Emma Moriconi, 44 anni, giornalista del “Giornale d’Italia” diretto da Francesco Storace. Autrice del lungometraggio Sangue sparso, dedicato alle giovani vittime degli “anni di piombo” uscito nel 2014 al cinema. Attrice e regista teatrale, musicista per diletto, ha scritto per numerose testate locali occupandosi prevalentemente di storia e cultura. Per “Il Giornale d’Italia” tiene una rubrica quotidiana dedicata alla storia dell’Italia fascista e alla figura di Benito Mussolini.
Edda Negri Mussolini
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Forlì. Ha lavorato in televisione. Conduttrice televisiva, fra gli altri di programmi di motori e sportivi, è stata una delle animatrici di Topo Gigio, ha lavorato nelle redazioni RAI di diversi programmi: “Fatti Vostri”, “Uno mattina”, “Geo & Geo” ed altri. Pubbliche Relazioni per varie case di Produzioni televisive. Ha l’hobby della fotografia e crea gioielli. È stata Sindaco di Gemmano in provincia di Rimini.
Volevo scrivere un libro che parlasse di lei, che per la maggior parte della gente è sempre stata Donna Rachele, ma per me era semplicemente mia nonna: raccontare i suoi ricordi, le sue emozioni e i suoi dolori. Questo scritto è un omaggio a una donna straordinaria, che nella sua vita ha amato, sofferto e gioito insieme a un uomo che per gli altri era la Storia, ma per lei era suo marito, Benito Mussolini.
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Edda Negri Mussolini, 52 anni nata a
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la moglie di benito mussolini Minerva
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Da tutti è conosciuta come Donna Rachele, la moglie del Duce. Per Edda Negri Mussolini è semplicemente “la nonna”: la persona che l’ha cresciuta dopo la morte prematura della madre Anna Maria (ultimogenita di Benito e Rachele). In questo volume emerge la dimensione umana della storia: quella vera, capace di rendere unico e inedito il racconto di Edda. A parlare sono i sentimenti e le emozioni verso coloro che la Storia ci ha abituato a giudicare da un unico punto di vista. Il rapporto intenso e confidenziale tra nonna e nipote e la rigorosa e approfondita ricerca delle autrici, nei numerosi archivi, hanno permesso la correzione di errori storici ormai ritenuti verità. Accompagna il volume, un ricco apparato fotografico, in gran parte inedito, proveniente dagli album di famiglia. Si rivelano così gli aspetti più sconosciuti, intimi e umani della famiglia Mussolini, del Duce ma soprattutto di Donna Rachele, la consorte da cui Benito è sempre tornato, nonostante le molte avventure e le tante donne, Claretta Petacci compresa.
DONNA RACHELE MIA NONNA
LA MOGLIE DI BENITO MUSSOLINI
RITRATTI Collana
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DONNA RACHELE MIA NONNA LA MOGLIE DI BENITO MUSSOLINI
Direzione editoriale: Roberto Mugavero Grafica: Ufficio grafico Minerva Edizioni © 2015 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978-88-7381Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com
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LA MOGLIE DI BENITO MUSSOLINI
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VIAGGIO NEL TEMPO I - Pattini a rotelle Quando ero bambina, mia nonna mi raccontava spesso di Mussolini. Lei era stata una Figlia della Lupa e poi una Giovane Italiana e le piaceva tanto quella sua divisa sempre ordinata e pulita. Ero una bimbetta curiosa che faceva incetta di libri e leggeva avidamente tutto quello che le capitava tra le mani. Sono trascorsi decenni da allora. Oggi scrivo per un quotidiano, “Il Giornale d’Italia”, e mi occupo prevalentemente di storia. E, nell’universo immenso e portentoso della storia, specificatamente di Lui, di Benito Mussolini. E ora sono in casa sua. Mi guardo intorno affascinata, tra le pareti di Villa Carpena. Abbiamo una guida, si chiama Andrea: «Vi prego di accomodarvi – ci dice – Ora, dopo aver visitato il giardino, conosceremo la casa in cui il Duce visse con la sua famiglia». La sua voce è calma, confortante. «Nell’ingresso della dimora possiamo osservare il dipinto che l’imperatore Hirohito donò al Duce», dice ancora. Le telecamere sono accese, ogni particolare viene fissato. È una grande emozione entrare in casa Mussolini, vi si respira la storia, tutto è immutato, come se ancora la quotidianità scorresse inalterata, come più di settant’anni fa, come più di trent’anni fa, quando Donna Rachele stendeva la pasta all’uovo sul grande piano di marmo della cucina. È una casa rurale, non ci sono elementi superflui, non c’è lusso, tutto è essenziale. Come era stata la vita di chi lì dentro aveva trascorso le sue giornate. Ci sono le foto di famiglia, dei bambini, i figli di Rachele e di Benito. Ogni angolo parla, racconta un pezzo di storia, quel microcosmo che è la vita di una famiglia inserito nel macrocosmo della storia della Patria. «Questa è la stanza di Anna Maria», dice ancora Andrea, una volta saliti al piano superiore. Un sorriso dolce, che fa bene al cuore, quello che esce da quella foto ingiallita che campeggia sul muro, sopra il letto.
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A terra, vicino alla finestra, ci sono due paia di pattini a rotelle. «Sono i pattini di Silvia ed Edda, le figlie di Anna Maria», dice Andrea. Edda. Si chiama come la zia, la contessa Ciano. Anna Maria, il “piccolo fiore di Mussolini”, aveva scelto per sua figlia il nome di sua sorella, quella sorella la cui vicenda sembra uscita da un romanzo e che invece è crudelmente vera. I pattini a rotelle di Edda. Vita quotidiana, spensieratezza dell’infanzia, una bambina come tante, ma una Mussolini, una nipote del Duce, che si chiama Edda, e che ha trascorso parte della sua infanzia e della sua adolescenza a Villa Carpena. Mi colpisce, non so esattamente il perché. La vita a volte produce coincidenze strane. Dopo qualche giorno dalla mia visita a Villa Carpena esce il mio speciale sul “Il Giornale d’Italia”. Edda, che si chiama Edda Negri Mussolini (perché Anna Maria aveva sposato il conduttore televisivo Nando Pucci Negri e da lui aveva avuto le sue due figlie) mi scrive una mail. Coincidenze. Con Edda inizia un rapporto epistolare per cui dopo pochi giorni mi sembra di conoscerla da sempre. Mi fa notare che ci separano solo due lettere: Edda, Emma. Coincidenze. Le rivelo i miei sentimenti verso la sua famiglia, la mia voglia di rendere ad essa, nel mio piccolo, ciò di cui la storia l’ha ingiustamente privata. Parliamo a lungo, notiamo tanti particolari, che ancora una volta sembrano coincidenze. Ma le coincidenze, ormai lo sappiamo, non esistono. Tutto avviene secondo un disegno. La storia della sua famiglia lo dimostra. Date, nomi, luoghi, fatti. Nulla avviene per caso. Ed eccoci qui, a qualche mese dal mio fatale incontro con quei pattini a rotelle, a lavorare a quattro mani a questo libro. Che vuole essere un contributo di amore e di giustizia verso la storia, oltre che un ricordo. No, le coincidenze non esistono.
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II - Edda Gentile Emma Moriconi, ho letto il suo ritratto su mia madre su “Il Giornale d’Italia”, la ringrazio per essersi ricordata di lei. Mia madre a differenza degli altri figli è la meno ricordata e quando leggiamo (mia sorella ed io) qualcosa su di lei ci fa molto piacere. Distinti saluti. Edda Negri Mussolini Comincia da qui, da queste poche righe, il mio primo, piccolo ed emozionante contatto con Edda. In quel periodo mi stavo occupando di uno speciale per «Il Giornale d’Italia»: Ritratti, si chiamava. Era uno speciale commissionatomi dal Direttore che mi appassionava moltissimo, dedicato alle figure che, a vario titolo, avevano vissuto vicine al Duce. Tra i tanti personaggi che avevo avuto l’onore e l’onere di raccontare c’era stata anche Anna Maria Mussolini, la figlia più piccola di Benito e Rachele. Nello svolgimento del mio lavoro le mie sensazioni e le mie emozioni hanno sempre giocato un ruolo fondamentale e Villa Carpena, dove ero andata poco tempo prima per uno speciale in video sulla storica dimora della famiglia Mussolini, mi aveva lasciato addosso una sensazione particolarmente intensa. Lì dentro tutto è storia, tutto è vita. E, tra le tante emozioni, c’era stata quella stanza al primo piano, e quei pattini a rotelle. Che bella, Anna Maria! Quel sorriso limpido, spontaneo, quegli occhi gioiosi. Il Duce piantava un albero nel giardino della villa per ogni figlio che nasceva: quello di Anna Maria è ancora lì. Mi racconta Edda che la tradizione di piantare un albero per ogni nuovo nato della famiglia Mussolini è stata mantenuta anche per le nuove generazioni: si tratta di un gesto altamente simbolico, una nuova vita umana che nasce viene celebrata con l’inizio di un’altra vita, vegetale, in una sorta di immedesimazione dannunziana nella natura. Il Duce che pianta un albero in giardino per ogni figlio che nasce ... Per tutta la mia vita avevo letto, studiato, cercato di comprendere e di conoscere quell’uomo che per due decenni aveva retto le sorti d’Italia, e tutto ciò che ruotava attorno a lui mi ha sempre appassionata e mi appassiona ancora oggi.
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Ho sempre pensato che la storia, per come l’hanno raccontata quelli che lo avevano voluto far finire in quel modo orribile, fosse stata profondamente ingiusta con lui, con la sua famiglia e con tutti coloro che a lui avevano scelto di restare vicini. E credo che se oggi ancora tante persone restano legate a quel modo di concepire lo Stato e la vita dei singoli e della comunità, seppure con uno sguardo rivolto al futuro e adeguando molti di quei principi all’epoca moderna (e nonostante gli episodi di fanatismo, che spesso rendono di quei principi un’immagine non corrispondente al vero), è evidente che tantissime sono state le menzogne che nel lungo tempo che ci separa da quegli anni e da quei fatti sono state dette e scritte. Ho sempre cullato un sogno: quello di fare la mia piccola parte per riequilibrare i piatti della bilancia della storia, che per troppo tempo sono stati sbilanciati. «Il Giornale d’Italia» è stato ed è, ritengo, un preziosissimo dono per la storia: in un tempo in cui ancora, dopo settant’anni, l’informazione su quelle vicende è veicolata e manovrata, esso è una voce libera, un megafono. Ed è proprio grazie a lui che ho incontrato, sul mio cammino, Edda Negri Mussolini. Edda. Da quel primo scambio di mail sono nati una confidenza ed un affetto che impreziosiscono la mia vita e che oggi mi fanno scrivere queste parole. Edda. Quante cose in comune abbiamo scoperto di avere! Coincidenze? Può darsi. Ma Agatha Christie diceva che una coincidenza è una coincidenza, due coincidenze sono un indizio e tre coincidenze assomigliano a una prova. Ebbene in questa storia che abbiamo deciso di raccontare ai nostri lettori ci siamo poste il proposito di dimostrare che le coincidenze non esistono. Edda. La nipote del Duce e di Donna Rachele, una Mussolini. Un membro di quella famiglia che ho tenuto nel cuore per tutta la vita, di cui ho condiviso intimamente le sofferenze e le ingiustizie subite, oggi mi racconta i suoi ricordi di bambina, di adolescente e di donna. Edda, la figlia di Anna Maria, che ha il sorriso di sua madre e di sua nonna, due donne che hanno vissuto i dolori più profondi.
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Due storie, quelle di Anna Maria e di Rachele, che potrebbero costituire un soggetto da cui trarre un film drammatico che mai, però, potrebbe rendere l’idea dell’intensità di quel dolore. Rachele. Pensare a questa donna eccezionale porta alla mente una serie di immagini, sparpagliate nel tempo e nello spazio, come tasselli di un puzzle che sono pezzi di vita vissuta. E sembra di vederla, giovane e graziosa come poche altre, arrossire quando il veemente Benito va a prenderla, deciso a portarla via con le buone o con le cattive. E sembra di vederla, mentre con lo sguardo sereno e un po’ apprensivo culla la sua piccola Edda, la primogenita. Edda. Come la “nostra” Edda. La zia Edda, madrina di battesimo della “nostra” Edda. Anna Maria volle mettere a sua figlia il nome della sua sorella maggiore, così diversa da lei. Edda, che somiglia al Duce. La mascella volitiva, i tratti decisi, forti. Il carattere duro. Anna Maria, che ha la dolcezza del volto di Rachele, e il suo sorriso gentile. Così delicata eppure così forte, al punto che – racconta Rachele – persino Edda se ne impressiona. Anna Maria, la sua caparbietà nel volersi rimettere in piedi ogni volta che la gambina le cede. Il suo sorriso, nonostante la malattia che la colpisce così piccola. Un grande peso su due piccole spalle, che sono sorrette da una grande, immensa forza d’animo. Rachele. Anche lei è piccola, minuta, bella e delicata, anche in età, e anche lei ha due spalle troppo piccole per sopportare l’immenso peso della storia. Eppure lo sopporta, fino alla fine, con coraggio. Rachele. Quanti dolori. Il giovane Bruno, che se n’è andato così presto, e il suo pianto disperato è tale che sembra ancora di udirlo, a distanza di oltre settant’anni. Il pianto di una madre. Uno degli altri nomi di battesimo della “nostra” Edda è Brunella, in onore dello zio Bruno. E Anna Maria, la piccola, dolce, forte e coraggiosa Anna Maria. Anche a lei Rachele deve dire addio troppo presto, dolore che si aggiunge al dolore. E Benito. L’uomo al quale Rachele è rimasta vicina senza interruzione, condividendone successi e sconfitte. Quell’uomo che in un giorno di luglio è stato arrestato e condotto lontano da lei. Quell’uomo
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che ha potuto riabbracciare solo due mesi più tardi, per poche ore, prima che ripartisse per una nuova missione alla quale non aveva voluto sottrarsi per amore della Patria. Quell’uomo che le avevano strappato per sempre in un giorno di aprile e il cui cadavere avevano esposto al pubblico ludibrio in quella vergogna che fu Piazzale Loreto. Le sue lacrime silenziose, il suo dolore immenso e discreto, chiusa in un carcere freddo e scarno. E non poter portare un fiore su quella tomba, per anni e anni. Solo preghiere silenziose, senza sapere dove riposavano quei resti, senza la consolazione di una Croce e di un nome. E poi dover superare l’ennesima prova, una cassa povera che devono aprire davanti ai suoi occhi, perché è lei, Donna Rachele Mussolini, che deve riconoscere quelle povere spoglie. E ancora quei pezzi di materia cerebrale riconsegnata dagli americani. È la busta che contiene il cervello di suo marito. Quanto deve essere grande un cuore per contenere tutto quel dolore, tutta quella disperazione? Quanto deve essere forte una donna per tornare a sorridere dopo tutto questo? Edda mi è cara, perché è una persona bella, sorridente e piena di vita. E anche perché è parte di questa sofferenza. Ha una sorella, si chiama Silvia. Quando Anna Maria morì, Edda aveva solo quattro anni e mezzo e crebbe con suo padre, il conduttore televisivo Nando Pucci Negri, con la nonna paterna Maria, con la nonna Rachele e con la zia Carla, sorella del papà. Maria e Rachele sono gli altri nomi di battesimo di Edda. I nomi delle sue nonne. I suoi ricordi fluiscono liberamente, mi parla di momenti indimenticabili di quando trascorrevo con mia sorella Silvia le mie vacanze a Villa Carpena, o di quando la nonna veniva al mare a Riccione. Ricordi di una vita che l’ha vista legata alla nonna Rachele, che le raccontava le sue origini contadine, delle quali non si vergognava affatto, le sue giornate trascorse a pascolare le pecore, ad allevare maiali, polli e tacchini. Una gioventù trascorsa andando a servizio in casa di qualche benestante, esperienze di vita che rafforzano e forgiano. Parlava il dialetto – continua a raccontare Edda – e ne era fiera. Aveva un carattere ribelle. Anche Edda ha il suo bel caratterino, quando si arrabbia vedo
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le fiamme nei suoi occhi, le dico sempre che in quei momenti somiglia tanto anche al nonno. Il carattere ribelle della nonna Rachele ha trovato una degna discendente. III - Villa Carpena È una notte di luna piena. Una notte di fine estate, non c’è neppure un filo di vento, la temperatura è mite e il Sangiovese a cena è stato eccellente. Amo questa terra, ne sento il fervore, ne percepisco l’ardore. La Romagna: qui la terra vibra, gronda passione, la adoro, mi sento come a casa, ogni volta. I lampioni del giardino sono accesi. Che bella, Villa Carpena, di notte! Faccio due passi in giardino, mi fermo un istante davanti alla scultura che ritrae le fattezze di Rachele, le sorrido. Il suo sguardo è sempre dolce, gentile. È pietra, ma sembra che sorrida davvero. Mi tornano in mente le parole di Edda: Penso a Villa Carpena, dove il nonno portò via la nonna in una giornata di pioggia. La casa era di una sorella della nonna, la Pina, viveva con lei e la sua famiglia. Aiutava nei lavori di casa, in campagna. Poi la nonna comprò la casa di sua sorella ed andò a vivere lì. È la casa che più ha amato. Le fu confiscata insieme alla casa di Riccione e ad un podere. Queste proprietà non appartenevano al nonno: le confiscarono ugualmente, “per far dispetto al Duce”, diceva la nonna. A Villa Carpena andarono gli sfollati, e fecero di quella casa uno scempio. Povera nonna, quanto soffrì di questo! Svolto l’angolo, assorta nei pensieri di Edda che nel tempo sono diventati quasi un po’ miei, passeggio lentamente lungo il piccolo sentiero che conduce al gazebo dove il Duce si sedeva a leggere i suoi giornali. Mi siedo anch’io, lì, al suo posto. Immagino il tepore primaverile di quei giorni e le fronde ombrose che gli fanno compagnia mentre lui, immerso nella lettura, beve il suo abituale bicchiere di latte. Ne ha bisogno, dice, per l’ulcera che lo tormenta. Un momento di immensa tristezza mi prende e mi sento gelare il cuore, pensando che qualcuno, anni dopo, durante un esame necroscopico condotto in condizioni a dir poco assurde, andrà a verificare le sue condi-
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zioni di salute e scoprirà che Benito aveva un organismo perfetto. Nessuna traccia di ulcera. Penso a quale peso deve aver sostenuto quell’uomo, e immagino un disturbo di carattere psicosomatico, derivato dal ritmo di vita frenetico e dalle preoccupazioni. Mi prende una profonda malinconia. Decido di alzarmi perché non voglio cedere, anche se è difficile. Perché sono qui, nel suo giardino, a casa sua. E inevitabilmente questo emotivamente mi tocca. Mi guardo intorno, le tortore di Rachele. Sento la malinconia, ma anche una grande serenità, e non so bene il perché. Passo davanti alla casina dei giochi. Il nonno la fece costruire per i piccoli, cioè per la mamma e Romano – è ancora la voce di Edda che continua a ronzare nella mia testa – era una casa vera e propria per giocare, un piccolo “lusso”, concesso ai figli più piccoli. E quanto hanno giocato, in quella casa, la mamma e Romano. L’avevano arredata, vi portavano i loro amici. Alcuni anni più tardi divenne la casa dei giochi per me e per mia sorella. Ecco, mi tornano in mente i pattini a rotelle, un oggetto semplice, in fondo, eppure per me è prezioso: è il mio primo incontro con Edda, che lasciando a Villa Carpena i suoi giochi di bambina, in fondo, ci ha lasciato anche un pezzo di sé. Quello che ho incontrato io. Le parole di Edda continuano a starmi nella mente. Quanti ricordi, in quella casina! Era ancora arredata e noi ci giocavamo con i figli del fattore: entravi e c’era la scala che portava al piano superiore dove c’erano due stanze da letto, con una finestra nel mezzo dove si vede ancora oggi ‘il feroce Saladino’, così chiamato da tutti. In un’armatura argento e con quegli occhi che brillano nella notte e mettono spavento. Al piano inferiore c’erano il bagno, la cucina e il salottino. Poi una specie di garage - ripostiglio. Una volta decidemmo di preparare pasta e fagioli. Andammo a rubare le scatole di fagioli e la pasta in dispensa, poi una pentola, ma non eravamo capaci! Mettemmo nella pentola l’acqua, i fagioli e la pasta. Accendemmo il fuoco nel camino della cucina. Ma la canna fumaria era chiusa! Appena acceso il fuoco, il fumo invase tutto. Non sapevamo cosa fare, il fumo usciva dalle finestre e avevamo paura di cosa potesse dire la nonna. Lei ci sgridò e fece uscire tutti dalla casina, era veramente preoccupata, e noi non capivamo il perché di tanto clamore e spavento. Lo capimmo col senno di poi: avevamo rischiato un’intossicazione ed un incendio.
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Quella casina è lì, muta, silenziosa, le piccole finestre sono chiuse, eppure con un po’ di immaginazione mi sembra quasi di sentire le vocine gioiose di due bambine che giocano, spensierate e inconsapevoli di portare sulle spalle l’eredità difficile della storia. Torno nel cortile davanti casa, ho bisogno di entrare. Non so esattamente perché ho bisogno di andare lì, di notte, al buio. Lo capisco non appena la porta d’ingresso si chiude alle mie spalle. Ho bisogno di stare lì, con loro, di entrare in intimità con quel luogo che mi procura tante sensazioni, ma sento di volerlo fare senza macchina fotografica, senza telecamera né taccuino per gli appunti. Intorno è buio, e silenzio. Non sento neppure i miei passi, tutto è ovattato mentre supero l’ingresso ed entro nella cucina di Rachele, sfioro il grande tavolo di marmo, alzo gli occhi verso le suppellettili e immagino l’odore della farina e il ritmo regolare del mattarello della moglie del Duce che stende la pasta fatta in casa. Il marmo è freddo, il suo bianco riluce, quasi, nell’oscurità. Sul tavolo di marmo della cucina la nonna mi insegnò a fare la sfoglia – mi aveva raccontato Edda – prima solo con acqua e farina, perché le uova non si potevano sprecare. Poi, quando imparai bene, allora si passò a farina e uova, e poi vai di mattarello. A volte la sfoglia diventavo io e la nonna mi impastava su quel tavolo! Con la nonna io potevo fare qualsiasi cosa . Mi sfugge un sorriso, immaginando la tranquilla e gioiosa scena familiare di una nonna che gioca con la nipotina. Sfioro il grande marmo, mi volto e l’occhio cade sui libretti della pensione di Rachele, che sono in mostra in un quadro sul muro della cucina. A Donna Rachele la Corte dei Conti riconobbe il diritto alla pensione solo nell’agosto del 1968 e cominciò a percepirla molti anni dopo. Lei non era, per lo Stato italiano, una vedova come le altre. Era la vedova del Duce. I suoi figli, che dal 1945, quando lui era stato assassinato, dovette crescere da sola, non erano figli come gli altri. Essi erano i figli del Duce. Quante ombre su questa Italia nata dalla “resistenza”... Sul tavolo ci sono i piatti dell’Opera Nazionale Balilla, le stoviglie che venivano utilizzate nelle colonie montane e marine, che il Fascismo di Mussolini aveva creato per le famiglie non abbienti, affinché i figli di ogni Italiano avessero l’opportunità di andare in
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vacanza al mare o in montagna. Lo Stato fascista si faceva carico di tutte le spese, nemmeno una lira pesava sulle famiglie. Lui aveva pensato ai figli di tutti. Nessuno, dopo la sua morte, pensò ai suoi. Che amarezza. Donna Rachele richiese la pensione dopo la morte del marito, ne aveva bisogno per sostenere la sua famiglia: Benito non le aveva lasciato denari né beni, semplicemente perché non ne possedeva. Alla vedova del Duce rispose la Corte dei Conti: “Il Cavalier Benito Mussolini pur essendo stato capo di un governo legalmente riconosciuto per 22 anni, non avendo lo stesso mai percepito nel corso del suo mandato stipendio o indennità alcuna, si desume che non abbia versato i dovuti contributi, pertanto non è possibile procedere al calcolo della relativa pensione o di equipollente trattamento di quiescenza”. Molti anni dopo, grazie all’intervento di Giorgio Almirante e di Giulio Andreotti, quel miserabile torto che era stato fatto alla moglie del Duce veniva riparato. Rachele percepirà la pensione solo per pochi anni: fino alla sua morte, nel 1979. Tutta una vita di lavoro e di sacrifici – mi dice Edda – e alla fine non le diedero nemmeno la pensione se non alcuni anni prima che morisse. A lei i soldi non interessavano, diceva, si trattava di un riconoscimento per ciò che era stato il nonno per l’Italia. Questi pensieri mi tormentano, penso alle prevaricazioni di questo Paese mentre lascio la cucina e attraverso il grande salone. Villa Carpena era un luogo d’avventura, di scoperte emozionanti, ma anche di calore e di gioia – ecco ancora le parole di Edda che tornano, i suoi pensieri mi accompagnano in questo strano viaggio nel tempo – C’erano tante cose da scoprire, ogni stanza era un mondo tutto da osservare, bisognava però stare attenti a non farsi scoprire dalla nonna o dai custodi mentre si andava ad esplorare, anche se penso che comunque sapessero che noi aprivamo cassetti, armadi ed altro. C’erano stanze che attiravano di più la mia attenzione, erano luoghi magici agli occhi di una bambina un po’ curiosa, come la soffitta: in soffitta c’erano giornali, libri, cassapanche, e lì passavo il tempo a leggere, a sfogliare quelle riviste per cercare di capire di più per poi fare le domande alla nonna, a Vittorio, all’Edda. C’era il centralino telefonico, quello con i fili e i bottoni ... quante telefonate immaginarie col mondo, ho fatto! E poi le stanze da letto, ognuno aveva la sua. L’Edda quando veniva
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a Villa Carpena non dormiva nella sua stanza, ma in quella della mamma, e noi così dormivamo nella sua. Edda è abituata a chiamare i suoi zii per nome, è così da sempre. I suoi ricordi sono vivi, sono con me ad ogni passo che faccio in questa casa: Poi c’era la stanza che a noi metteva più paura, quella in cui entravamo raramente e lo si faceva come prova di coraggio, la chiamavamo – e la chiamiamo ancora oggi – Amityville Horror, è l’ultima stanza a destra. In quella stanza ogni volta che entravamo vedevamo sempre cimici o mosche, ma la cosa che ci metteva più paura era che nello specchio dell’armadio vedevamo sempre delle ombre. In teoria quella era la stanza di Romano, ma penso di non averlo mai visto dormire lì. Romano, come dicevano la nonna e i miei zii, aveva paura anche dei pesci rossi! La nonna mi raccontò di quanto coraggio ebbe, però, quando vennero presi, Romano e la mamma, e divisi dalla nonna, nel 1945. Lei non sapeva niente di dove fossero finiti i suoi figli, era preoccupata soprattutto per la mamma, viste le sue condizioni di salute. E dall’altra parte loro non sapevano se avrebbero mai rivisto la loro madre. Ed ecco il coraggio di Romano. Siccome la mamma aveva una catenina d’oro al collo, pensò che avrebbero potuto strappargliela, e così lui la prese e la gettò via. Quando la nonna e Romano mi raccontavano questo episodio pensavo sempre alla loro sofferenza in quei momenti. Penso che per la nonna tutto questo fu ancora più angosciante, non sapere che fine avesse fatto suo marito, dove fossero i suoi figli. Ma lei, da donna forte e romagnola, non si perse d’animo. La nonna era proprio una grande donna. Osservo il grande quadro sulla parete del salone che raffigura Rachele con i figli Edda, Bruno e Vittorio: mi fa pensare ad un’altra grande ingiustizia. Quando la vedova del Duce fu mandata in esilio, senza che ve ne fosse alcuna ragione, ciò che era contenuto a Villa Carpena venne sequestrato. Al suo ritorno a casa, che era tutto ciò che le restava, la donna trovò la struttura occupata e dovette attendere prima di rientrane in possesso. Da un documento che abbiamo rinvenuto presso l’Archivio di Forlì, datato I gennaio 1943 e avente ad oggetto “Situazione politica della Provincia”, si evince che “Il Duce si è compiaciuto di mettere a disposizione [degli sfollati] la sua Villa Carpena, che è già stata adattata a colonia”.
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Non basta. L’XI giugno dello stesso anno il Segretario del Duce Nicolò de Cesare scrive a Vito Mussolini, direttore del “Popolo d’Italia”: “Caro Vito, il Duce ha disposto che le spese per il mantenimento dei bimbi sfollati da Genova ed ospitati a Villa Carpena siano pagate con i Suoi fondi personali amministrati da ‘Il Popolo d’Italia". Pertanto ti sarò grato se vorrai disporre per il rimborso a questa Segreteria di £. 56.924, spese come da unito elenco. Affettuosamente Nicolò de Cesare”. Il XXII giugno Sante Ainetti, direttore amministrativo del giornale, manda l’assegno a de Cesare, che il XXVII risponde: “È pervenuta la tua del 22 corrente con unito assegno circolare dell’importo di £. 56.924 per rimborso spese relative al mantenimento dei bimbi sfollati a Carpena”. Queste carte sono conservate presso gli Archivi, dove vengono fatte continuamente ricerche da parte di storici, giornalisti, studiosi. Peccato che moltissime di queste informazioni, però, non siano state mai pubblicate da nessuna parte. Dunque è giunto il momento, ed eccole qui. E, per completezza, e per amor di verità, sarà anche corretto informare il lettore che in un altro documento del IX luglio 1943 del PNF-GIL Com. Federale di Forlì viene riportata una relazione sull’attività della Colonia Villa Carpena. Eccola: “Durante il mese di giugno sono stati ospiti della Colonia n° 39 Balilla per n° 1301 giornate di presenze effettive. Il 19 giugno il Balilla Gnecco Ubaldo è stato ammesso nella Colonia cosicché il numero è salito a 40. Il 3 giugno nella Chiesa Parrocchiale i bimbi hanno ricevuto la S. Comunione. Il 4 luglio i bimbi e il personale sono stati trasferiti alla Colonia ‘Forlivese’ di Riccione per trascorrervi un mese di cura marina. La salute è stata sempre ottima. Il Comandante Federale Avv. Paolo Maria Guarini”. È scritto lì, nero su bianco: il Duce in tempo di guerra aveva dato Villa Carpena in uso agli sfollati, di sua spontanea volontà. E quelli erano rimasti lì. Quando Donna Rachele tornò dall’esilio fu costretta ad alloggiare nel piccolo stabile di fronte alla Villa insieme a Romano e Anna Maria. Non solo: quando fece richiesta per avere indietro i suoi beni, che erano stati sequestrati, le fu richiesto il pagamento degli anni di deposito. Così dovette scegliere: solo alcuni oggetti e pochi mobili potevano essere recuperati, per gli altri non c’era denaro a sufficienza.
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Varco il piccolo disimpegno che conduce allo studio di Mussolini. Un chiarore lo illumina, entro e immagino una piccola lampada rimasta accesa. Invece quel chiarore che ravviva la stanzetta è un raggio di luna che filtra potente dalle imposte rimaste semiaperte. È talmente chiaro che posso vedere i dettagli: la lupa romana sulla scrivania, il grande ritratto a pastello di Bruno sulla parete. Bruno. Mi tornano le parole di Edda, frammenti dei suoi ricordi che mi saltano alla mente a volte in maniera improvvisa e persino inaspettata. Bruno… In quegli anni, quando mia madre rimase incinta – mi aveva raccontato Edda – non era possibile sapere se chi stava per affacciarsi al mondo sarebbe stato un maschio o di una femmina. Si diceva che la forma della pancia poteva costituire un indizio ma nulla era certo. Così mamma decise, per quella sua seconda gravidanza, che, se avesse dato alla luce un maschio, lo avrebbe chiamato Bruno, come quel fratello morto così presto e sempre rimpianto. E invece nacque una bambina, 3 chili e 150 grammi, grinzosa e bruttina, ride Edda ricordando le parole dei parenti, perché il tempo era finito da un pezzo e il liquido amniotico era quasi finito, al punto che nonna Rachele guardando quel piccolo fagotto esclamò: «I Mussolini sono brutti, ma questa li batte tutti». Dall’agendina della mamma: “Ore 12.26 è nata Edda. È un po’ grinzosa, ma spero che diventi bella come la Kuky (così veniva chiamata mia sorella Silvia). Pesa 3.150 questa volta il parto è stato un po’ più doloroso ma è durato poco, 1 ora e 30”. Mi viene da sorridere a questi momenti di intimità familiare che ho il privilegio di condividere attraverso i ricordi di Edda. Edda Maria Rachele Brunella, “la Buni” per i familiari e gli amici, per essere precisi, nata in terra di Romagna. “La Buni – sottolinea Edda – con l’articolo, come si usa al Nord. Mi chiamavano così per distinguermi dall’Edda (cioè dalla zia Edda). Ormai nessuno si ricorda più a chi venne l’idea di darmi questo nomignolo, forse all’Edda che aveva la mania di dare soprannomi a tutti, fatto sta che oggi per la maggior parte dei miei parenti e per alcuni amici sono ancora ‘la Buni’”.
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Mezza romagnola e mezza lombarda, secondo le origini effettive, ma indubbiamente romagnola fin dentro le vene, e orgogliosa di esserlo, come mi dice spesso. Edda, che da piccola – mi racconta – voleva fare la trapezista! Mentre penso a queste vicende, gli occhi sono ancora fissi sul ritratto di Bruno. Era bellissimo. Mi sfugge un sorriso perché penso che per una volta non sono affatto d’accordo con Rachele: i Mussolini sono tutti belli. Bruno, per esempio, ha i tratti di un dio greco. Mi saltano alla mente le parole che il Duce scrisse nel suo libro in quel meraviglioso e tragico monologo di un padre che parla con il figlio perduto, Parlo con Bruno. Frammenti di frasi, quel dolore profondo e incancellabile. Quella sua preghiera: “A San Cassiano, vicino al mio Bruno”. Penso a lui, Benito, a quei dodici anni senza riposo per i suoi poveri resti e a quel XXX agosto del ’57, quando finalmente trovarono pace vicino a quelli dei suoi cari. Penso alla disperazione discreta di Rachele, chiamata a superare persino quella prova e mi sembra di vederla, curva sotto il peso del dolore ma nel contempo eretta nella sua infinita forza e dignità. Una foto, sullo scrittoio piccolo, ritrae la cassa che contiene i resti del Duce al suo arrivo a Predappio. Penso alle brutture del mondo, a come questa Italia ingrata ha ripagato il sacrificio di quest’uomo che ha anteposto sempre la Patria ai suoi personali interessi. Quattro tavole. Povero era nato, povero era vissuto e povero veniva sepolto. Mi consola il pensiero delle migliaia di messaggi che da ogni parte del mondo tanti uomini, donne e bambini vengono a lasciare nella cripta, ai tanti fiori, sempre freschi, che adornano il luogo del suo riposo eterno, avvolti nei nastri tricolore che i fiorai della piazza del cimitero provvedono ad avere sempre pronti. Ci sono anche i miei fiori, lì, periodicamente. Una rosa rossa e un piccolo nastro tricolore. Insieme alla mia preghiera. Salgo le scale, un flebile raggio di luna giunge fino ai gradini di legno che portano al piano superiore. Tutto è silenzio, in lontananza sento il motore di qualche mezzo che passa lungo la strada. Le scale cigolano appena, nella penombra. Una stanza dopo l’altra, mi passano davanti agli occhi tutti i membri di questa famiglia che ha portato e porta ancora sulle spalle il peso della storia. La divisa
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del Duce è sempre distesa sul suo letto, la sfioro delicatamente, al buio. Vedo un mazzolino tricolore, sull’altro lato del letto. Rachele. Benito. Lo specchio rimanda l’immagine delle fattezze del volto del Duce, non so se è un inganno della mente, un trucco o cos’altro. Nella stanza di Anna Maria i pattini di Edda sono sempre lì, sotto la finestra. Sorrido, mi fa una grande tenerezza questa piccola testimonianza di quotidianità. Il bustino bianco di Anna Maria è sul comò, e mi sembra di vederla, piccola e fragile, e nel contempo forte e determinata, avvolta da quel piccolo e stretto abbraccio che la aiuta a rimanere dritta. Che forza deve aver avuto, la piccola grande Anna Maria. Il disperato desiderio di fare una vita “normale”, nonostante tutto, di mettere al mondo due figlie, di riuscire sempre a sorridere, fino alla fine. Quel sorriso è lo stesso di Edda, non posso fare a meno di notarlo ogni volta che Anna Maria torna alla mia mente. Mi rendo conto che ho perso la cognizione del tempo, che dovrei uscire, riconsegnare le chiavi. I colori di Romano, la sua piccola maglietta della GIL con la M di Mussolini stampata sul davanti, gli occhiali di Vittorio, il phon per capelli di Edda, la cappelliera di Rachele, la moto di Benito. Trascorrere questo tempo lì, al buio, nel silenzio, mi concede di trovare una grande e profonda intimità con loro, mi sento parte di tutto questo, una piccola, infinitesimale parte di questo immenso pezzo di storia. Apro il portone ed esco da quella che è stata la dimora di Benito, di Rachele, dei loro figli, dei loro nipoti. Tutto intorno è buio, le luci sono tutte spente. Si sono spente da sole – mi dicono – non appena la porta di casa si è chiusa alle mie spalle. Per un attimo penso ad un segno: non avrei dovuto, forse, permettermi di entrare lì, sono stata invadente. Ma poi capisco che non è così. Mi basta alzare gli occhi verso la Villa: è lucente come se un raggio di sole fosse tornato, nella notte, illuminando solo lei. È la luna, grande, immensa, una luna che non avevo mai visto prima. Il suo chiarore è tutto per casa Mussolini. Il giardino, intorno, è avvolto dalla notte, solo la villa è baciata dal chiarore lunare. Le luci spente, la luna che illumina quel luogo: è quell’intimità profonda e completa che ho avvertito, forte, passo dopo passo, dentro quella casa.
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Villa Carpena. Lì Edda ha trascorso tanta parte della sua infanzia e della sua giovinezza insieme a sua sorella Silvia. Mi tornano spesso alla mente spezzoni dei suoi ricordi, di quelle memorie che ha voluto condividere con me: Tutti mi dicono che ho il carattere di nonna Rachele, cammino persino come lei – mi ha detto un giorno – fin da piccola sono sempre stata una peste (una peste era anche la mamma, Romano spesso la chiamava “la peste”) e anch’io, al mattino, riesco ad alzarmi già arrabbiata, come a volte accadeva alla nonna. Ero la sua prediletta. Quando ero molto piccola la nonna mi metteva nel lettino accanto al suo per dormire ed io riuscivo ogni volta a scavalcare le sponde e a finire nel lettone, sotto la sua schiena. Una notte, non potendone più, mi rimboccò le coperte tanto strette che sembravo legata. Ma io riuscii a liberarmi e a tornare nel lettone, vicina a lei. E lei disse: «Questa è una Mussolini». La nonna Rachele e la nonna Maria sono state fondamentali per me, nonna Rachele è stata anche la mia madrina di Cresima. Mi regalò un suo rosario che custodisco gelosamente insieme all’agendina della mamma di quando sono nata e un libro rilegato in pelle marrone che parla delle giovani spose, con preghiere e salmi. Sono pezzettini di vita vissuta, che sembrano i piccoli grandi momenti della vita di ciascuno di noi. A Edda il Signore ha voluto togliere l’affetto di una mamma dolce e gentile, secondo quel disegno misterioso che a noi uomini non è dato comprendere e per il quale spesso ci chiediamo ‘perché?’. In cambio le ha donato l’amore incondizionato di due nonne, di un padre affettuoso, di una sorella – ah, che benedizione avere una sorella! – e momenti di innocenza e di felicità che, a distanza di anni, le fanno compagnia. Un destino difficile, quello che si ritrova a dover gestire una Mussolini. Un passato di dolore che pesa come un macigno e che, tuttavia, le consente di sorridere sempre, con quel sorriso che Anna Maria, andandosene troppo presto, le ha lasciato in eredità. Un’eredità fatta non di soldi, proprietà e lussi, ma di storia, di valori, di sentimenti. I soldi, le proprietà e i lussi per i Mussolini non hanno avuto mai alcun peso. Donna Rachele era stata la moglie del Capo del Governo, avrebbe potuto essere la gran dama dei ricevimenti e dei lustrini, vivere sotto i riflettori, tenere le mani
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sempre curate e il viso sempre truccato, indossare abiti cuciti dai migliori stilisti e fatti delle stoffe più costose. Donna Rachele non fu mai nulla di tutto questo. I suoi vestiti li cuciva da sé, le sue mani erano quelle di una donna che lavorava, niente paillettes né smalto alle unghie, né ombretti o rossetti o gioielli. I suoi beni erano assai più preziosi: la dignità, prima di tutto, che non si compra, perché un prezzo non ce l’ha. Come l’onore. Come l’onestà. Come la forza. Come gli affetti.