noi stessi, vorremmo for5


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mulare domande, portare alla mente ricordi, ma nulla avviene. Fatico a descrivere questo silenzio: forse è paragonabile a ciò che si prova dopo che un boato terribile rompe il timpano. Ecco: intorno a noi c’è un brulichio, in parte rispettoso, in parte disinteressato, ma noi non cogliamo alcun suono. Solo ora credo di iniziare a sentire un rumore, ma anche questo non è esterno; è il ticchettio di un orologio, ma io non porto orologi, eppure scandisce il tempo. Che sia il battito del mio cuore, rallentato, stanco, ammutolito? Vedo alcuni bambini, inconsapevoli spettatori, che si rincorrono, saltando qua e là, tra rocce e zolle di erba secca. Continuo a non udire... «Vuoi un fazzoletto? Cerca di non piangere.» La voce di mia moglie rompe l’incanto: sento una tromba gridare, mentre il corno la insegue con altre note, sento i singhiozzi di una bambina, che, inciampando in un sasso, è caduta sbucciandosi il ginocchio, sento le persone che parlano del più e del meno, pur mostrandosi partecipi alla cerimonia, sento i colpi, sparati a salve, dai militari. Non reggo, mi inginocchio e torno solo. Torniamo soli. Accomunati dal desiderio di memoria, soffriamo del gravoso pegno d’essere vivi: mai l’esistenza è stata più dolorosa della morte. Solo noi, tra tutti i presenti, soffriamo questo inferno, che annebbia la vista e ottunde la mente. Noi reduci. 6


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Un sacerdote recita il Requiem aeternam con la platea che mormora nel suo latino incerto. Forse in quel riposo eterno sta anche la mia pace; solo in quel momento la mia quiete sarà senza memoria, oppure serberò il ricordo, ma non proverò dolore? Com’è possibile rammentare senza soffrire? Ora è una tromba, nuda, scoperta, ad invitarci al silenzio. Quante volte ho sentito quelle note lunghe e piene lacerarmi il cuore... pa, paaa, pa, pa, paaa, pa, pa, pa, paaa, pa, paaa. Ancora un ultimo sforzo è chiesto ai miei occhi: corone di alloro vengono deposte in mare e come corpi inanimati galleggiano, dapprima, per poi sparire, lentamente, risucchiate dall’acqua. Quello stesso mare che tanti di noi, ancora oggi, custodisce. In disparte, un gruppo d’isolani partecipa alla cerimonia di commemorazione. Le donne piangono per noi, per la nostra storia, o forse siamo noi la causa: abbiamo ucciso loro il padre, un fratello, lo sposo? Per la prima volta ritorno a Cefalonia, anche se vi trovo il mio cuore, che da lì non è tornato. Sono passati anni, ormai, ma nulla è più vivo in me del terrore, così umano, di non farcela. Il coraggio e l’incoscienza della gioventù si sono afflosciati, in un attimo, come fiori di primavera zavorrati dall’acqua di un temporale. D’un tratto eccoci, soldati, protagonisti di una tragedia greca. 7



Parodo

La più grande festa che si possa immaginare. La definiscono “chiamata alle armi”, ma, detta così, le madri scoppiano in lacrime: sono addolorate per la partenza di noi, giovanissimi soldati. L’eccitazione per me è alle stelle: non ho mai compiuto viaggi lunghi e non sono stato lontano da casa per più di due settimane. Quella poi non era una vacanza, ma un supplizio. Mio padre ha due sorelle non sposate che, per motivi di salute, si sono trasferite al mare da alcuni anni; durante l’estate, le raggiungo per respirare anch’io un po’ di iodio. Le poche ore trascorse in treno, da solo, affidato al capo stazione, che spesso si assenta dal posto a sedere accanto al mio, per compiere il suo lavoro, sono l’unico profumo di libertà che io abbia mai assaporato. Ora non posso certo raccontare i ritmi lenti e le attenzioni oppressive delle amorevoli zie, ma tutto mi serve per descrivere il mio stato d’animo in questo momento in cui l’avventura si spalanca di fronte ai miei occhi. Sulla cartolina c’è proprio il mio nome. La notte non riesco a chiudere occhio per i pensieri che accorrono alla mia mente, come bambini alla vetrina del negozio di caramelle, attratti dai colori sfavillanti: mi sento un esploratore che deve guadagnare 9


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terreno senza cadere nelle trappole della foresta, silenzioso m’addentro nei meandri intricati d’una fitta vegetazione che vuole sopraffarmi. Che ebrezza poi mi suscita l’idea degli armamenti. M’immagino la sfilata trionfale di mezzi corazzati, con le bandiere tese dal vento, che pare anch’esso omaggiare il Re. Una parola mi ossessiona: vittoria! Sento le vene pulsare, il sangue ribollire, devo alzarmi, sono pronto, eccomi. «Cosa fai già in piedi?» «È più forte di me, papà! Non riesco a controllare l’entusiasmo!» «Torna a dormire! Vedrai che poi ti mancherà il materasso morbido e confortevole, che hai frettolosamente abbandonato!» «Ti sbagli! Anche la nuda roccia mi sembrerà rivestita di piume! E... dimmi un po’: ora che ci penso anche tu sei alzato! Non vorrai partire volontario?» Avrei voluto sentirlo ridere della mia domanda, ma rimane inespressivo. «Insonnia, emicrania. Ormai da qualche tempo riesco a riposare solo poche ore per notte.» Mi abbraccia, forse per la prima volta, ed io, imbalsamato dallo stupore, non riesco a ricambiare il gesto d’affetto e le mie braccia irrigidite costeggiano i miei fianchi senza moto. Torna in camera sua senza aggiungere altro. 10


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La divisa è di almeno una taglia più grande rispetto alla mia, il tessuto ruvido conserva ancora rigide le sue pieghe. Una cintura, dura, mi aiuta a trattenere i pantaloni fermi alla vita, ma le ampie tasche, ai lati, appesantiscono l’insieme, che cede alla forza di gravità. I bottoni scuri richiamano gli stivali, lucidi come lamiera al sole. Le suole sono pronte per lunghe marce e scatti repentini. Ai miei occhi appare come un abito da cerimonia, il vestito d’un eroe. Sono indeciso: riporterò a casa la divisa senza neppure un filo tirato o sarò orgoglioso di mostrare tagli e macchie, ognuno con la propria storia avvincente? «Scrivimi appena potrai!» «Sì, mamma.» Credo che con le stesse lacrime bagnerà ogni lettera, ma non sa cosa significhi per me, per noi ragazzi, partecipare ad una simile missione; in Grecia, poi. Eppure mi rattrista vedere la sua fragilità così esposta. «Scrivi anche alle zie e se puoi – gli occhi annegano nuovamente – non metterti in pericolo! Ascolta i tuoi superiori, esegui sempre gli ordini e non ti cacciare in situazioni poco opportune; fammi sapere se trovi qualcuno di conosciuto, così da avere una sicurezza in più.» «Sarà come a scuola, non ti preoccupare. Ho sempre fatto il mio dovere! Le amicizie, poi, non mancheranno di certo!» 11


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«Sì, però stai attento e mangia! Ricordati che per affrontare ogni giornata hai bisogno di vigore! Però non metterti in pericolo!» Di nuovo il flusso di lacrime riprende la corsa sul volto contratto. «Stai tranquilla. Dicono sia una destinazione sicura! Papà, tranquillizzala tu!» «Cerca di capirla! È tua madre! Parti per la guerra!» «Va bene, va bene! Ricordatevi però che vado nelle meravigliose isole greche! Un giorno vi torneremo insieme! Promesso!» Mio padre, medico, ha voluto ch’io imparassi a leggere e scrivere per poi studiare e proseguire la sua attività. Della Grecia ho sempre apprezzato la cultura antica, quella dei racconti mitici, dei viaggi, delle intricate relazioni tra animali, uomini e divinità. Già m’immagino attorniato, non da nemici, ma da bellissime ninfe, che sbucano, qua e là dal mare, per me, Dio della guerra. Mi spiace essere stato chiamato solo ora, quando ormai le nostre postazioni sulle isole sono consolidate. Non ho combattuto in Albania e non ho partecipato alla conquista delle isole in cui mi trasferiscono, ma sono certo che saprò difendere l’area dai rivoltosi. Mi hanno detto che lì, con noi, ci saranno anche i tedeschi. Beh, niente in contrario, d’altronde sono nostri alleati e poi sono certo che le ragazze preferiranno noi italiani. 12


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Salito sul treno con i miei bagagli, trascorro le ore di viaggio sempre osservando il paesaggio, mutevole, che mi porta fino alla città in cui è previsto il ritrovo per imbarcarsi. Forse attratti dalla mia divisa, tutti sembra mi rivolgano uno sguardo orgoglioso. Alcuni mi salutano e una donna è costretta a scusarsi per il figlio che riconoscendo in me, forse, qualche fotografia del padre in divisa, s’avvinghia al mio polpaccio con una forza indicibile. I suoi occhi, poi, cercano nei miei rassicurazioni, che non sono in grado di dare. «Ehi!» «Lo scusi, è solo un bambino.» «Non si preoccupi. Pensavo fosse inciampato. Ehi! Come ti chiami?» Dopo avermi rivolto uno sguardo severo si rintana tra le gambe della madre senza darmi risposta. «Sono alcuni mesi che non vede il padre e... gli manca molto! Cerco di distrarlo in mille modi, ma quando vede una divisa il pensiero va all’ultimo loro incontro; lei è in licenza?» «No, in realtà mi reco al fronte per la prima volta!» «In effetti, è così giovane! Comunque non volevo trattenerla, anzi, perdoni l’invadenza.» «Non si preoccupi. Ehi, tu! Mi saluti?» Il suo viso ricompare brevemente per poi tornare ad immergersi nel morbido tessuto dell’ampia gonna della madre. 13


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«Lo scusi ancora! È solo un bambino! Buon viaggio!» Già, è solo un bambino. Se ripenso alla mia infanzia, anch’io ricordo un padre spesso assente per motivi di lavoro, ma la certezza che la sera tornasse sempre a casa era sufficiente per non destare in me eccessive preoccupazioni. Questo incontro affievolisce per un attimo il mio entusiasmo, tuttavia, mi dico, è giusto che io parta proprio ora che non ho vincoli, figli o spose a casa, che potrebbero patire la mia assenza o ancor peggio trovarsi in una condizione di disagio economico e sociale. Non avrebbe più lo stesso sapore un viaggio simile compiuto con le catene alle caviglie. Libero! Libero di partire! Questa condizione mi rende felice. I vagoni sono rumorosi, i vetri traballano, ma ciò che amo maggiormente è il fischio della locomotiva che sembra gridare: «Scansaaatevi!!!». Non conto le stazioni in cui ci si ferma, perché preferisco fantasticare sui nomi stravaganti di alcune cittadine che incontriamo. Cerco di risalire all’origine antica di un nome o dell’altro, ma spesso mi trovo spiazzato dal non saper ritrovare, in me, alcun riferimento. Eppure qualcuno avrà pur scelto il nome del paese. Quando il capostazione dà il segnale di via libera, il treno, lentamente, riprende il cammino verso la mia meta. Un gruppo di ragazzini inizia a rincorrere il treno. Corrono come lepri inseguite. Immagino che alla base di tutto stia una gara, forse una sfida a 14


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chi più tiene testa al treno che, allontanandosi dalla stazione, incrementa la sua velocità. Abbasso il finestrino e percepisco le loro voci. «Sono primo!» «No, ti supero! Vinco io!» «Ragazzi aspettatemi! Non vale!» «Forza correte! Il treno è più veloce!», grido attirando l’attenzione degli altri passeggeri; rido di gusto vedendo uno di loro lanciarmi il berretto. Vince quello con la maglia grigia, o almeno credo, perché in un attimo la sua corsa si arresta, il treno svolta e la comunicazione visiva s’interrompe. Come sono lunghe le ore quando si aspetta un avvenimento importante! Ho tralasciato di salutare alcuni parenti e qualche amico di famiglia; i preparativi, d’altronde, non mi hanno concesso molto tempo. Tuttavia potrei scrivermi un elenco e, alla prima licenza, saldare il debito. Ancora prati, campi, caseggiati e colline in lontananza. Nella ripetitività del paesaggio ci sono comunque elementi di mutevolezza che appagano la vista: ora un albero isolato, ora un filare, uno spuntone roccioso, un dolce avvallamento e nello scrutare la bellezza della natura mi accorgo di un sapore amaro tra le labbra. La contemplazione produce un desiderio di pace. Che cosa assurda pensare alla pace in un momento come questo! La guerra è l’unica soluzione per l’affermazione del na15


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zionalismo. Gli alberi solitari sono buoni per le impiccagioni dei traditori, null’altro! Questo ci hanno insegnato e così dev’essere. Mi guardo la divisa e con un gesto imperioso la spolvero per togliere ogni traccia tardoromantica. Per riprendermi, penso alla nostra grandiosa bandiera con lo stemma sabaudo che spicca vittorioso, al centro, sulla banda bianca. Perso tra le immagini di gloria che mi si dipingono nella mente, pensando all’esercito schierato, non m’accorgo di essere ormai giunto a destinazione. Per fortuna, in un attimo di lucidità, ho realizzato dove fossi e, con la rapidità di un gatto che scappa spaventato da un tonfo, raccolgo il mio bagaglio, supero alcune persone ferme in mezzo al vagone e inforco l’uscita. «Scusate! Scusate! Permesso! Mi scusi!» Il capotreno che già ha fischiato per segnalare la partenza, mi lancia uno sguardo di disapprovazione e lo sento mormorare: «E li mandano in guerra!» Avrei voluto chiedere il significato di quell’affermazione, ma già il treno aumenta la sua velocità e l’occasione è persa. Quel “li mandano” che cosa significa? In che categoria m’inserisce? Forse ha poca considerazione dei giovani; ci ritiene non adatti al conflitto. Questo pensiero m’innervosisce, vorrei potergli dimostrare che si sbaglia. Ma chi mi dà la certezza che non sia io a sbagliare? Ora è tardi. Vedo altri giovanissimi, come me, dirigersi verso il porto. 16


Li seguo. Ecco, finalmente il mare. «Ehi! Stai un po’ attento con quel borsone.» «Muoviti! Da questa parte, non senti che ci chiamano?» «Sei sordo?» Mai viste tante persone vestite allo stesso modo tutte insieme. Da ogni strada di accesso arrivano soldati. Molti sono già qui, mentre le navi immobili, trasmettono al contempo un senso di solidità e spaesamento. Mentre alcuni ragazzi più timidi avanzano, come me, con qualche incertezza, altri corrono verso il traguardo, convinti, forse, di potersi guadagnare una posizione migliore sul ponte. «Qui, signori. Da questa parte. Mantenetevi su due file per il riconoscimento. Avanti, senza paura. Preparate i documenti, così velocizziamo le procedure. Da questa parte. Ehi, voi! Cosa fate a piedi nudi? Mettetevi immediatamente i vostri scarponi. Dove credete di essere? Forse devo ricordarvi il motivo della vostra chiamata? Non crediate di partire per una vacanza! Forza, forza! E ora in fila! Vedono il mare e già sentono il richiamo delle sirene. Dovrete restare vigili e attenti per onorare il vostro Re, la vostra patria e le vostre famiglie!» Qualcuno sorride senza farsi vedere e un giovane alle mie spalle ripete le sue parole cercando di riproporne la cadenza. 17


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«Bella parodia!», dico voltandomi tendendo la mano all’imitatore alle mie spalle. Devo pur iniziare a conoscere i miei compagni d’avventura e certamente uno simpatico serve sempre, per sollevare l’umore nei momenti meno incoraggianti. «Paro... che?» Invece di rispondere al mio gesto di cortesia si porta la mano all’orecchio come a volerne allargare il padiglione. «Parodia!» Grido con forza pensando che la non comprensione sia dovuta al disturbo delle tante voci che si sormontano in un chiacchierio incredibile, ma dal suo sguardo mi rendo conto che non gli è chiaro il significato. «Parodia è una parola di origine greca, significa imitazione ridicola.» «Amici, ne ho trovato uno che sa il greco! Parlerà lui!» «No, no. Ti sbagli. Non so il greco. È solo un’etimologia, una derivazione linguistica. Niente di più». «Pazienza! Ne cercheremo un altro! Comunque puoi chiamarmi... Parodia! Mi piace! Amo fare i parodia. E poi non stiamo andando proprio in Grecia?» «Si dice “Le parodie”, è femm... Beh, insomma, piacere mio!» Alle mie spalle una voce potente esclama: «Allora! Prestate attenzione! Credete di essere in fila per il 18


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biglietto d’ingresso al circo! In fila, presto! Avanti, avanti!» Questa volta il rimprovero è rivolto a me, che, per presentarmi, mi sono voltato, perdendo il senso della fila. «Avanti, Avanti!» Ora, però, è Parodia ad aver parlato, con il suo tono ironico. Cerco di non perdere di vista il gruppo di soldati con cui mi sono imbarcato e infatti riesco a rimanere loro vicino. L’aria, qui al porto, ha proprio il sapore del mare. Mi sembra già di vedere la Grecia sporgendomi un po’ dalla nave. Sono troppo curioso e, affidato il mio bagaglio al nuovo amico, inizio a camminare, cercando di cogliere dettagli utili. «Posso lasciare qui tutto mentre vado a curiosare un po’ in giro?» «Vai pure! Se hai del cibo e poi non te lo ritrovi più, però, non dare la colpa a me... o meglio, io ti ho avvisato! Ma non è che le “paro-cose” si mangiano vero? Sono in viaggio da alcune ore e credo che potrei mangiarmi anche quelle!» «Mi spiace ma devo darti due brutte notizie: non ho portato cibo e le parodie purtroppo sono solo parole!» «Allora per punizione ti stacco un braccio e mi mangio quello!» Per un attimo non colgo l’ironia della sua esclamazione e la perplessità dev’essersi stampata sulla mia faccia. 19


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«Sto scherzando, bello! E poi secondo te mi mangio un braccio crudo?» Stavolta rido con gli altri e mi dirigo altrove. Scrutando i volti dei soldati, mi accorgo di quanto le differenze tra noi siano talmente superficiali da renderci riconoscibili, forse, solo alle nostre famiglie. Chi altro, guardandoci tutti insieme, con la divisa, avrebbe potuto distinguerci? Noi, soldati della Divisione Acqui, siamo un esercito di fantasmi, ognuno con lineamenti propri, eppure tanto anonimi. Forse quando ci saremo conosciuti meglio, anch’io riuscirò a distinguere uno ad uno i miei compagni, eppure, per ora, la sensazione è di disorientamento. In preda a questi pensieri mi chiedo se riuscirò ancora a trovare Parodia con la mia valigia, se sarò in grado di riconoscerlo. Vengo distratto da una conversazione che avviene proprio vicino a me. Alcuni ufficiali parlano con un soldato semplice e sembrano molto interessati a ciò che egli sta loro riferendo. Vorrei descriverlo fisicamente, ma mi accorgo che le stesse parole potrebbero adattarsi a chiunque di noi. Tutti e ciascuno: castano, magro, piuttosto alto con la divisa uguale alla mia. «Terremo presente che Lei conosce la lingua locale. Il comando valuterà se coinvolgerla nelle relazioni ufficiali con le popolazioni. Ora vada. Avremo modo di discuterne una volta giunti a destinazione.» 20


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«Vi ringrazio!» Mi viene in mente la conversazione avuta all’imbarco con Parodia e certamente quel ragazzo potrebbe essere dei nostri! È proprio il mio giorno fortunato. «Scusa, ehi, tu!» «Io?» «Sì, tu. Vieni da questa parte!» «Cosa c’è? Ho fatto qualcosa di sbagliato?» «No, no. Ho sentito mentre parlavi con gli ufficiali e volevo chiederti se ti andava di unirti al nostro gruppo. Siamo da quella parte.» «Perché no! Un attimo solo. Recupero le mie cose e ti seguo.» Sono certo che sarà di notevole aiuto per noi. Io senza bagaglio sono più leggero e riesco ad avanzare con più agilità. Quando arrivo al mio posto riesco appena a dire «l’ho trovato», quand’ecco che il motore si accende e un rumore assordante impedisce qualsiasi comunicazione e il movimento improvviso mi fa cadere in avanti. «Ahi! L’ho trovato!» «Chi?», mi dice Parodia sollevandomi con una mano. «Lui! Lui sa il greco!» Non so perché, ma le mie parole sono uscite come un sussurro, quasi volessi condividere un segreto; invece, con la spontaneità dei semplici, Parodia stringe la mano al nuovo arrivato e, prima ancora 21


che egli possa parlare, esordisce dicendo: «Benvenuto a bordo! Non dirmi il tuo nome, dunque...» Fingendo una concentrazione mistica, mantiene su di sé lo sguardo di tutti noi. «L’Interprete!» «Come?» Mentre il suo volto assume un aspetto interrogativo, io prendo il mio viso tra le mani per nascondere una risata che sento nascere spontaneamente sulle mie labbra. «D’ora in poi per noi sarai l’Interprete!» Incredulo per la sicurezza con cui Parodia l’ha battezzato “Interprete”, si volta verso di me e, vedendomi palesemente divertito, comprende immediatamente l’accaduto. Invece di indispettirsi, sorride. «E sia!» Una risata collettiva chiude il rito d’investitura. Durante le ore di viaggio ognuno racconta le proprie origini, le esperienze e qualche aneddoto curioso, così da mantenere desti gli interlocutori. L’intera Italia è rappresentata. Comune in noi, giovani soldati, è l’intento di partecipare ad un simile avvenimento, prendendovi parte con tutto il vigore della nostra età. Già fantastichiamo sull’arresto dei temibili rivoltosi, presi in trappola grazie ad astuzie militari e al nostro coraggio. Nessuno parla del rimpatrio o della fine della guerra. Forse i più grandi, quelli con una moglie o dei figli a casa, non distolgono la mente dalla riva dalla 22


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quale siamo salpati, ma noi no. Il nostro sguardo è teso all’orizzonte, verso quella meta tanto desiderata. «Non sto più nella pelle! Vorrei già essere arrivato!» «Anche lui!» Parodia indica un poveraccio che ha vomitato l’anima per tutto il tempo del viaggio: pochi minuti dopo la partenza, nonostante il mare tranquillo, non è riuscito a trattenersi e... «Come si fa a soffrire il mal di mare? Io – prosegue l’amico ironico – vivrei in barca o in nave tutta la vita. Ci sono portato!» «A me non dà fastidio, ma preferisco toccare con i piedi la terra ferma e guardare il mare dalla spiaggia, magari in buona compagnia! E tu?», mi rivolgo all’Interprete che mantiene un’espressione a metà tra il concentrato e l’inebetito. «Io? Cosa? Scusate ma non vi stavo ascoltando. Sto cercando di controllare i crampi allo stomaco. Avrei bisogno di un pezzo di pane» «Mi spiace ma dovrai aspettare! Chi si era portato del cibo da casa l’ha già divorato! Comunque ho sentito dire che non dovrebbe mancare molto!» Si delinea, in una leggera foschia, il profilo accattivante di un’isola, eccola, è Corfù. Nell’avvicinarci vediamo il mare diventare più azzurro, mentre la costa frastagliata non nasconde dolci colline verdeggianti. A bordo un moto d’eccitazione sembra aver risveglia23


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to i traghettati. Se prima alcuni, in disparte, riposavano col viso coperto e altri distrattamente parlavano con i nuovi amici, ora tutti sono balzati in piedi ad ammirare lo spettacolo naturale. La costa sembra venirci incontro. Proprio in quel momento, però, la stessa voce udita al porto richiama tutti all’ordine. «Mai vista un’isola? Ricomponetevi! Siete militari, siete soldati. Raccogliete i vostri bagagli e una volta scesi, ad ognuno sarà consegnato un pacco da portare fino alla caserma. Tutto chiaro? Forza!» «Forza, forza, forza...» L’ormai nota voce del mio nuovo amico ripete all’infinito quell’ultima parola, come fosse l’eco di un monte. «Forza, forza, forza...» Secondo gli ordini ricevuti, scendiamo dalla nave e iniziamo la marcia che in breve tempo ci conduce dal porto alla nostra destinazione. I bagagli vengono raggruppati e le merci consegnate al deposito. I comandi ci informano che la nostra permanenza sull’isola durerà solo il tempo di organizzare lo spostamento verso Cefalonia. Tuttavia, alcuni di noi vengono incaricati per svolgere svariati compiti. Perdo di vista i miei due compagni e vengo scelto per accompagnare un gruppo di uomini al sito in cui è stato attivato il collegamento radio con l’Italia. Quest’idea non mi entusiasma: ho lasciato casa da così pochi giorni che 24


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non riesco ancora a sentirne la mancanza. La dimensione tecnica del collegamento radio, però, m’incuriosisce e così inizio a chiedere informazioni. «Sono stato scelto dal Comando del X Raggruppamento di S. M. quale Capocentro del ponte radio di Corfù in collegamento con l’Italia per servizio telefonico e telescriventistico. Undici uomini, una stazione radio IMCA ad onde corte e quattro telescriventi costituiscono il centro teleradio. Per ragioni tecniche la stazione radio non può essere piantata in Corfù città e pertanto è stata posta a 700 metri sul livello del mare e a 30 kilometri dalla città stessa in un villaggio piuttosto brutto e privo di qualsiasi attrattiva e comodità.» Queste ultime parole non minano il mio stato d’animo, essendo consapevole di dovervi restare per poco. Il mio interlocutore mi racconta le difficoltà iniziali nell’identificare il luogo ideale in cui instaurare il collegamento radio. Dopo una camminata non troppo lunga, inizio ad intravedere il villaggio che già dall’esterno si mostra nella sua nudità. Poche abitazioni e non troppo curate, nessun greco in strada e un silenzio da camposanto. Non mi sento di giudicare “brutto” quel luogo, perché il mio sguardo, prima concentrato sul percorso, incontra uno spettacolo incredibile: da quei 700 metri di altitudine il panorama è meraviglioso. Il mare lambisce le coste dell’isola con una dolcezza che nel frenetico moto umano 25


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dello sbarco non ho colto. All’orizzonte, lontanissimo, fatico a distinguere il punto in cui il cielo tocca il mare, poiché l’azzurro è così simile in entrambi che non potrei giurare che sia il cielo a specchiarsi nell’acqua e non il contrario. Non ci sono aerei nel cielo, non navi nel mare aperto e, tornando con la mente ai miei studi, per un attimo penso di trovarmi nella mitica Atlantide inghiottita dalle acque. «Tu! Dammi una mano!» «Signorsì!» Ridestato dal richiamo, aiuto gli altri militari. A un soldato che dice di essere lì da tempo chiedo come procede la collaborazione con i tedeschi. «Il nostro problema è il gruppo di rivoltosi, non i tedeschi. Questi ultimi sono nostri alleati. Certo hanno modi un po’ strani, ma credo sia la loro cultura. Noi italiani siamo genuini, mentre loro faticano ad esprimere i loro sentimenti. Eppure con alcuni siamo diventati proprio amici. I partigiani greci sono pericolosi, violenti. Ma ormai sono sotto controllo e la situazione è abbastanza stabile. Sento dire che ad Atene e in gran parte della zona continentale le difficoltà sono maggiori. L’isola è una difesa naturale: una volta controllata internamente con l’imposizione della forza è sufficiente impedire sbarchi sulle coste.» Proprio quello che volevo sentirmi dire. Inizialmente pensavo di voler partecipare ad una guerra sanguino26


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sa, ma, dopo aver ascoltato alcuni racconti, mi sono convinto di essere stato fortunato: la faticaccia è già stata compiuta ed ora si tratta di mantenere le posizioni conquistate. Trattandosi di isole, il gioco è fatto. «Quindi possiamo stare tranquilli?» «Tranquilli? E pensi che vi abbiano fatti venire fin qui per stare tranquilli? Dovrete stare sempre attenti, senza mai mostrarsi appagati: tutti dovranno sempre sentire la morsa del vostro controllo. Voi siete diretti a Cefalonia, vero?» Annuisco, mordendomi la lingua per l’ingenuità della mia domanda. «Dovrete mantenere il controllo dell’interno e sorvegliare le coste, ricordandovi che i nemici possono nascondersi ovunque! Stare tranquilli? In guerra? Ah! Che gioventù!» Senza nascondere il suo disappunto abbassa lo sguardo e riprende il lavoro che aveva interrotto per darmi retta. Prestato il nostro aiuto alla stazione radio, salutiamo e congedandoci rientriamo alla base. Ripercorriamo in una marcia meno strutturata il tragitto che ora mostra tutta la semplicità della discesa. Non dovendo prestare attenzione al percorso del sentiero, sufficientemente battuto, la curiosità è libera e la vista può esplorare i dintorni soffermandosi su un carro di legno isolato e più in giù su un casolare abbando27


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nato, o forse utilizzato in alcuni momenti dell’anno. La discesa ci fa guadagnare tempo e così possiamo sostare un po’ in un luogo riparato. Da lì mi accorgo di avere accanto un ulivo, rugoso, nodoso, antico, con una chioma rigogliosa. Le foglie lunghe e sottili contrastano con l’aspetto tozzo e vissuto del tronco. Accanto al primo, eccone un altro, e poi un altro ancora... Non avevo notato che quasi tutta la vegetazione attorno a me fosse composta essenzialmente da ulivi. Quiete e forza, ecco le due sensazioni che mi trasmettono. In un certo senso quel tronco secolare rappresenta la nostra Italia e le giovani foglie siamo noi pronti a lottare contro il vento, la pioggia, pur di difendere la vita della patria. Il frutto è la vittoria, quella definitiva che presto otterremo. Un pensiero nuovo si offre alla mia mente: avrei voluto essere con i ragazzi della nave per iniziare con loro questa esperienza; nonostante le poche ore trascorse insieme percepisco la loro amicizia come un’esigenza positiva: mi sento fortunato e felice. Il cammino riprende e in breve tempo giungiamo al campo. Avremmo dovuto sostare lì alcuni giorni, ma in realtà ci fermiamo per almeno un mese. Essere dislocati per un tempo limitato in un luogo rende impossibile l’impostazione di attività complesse e il nostro aiuto, dunque, viene richiesto solamente in pochi momenti. La noia di queste giornate è atte28


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nuata dai pensieri positivi rivolti alla nostra Cefalonia. «Lì entreremo nel pieno della vita militare e della gestione dell’isola. Datemi tempo qualche settimana e diventerò Podestà!» «Non riesci proprio a trattenerti! Sei incredibile!» Fingendo di non darmi retta, Parodia inizia ad atteggiarsi da Podestà, come recitasse una parte in teatro. «Voi sarete i miei consiglieri! Tu, svelto. Portami da bere! E voi? Cosa fate lì impalati? Mi serve l’inchiostro. Devo scrivere al Re!» All’Interprete scendono grossi lacrimoni dalle risate, mentre io lo supplico di smettere prima che qualcuno lo senta. «Smettere? E chi ti credi di essere per darmi ordini! Io sono il Podestà di Cefalonia!» La risata collettiva raggiunge un fragore forse eccessivo e così anche il teatrante interrompe la sua performance. Qui non vale la pena neppure di allontanarsi dal centro operativo per perlustrare le zone circostanti. Il silenzio durante la notte è rotto solo dal latrato di un cane, dal gracchiare di una cornacchia o dal passo cadenzato dei soldati di turno per la ronda. A fatica inizio a recepire la metodica ripetitività dei rituali militari: la sveglia, il rancio, la marcia, la ronda... Fatico a calcolare il numero di ore trascorse guardando 29


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il mare. È difficoltoso anche distinguere un giorno dall’altro tanto s’assomigliano; neppure il pasto offre una varietà riconoscibile. Così, ogni racconto diventa un diversivo alla monotonia della nostra attesa per il reimbarco. «Quando abbiamo finito in Albania», mi dice un pomeriggio un uomo seduto accanto a me, «siamo sbarcati a Corfù. Ormai nulla è rimasto da fare. Guardiamo il mare e sempre dallo stesso luogo. Non ho mai potuto raggiungere le due fortezze che guardano proprio l’Albania, che dista qualche chilometro soltanto da Corfù.» Mi confida questi suoi pensieri senza voltarsi verso di me, ma tenendo gli occhi verso un punto invisibile in lontananza. Una commozione particolare segna il suo viso. «Mi hanno comunicato che è morta mia moglie.» Il silenzio è l’unica risposta che riesco a dargli: non parole di conforto, non comprensione, né incoraggiamento. Perché ha scelto di parlare con me? Forse un cappellano avrebbe potuto aiutarlo. Io no. Seguo la linea immaginaria disegnata dai suoi occhi e in assenza di parole, per la prima volta, penso alla mia famiglia. Certamente stanno tutti bene, mi dico. Facendo peso sulla gamba destra e spingendomi con una mano, mi rialzo allontanandomi. Per il resto della giornata sto disteso nella stanza, guardando il 30


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soffitto. Volevo restare a riflettere in solitudine, ma le mie orecchie sono solleticate dalla voce di un sottufficiale, il quale, poco distante, racconta l’arrivo a Corfù dall’Albania. «Un giorno ed una notte soltanto; e tale periodo fu dedicato tutto al lavoro per caricare il nostro materiale sulle navi che ci dovevano portare a Corfù. Il Battaglione fu imbarcato verso mezzogiorno su di un modernissimo e magnifico incrociatore che partì dal porto verso l’una pomeridiana. Si sarebbe potuto arrivare in un paio di ore poiché il canale che divide l’isola dalla costa è poco largo, ma il convoglio dovette tenere una velocità minima per timore di cozzare contro qualche mina, che era allora nel mare lasciata dal nemico. Verso le ore tre pomeridiane si capì che nell’isola non v’erano più truppe che volessero opporre resistenza ed allora si andava con maggior sicurezza. Si arrivò in porto verso le quattro fra le acclamazioni della popolazione civile che gremiva la piazza del porto, le finestre ed i balconi degli edifici. Non appena sbarcati una bambina consegnò al nostro valoroso Colonnello un magnifico mazzo di fiori.» Pur non avendo vissuto in prima persona l’accaduto, seguendo le sue parole, riesco ad immaginare passo dopo passo gli eventi narrati; la sensazione più forte è legata all’incertezza del moto causata dalla presenza delle mine. Del mazzo di fiori non vedo solo i colori, ma riesco a percepirne anche il profumo, poiché – mi 31


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dico – certamente sono i fiori selvatici che anch’io, in queste giornate di attesa, ho imparato a riconoscere. La varietà della natura spontanea è incredibile: al di là della forma di ogni fiore, a lasciarmi ogni volta incredulo sono le sfumature dei petali. Chiazze gialle, rosse, rosa o azzurre, che da lontano appaiono come una macchia uniforme, se osservate da vicino mostrano linee, intagli, disegni più o meno regolari, ognuno con un colore proprio. Decido di rialzarmi, di uscire e di recarmi in un campo incolto poco distante. In quel momento scopro che un unico fiore può avere due petali viola, due più chiari, quasi azzurri, uno che tende al giallo, mentre baffi neri irregolari ne segnano la superficie, quasi come tratti sicuri di carboncino. Intanto che la mente elabora questo pensiero, gli occhi indugiano su un delicatissimo gruppo di fiori bianchi nati al riparo di una roccia. Avrei potuto fermarmi a Corfù. «Hai visto? Caricano muli e mezzi corazzati. Se corazzassero anche i muli potremmo usarli in battaglia!» Una risata distratta accompagna il commento del solito burlone. La stessa imbarcazione sulla quale, di lì a poche ore, ci saremmo imbarcati ospita nel suo ventre alcuni mezzi pesanti e una decina di animali da soma, già caricati di sacche voluminose. L’odore intenso, a cui forse avrei dovuto abituarmi, non mi esce dal naso: il pelo umido e lo sterco qua e là 32


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disperso sviluppano una combinazione che stimola negativamente il mio olfatto. Un’altra risata, stavolta più fragorosa, investe il gruppo di amici al mio fianco: un soldato corre verso la riva per lavarsi lo scarpone dopo che, distratto dalla novità dello spettacolo, lo ha immerso per almeno un terzo nello sterco, pronto per salire a bordo. «Porta fortuna!» «Fortunato a non esserci scivolato dentro con tutta la divisa!» «Guarda dove metti i piedi!» «Non preoccuparti! È santa come quella dei bambini!» I commenti si sprecano e ognuno sembra voler aggiungere la propria voce al coro sarcastico. Da giorni aspettiamo la partenza e come bravi studenti ci disponiamo in fila, certi che l’avventura avrebbe finalmente avuto il suo inizio. Dopo giorni e giorni di vita regolare e tranquilla, l’entusiasmo sembra crescere rapidamente; i più maturi sorridono nel vedere i giovani radiosi per la prospettiva che si apre ai loro occhi. «Ascoltate! Prestate attenzione! Devo comunicarvi che il viaggio si protrarrà oltre il dovuto, in quanto non ci fermeremo a Cefalonia, ma arriveremo a Zante.» Un brusio dapprima leggero, cresce di tono, disturbando l’intervento. 33


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«Silenzio! È un ordine!» In quella parola “ordine” sta tutta la filosofia gerarchica militare. In cuor mio sento il rancore per lo smacco subito; non so quante ore ho trascorso immaginando lo sbarco definitivo e invece ora si prospetta un’altra meta provvisoria. L’incertezza di questa condizione è determinata dal fatto che non sappiamo per quanto tempo vi sosteremo. Qualcuno dice che rimarremo solo il tempo di scaricare muli e mezzi, ma credo che la partenza non sarà immediata. Il viaggio procede in un silenzio contrariato. Nel ripensare all’entusiasmo della prima traversata, in cui gli animi carichi di vita si agitavano, tesi, immaginando la costa greca, mi rattristo cogliendo le differenze con gli sguardi rassegnati dei miei compagni. Sembra di perdere tempo. Noi, che non conosciamo le strategie dei comandi, sentiamo la stanchezza che provoca l’ozio nelle giovani membra. Alcuni sonnecchiano in disparte, altri giocano a carte, mentre Parodia si avvicina. «Dirottiamo la nave! Dirottiamo la nave in direzione Cefalonia!» «Attenersi agli ordini!», dico con fare serioso. «Non scherzare! Sono serio! Ho solo un problema: non so dove sia Cefalonia! Non so da che parte andare! Per questo mi serve il tuo aiuto!» «Dunque, vediamo... a occhio e croce... di là!» «Ottimo! Di là, dove?» 34


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«Mi sto prendendo gioco di te, non vedi? Neppure io saprei dove andare!» «Ah! Sei inutile!» Entrambi sorridiamo, quand’ecco alle nostre spalle un soldato si alza, allunga il braccio a prua, e il suono della sua voce esplode nell’aria. «Capri! I faraglioni! Siamo a casa!» Davanti a noi una specie di diga altissima, rocciosa, chiara. La nave vira leggermente, per giungere al porto, che evidentemente si trova altrove. «È Zante, siamo arrivati!» La delusione del cambio di destinazione sembra dissolversi nella meraviglia dello spettacolo naturale. Se da un lato la costa appare scoscesa e rocciosa, dall’altra si nota il pendio più morbido che, accompagnato dalla vegetazione, giunge delicatamente al mare, con una sabbia bianchissima. Mai ho potuto contemplare una simile bellezza. Anche tra i miei compagni di avventura i sentimenti sono improvvisamente mutati: Zante esercita su di noi una forza di attrazione pari a quella della gravità. Alcuni minuti fa l’intero battaglione sembrava assopito, mentre ora ogni sguardo è rivolto a quell’isola incantata. Parodia stesso resta incredibilmente senza parole. Anche qui si è imposto il dominio italo-tedesco e ormai non resterà altro che goderci il panorama, cercando in ogni modo di tenere il fisico allenato; certo 35


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che, con mare e spiagge simili, non ci risulterà difficile! Man mano che l’imbarcazione procede verso il porto, alberi e cespugli, accarezzati dalla brezza, sembrano salutare il nostro arrivo. «Visto che mare?!» Mentre dico queste parole, l’unico deluso sembra essere il soldato che per primo ha avvistato l’isola. «Fosse stata Capri, vi avrei portato tutti a mangiare da mia zia!» Parodia che, tra le varie qualità è anche una buona forchetta, sembra non voler far cadere l’invito implicito. «Bene, bene, soldato. Ti sei preso un impegno che, da uomo d’onore, dovrai rispettare. Al nostro ritorno in patria, quando l’Italia avrà affermato la propria superiorità, tutta la Divisione verrà a pranzo da tua zia! Vediamo un po’ di stabilire le portate: cozze, sì, le cozze. Come le fa la zia? Mmm...» Con gli occhi chiusi, la testa leggermente inclinata e la mano che compie rotazioni concentriche sul proprio ventre, sembra davvero stia gustandone il sapore. «E poi il merluzzo con le olive, i pomodorini e i capperi...» Ormai le fantasticherie culinarie hanno preso il sopravvento. Accade qualcosa di strano: questo piccolo espediente suscita in noi una sensazione inusuale: la nostalgia. Noi forti e valorosi soldati, pronti a tutto per la vit36


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toria, ci siamo adagiati in pensieri appaganti, rasserenanti. Quelle poche battute sono bastate per suscitare il ricordo di casa. Ebbene sì. Il primo vero senso di lontananza penso sia stato percepito in questa occasione. Stiamo per approdare in un’isola incantata, ma un sugo della nonna, la pasta al forno della mamma, o la torta di una zia sono ricordi che, passando dalle labbra, giungono al cervello e da lì al cuore. Non dico che a mancarci sia il cibo, ma in questo momento scopro come alcune pietanze siano legate ad affetti speciali. Pensandoci bene, questa verità è più che mai concreta nell’esperienza quotidiana: sapori particolari ci ricordano immediatamente alcune persone, ma soprattutto quanto ci mancano alcuni piatti preparati da chi non c’è più. Per quanto gli ingredienti siano gli stessi e la ricetta sia stata scritta sotto dettatura, il risultato non è mai lo stesso. E così, tra battute scherzose su zia-cozza e zio-merluzzo, un sottile velo di malinconia scende su chi di noi è più sensibile al ricordo. Per fortuna il cibo non manca e il sole risplende sul mare, tanto che non si riesce a distinguere chi dei due sia più accecante. Una barca di pescatori è appena rientrata in porto e quando uno dei due ritira il remo e lo fa sbattere contro l’orlo dello scafo, migliaia di perle e pietre preziose dai riflessi sgargianti si librano nell’aria, intercettate dalla luce, finché le piccole gocce ricadono nel mare. 37


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«Su andiamo!», esclama il mio fedele compagno, spingendomi la schiena con la mano. «Prima andiamo, prima torniamo e prima andiamo dalla zia di quello! Mi sta già simpatica. Ricordami che dovremo essere là tra i primi, altrimenti rischieremo di star senza!» «Ben detto!» «Aspettatemi!» L’Interprete, che spesso viene trattenuto dagli ufficiali per ragioni linguistiche, ci raggiunge trafelato, come affaticato da una lunga corsa. «Ero dall’altra parte della nave!» «Visto che meraviglia?» Troppo attento a scavalcare borsoni senza inciamparvi, si è perso il fascino dell’avvicinamento all’isola che ora conquista anche lui. Il rituale dello sbarco è meno goffo: ognuno di noi conosce tempi, ritmi e modi, per cui tutto avviene con una certa fluidità. Qualche problema in più è dato da alcuni muli che si rifiutano categoricamente di spostarsi. Alcuni soldati, scelti a caso, vengono chiamati per dare una mano. Uno spinge, l’altro tira, un altro cerca di convincere a parole. Ad ogni passo in avanti ne seguono due indietro; sembra non vogliano proprio mettere i piedi in quell’acqua, poco profonda, che li separa dalla riva. «Quando si dice avere la testa dura come un “mulo”!» 38


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Strizzando l’occhio col solito fare, la battuta m’induce ad una sonora risata. «Ehi tu! Come ti permetti! Sì tu!» È chiaro che il mio divertimento non è sfuggito a chi coordina le operazioni di sbarco. «Lascia le tue cose e vieni subito a dare una mano. T’insegno io le buone maniere!» Prendo una briglia e cerco anch’io d’imporre con forza un movimento, ma niente... «Al mio tre, tutti insieme: uno, due, tre...» Il mulo raglia come a volersi difendere da un attacco e per poco un ragazzo schiva un calcio. Riesce ad opporre una resistenza incredibile. «Qualcuno sa dirmi come...» Mentre vengono dette queste parole, lasciamo la presa e il mulo, con fare tranquillo e un po’ irriverente, inizia ad avanzare in completa autonomia. Con incedere sicuro, raggiunge la riva e si unisce al gruppo ormai pronto. Tra qualche sorriso e l’irritazione del responsabile, che per sfogarsi colpisce l’acqua con un pugno, l’imbarcazione si svuota. Gli ultimi eroici protagonisti della parata sono i semoventi di artiglieria. Prima ancora che a difesa delle postazioni, servono per ricordarci che siamo in guerra. Le giornate trascorrono con il solito ripetersi di riti militari, fino a quando un comunicato del coman39


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do ci avvisa dell’imminente partenza: l’indomani ci avrebbero nuovamente imbarcati. Basta uno sguardo tra noi amici più affiatati e tutto è chiaro: l’evento su cui tanto abbiamo fantasticato è ormai prossimo. Questa notte, i mesi trascorsi sembrano cancellarsi; le sensazioni si moltiplicano e sento rinnovarsi quell’entusiasmo che mi ha spinto ad aderire con fervore alla missione. Continuo a rivoltarmi senza chiudere occhio. Un compagno che russa, il cigolio di una porta, il vetro di un infisso che leggermente trema scosso dal vento, sono rumori consueti che ora torturano il mio vegliare. Dall’alba ho in mente il verso di una poesia incontrata nei miei studi, ma che non riesco ad inquadrare. Eppure le parole sono chiare. Finalmente c’imbarchiamo. Prendo posto e mi tengo una mano davanti al viso. Voglio concentrarmi: quando non riesco a ricordare qualcosa m’innervosisco e per calmarmi ho bisogno di trovare la risposta. A fatica riesco ad escludere il chiacchierio dei militari, il rumore della nave e la risacca del mare, lenta, perpetua. Provo a concentrarmi sull’autore, sul titolo, ma non accade nulla. Che sia inserito in un contesto più ampio, forse non è una poesia, mi domando. Mentre ragiono in questi termini non mi accorgo della partenza. Più volte mi ripeto quelle sillabe: «Per me si va nella città 40


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