claretta petacci La donna che mori' per amore di Mussolini
ritratti Collana
claretta petacci la donna che volle morire con mussolini
Roberto Festorazzi Direzione editoriale: Roberto Mugavero Editor: Paolo Tassoni L’Editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti iconografici senza riuscire a reperirli. Lo stesso resta a disposizione per gli eventuali aventi diritto. Le immagini di questo volume sono protette dalle leggi sui diritti di copyright internazionale. La loro riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo, è vietata senza il consenso del detentore del copyright. © 2012 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978-88-7381Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com
Roberto Festorazzi
claretta petacci La donna che mori' per amore di Mussolini
Minerva Edizioni
Al mio amico Pietro, che ora non è piÚ
di
Introduzione Roberto Festorazzi
Chi fu veramente Claretta Petacci? La storiografia ce l’ha descritta prevalentemente come una donna fanatica e isterica, possessiva e in fondo anche un po’ sciocca nel suo sentimento di amore sconfinato verso Mussolini. Una specie di acritica adoratrice del mito possente del nuovo Cesare, capace di una devozione all’amato che supera ogni limite. Altri l’hanno descritta come una più smagata dominatrice degli eventi, capace delle più diaboliche astuzie e dei più raffinati intrighi per utilizzare a favore suo e della sua cerchia l’ascendente che esercitava sul Duce. Ma nessuna delle due raffigurazioni, il ritratto della svampita e la Pompadour, è in grado di cogliere la complessità di questa figura, perché né l’una né l’altra maschera corrispondono al vero volto di Claretta. Un volto che ci è rimasto finora nascosto, e che occhieggia dalle sue carte segrete rimaste sepolte dal 1950 all’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Un oceano di documenti, in grado di sciogliere l’enigma sulla vera natura di questa donna che, non bisogna mai dimenticare, giunse a morire per e con Mussolini. Il mito della Petacci è strettamente legato alla storia del Novecento, e appartiene all’immaginario collettivo del mondo intero, perché fece olocausto della sua vita, a trentatré anni, per seguire la sorte del suo “Ben”.
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A conferma di ciò, posso raccontare un episodio che mi capitò durante un viaggio in Irlanda, compiuto nel 1996. Ospite in una splendida villa nella campagna incantata, scambiai qualche parola con il padrone di casa, un istruttore di golf con l’hobby della lettura, proprietario di una vecchia Jaguar e sposato con una donna molto più giovane di lui. Sapendomi italiano, quel gentiluomo mi confidò che divorava libri sulla storia di Mussolini “and Claretta Petacci”. Ciò che mi colpì fu l’accostamento tra il capo del fascismo, che appartiene senza dubbio alla galleria dei protagonisti del Ventesimo secolo, al nome di una donna che deve la sua celebrità soprattutto alla sorte finale che l’accomunò per sempre al tragico destino del dittatore. Quindi “il Duce and Claretta” sono una cosa sola per il cittadino del mondo che abita in ognuno di noi, anche nel più fiero avversario delle romanticherie. Clara Petacci, per Mussolini, fu tutto: amante, amica, segretaria, confidente, complice, fedele discepola e incitatrice; più tardi, mentre il carisma del dittatore declinava, divenne capace di suscitare in lui lampi di orgoglio, sussulti di dignità, nella speranza di contribuire alla sua resurrezione politica, nel fortilizio di Salò, la restaurata repubblica neofascista, simulacro dell’antico potere, sorta sulla punta delle baionette dell’invasore tedesco. Ne divenne a quel punto la temeraria (e temuta) consigliera politica ed estremo baluardo: in pratica, l’alter ego. E davanti al fatale muretto di Villa Belmonte, a Giulino Mezzegra, mentre i mitra dei partigiani crepitavano, lo protesse col proprio corpo, facendosi scudo umano. Un amore che
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si trasfigura nel martirio, nel dono della propria vita per colui che si ama. Possiamo tranquillamente affermare che nessuna donna e forse nessun altro essere umano colse, più di lei, la personalità e la psicologia più profonda di Benito Mussolini, sentendone vibrare anche la più intima fibra, e partecipando al suo dramma esistenziale. Parimenti, Claretta fu veramente la donna che il grande collezionista di femmine avrebbe desiderato avere, e di fatto ebbe, dopo molte e travagliate vicende sentimentali che attraversarono la sua vita. Aveva conosciuto e amato molte donne, alcune delle quali, come Margherita Sarfatti, ebbero una grande importanza nella sua ascesa al potere. Ma da ognuna di queste rappresentanti della natura femminile egli fu, in qualche misura, deluso, se non addirittura disgustato, perché il suo divorante appetito di conquistatore gli consentì di conoscerne anche il lato peggiore: quello dell’amante abbandonata. Ecco perché Claretta avrà buon gioco nel definirsi «l’unica gemma veramente autentica e preziosa in una collezione di pietre false». Dove le pietre false erano, naturalmente, le “altre”. La giovane Petacci irruppe come un tornado nella vita di Mussolini, negli anni della sua maturità, e non soltanto ne prolungò la vitalità, ma giunse anche a interagire profondamente con la sua personalità. Nonostante subisse e fosse in qualche modo avvinta e plasmata dal carisma di “Ben”, risultò edificata da quella grande figura storica, fino a diventarne, alla pari, la compagna di vita. È que-
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sta la sfumatura interpretativa decisiva che è mancata alla capacità analitica degli storici, che hanno derubricato la passione di Mussolini per la Petacci a una sorta di debolezza senile. Ad alimentare e a sedimentare il rapporto tra i due amanti contribuì certamente anche la giovane età di Clara, che rappresentò l’ultima felice conquista di un incallito predatore di carne femminile. Ma, a segnare la particolarità di questa relazione affettiva, fu la qualità dello scambio di protezione che cementò l’unione. Perché, se è vero che una donna cerca in un uomo soprattutto il conforto della forza maschile, è altrettanto innegabile che in ogni uomo sopravvive, più o meno inconsapevolmente, la nostalgia e il desiderio del materno. Il racconto degli eventi storici ci fornisce mille dimostrazioni della capacità di protezione che Claretta seppe esercitare, con grande discernimento, nei riguardi del dittatore. Un uomo profondamente solo e quasi murato vivo nel suo mito. Un uomo trascurato dalla moglie ed estremamente bisognoso di cure e attenzioni disinteressate. Nel 1936 Mussolini era all’apogeo della sua gloria imperiale. Gli italiani erano in delirio per il loro condottiero, che però era prigioniero di una nascosta malinconia che cresceva proporzionalmente alla sua statura internazionale e al consenso che mieteva. Il Duce del fascismo era un uomo avvelenato dal potere e dalla conoscenza ravvicinata del genere umano, nelle sue più degenerate rappresentazioni. Il suo cinismo era lo scudo protettivo che gli consentiva di difendersi dal resto del mondo.
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Vi era insomma una nascosta malattia dello spirito in quell’uomo, che in famiglia veniva costantemente deriso da una moglie autoritaria e dispotica. Anche la figura di Rachele, la consorte del Duce, sarebbe interamente da riscrivere: dietro all’apparente tipica esponente del tradizionale matriarcato romagnolo, vi era in realtà un dissolvimento di ruoli e di responsabilità. La circostanza che Mussolini fosse favorevole al divorzio la dice lunga sulla coscienza che egli aveva maturato circa la crisi dell’istituto matrimoniale che pure il regime difendeva sulla punta della baionetta, in nome dei diritti della stirpe italica. La ricerca del materno spinse Mussolini tra i prosperosi seni di Claretta, che non si accontentò del ruolo di amante, neppure quando ebbe raggiunto il vertice del sistema di concubinaggio che governava da sempre la vita di Benito. La Petacci, consumata dall’amore totalizzante per l’uomo-mito del suo tempo, finì per essere il “doppio” al femminile di Mussolini, una specie di traslitterazione umana del dittatore al di fuori del terreno e del genere tipicamente maschili. La complicità sentimentale tra i due amanti si trasformò sempre più in una compenetrazione assoluta, in una reciproca appartenenza totale, che varcò i confini dell’alcova per divenire comunione di spiriti oltre che di corpi, comune militanza ideologica nell’incedere dell’idea marciante del fascismo dentro la storia. Ne deriva una quantità di implicazioni rimaste a lungo precluse allo sguardo del grande pubblico.
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La loro vicenda cessò di essere il classico capitolo del grande libro dei rapporti tra sesso e potere, per divenire una storia d’amore con la maiuscola, un vero romanzo psicologico, il racconto della vita interiore di due anime fuse in una sola. La scoperta delle carte intime di Clara e Benito ci consente di osservare dal buco della serratura, non tanto per spiare tra le lenzuola. Quanto, piuttosto, per compiere a ritroso un viaggio alla scoperta di due personaggi che presumevamo, sbagliando, di conoscere. “Ben” trascinò Claretta fin nel vortice dei segreti e dei misteri più inaccessibili della sua avventura di dittatore, e la condusse nell’abisso, smuovendo per entrambi la pietra tombale. Ma, in quell’amplesso fatale, e drammatico, ancora non sappiamo chi dei due fu maggiormente responsabile nel determinarne l’esito, quella scena finale. L’orrore di una morta empia ulteriormente dissacrata dallo sconcio rito tribale di Piazzale Loreto. Una discesa agli inferi che coincide con la scalata all’olimpo del mito moderno. Non è forse del tutto azzardato tentare di accostare la grande e drammatica storia d’amore di Benito e Clara a quell’altro affresco nibelungico e sentimentale che si compose in Germania con l’unione tra Adolf Hitler ed Eva Braun. Non è facile trovare, nella storia, analoghi casi di donne così devotamente e misticamente consacrate a un uomo, a un mito e al suo tragico destino. Anche Eva Braun, come è accaduto per la Petacci, è stata declassata al rango di servile e sciocca adoratrice del satanico incan-
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tatore del popolo tedesco. Queste due donne, così simili e così diverse, sebbene accomunate da un medesimo destino – morire trentenni travolte dalla caduta del loro uomo –, sono state male interpretate dalla storiografia, incapace di indagare nella mente femminile per coglierne il recesso più segreto. Recenti studi hanno messo a fuoco con maggiori dettagli la figura di Eva, che fu un elemento centrale del “circolo sociale” di Hitler formatosi soprattutto nell’ambiente del Berghof, sull’Obersalzberg, dove, a partire dal 1936, il Führer esercitò il comando rinnovando il suo potere di fascinazione sulla ristretta cerchia dei fedelissimi. Lì, tra le montagne incantate, Adolf era vigilato dall’occhio femminile di Eva, vera padrona del Berghof. Il Führer nutriva per la giovane amante un amore profondo pieno di ammirazione e da lei ricevette un grande sostegno psicologico. Esattamente come accadde a Benito con Claretta. Due storie d’amore grandi e tragiche.
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Capitolo I Claretta e "Ben"
«Sono aderente a te come la sabbia del mare, come l’edera alla quercia, come il sangue alla vita. Nulla è più grande di questo: ricordi amore? Guarda i miei occhi: da essi attingi la fede e la chiarezza per i tuoi pensieri come io dalla luce meravigliosa dei tuoi occhi raccolgo la vita. Perdona la tua piccola di non saper dir meglio il suo amore». Così scrive Claretta Petacci in una delle lettere d’amore a Mussolini che abbiamo potuto esaminare all’Archivio Centrale dello Stato di Roma. E in un altro scritto appassionato si legge: «Ho respirato la tua vita ed essa è in me, in tutte le mie vene, in tutte le mie membra come una corrente impetuosa». Dal tesoro prezioso di manoscritti di colei che, per anni, tenne le chiavi del cuore del Duce, emerge la conferma della dedizione assoluta che legò la giovane donna al suo amato, l’irraggiungibile (ma non per lei) Cesare di Palazzo Venezia. Nella mente, nell’anima di Clara non c’era spazio che per lui, il suo adorato “Ben”: inconcepibile, per lei, poter spartire quel sentimento con altri, nell’arco della sua esperienza terrena. Un amore intenso, drammatico, che poté attraversare tante tempeste proprio perché intriso di una visceralità tutta femminile, la passione esclusiva e totalizzante di una donna che giunge al punto di voler fare scudo con il suo corpo
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all’amato, condividendo nell’estrema sorte anche le raffiche di mitra che li abbatterono entrambi sul selciato di Mezzegra, davanti al cancello di Villa Belmonte, alle 16 del fatale 28 aprile 1945. Le carte della Petacci conservate all’Archivio Centrale dello Stato rappresentano un patrimonio documentario di inestimabile valore, che probabilmente non ha eguali tra quanto è giunto fino a noi relativamente all’epoca mussoliniana. Quanti, negli anni, hanno voluto rappresentare Claretta come una sciocca isterica, dedita all’intrigo politico, ma fondamentalmente non abbastanza intelligente da saper trarsi in disparte al momento opportuno, allo scopo di salvare la pelle, dovrebbero infatti spiegare come mai, proprio grazie a lei, siamo oggi destinatari di questo prezioso scrigno. Le carte di Claretta, le sue lettere, i suoi Diari, ma anche le oltre trecento missive che il Duce le scrisse, rappresentano un’eredità “parlante” in grado di riempire molti “buchi” storiografici e di risolvere tanti degli interrogativi rimasti senza risposta, dal 1945 a oggi. Proprio per questo, va sottolineato che dobbiamo unicamente a lei, alla sua astuzia, al suo temperamento passionale e ostinato, la fortuna di poter disporre di un ricco patrimonio di documenti che venne alla luce soltanto nel febbraio 1950, ossia dopo la “caccia grossa” compiuta dagli angloamericani in Italia per razziare tutti i carteggi in grado di imbarazzare i vincitori della Seconda guerra mondiale. Infatti, dal giardino di Villa Cervis di Gardone, dove Claretta aveva risieduto negli ultimi mesi della sua vita per essere vicina all’amato “Ben”, la po-
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lizia dissotterrò una cassa contenente le carte della Petacci. Da allora, i documenti, inventariati e trasferiti su supporto digitale, sono conservati all’Archivio Centrale dello Stato, a disposizione degli studiosi, allo scadere dei settant’anni dalla loro datazione. Particolarmente significative risultano, a questo proposito, le lettere di Claretta del 1937: a quell’epoca, infatti, era già iniziata la vera propria relazione sentimentale tra il Duce e la ragazza della buona borghesia romana. Ma prima di entrare nel dettaglio dei contenuti sorprendenti di questi documenti inediti, dobbiamo ricostruire la vicenda d’amore tra Mussolini e Clara, che sbocciò nell’ottobre 1936 dopo una lunga fase platonica. L’idillio, che il dittatore fascista paragonò a «un frutto maturo scoppiato al grande sole d’estate», si consumò dopo il fallimento del matrimonio tra Claretta e il tenente dell’Aeronautica Riccardo Federici. Figlia di Francesco Saverio Petacci, archiatra pontificio, ossia medico personale di papa Pio XI, Clara nacque a Roma il 28 febbraio 1912, anno bisestile. Il nome glielo aveva scelto la madre, in omaggio a santa Chiara d’Assisi, discepola di san Francesco e fondatrice delle Clarisse. Pare che nei Petacci, le cui origini documentabili risalgono al Trecento, scorresse sangue blu. Il dottor Petacci, papà di Claretta, era nato a Costantinopoli nel 1883. Suo padre Edoardo era stato infatti un alto funzionario dell’Impero ottomano: di lui sappiamo poco, ma pare avesse introdotto in Turchia il catasto e i servizi postali. Francesco Saverio rimpatriò nel 1902, precedendo il re-
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sto della numerosa famiglia, composta dai genitori, da tre fratelli e quattro sorelle. Il giovane Petacci fu chiamato a Roma da suo zio Giuseppe, medico di chiara fama che, alla morte dell’archiatra pontificio Lapponi, ne prese il posto. Fu lui a introdurre il nipote nelle segrete stanze vaticane, facendolo assumere dapprincipio, nel 1915, quale consulente sanitario. Dopo la laurea in medicina, il dottor Petacci nel 1909 aveva sposato una sua prima cugina, la romana Giuseppina Persichetti, di cinque anni più giovane. Giuseppina, di agiata famiglia borghese, era un donnone dispotico che molto presto avrebbe soggiogato, con la sua personalità dominante, il marito e il resto della famiglia. Uomo bonario, riflessivo e piuttosto taciturno, amante dell’opera lirica, buon cattolico e serio professionista, il dottor Petacci lasciava campo libero alla moglie nella conduzione della vita domestica. Il primogenito dei coniugi Petacci fu Marcello, venuto alla luce il 1° maggio 1910. Molti anni dopo la nascita di Claretta, il 31 maggio 1923, un’altra bimba, Myriam, giunse a completare la famiglia Petacci, che al tempo risiedeva al numero 10 di Lungotevere dei Cenci. Oltre che essere medico pontificio, il dottor Petacci aveva anche una clinica privata, Villa del Sole, nel quartiere di Monteverde. Clara, fin da bambina, in famiglia veniva chiamata “Etta” o con altri buffi nomignoli, come “Clarinetto”. Frequentò le elementari nel collegio delle suore di Nevers, suc-
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cessivamente conseguì come privatista la licenza media inferiore. Era cagionevole di salute. Soffriva soprattutto di mal di gola e ciò aveva finito per arrochirne la voce. Era ghiotta di dolci, specialmente di cioccolato, ma in complesso mangiava assai poco. Il suo pasto consisteva in una minestrina, una piccola porzione di carne, verdura e un frutto. Nonostante una certa gracilità fisica, le piaceva nuotare e remare e praticava altri sport: giocava a tennis e si arrangiava con gli sci. Inoltre guidava la macchina ed era una brava ballerina. Sensibile alle arti e alla musica, studiò l’arpa e fu allieva del violinista Corrado Archibugi. Suonava anche il pianoforte. Adorava Leopardi, Chopin e le poesie crepuscolari di Guido Gozzano. La sua romanza preferita era Tristezza di Chopin, ma non disdegnava affatto la musica leggera, come quella di Alberto Rabagliati, che al tempo andava per la maggiore. Si dilettava anche di pittura e dipingeva discreti quadretti. Il suo aspetto fisico era tale da attirare lo sguardo degli uomini, per strada. Capelli corti, neri e ricci, aveva due occhi grigioverdi luminosi, denti bianchissimi. Di statura normale, era tuttavia di petto ampio e aveva piedi da bambola: calzava infatti il numero 33. Fin da bambina, aveva coltivato dentro di sé il mito del Duce, il salvatore della nazione, di cui ammirava la maschia vitalità e l’eloquenza corporea. Questa specie di idolatria divenne totalizzante negli anni dell’adolescenza, quando, ovunque, sui quaderni, sui libri, o sulla sabbia
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della spiaggia, scriveva il nome del Duce. Ritagliava i suoi discorsi dai giornali e le pareti della sua stanza erano tappezzate di sue immagini. Gli aveva anche spedito letterine ingenue e innocenti poesiole. Come in occasione dell’attentato subito da Mussolini, la mattina del 7 aprile 1926. Quel giorno, il Duce si recò in Campidoglio a inaugurare il settimo congresso internazionale di chirurgia. Era mercoledì. Probabilmente, in quel preciso momento, egli ignorava che, tre ore prima, in una clinica di Cannes, era spirato il suo mortale nemico, l’onorevole Giovanni Amendola. Introdotti i lavori della sessione, Mussolini lasciò la Sala degli Orazi e Curiazi e si avviò verso l’uscita. Sulla piazza del Campidoglio si era radunata una folla di entusiasti ammiratori del capo del fascismo trattenuta da una schiera di poliziotti in borghese. Nessuno parve notare, poco oltre il cordone di agenti, una donna minuta con i capelli bianchi e vestita interamente di nero, dal soprabito ai guanti al cappellino. L’insignificante figura femminile stringeva però nella mano destra una pistola a tamburo coperta da un fazzoletto. Mussolini avanzava verso l’automobile all’interno della quale il fido autista Boratto lo attendeva a motore acceso. Il Duce si trovava a non più di due metri di distanza dalla donna la quale, improvvisamente, alzò il braccio puntando l’arma al suo viso. Il capo del governo, in quell’istante, stava rispondendo al saluto di un gruppo di studenti che avevano intonato l’inno Giovinezza. Levò il braccio romanamente, e per una fortunata circostanza, spostò il busto
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e la testa all’indietro. L’attentatrice premette il grilletto e il proiettile ferì Mussolini al naso. La donna tentò di esplodere un secondo colpo, ma la pallottola non partì. Il Duce, sbalordito, piegò le gambe, cercando di tamponare con la mano la ferita. Il sangue usciva a fiotti. La folla inferocita, intanto, si avventò su colei che aveva osato tanto. Le strapparono le vesti, i capelli. Se due poliziotti non l’avessero trascinata via, portandola al pianterreno del Palazzo dei Conservatori, sarebbe stata inevitabilmente linciata. Mussolini, medicato sul posto dai chirurghi della conferenza, riapparve poco dopo davanti alla folla con un grande cerotto sul naso. L’arma da fuoco aveva perforato le due pinne nasali del Duce: ma senza quel provvidenziale scatto all’indietro del saluto romano, il proiettile sarebbe potuto penetrargli nella scatola cranica con effetti devastanti facilmente immaginabili. L’attentatrice fu portata al carcere delle Mantellate. Il suo nome era Violet Albina Gibson, un’irlandese. Tra le migliaia di lettere di solidarietà che Mussolini riceve in quei giorni, una lo colpisce particolarmente, tanto da conservarla nel suo archivio personale. La missiva è scritta dalla quattordicenne romana Clara Petacci. Con fervore che rasenta l’adorazione, la ragazza così gli si rivolge: «Duce. Per la seconda volta hanno attentato vigliaccamente alla Tua persona. Una donna! Quale ignominia, quale viltà, quale obbrobrio! Ma è una straniera e tanto basta! Duce amato, perché hanno tentato un’altra volta di toglierti al nostro forte e sicuro amore? Duce, mio gran-
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dissimo Duce, nostra vita, nostra speranza, nostra gloria, come vi può essere un’anima così empia che attenti ai fulgidi destini della nostra bella Italia? O Duce, perché non vi ero? Perché non ho potuto strangolare quella donna assassina che ha ferito Te, divino essere? Perché non ho potuto toglierla per sempre dalla terra italiana, che è stata macchiata dal Tuo puro sangue, dal Tuo grande, buono, sincero sangue romagnolo? Duce, io voglio ripeterti come l’altra tristissima volta, che ardentemente desidererei di posare la testa sul Tuo petto, per potere udire ancora i vivi battiti del Tuo cuore grande»1. L’ultima frase è sottolineata da Mussolini con la matita rossa. Il Duce chiede al suo segretario particolare, Alessandro Chiavolini, di assumere informazioni sulla ragazza e poi, una volta saputo chi fosse, lo incarica di farle giungere il suo apprezzamento per il gradito messaggio. Claretta continuerà a scrivere al Duce, fino al giorno del loro primo casuale incontro, una domenica di primavera del 1932. Un incontro che cambiò per sempre la vita della ragazza romana. Era il pomeriggio del 24 aprile ’32, allorquando la famiglia Petacci – alla quale si era forse unito il fidanzato di Claretta, Riccardo Federici – viaggiava lungo la Via del Mare che collega Roma con il litorale, diretta a Ostia. La Lancia Astura dei Petacci venne superata da un bolide, un’Alfa Romeo spider rossa, pilotata da Mussolini. Lo spericolato autista, al volante di un modello 1750 Gran Turismo carrozzato Zagato, fu subito riconosciuto dagli
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occupanti della vettura, che si sbracciarono in saluti. Il Duce fece cenno di volersi fermare e, appena esauriti i convenevoli, la bella ragazza con i lineamenti delicati e i grandi occhi celesti monopolizzò la conversazione ricordando al dittatore la quantità di devote composizioni con le quali aveva inondato la sua segreteria. Mussolini, per non deludere Clara, finse di ricordare, ma l’indomani si fece portare le letterine della Petacci, che lo sorpresero per l’ardore dei sentimenti. Tre giorni dopo, Mussolini compose di persona all’apparecchio del suo ufficio il numero telefonico di casa Petacci, per poter invitare la ragazza a Palazzo Venezia. A quel tempo, Claretta abitava con la famiglia al 325 di corso Vittorio Emanuele. Quando il telefono squillò, Claretta stava riposando e sua madre Giuseppina, che rispose alla chiamata, si sentì dire dalla voce inconfondibile del Duce: «Parla quel signore che avete incontrato sulla strada per Ostia». «Sì, sì», fece la signora in preda a smarrimento. Poi, allontanando il ricevitore dall’orecchio, alzò la voce: «Dio del cielo, Claretta… È lui! E vuole te». Dunque, il secondo incontro, questa volta a tu per tu, avvenne per singolare “convocazione” del capo del governo. Non si trattò, come si potrebbe pensare, di un “provino” sul set amatorio della Sala del Mappamondo, dove il Duce possedeva le sue amanti sui divani o sui sedili di pietra accanto alle finestra. Tra il 1932 e il 1936, cioè prima dell’inizio della relazione sentimentale, Clara e Mussolini ebbero una ventina incontri, che si potrebbero definire confidenziali: niente
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di più. Il dittatore era intrigato dalla personalità e dalla fede ardente di quella ragazza della buona borghesia, che tuttavia non pareva essere la figlia del medico del papa. Quei colloqui innocenti, conversazioni di vago tenore sentimentale, fornirono a Benito materia per riflettere sul carattere di Claretta. Se ne trova una traccia nelle loro telefonate, fedelmente trascritte dalla ragazza romana. Il 14 dicembre 1932, Mussolini la chiama a casa alle 17 e 18. «Mussolini: C’è la signorina Claretta? Claretta: Sono io. Buonasera. Mussolini: Ah! Siete voi. Bene. Vi ho telefonato per vedere se veramente eravate ad attendere sempre dalle 17 alle 18 come dite, oppure se eravate uscita. Claretta: Vede che ci sono? Ci sono sempre stata dalle 9 alle 10 e dalle 5 alle 6. Perché, non ci credeva? Mussolini: Non bisogna mai credere, non si deve credere. Non si sa mai. Claretta: Cattivo! Mussolini: Ah!... Dunque credo che possiamo vederci nella settimana. Claretta: Davvero? Sul serio? Mussolini: Sì, questa è una settimana molto triste2, poi vengono le feste. Sì, va bene questa settimana. Ma voi lo desiderate? Proprio? Claretta: Altro che se lo desidero, eccome. Mussolini: E perché? Così per una curiosità? Claretta: Se fosse semplice curiosità, a quest’ora…!
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Mussolini: Dato che è tanto tempo che non mi ved. Claretta: Ma, che vuol dire? Mussolini: Bene. Ma quanti secoli sono che non ci vediamo? Claretta: Molti, sono troppi. Dal 12 ottobre. Mussolini: 12 ottobre, 12 novembre, 12 dicembre, 14 … sono due mesi e due giorni. È un orrore. Claretta: Sì, è proprio un orrore. Mussolini: Allora ti telefono domani. Claretta: Davvero? Sicuro? Mussolini: Se lo desideri. Claretta: Sì, tanto. Mussolini: Allora a domani. Claretta: Arrivederci, grazie!» Clara non si rivolge ancora a Benito con il “tu” confidenziale, mentre lui oscilla tra il “voi” e il “tu”. Soltanto con l’avvio della loro relazione, nel 1936, si sentirà pronta per dargli del tu. Spigliata e vivace, Claretta, come si è detto, ai tempi dei primi colloqui con Mussolini era fidanzata con Riccardo Federici. Il Duce comprese e approvò, incoraggiando la giovane Petacci a intraprendere il cammino del matrimonio. Nel marzo del 1934, in occasione di un incontro a Palazzo Venezia, lei gli accenna ai suoi sentimenti: «Le voglio bene». Mussolini, attratto da Claretta, ma al tempo stesso turbato dalla differenza di età, reagisce con un moto spon-
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taneo di sincerità: «Mi vuoi bene … a me. Oh, questa è bella, ma io sono vecchio. Pensa a voler bene al tuo Riccardo, vivi tranquilla». La Petacci obbedisce. Tuttavia, le nozze, celebrate il 27 giugno 1934 dal cardinale Pietro Gasparri, il porporato che aveva firmato il Concordato con il Duce, non furono foriere di felicità, ma di sventure. Ben presto, Claretta comprese di aver commesso un tragico errore. Riccardo Federici non era l’uomo giusto per lei. I novelli sposi, dopo essere stati ricevuti in udienza privata dal papa, partirono per il viaggio di nozze: da Venezia, i neoconiugi passarono a Costantinopoli, visitarono Atene, la Palestina e l’Egitto. Ma, appena la coppia si trasferì a vivere a Orbetello, dove Federici prestava servizio presso il “Gruppo speciale” di piloti dell’Aeronautica comandato da Italo Balbo, iniziò una vita infernale, fatta di totale incomprensione tra i coniugi. Claretta accusava il marito di tradirla continuamente, e denunciò allo stesso Duce le percosse subite, durante furiosi litigi. In una lettera del 16 ottobre 1936, gli scrisse infatti: «Ciò che egli ha fatto è ripugnante. Il tradimento velenoso è stato sempre la sua maniera preferita, mi ha morso il cuore come una serpe». Il matrimonio naufragò così nel più classico dei drammi. Federici chiese e ottenne di partire volontario per l’Etiopia e, quando rimpatriò, prese atto che la moglie aveva abbandonato il tetto coniugale, trasferendosi nel più ampio appartamento di via Spallanzani 22 A, nel quartiere Nomentano, dove i Petacci avevano traslocato sul finire del 1935.
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La nuova abitazione si affacciava sul parco di Villa Torlonia, e questo potrebbe sollevare qualche interpretazione malevola sul subitaneo crollo del ménage matrimoniale. Se ci fosse stato, o meno, lo zampino della famiglia Petacci, se non addirittura del Duce, nel favorire la dissoluzione della coppia, non è dato sapere. Certo è che Mussolini era informato della infelicità della “signora Federici” da puntuali rapporti di polizia. L’unione terminò con la separazione legale, sancita il 28 luglio del ’36. La relazione di Claretta con Mussolini era cominciata, con ogni probabilità, nel maggio precedente. E fu un crescendo di passione. Il 12 maggio, lei gli mandò un mazzo di fiori, rivolgendosi a lui ancora con il deferente titolo di “eccellenza”: L’omaggio floreale era accompagnato da queste poetiche parole: «Vorrei cogliere le stelle per offrirvele, e raggi del sole come un’invisibile arpa d’oro per cantarvi tutto il mio bene». Il 31 maggio lo chiamò per la prima volta “Amore mio”, due giorni dopo cominciò a dargli del tu. Il Duce, con un gesto di vecchio stampo, ma formalmente impeccabile, si rivolse a Donna Giuseppina Petacci, domandandole di punto in bianco: «Signora, mi permettete di amare vostra figlia?». Lui aveva cinquantatré anni, lei ventiquattro. Il Duce perse letteralmente la testa per quella giovane che portava una ventata di freschezza nel suo harem e rapidamente la Petacci scalò le vette della supremazia, in quella scala gerarchica di amanti-consigliere, raggiungendo il rango
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della Favorita. Lui le giurava il suo amore con dichiarazioni come questa: «Tu sei l’ultima pagina del mio cuore, tu chiudi divinamente la mia lunga carriera amorosa. La chiudi degnamente, poiché sei l’amore, veramente l’amore quello con l’A maiuscola». Quella dea che fece breccia nel cuore del latin lover di Predappio aveva veramente qualcosa di speciale. Qualcuno ha sprecato il termine “fanatismo” per indicare il tipo di dedizione che legava la Venere romana al suo attempato uomo. In realtà, Claretta, pur in qualche modo soggiogata dal magnetismo del capo del fascismo, non era tuttavia schiava del suo carisma come lo era il popolo italiano. La politica la lasciava del tutto indifferente, non ambiva al ruolo che fu dell’intellettuale di origine ebrea Margherita Sarfatti, quello di First Lady semiufficiale del regime: desiderava soltanto un posticino nel cuore di Mussolini, in modo da potergli regalare il ristoro dell’anima, donandogli un poco di quel fluido vitale che la lunga prassi del potere aveva ormai interamente consumato, prosciugandogli l’anima. Claretta giungeva ogni pomeriggio, verso le 15, a Palazzo Venezia, a bordo della 1500 di suo padre, ed entrava dall’ingresso posteriore di via degli Astalli. Soltanto in anni successivi, a maggiore tutela della privacy, la Petacci prese l’abitudine di varcare quel portone coperta dal telone di un sidecar guidato da un agente. Aspettava sospirando il suo “Ben” per l’intero pomeriggio, in un grande ambiente a lei esclusivamente riservato, a Palazzo Venezia: l’appartamento “Cybo”, così chiama-
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to a ricordo del cardinale genovese Innocenzo Cybo che lo aveva fatto costruire. Al centro di quegli spazi, comprendenti un’anticamera in comunicazione con l’ascensore interno e uno studio arredato modestamente, vi era la suggestiva Sala dello Zodiaco, dal soffitto a volta dipinto di azzurro, decorato con i simboli in oro delle dodici costellazioni. Insomma: il cielo in una stanza. La sala era stata trasformata in un salotto accogliente, dove vi erano un radiogrammofono, un divano-letto, due comode poltrone, un mobile bar, un grande specchio, tavolini, tappeti. Accanto al salotto, era stato ricavato uno sgabuzzino con uno specchio e un armadio, dove Clara riponeva le sue vestaglie. Da questo piccolo locale si accedeva a un bagno. In questo angolo di Palazzo, Claretta trascorreva interminabili ore. Mentre lui, nella Sala del Mappamondo, attendeva che le udienze si esaurissero e che anche l’ultima pratica avesse sgombrato la scrivania, lei ascoltava musica con un grammofono, leggeva o scriveva componimenti. Spesso indossava una delle sue vestaglie preferite, di velluto o di raso, su una gamma di tinte pastello, alcune con alte cinture drappeggiate o ricamate. Le lunghe ciglia nere di rimmel, un filo di cipria, sul corpo qualche goccia di Arpège, Fleur de Rocaille, Tabac blond, Claretta attendeva Benito fin verso le 19, quando lui la raggiungeva, talvolta semplicemente per conversare o per lasciarsi andare a qualche sfogo tra l’intimità di quelle mura.
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Gli anni Trenta, lo sfondo in cui si colloca l’esordio della love story tra il Duce e “Ben”, rappresentano per gli italiani un periodo aureo di serenità e di benessere. Il Paese, dopo l’assestamento del regime, conosce un clima di relativa pacificazione. Il segretario del Partito nazionale fascista è Achille Starace, un uomo da caserma che si afferma come supremo organizzatore delle liturgie militar-sportive in tipico stile “ventennio”. Gli antifascisti irriducibili sono una sparuta minoranza che non gode della generale considerazione. La maggioranza del popolo approfitta del felice momento storico per godere i frutti delle proprie fatiche. I “treni popolari” conducono larghe masse alla conquista di mete rimaste fino a quel momento irraggiungibili: milioni di persone visitano le città d’arte e vedono, spesso per la prima volta, il mare. Il 12 aprile del 1931, salpa per l’America il transatlantico Rex, gioiello della marineria nazionale che due anni dopo regalerà all’Italia il Nastro Azzurro, impiegando 4 giorni, 23 ore e 28 minuti per raggiungere New York da Gibilterra. Nel 1932, viene presentata la Balilla, il primo modello di automobile Fiat destinato a una fascia più larga di consumatori, tra l’élite e la massa. Quattro anni più tardi, l’impennata di vendite avverrà con la Topolino, la prima vettura utilitaria per il popolo. Sempre nel ’32, gli italiani canticchiano la canzone-simbolo del decennio, Parlami d’amore Mariù. È il momento d’oro della rivista, un nuovo genere di spettacolo che vedrà imporre sui palcoscenici le figure di Totò, di Macario, dei fratelli De Rege e di Wanda Osiris. Nel 1933 nasce la prima grande orchestra
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radiofonica, diretta da Tito Petralia. Nel ’36, l’Eiar decide di affidarla al jazzista Pippo Barzizza, che sdogana presso il grande pubblico la musica afroamericana, prima oggetto del proibizionismo di regime, offrendo i frizzanti ritmi dello swing. Il mondo editoriale italiano conosce una vitalità prima sconosciuta. Fioriscono nuovi rotocalchi, come “Omnibus” di Longanesi e “Grandi Firme”. Il 14 luglio 1936, esordisce in edicola “Bertoldo”, rivista umoristica che ha il sapore della fronda. Anche la letteratura è in fermento. Nel ’32, Alberto Moravia pubblica L’imbroglio, Curzio Malaparte Sangue, Enrico Pea La Maremmana, Cesare Zavattini I poveri sono matti. Due anni più tardi, escono Le sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi, I capricci dell’Adriana di Alessandro Bonsanti, Taccuino d’Arno Borghi di Ardengo Soffici. Di Achille Campanile, re del nonsense, sono editi Agosto, moglie mia non ti conosco, Battista al Giro d’Italia, Cantilena all’angolo della strada e Amiamoci in fretta. Nel ’36 escono Lavorare stanca di Cesare Pavese e nel ’39 Le occasioni di Eugenio Montale. La giovane Petacci, nei primi mesi di quel “fatale” 1937 è totalmente avvinta dal fascino del fondatore dell’Impero: è lei stessa a ricordare, più volte, nel suo Diario di prigionia (scritto durante il periodo badogliano dell’estate ’43 e pubblicato postumo), che il 1937 coincise con la fase aurea della love story: l’anno della «purezza» e della «devozione», dell’«amore», del «desiderio». In uno di quegli scritti al Duce che sono stati classificati come “minute di lettere”, alla data del 26 febbraio 1937,
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si legge: «Se mi sfiora la tua mano, io tremo, io mi sento svenire di gioia e di desiderio di te, della tua dolce carezza… e forse forse allora mi ami un poco […]. Alle volte vorrei gridarlo che ti amo, quando ti vedo bello, forte, magnifico e non posso avvicinarti, mi precipiterei tra le tue braccia e direi forte il mio amore che mi soffoca, che mi acceca della sua luce infinita che il cuore non può contenere». Il 9 marzo, Mussolini è in mare, e Clara annota: «Io vivo del tuo respiro, di ogni cosa di te […]. Ti attenderò contando le ore e i minuti». Il 31 marzo, la Petacci così si rivolge all’amato: «È in te un qualcosa di talmente forte e diverso da esserne attoniti… è la tua mente così vasta da avere l’impressione di un orizzonte luminoso senza limiti e ci si sente piccini, piccini, inutili, così come davanti a tutte le cose grandi inspiegabili del creato». Poche settimane dopo, il 4 maggio, sono i sentimenti di una donna possessiva quelli che si leggono sulle pagine profumate di cipria: «Ma io non posso [fare] a meno di desiderare la tua voce, e di avere un’ansia che mi fa male al cuore. E quando non ti sento ho paura, sì paura, sapessi quanto ti amo, potessi dire in una sola breve parola il bene immenso che ti voglio […]. Vorrei rannicchiarmi ai tuoi piedi e non lasciarti più, amore, vivo di te e per te […]. Tu sei tutto il mio mondo». Il 12 maggio, dopo che Mussolini le ha telefonato, scrive: «È stato come se il sole m’avesse abbagliato violentemente e ho tremato d’emozione e di felicità e dopo ho pianto
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[…] e quando il telefono ha squillato è stato come un grido di gioia infinito è stato un brivido». Il 16 maggio, essa svela ancora di più il lato nascosto del suo animo rivolto alla contemplazione dell’uomo Mussolini, in una sorta di dialogo autoreferenziale: «So di annoiarti, ma il timore di questo è vinto dal desiderio di parlarti, di dirti la mia melanconia e l’ansia che ho di te. Non capisco perché a volte sento che mi ami, e a volte no… ora mi pensi, ed ora no […]. Quando ti chini fino a me è come se il sole si curvasse a scaldare solo me, come se tutte le stelle si riunissero in un manto di splendore, per chiudermi in un cerchio magico di sogno […]. Ti parlo sempre prima di dormire, ti faccio dei lunghi discorsi ed ho così coraggio sapessi, tutto quello che non ho quando ti sono vicina, è tale la gioia e l’emozione da non saper dire nulla». In alcune espressioni, i pensieri d’amore di Claretta raggiungono accenti di lirismo. Il 10 novembre (l’anno è sempre il 1937), colei che è già la Favorita così si esprime: «Amore sei bello, niente e nessuno è più bello, più grande di te. Hai l’impeto del felino che sa esternarlo [?] nella dolcezza, la violenza fatta carezza soave […]. Vorrei raccogliere nello spazio le musiche divine per crearti un canto di forma e di dolcezza, vorrei aver voce e parole e non ho che amore, amore, amore […]. Ti adoro e la piccola fiamma della mia vita arde per te. Un tuo soffio può spegnerla […]. Sono chiusa in un cerchio luminoso, te. Se guardo, te. Se penso, te. Se dormo, te. Te. Te, sempre te. Ovunque, in ogni tuo gesto, in ogni tuo atto, in ogni tua parola».
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Il carteggio non manca tuttavia di porre in rilievo un altro aspetto: all’ombra di questa nuova relazione che s’instaura tra Mussolini e la ragazza romana si addensano oscure trame. Vi è chi interferisce nel rapporto, cercando di allontanare il Duce dalla sua “fiamma”. Amore dunque appassionato, ma non di meno contrastato. Il 5 giugno, Claretta rimprovera all’amato il tono aspro di una precedente conversazione: «Le tue parole mi hanno fatto tanto male, non capisco perché tu mi hai detto così. È dunque possibile che tu pensi questo di me? Io ti amo, nulla devo dire a mia scusa perché nulla ho fatto, non posso dirti che questo. Ti amo […]. Non so chi voglia allontanarti da me, credo di capire, anche questa è un’arma tutta femminile, perché è subdola e colpisce bene. Ho tanto sofferto di questa presenza, non ho molte volte dormito, è possibile che riesca a farmi tanto male? Non so come dirti ciò che sento […]. Mi pare già che il mondo sia crollato. Guardo a te mio unico solo bene con disperata speranza ed ansia infinita che il mio amore immenso dissipi ogni ombra, e torni la luce divina del tuo sguardo a donarmi la pace e la gioia. Mi piego umilmente dinanzi a te. Tutta la mia vita è per te, da sempre e per sempre, soltanto per te». Il 20 giugno, con il cuore sanguinante, Claretta resta in casa nella vana attesa della telefonata del Cesare di Palazzo Venezia: «Ho atteso tutto il giorno la tua voce, non mi sono allontanata dal telefono […]. Ho sentito la tua parola vibrante, lo squillo della tua volontà, della tua forma meravigliosa».
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Mussolini, evidentemente, presta fede ad alcune delle cose che vengono riferite sul conto di Claretta. Teme che la Petacci, data la sua avvenenza e la sua giovane età, possa incontrarsi con altri uomini, ed esplode in manifestazioni di gelosia incollerita. Clara, il 14 luglio, così sfoga la sua incredulità per la malevolenza che la circonda, scrivendo al Duce: «Sono annientata, mi sembra di morire, non so che dirti, tu non mi credi, il dubbio è in te. Ti voglio veramente bene, non vivo che per te e di te. Fin da bambina ti ho adorato, ed oggi come sempre tu sei la mia ragione di vita. Tu mi devi credere, questa tortura del dubbio non deve, non ha bisogno di esistere. Contavo le ore per rivederti, per essere di nuovo con te, al mare, per correre verso l’infinito, verso il sogno, ed ora mi sento schiantare, sono nella disperazione più atroce, ho il cuore che si rompe. Non penso che a te, non desidero che te, perché mi accusi? Di che? Ti supplico in ginocchio per tutta la bontà che sempre hai avuto per me non abbandonarmi, non credere a chi vuole togliermi da te... Domandami, parlami, chiedimi. Io muoio senza di te […] mi martellano le tue parole dure, la tua voce fredda… Oh mio Dio, se tu vuoi sai essere cattivo».
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