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INDICE
Introduzione............................................................... p. 5 Quando c’erano i nonni........................................... p. 10 Quando la Cina era troppo vicina........................ p. 20 Quando c’erano i virologi....................................... p. 29 Quando c’erano i No Vax....................................... p. 36 Quando il sesso era... normale.............................. p. 43 Quando andavamo a scuola................................... p. 51 Quando ci davamo la mano................................... p. 61 Quando andavamo a lavoro.................................... p. 68 Quando andavamo a viso coperto........................ p. 76 Quando facevamo la spesa..................................... p. 83 Quando non c’era il calcio...................................... p. 90 Quando andavamo all’estero................................. p. 98 Quando c’erano gli Airbnb..................................... p. 106 Quando non sapevamo che giorno era............... p. 113 Quando guardavamo l’oroscopo........................... p. 118 Quando non volevamo la plastica........................ p. 124 Quando non uscivano neanche i ladri................ p. 132 Conclusioni................................................................. p. 141
Ai miei ragazzi
INTRODUZIONE
Quando il presidente Mattarella è apparso in tv con i capelli lunghi, be’, abbiamo definitivamente capito che era proprio inutile fare i furbi. Bisognava stare in casa, ben attenti a non ammalarsi perché in giro le cose non andavano affatto bene. Anzi, malissimo. Abbiamo capito soprattutto che c’era stato un “prima”, fatto della nostra vita normale, abitudini, rituali, manie. C’era un “durante” in cui eravamo immersi, tanto diverso da quel “prima” che piano piano, settimana dopo settimana, andava quasi sfumando nella memoria. E ci sarebbe stato un “dopo” in cui, dicevano, nulla sarebbe stato più come “prima”. Il che ci faceva pensare che dal parrucchiere ci saremmo tornati, Mattarella compreso, ma forse molte cose in effetti rischiavano di cambiare, di andare peggio, tranne quelle che già andavano male, e ovviamente sarebbero rimaste così. Quando siamo entrati nel tunnel alla Wuhan, qualcuno, molti, troppi, non ne sono usciti. Un lutto e un dolore collettivo. I più fortunati, invece, lo 5
hanno vissuto al sicuro, dentro ville, resort, alberghi di lusso affittati dal primo all’ultimo piano per poter contenere servitù e concubine come il re di Thailandia. Insomma, mentre nella vita dei reality i ricchi e famosi andavano su un’isola caraibica a fare la fame, durante il lockdown ci andavano a mangiare aragoste e bere champagne lontani dalla pandemia. Noi gente comune, invece, stavamo in casa ad aspettare il bollettino delle 18 del capo della protezione civile, invidiavamo quelli con i cani («Quanti anni sono che ti dico, prendiamone uno, anche piccolo, ma tu niente!»), ci avventuravamo fino al supermarket sperando che non ci pizzicassero con l’autocertificazione scaduta, perché si era rotta la stampante e non avevamo l’ultimissima, uscita fresca, fresca da palazzo Chigi. Altra gente comune usciva tutte le mattine per andare al lavoro. Non erano eroi, erano donne e uomini con il camice. Bravi, bravissimi. Qualcuno ci ha lasciato la pelle, tutti ci hanno dato l’anima. Una flebo e una carezza. Il loro dopo vale la vergogna di qualche euro in più, e la nostra stima. Di cui vanno fieri ma che non serve alla cassa di un alimentare. L’Italia li ringrazia, o dovrebbe farlo. Nella prigione del lockdown abbiamo perso tanti amici, padri, nonni. Abbiamo perso anche molti diritti: di circolazione, di riunione, persino di parola: 6
il pensiero unico del virus sovrastava ogni opinione. Tanto c’erano i virologi che di opinioni ne esprimevano a raffica, in genere completamente diverse le une dalle altre. Pluralismo sanitario. O confusione scientifica. Tanto che ancor oggi non sappiamo se le mascherine sono più indicate per fermare il virus, o per sciupare l’abbronzatura. Se i guanti servono per non contagiarsi, o per strozzare senza lasciare impronte quei saltimbanchi della Organizzazione mondiale della sanità che ogni giorno davano indicazioni contrarie a quelle del giorno prima. Pure il diritto-dovere del lavoro ha cambiato i connotati: molti lo hanno conservato da remoto; alcuni lo hanno preso talmente in remoto da trasformarlo in ferie retribuite; altri, troppi, hanno incominciato a perderlo dietro le serrande chiuse, le industrie ferme, dentro gli alberghi vuoti, al di là delle barriere di plexiglass dei ristoranti, in attesa della cassa integrazione in deroga. Che in effetti era talmente in deroga che non arrivava. Con uno strano fenomeno: l’Inps diceva che più o meno tutti l’avevano avuta, mentre più o meno tutti quelli che tu incontravi la aspettavano ancora. A scuola, invece, tutto regolare. O quasi. Famiglie, docenti e studenti hanno fatto di tutto per consentire al ministero di far finta che l’anno fosse regolare. Piuttosto il ministero non ha mai fatto finta 7
di essere all’altezza. Quasi non si sapeva quando le lezioni dovessero finire, tanto meno quando e come dovessero ricominciare. Nel dubbio, tutti promossi e ci penseremo l’anno prossimo. Quando non uscivamo, non uscivano neanche i delinquenti, e non entravano neanche nelle nostre case, se non online per tenersi allenati con qualche truffetta. Comunque, si stanno già rifacendo. Non sbarcavano più nemmeno i clandestini, e Salvini si annoiava a morte. «Karola, dove sei?» Tranquillo Matteo, tutto è già tornato come prima, sbarchi con virus incorporato. A Firenze, un’altra categoria disagiata era scesa in strada per protestare contro il lockdown: una trentina di donne rom in abito zingaresco “da lavoro”, seguite da una pattuglia di uomini e accompagnate da commenti della gente non esattamente benevoli. In effetti, anche a loro mancava il lavoro nelle stazioni vuote e nelle piazze deserte: neanche un portafoglio da… raccogliere, una mano da leggere, un’elemosina da chiedere. Virus razzista. Quando incominciavamo a uscire, era venuto il momento dei monopattini, geniale invenzione-incentivo per tenere pulita l’aria, in allerta i pedoni sui marciapiedi, e gli automobilisti per le strade infestate da questi nuovi mezzi che davano a tutti (gli altri) un paio di assolute certezze. Primo, se solo li sfioravi sarebbe stata sempre e comunque colpa tua e non 8
loro che facevano lo slalom. Secondo, il bonus sarebbe arrivato, o si sarebbe capito come poteva arrivare, quando già circolavano le bici nucleari. Tipo cassa integrazione. Incidenti e vittime hanno comunque confermato che in monopattino è meglio se ci vanno i bambini in cortile e non gli adulti in città. Nel limbo del lockdown, in quella vita sospesa, in quelle giornate diverse, vuote, piene di incertezze alimentate abbondantemente dalla “Disorganizzazione” mondiale della sanità; in quella parentesi tra il prima e il dopo, abbiamo pensato che era meglio uno spaghetto all’olio degli involtini primavera. Abbiamo persino disimparato a darci la mano. Ma non ad ammassarci in spiaggia. Il sole, il caldo sono venuti anche per noi reduci. E ovviamente abbiamo sbracato. L’estate vuol dire fiducia. Prima, durante, dopo. Nel mondo di mezzo del lockdown abbiamo potuto voltarci indietro, cercando di fissare la vecchia vita nella memoria, e allo stesso tempo di guardare in avanti. Bilancio? Ognuno ha il suo. Nelle pagine che seguono troverete il mio su alcuni aspetti della nostra vita ribaltata dalla bufera Covid-19. I nonni, i bambini, la Cina, gli astri, la voglia di ripartire… Insomma, “Dove eravamo rimasti”, senza punto interrogativo, parafrasando Enzo Tortora. Non una domanda, un punto di ripartenza per capire che bisogna sempre andare avanti. 9
QUANDO C’ERANO I NONNI
Da anni a quel tavolino erano sempre loro quattro. Solo il mercoledì pomeriggio. Essere in pensione non voleva dire non fare niente. Riposarsi. Magari. C’era da fare i nonni, soldati di un esercito di 12 milioni di italiani, gente che secondo uno studio dovrebbe guadagnare almeno 2000 euro al mese per un impegno h24, sette giorni su sette. Non i 1000 della media Inps. Sempre pronti. Invincibili. Quando non c’era il virus e c’erano altri nonni, era tutto più facile. Perché il loro non era uno stato anagrafico, una parentela. Era un mestiere. Bastava mettersi d’accordo, fare un calendario settimanale, giornaliero. Asilo, scuola, più nonno. I conti di famiglia tornavano. Tornano ancora, per carità. Un po’ meno e un po’ peggio. Una volta non era così. Quando ero piccolo, tanti anni fa, il nonno mi portava a vedere il treno quando eravamo al mare e si affittava una casetta a due passi dalla spiaggia, con alle spalle la ferrovia a un paio di centinaia di metri. 10
In città io stavo in collina, non li vedevo i treni, allora ci pensava mio nonno Adelmo d’estate. Mi prendeva sulle spalle e andavamo in fondo alla strada al passaggio a livello. Ci stavamo delle mezz’ore perché non passava un convoglio dietro l’altro. Lui mi raccontava non ricordo cosa per intrattenermi, io gli spettinavo il bel ciuffo di capelli candidi. Mio cugino Filippo lo chiamava “Penna bianca”. Piaceva anche a me, ma non mi azzardavo a chiamarlo così. Quando passava il treno lui mi afferrava bene le gambe perché lo spostamento d’aria non mi facesse cadere, e anche perché mi agitavo battendo le mani. Io chiedevo sempre di vederne un altro. A volte il nonno mi accontentava, a volte mi diceva che quello dopo era uguale a quello di prima, quindi ce ne tornavamo a casa. La nonna Stella, sua moglie, ogni giorno faceva la pasta fresca perché il nonno mangiava solo quella. Quando ero alle medie andavo spesso a pranzo da loro perché stavano poco distante da scuola. Un giorno il nonno mi disse che la nonna aveva tentato di avvelenarlo: voleva fargli mangiare un piatto di riso. La nonna lavorava molto all’uncinetto. Faceva le prese per non bruciarsi in cucina. Ma siccome erano a maglie larghe, un po’ ci si bruciava. Quando il nonno morì avevo 18 anni e lui 84. Era bianco come i suoi capelli. La nonna ha vissuto molto di 11
più. Se n’è andata che ne aveva 96. Era nata esattamente lo stesso giorno, 90 anni prima, del mio primo figlio. L’altra nonna, Matilde, era mancata che ero bambino. Aveva occhi chiari e lo sguardo triste. Il babbo mi venne a prendere alle elementari con la Seicento, cosa che non aveva mai fatto, e mi disse che la nonna era andata in cielo con gli angeli. A casa sua e di nonno Attilio andavamo ogni tanto. La domenica pomeriggio. Non ricordo che siano mai venuti a casa nostra. Il nonno per qualche tempo venne a vivere da noi. La mattina usciva, andava al suo circolo e tornava a pranzo. Nel pomeriggio, uguale. La sua passione era la politica, non la famiglia. Quando compii 18 anni mi fece un regalo prezioso: la tessera del suo partito e due volumi con tutti gli scritti di un padre del socialismo riformista, Camillo Prampolini. Credo che né io né mio fratello siamo mai stati affidati ai nonni per più di un’ora o di un pranzo. Quando i tempi e il mondo sono cambiati, ai nonni baby-sitter del terzo millennio al massimo restava qualche ora libera per un tresette con amici. Il mercoledì, appunto. Uno spazio trovato e ritagliato dopo mille compromessi rispetto ai loro impegni. Guido e Carlo, un’ottantina di anni, quaranta passati alle Ferrovie, avevano una figlia femmina a testa, e ognuno un paio di nipoti. Guido entrava 12
in servizio a fine mattinata, andava a prendere il più piccolo all’asilo e lo portava a casa sua, dove la moglie aveva preparato il pranzo. Lui avrebbe fatto volentieri un pisolino, ma quello voleva giocare con il trenino, benedetto il giorno in cui glielo aveva regalato. Alle quattro tornava a scuola a prendere la grande. Quanto chiacchierava, ma era ubbidiente: sempre per mano, e per fare i compiti non si tirava indietro. Il problema era che alle sei, il martedì e giovedì, lo passava a prendere Carlo perché portavano le nipoti a danza. Il martedì facevano due chiacchiere, ma il giovedì no perché Carlo alle sei e mezzo andava a prendere l’altro nipote a judo, all’altro capo della città, e tornava giusto in tempo per riprendere la bambina. Il lunedì e il venerdì mattina erano dedicati alla spesa. «Mamma, già che vai, mi prendi…» Così, prendi il marito, spingi il carrello, riempilo, fai i sacchetti separati, carica, scarica. Un gran mal di schiena tutti e due. In fondo stavano bene, ma lei aveva avuto un intervento delicato qualche anno prima, e lui una piccola ischemia. Avrebbero dovuto stare riguardati, come anche Antonio e Volturno (poveraccio, suo padre coltivava la passione per le battaglie garibaldine), gli altri due del tressette. Un ex operaio e un commercialista. Antonio aveva un solo nipote, un maschio, gli pagava il tennis e ovviamente… «Lo accompa13
gni tu papà per favore a comperare l’attrezzatura? Anche un accappatoio va, che quello serve anche a casa…» Poi c’erano i compleanni, Natale, le malattie: «Te lo porto domattina perché ha un po’ di raffreddore, meglio non rischiare». Giusto. E per fortuna che tutti lavoravano, figli, nuore, generi. Quando capitava anche a loro vecchi di ammalarsi, lo vivevano quasi come una mancanza verso figli e nipoti. Così restava il mercoledì pomeriggio, il tressette. L’ora d’aria. A dicembre però Volturno non stette bene. Una brutta influenza. Lo ricoverarono, infatti. Loro dovettero riconvertirsi alla scopa, lui non ce la fece. Fu una triste vigilia di Natale al suo funerale. A inizio anno anche Antonio alzò bandiera bianca. Lui stava bene, ma moglie e figlia gli avevano detto che con quello che stava succedendo in Cina e con tutti i cinesi che c’erano in giro, era meglio che stesse a casa. Gli altri due si riconvertirono alla briscola. Il barista gli aveva imposto di stare un po’ distanti. Giusto. Meglio non rischiare. Anche perché Guido aveva una tosse secca che non voleva andarsene. Quando c’era il lockdown, Carlo non riuscì nemmeno a dargli l’ultimo saluto perché i funerali erano stati vietati. Anche quelli di Carlo furono senza lacrime, senza la mano di un nipote a stringere la sua quando era a testa in giù con un tubo in gola 14
in un letto di ospedale. Antonio da casa seppe che i suoi amici se n’erano andati. I figli furono categorici: «Adesso papà, e anche tu mamma, finito l’isolamento, basta andare in giro a prendere e portare nipoti. Se capita qualche volta, bene, se no, noi ci arrangiamo in qualche modo. Dovete stare riguardati». Per fortuna c’erano Skype e le telefonate video WhatsApp. «Ehi, ti trovo bene papà. Sei un fiore. Ti fa bene stare in casa.» «Non dire sciocchezze, mi faccio due palle così. Non ho più settimanali di enigmistica da riempire. Piuttosto, passami la bambina che faccio due chiacchiere.» Quando la quarantena si è allentata, tanti vecchi soldati si sono guardati attorno e si sono accorti che era vero quello che avevano letto e sentito alla televisione: il loro esercito aveva perso un sacco di commilitoni coraggiosi. Soprattutto molti della riserva, già ritirati in qualche Rsa per raggiunti limiti di età ed evidenti limiti di efficienza personale. Gli altri, i sopravvissuti, un po’ sono stati messi sotto vetro, ancora prima di diventare veri anziani: nelle zone di accoglienza dei centri estivi e nei servizi per l’infanzia sono stati esclusi come accompagnatori addirittura gli ultra sessantenni. Gli stessi che facevano ogni sabato sera quattro ore consecutive di ballo latino americano senza sentire un doloretto ai muscoli delle gambe. Demenziale. 15
Quando il rompete le righe è stato totale, anche i più avanti con gli anni hanno capito, senza decreti, che bastava poco per lasciarci la pelle, a cui sono ancora molto attaccati. Un contraccolpo psicologico. Un allarme che suona. Un freno a mano tirato. Più cauti. Più attenti nonostante il bonus nonni. Una favola, una passeggiata, a prendere il nipote, certo, con la mascherina d’ordinanza. Oddio, nella casa al mare finita la scuola ci sono andati ma, come diceva quella pubblicità, un po’ «a schiuma frenata». Perché il vicino di ombrellone era a distanza di sicurezza, ma poi si avvicinava a fare due chiacchiere. Perché la barista l’aveva vista nascere e un abbraccio aveva finito per darglielo, perché non si arriva a 80 anni per dare il gomito. Perché il nipotino faceva il bambino, sempre in giro, amici, parco giochi; però se lui si infettava, due colpi di tosse, e via. Ma il nonno ci lasciava la pelle. Come è successo agli amici del mercoledì. E a quel bar, dove il padrone quasi coetaneo dei suoi avventori ha pensato che la cosa migliore da sanificare fosse la sua salute. E non ha più riaperto. Quando andavamo alla bocciofila, non c’erano solo anziani. Caterina Venturini è campionessa del mondo, ma ha solo 26 anni, e sua sorella minore Virginia è già in nazionale. Alla bocciofila, inutile dirlo, si gioca a bocce. Lo facevano già i sumeri nel 7000 avanti Cristo: rotolamento di sfere su terreno acci16
dentato, veniva definito nella città neolitica di Çatal Hüyük in Turchia. Poi il terreno è stato livellato, siamo arrivati noi e siamo diventati forse i più bravi. Siamo saliti persino sul tetto del mondo nella “pétanque”, la variabile francese in acciaio; una soddisfazione che vale doppio, come se una squadra italiana vincesse la finale del Super Bowl. Quando andavamo alla bocciofila, c’era un sacco di gente. Quelli che lo facevano proprio come sport, 90mila tesserati alla Federazione di cui 40500 in agonistica, 1500 atleti paraolimpici, 1600 società affiliate al Coni, più un numero elevatissimo di amatori e di circoli ricreativi. Un esercito. Mano ferma, colpo d’occhio, nervi d’acciaio. Perdere era colpa del terreno che veniva scrutato centimetro per centimetro, ma alla fine era sempre uguale a quello dell’avversario. Anche il vento poteva avere la sua parte, per non parlare di quel cretino là in fondo che si era messo a urlare mentre la mano stava lasciando la boccia. Vincere era la benzina per stare a petto in fuori fino alla sfida successiva, e anche per qualche bevuta gratis. Perché quando andavamo alla bocciofila non si giocava solo a bocce. Figuriamoci. Si facevano delle gran chiacchiere, si faceva crocchio attorno a un tavolino o a zonzo nel circolo per dare un’occhiata a chi giocava cercando di carpirne segreti e debolezze. Poi, mica tutti erano giocatori. Al circolo ci anda17
vano in tanti, per stare in compagnia. Anziani, soprattutto, questo sì. Era il luogo perfetto per la loro ora d’aria, e per accontentare la moglie. «Vai, vai al circolo che è meglio. Almeno non stai in mezzo ai piedi che da quando sei in pensione sei diventato insopportabile.» Da che pulpito! Alla bocciofila si giocava a carte, si discuteva di politica. Già, chiuse le sedi di partito, di luoghi di aggregazione non ne erano rimasti molti. Per i giovani, certo, c’era l’aperitivo, la birrina, l’happy hour, l’apericena. Tutta roba non adatta agli over. Ricordate quella straordinaria scena del film di Benigni Berlinguer ti voglio bene? Tutto si svolge in una sezione del Pci in una sera di festa. Prima la tombola, poi il segretario e conduttore della serata fa partire l’ordine: «Sospensione di ricreativo, principia avviare il curturale, seduti perdio». Ecco, la bocciofila era un po’ sportivo, un po’ ricreativo, e un pizzico di curturale. E tanta libertà. Qualche mese fa il quotidiano “Avvenire” ha incrociato un veterano, Rino Nencini, parente del grande Gastone Nencini, eroe di un ciclismo passato, fiorentino, 99 anni. Ecco cosa gli ha raccontato. Assisto mia moglie malata, viviamo al quinto piano senza ascensore. Faccio la spesa e prima che succedesse questa robaccia del virus, giocavo alla 18
unione sportiva Affrico. Chi mi porta a giocare a bocce? O bella questa… Piglio la mia macchina, così quando finisce la partita, che di solito vinco pure, mi fermo al ristorante a mangiare con chi mi garba. E non vedo l’ora che tutto finisca, così si torna anche a mangiare a giocare con gli amici.
Quando è esploso il virus, è stato una bomba atomica nei circoli e nelle bocciofile. Più di 200 morti, la metà in Lombardia tra Bergamo, Brescia e Milano, centinaia di contagiati. Stare assieme era diventato un rischio. Con una boccia o con un bicchiere in mano. Quando la bocciofila ha riaperto, con discrezione, con mille attenzioni, molte cose erano cambiate soprattutto per gli anziani: «Vai al circolo? Ma hai visto quanti ci hanno lasciato la pelle? Tu sei matto, fino a quando non c’è il vaccino non se ne parla nemmeno. A casa sei insopportabile, ma se esci rischi tu. E siamo sinceri, rischi di fare ammalare anche me».
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