Dracula l'impalatore

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Roberto Gargiulo

Roberto Gargiulo

dracula l’impalatore

Roberto Gargiulo è nato a Pordenone nel 1958. Si laurea in Lettere con indirizzo Archeologico Medievale presso l’Università degli Studi di Trieste. Da circa vent’anni si occupa di ricerca storica, con particolare attenzione alla storia militare. Attualmente vive a San Vito al Tagliamento. Ha curato diverse pubblicazioni e mostre aventi come protagonisti i friulani e la loro terra.Ha collaborato alle pubblicazioni di Arrigo Petacco, L’Ultima Crociata e La Croce e la Mezzaluna.

“[...] Viveva nella terra muntena un voivoda, cristiano di fede greca, il suo nome in lingua valacca era Drakula e nella nostra è Diavolo. Tanto crudele era di nome quanto lo era la sua vita” Dracula, il demone, il vampiro, il principe delle tenebre, il figlio del Drago, quanti sono stati gli appellativi con cui, di volta in volta, è stato indicato questo inquietante personaggio, destinato a popolare i sogni, o forse potremmo dire gli incubi, di intere generazioni e ad alimentare un fiorente filone letterario e una inesauribile industria cinematografica e editoriale. Figlio della fervida fantasia di un semisconosciuto scrittore irlandese di più di un secolo fa e identificato nell’immaginario collettivo dalla sua esangue e aristocratica versione di classiche pellicole inglesi degli anni ’60, costui ha saputo traghettarsi sino alle avveniristiche e truculente versioni postmoderne degli ultimi decenni, alternate alle visioni romantico-gotiche pensate per un sospiroso pubblico femminile e adolescenziale. Il conte-vampiro ha così sistematicamente occupato lo spazio che un’attualità sempre più deludente e frustrante rendeva disponibile nella psicologia delle masse. Paura e mistero, erotismo e fascinazione sono del resto ingredienti infallibili di un successo che dura ininterrottamente da centoventi anni. Come era inevitabile però il personaggio ha avuto la meglio sull’uomo, nella migliore delle ipotesi confondendosi con esso, molto più spesso soppiantandolo del tutto. Non sono molti quindi coloro che rammentano chi si cela dietro il mito e che il pallido conte transilvano dai lunghi canini intende in realtà perpetuare il ricordo di un coraggioso condottiero, amato e temuto dalla sua gente, animato da una ferocia che, a volte, sconfinava nel sadismo, eppure ricordato come principe giusto e buon amministratore, abile diplomatico e scaltro politico, uomo pio e descritto da un grande Pontefice come il “cavaliere prediletto del Signore”. Un protagonista enigmatico e un eroe della sua terra, che questo saggio vuole restituire alla sua reale dimensione, quella che le cronache, le leggende e la memoria popolare hanno perpetuato nel suo nome secolare: Vlad III, figlio di Vlad Dracul Basarab, Voivoda di Valacchia, conosciuto nel suo tempo come Vlad Dracula detto Tepes, l’Impalatore.

L a biografia di Vlad Tepes Principe della Valacchia

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Minerva Edizioni

Su questo personaggio, a metà strada tra il mito e la storia, sono stati sinora versati fiumi d’inchiostro e appare difficile riuscire a dirne qualcosa di nuovo. Tuttavia, molto spesso, l’attenzione è stata focalizzata sul mito, tralasciando l’uomo, che la leggenda ha relegato sullo sfondo, come una sorta di grigia quinta teatrale. Proprio l’uomo invece, il personaggio storico, finisce con il rivelarsi un protagonista del suo tempo, in qualche modo inedito e inaspettato. Un soldato coraggioso e un abile diplomatico, un accorto giocatore e un orgoglioso principe, un sadico carnefice, profondamente innamorato però della sua gente e della sua terra.Però il biografo ha subìto in qualche modo il fascino della sua creatura e ha così deciso di esplorarne anche gli aspetti meno noti, come quello della sua discendenza familiare, un capitolo sino ad oggi quasi ignorato dalla storiografia ufficiale. Sono così emerse storie meno conosciute o volutamente dimenticate, legate tra loro dal comune senso di appartenenza dei protagonisti ad una discendenza al tempo stesso nobile e maledetta. Pregiudizio e superstizione infatti la fanno ancora oggi da padroni e il nome Dracula può spesso risultare fatale a chi abbia ancora il coraggio di fregiarsene. Se è vero quindi che Vlad è stato la prima vittima di Dracula, è altrettanto vero che il tempo restituirà presto il principe di Valacchia alla storia e al posto che in essa gli spetta.

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Roberto Gargiulo

dracula l’impalatore La vera storia di Vlad Tepes Principe della Valacchia

Minerva Edizioni


RITRATTI Collana

dracula

l’impalatore

Direzione editoriale: Roberto Mugavero Grafica e impaginazione: Alessandro Battara Le immagini di questo volume sono protette dalle leggi sui diritti di copyright internazionale. La loro riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo, è vietata senza il consenso del detentore del copyright. © 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978-88-7381-507-5 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com


indice

Prefazione di Arrigo Petacco

pag.

5

Introduzione

pag.

7

Capitolo I L'antica stirpe

pag.

11

Capitolo II Un giovane principe

pag.

33

Capitolo III Vlad Tepes

pag.

64

Capitolo IV Il piccolo padre

pag.

130

Capitolo V L a difesa impossibile

pag.

159

Capitolo VI L a caduta

pag.

189

Capitolo VII Il mito

pag.

220

Bibliografia

pag.

265



Prefazione Dracula l’Impalatore Storia di Vlad Tepes, Principe di Valacchia

Su questo personaggio, a metà strada tra il mito e la storia, sono stati versati i classici fiumi d’inchiostro, ma l’attenzione è stata sempre focalizzata sul mito, lasciando l’uomo sullo sfondo, come una sorta di grigia quinta teatrale. Invece, l’uomo che emerge per la prima volta da questo libro nelle sue sembianze reali finisce con il rivelarsi un protagonista del suo tempo, in modo inedito e inaspettato: un soldato valoroso e un abile diplomatico, un accorto giocatore e un orgoglioso principe, ma anche un sadico carnefice, profondamente innamorato però della sua gente e della sua terra. Proprio la progressiva scoperta di questa realtà inattesa ha spinto Roberto Gargiulo, storico attento e, oserei dire, autentico sommozzatore di archivi, capace di penetrare nelle pieghe più oscure della storia, ad approfondire la sua ricerca e ricavarne non una dotta relazione, riservata a pochi addetti ai lavori, ma un libro di godibile lettura, che consentirà a un ampio numero di lettori di riscoprire questo personaggio nell’intrico delle passioni e delle ambizioni, che lo hanno reso unico nel suo tempo. Le cronache e i resoconti dell’epoca hanno costituito del resto la fonte principale della ricerca stessa, assieme i tradizionali “cicli” letterari tedesco e russo, con una particolare attenzione riservata alla produzione balcanico-romena e all’affascinante, anche se poco nota, documentazione di provenienza greco-turca, in particolare 5


nelle sue edizioni e traduzioni più recenti. Il tutto corredato da un elevato numero di testimonianze e memorie di contemporanei, necessarie a rendere lo spirito e la mentalità di quel secolo, splendido e crudele. Rudi veterani, aristocratici signori, abili menestrelli, ricchi mercanti e scaltri diplomatici hanno così contribuito a completare questo grande affresco. Come spesso accade in questi casi, il biografo ha subìto in qualche modo il fascino della sua creatura e ha così deciso di esplorarne anche gli aspetti meno noti, come quello della sua discendenza familiare, un capitolo sino ad oggi quasi ignorato dalla storiografia ufficiale. Seguendo il filo rosso del “sangue di Caino”, sono così emerse storie meno conosciute o volutamente dimenticate, legate tra loro dal comune senso di appartenenza dei protagonisti a una stirpe al tempo stesso nobile e maledetta. Pregiudizio e superstizione infatti la fanno ancora oggi da padroni e il nome Dracula può spesso risultare fatale o almeno imbarazzante a chi abbia il coraggio di fregiarsene. Oltre a questo, era però necessario e forse inevitabile tributare un omaggio al genio di Bram Stoker, creatore del “Dracula” letterario, e alla genesi della sua creatura più famosa, cui si è voluto accompagnare un ultimo capitolo dedicato alla trasfigurazione dell’uomo nella leggenda e all’incredibile capacità di quest’ultima, cioè del vampiro, di penetrare in profondità nell’immaginario collettivo in società tra loro molto diverse e lontane nel tempo, influenzandone sogni e paure. Con una vitalità e una capacità di adattamento che lasciano davvero stupiti. Se è vero quindi che Vlad è stato la prima vittima di Dracula, è altrettanto vero che il tempo forse restituirà il principe di Valacchia alla storia e al posto che in essa gli spetta.

Arrigo Petacco

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Introduzione “La forza del vampiro è nel fatto che nessuno crede alla sua esistenza” Bram Stoker

Nel 2012 si è celebrato il centenario della morte di Bram Stoker, l’irlandese autore di uno dei capolavori della letteratura mondiale, quel “Dracula”, edito nel 1897, e fonte, nell’ultimo secolo, di un inesauribile filone artistico che, dall’oscura vicenda del Conte vampiro, ha tratto la propria ragion d’essere. Un filone che, anche in tempi recenti, è riuscito a mostrare la propria vitalità, con una costante capacità di adattamento alle mode e alle esigenze di un pubblico ormai globalizzato, senza per questo mostrare segni di cedimento alcuno, nonostante la non più verde età. Pensiamo, ad esempio, alla recente saga, letteraria e poi cinematografica, di Twilight e alle innumerevoli versioni televisive dello stesso personaggio o dei suoi cloni, ormai svuotate dei contenuti originali, per adattarsi alle esigenze di una generazione di giovani dai gusti ben definiti, anche se magari in parte discutibili. In fondo però le divagazioni adolescenziali sul tema di una Buffy l’ammazzavampiri non turberebbero solo i sonni del vecchio Stoker, se fosse ancora vivo, ma certo anche quelli del grande Christopher Lee, insuperabile interprete di una memorabile galleria di vampiri, che la gloriosa Casa cinematografica inglese Hammer film ha prodotto tra il 1958 e il 1974. Questi ultimi, 7


in particolare, non furono solo geniali operazioni commerciali e artistiche, ma divennero presto un autentico fenomeno di costume, influenzando intere generazioni di futuri cinefili. Proprio costoro, in tempi più recenti, hanno avuto la fortuna di apprezzare, un’opera sicuramente affascinante e al tempo stesso rigorosa, come il Bram Stoker’s Dracula di Francis Ford Coppola. Un film che ha saputo unire una sontuosa scenografia a un cast di attori di rango, in un’intelligente operazione di recupero dell’originale letterario ottocentesco. Oltre a questo, il regista è riuscito soprattutto nell’intento di mostrare, probabilmente per la prima volta, un breve inserto della realtà storica posta all’origine del mito del vampiro. I primi minuti della pellicola di Coppola accennano infatti, sia pure brevemente, alla figura di un principe medievale, spietato e sanguinario ma, al tempo stesso, umano e vulnerabile. Perché se il vampiro cinematografico ha quasi fagocitato il prototipo letterario, quest’ultimo, a sua volta, aveva già provveduto a nascondere del tutto la traccia reale del personaggio storico che lo aveva ispirato. Una volta squarciato, il velo del mito ha così permesso di riscoprire l’uomo e non un uomo qualsiasi, ma un protagonista del suo tempo e della storia del suo popolo. Un uomo crudele e geniale, un grande soldato e un abile diplomatico, un principe spietato e un piccolo padre per la sua gente. Animato da un sogno di potere lucido e quasi folle, che gli attirò molti rancori e, quel che più conta, l’ostilità di larga parte dei suoi contemporanei, che si incaricarono così di tramandarne la nefasta leggenda, che, nelle capaci mani di Stoker, si mutò a sua volta nel racconto del vampiro. Nel momento in cui storia e leggenda si fossero mescolati, a costituire il protagonista dell’opera letteraria, il percorso si sarebbe completato, e la memoria stessa di questo spettro del passato sarebbe svanita, il suo ricordo cancellato per sempre. Qualcosa si è 8


però inceppato in questo processo di rimozione e ora l’ombra di un antico protagonista della storia europea va progressivamente emergendo dalle nebbie del tempo, riacquistando una sua dimensione reale. L’ambizione ultima di “Vlad l’Impalatore” è proprio questa. Fornire qualche ulteriore spunto di riflessione, che consenta di recuperare la memoria dell’uomo che donò il soffio vitale alla creatura del mito. Colui cioè che fu la prima autentica vittima del vampiro. Un oscuro sovrano balcanico, vissuto più di sei secoli fa, e conosciuto dalle cronache dell’epoca con il nome di Vlad Tepes, detto Vlad l’Impalatore, principe della stirpe dei Besarabi, signore di Valacchia e meglio conosciuto come Dracula.

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Capitolo I L’antica stirpe

“[...] Viveva nella terra muntena un voivoda1, cristiano di fede greca, il suo nome in lingua valacca era Drakula e nella nostra è Diavolo. Tanto crudele era di nome quanto lo era la sua vita.2” L’Ordine del Drago In un freddo sabato di dicembre dell’Anno del Signore 1418, le grandi navate del Salone Grande del Castello di Norimberga ospitarono un solenne consesso di nobiluomini. Alcuni dei più bei nomi dell’aristocrazia imperiale ed europea si erano riuniti in quell’occasione3. Tra essi spiccava un piccolo drappello di cavalieri rivestiti da una lunga tunica scarlatta ricoperta da un ampio mantello verde. Non portavano armi e avanzavano lentamente lungo il corridoio centrale dell’ampio salone, cui facevano ala i numerosi convenuti. Alla fine di questo li attendeva l’alta figura del Sacro Romano Imperatore, Sua Altezza Imperiale Sigismondo I di Lussemburgo, rivestito dei simboli del suo potere e della consacrazione ad esso conferita dalla Chiesa di Roma. Al suo fianco, appena discosta in posizione arretrata, una donna ancora bella e dal volto energico, Barbara di Cilli, sua moglie. Lentamente vennero scandite le parole della formula rituale, mentre Sigismondo si accostava ad ognuno dei cavalieri inginocchiati di fronte a lui, appoggiando sulla spalla di questo la spada che teneva in pugno. Ogni uomo dalla tunica rossa così rispose, quando venne il suo turno: “Per segno ossia effigie scegliamo e accettiamo quella del Drago ricurvo a modo di circolo, girante su se stesso, con la coda attorcigliata al collo, diviso nel dorso in due parti, dalla sommità del capo e dal naso fino all’estremità della coda da un flusso di sangue uscente dalla spaccatura profonda di una ferita, bianca e priva di sangue, e sul davanti porteremo pubblicamente una croce rossa, allo stesso modo di coloro che, militando sotto il vessillo del glorioso martire Giorgio, usano portare una croce rossa in campo bianco”. 11


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Nasceva così, quel 12 dicembre, la Societas Draconis, meglio conosciuta come Ordine del Drago, un Ordine cavalleresco voluto proprio dall’Imperatore e da sua moglie per sostenere la monarchia imperiale ed aiutarla soprattutto contro i due pericoli che la minacciavano in quel momento all’interno e all’esterno dei propri confini: l’eresia hussita e l’avanzata islamica4. In questo senso la scelta del rituale e dei simboli in esso contenuti non era certo casuale. Il drago rovesciato dell’emblema cavalleresco indicava infatti la sconfitta degli infedeli e degli eretici, spesso identificati da quella figura mostruosa, mentre il rosso della tunica e il verde del mantello erano i colori comunemente attribuiti all’animale mitologico. Analogamente, l’uso di vesti nere da parte dei convenuti, nella giornata del venerdì, alludeva alla passione, che in quella giornata veniva celebrata dai veri credenti. Sulla fibbia che assicurava il mantello stesso era poi iscritto un motto: “O quam miseriocors est deus, justus et paciens” (“Oh quanto è misericordioso Dio, giusto e pietoso”), che compariva anche sulla croce, posta all’interno del medaglione dorato, che veniva consegnato ad ogni nuovo cavaliere. Di fronte a questa doppia croce appariva prostrato il drago che dava il nome all’Ordine stesso, raffigurato con due ali spiegate e quattro artigli aperti, con le fauci mezze spalancate, la coda avvolta intorno alla testa e la schiena spaccata in due. Questo simbolo della vittoria di Cristo sulle forze del male non doveva mai essere tolto dal suo proprietario, se non dopo la morte di quest’ultimo, quando esso andava sistemato nel sepolcro assieme al cadavere del cavaliere. Il turista sufficientemente paziente può ancora oggi osservare le vestigia di quei rituali, poiché esemplari delle insegne dell’Ordine sono tuttora esposti all’Ehemals Staatliches Museum di Berlino e al Bayerisches National Museum di Monaco di Baviera, mentre la spada usata da Sigismondo per ordinare i nuovi cavalieri è visibile presso il municipio della città di York in Irlanda. Il suggestivo rituale e la solenne cerimonia non potevano comunque nascondere i motivi molto più prosaici che avevano portato alla nascita del nuovo Ordine cavalleresco. Il Sacro Romano Imperatore aveva infatti un disperato bisogno di puntellare la propria posizione politica, debole per tradizione, dovendo sempre egli dipendere dall’influenza dei suoi Grandi Elettori. Sigismondo in particolare doveva fare i conti con la popolazione boema, in piena rivolta a causa del martirio subito dal teologo Jan Huss, e con 12


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l’inarrestabile offensiva militare dell’Impero Ottomano, che aveva portato ormai la bandiera dell’Islam nel cuore stesso dei Balcani5. Nel primo caso, il rogo di Costanza del 1414, divampato durante il Concilio di Santa Romana Chiesa indetto nella città tedesca, era certo derivato dalla chiusura opposta alle tesi di Huss da parte della Curia romana, ma l’Imperatore stesso non aveva fatto una gran figura nella circostanza. Il suo altisonante titolo onorifico aveva del resto dimostrato tutta la propria debolezza, nel momento in cui non aveva potuto neppure garantire con un proprio salvacondotto l’incolumità di un mite teologo nel cuore stesso dei possedimenti imperiali. Il problema ottomano era invece più complesso e riguardava in realtà uno scontro epocale tra due mondi, due civiltà e due religioni in qualche modo tra loro antitetiche. L’unico elemento che accomunava le due questioni politiche era la necessità, da parte dell’Impero, di estendere il proprio sistema di alleanze, per affrontare il nemico interno e quello esterno. La Societas Draconis era infatti fortemente connessa a queste diverse esigenze e non a caso si sviluppò soprattutto all’interno dei territori imperiali e non ebbe vita troppo lunga, soprattutto una volta che, qualche decennio più tardi, il problema hussita parve avviarsi ad una soluzione di compromesso. I nobili, gli ecclesiastici e gli uomini d’arme che aderirono ai dettami dell’Ordine, impegnandosi formalmente a proteggere il monarca e la sua famiglia, difendendo l’Impero e la religione cristiana, dovevano anche giurare di proteggere i bambini e le vedove e di combattere l’invasore turco. Il tutto secondo i più puri e collaudati dettami dello spirito cavalleresco medievale. In realtà le prime bande armate guidate da Cavalieri del Drago, che colpirono le comunità boeme in cui la presenza hussita risultava più radicata, si comportarono come e peggio di quegli stessi infedeli che avrebbero dovuto affrontare. Nelle marche cristiane meridionali di confine invece, come Moldavia, Serbia, Valacchia, Transilvania e la stessa Ungheria, la popolarità dell’istituzione fu maggiore, anche perché garantiva una sorta di protettorato imperiale ai vassalli locali, che vedevano quotidianamente minacciata l’esistenza stessa dei propri feudi a causa della pressione musulmana e che tentavano di combattere questa con ogni mezzo. Il vantaggio era insomma reciproco e l’Imperatore e i suoi nuovi “Cavalieri” ne traevano forza e autorità reciproche. 13


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La dinastia Le radici dell’attuale Romania affondano nella storia della Dacia preromana, ma la colonizzazione dell’Impero dei Cesari lasciò profonde tracce in quelle popolazioni, così come ancora oggi è evidente nella stessa lingua locale. Nei secoli successivi Alani, Gepidi, Avari, Serbi, Croati, Bulgari, Magiari, Peceneghi e altre popolazioni barbare contribuirono alla formazione del DNA della nazione rumena. Storicamente tre grandi regioni hanno contribuito a creare l’attuale stato rumeno: Transilvania, Valacchia e Moldavia. Della Transilvania (“trans silvas”=”oltre la foresta”) sappiamo che, intorno all’anno Mille, la regione venne progressivamente cristianizzata, mentre i re di Ungheria ampliavano il loro controllo sul territorio6. La Valacchia (dallo slavo “Vlach” e dal germanico “Walh”, che indicavano i colonizzatori Romani), posta più a sud, grosso modo tra Carpazi e Danubio, pare invece che venisse interessata da una progressiva migrazione di elementi transilvani, sino a costituire, verso il XII secolo, la cosiddetta “Tara Romàneasca” (“Terra Romena”)7. La Moldavia infine (dal dacico “molta” [molte] e “dava” [città]) era la più orientale delle tre regioni, protesa com’era verso le grandi pianure ucraine. Il nome coincideva con quello del suo fiume principale, la Moldova, che scorre a Nord del paese e la sua storia risultò inizialmente tributaria di quella delle due regioni contigue, in particolare della Valacchia8. Dopo la parentesi dell’occupazione tartara, il Duecento fu il secolo decisivo per la maturazione della storia romena. In particolare si trasferirono in Transilvania e in parte della Valacchia numerosi coloni tedeschi, soprattutto Sassoni, dai quali derivò il nome tedesco attribuito a quel territorio, “Siebenburgen” (“le Sette Città”). La Transilvania del resto appariva come l’area più dinamica della regione e all’epoca risultava popolata da tre etnie principali e cioè Ungheresi, Sassoni e Szekely, mentre la componente valacca veniva progressivamente emarginata. Analogo fenomeno si verificò in Moldavia, dove la progressiva migrazione di coloni dalle due regioni contigue contribuì alla costituzione di un vero e proprio principato autonomo, sia pure con qualche decennio di ritardo9. L’elemento di divisione nel paese era costituito tuttavia dalla fede religiosa, prevalentemente ortodossa in Valacchia e Moldavia, per la forte influenza di Bisanzio e del suo patriarcato sul territorio, e a 14


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maggioranza cattolica invece in Transilvania, per la pressione della contigua Ungheria, che non rinunciava comunque a considerare le altre due regioni, e in particolare la Valacchia, una sorta di feudo della corona di Santo Stefano10. L’avvento al trono valacco di un principe risoluto e ambizioso modificò però questo stato di cose. Basarab I era signore della Muntenia, regione che, con l’Oltenia, costituiva il territorio della Valacchia storica11. Nel 1320 l’assemblea dei boiari, i nobili locali, e dei rappresentanti dell’alto clero lo elevò al titolo di Voivoda della Tara Romàneasca, la regione valacca appunto, con poteri all’apparenza illimitati. Nell’antica Russia e in alcuni stati slavo-balcanici, il Voivoda o Voevoda era il capo militare o anche il signore di una regione o di un distretto. Per il territorio romeno la differenza principale era data dal fatto che, mentre il Voivoda di Valacchia e quello di Moldavia erano di fatto i signori assoluti di quei principati, il Voivoda di Transilvania era poco più che un governatore locale, nominato dal re d’Ungheria. In realtà i “boiari” o “boiardi”, dall’antico slavo “boljarin” o “boljan” ( “nobile signore”), a sua volta derivante da “bolii” (”grande, elevato”), condizionavano in modo determinante il potere reale di qualsiasi governante. In questo aiutati anche dalla mancanza di precise leggi sulla successione al trono12. La forza di questi aristocratici derivava loro soprattutto dalla potenza economica e militare dei clan che rappresentavano, che spesso contavano su enormi possedimenti fondiari, accumulati di solito a scapito dei “mosneni”, cioé i piccoli proprietari liberi di allodi13. In tale stato di cose era ovvio che si moltiplicassero intrighi e congiure. Tuttavia Basarab era un uomo abile e determinato e riuscì a condurre lentamente il suo principato fuori dall’arretratezza economica e culturale che lo aveva caratterizzato sino a quel momento. Si aprirono rotte commerciali attraverso il Mediterraneo e il Mar Nero, furono aperte le porte ai mercanti genovesi e veneziani e si fondarono empori sulla costa, che contribuirono ad aprire nuovi orizzonti alle popolazioni locali. Basarab seppe poi ribadire l’indipendenza, anche formale, del proprio regno, che riuscì ad allargare sino al Danubio e anche verso Occidente, inglobando di fatto l’intera l’Oltenia e acquisendo così una posizione strategica invidiabile. L’invadenza del re magiaro Carlo d’Angiò, di cui il valacco era formalmente vassallo, si fece 15


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però intollerabile, ma il Voivoda riuscì a respingerlo anche grazie ad alcune decisive vittorie militari. Non è quindi un caso che spesso le fonti rumene definiscano questo sovrano come il Fondatore, considerando tra l’altro che proprio a lui si attribuisce l’inizio della dinastia regnante dei Basarabi14. Alla sua morte, nel 1352, salì al trono il figlio Nicola Alessandro, che seguì le orme paterne, rintuzzando le ingerenze ungheresi e appoggiandosi al patriarcato di Costantinopoli, che conferì alla chiesa valacca lo status di Metropoli, rafforzando così l’importanza e l’autonomia dell’intero principato. Nel 1364 però, scomparso Nicola, si succedettero al potere figure di secondo piano, che indebolirono il paese e ciò almeno sino al 1386, quando assunse la carica di Voivoda colui che fu probabilmente il più grande sovrano della storia valacca, Mircea cel Batran, Mircea il Grande15. Il nuovo principe, pur nella sua posizione di vassallo nominale del Sacro Romano Impero, dovette presto fare i conti con una nuova pericolosa realtà politica: l’Impero Ottomano, che in quei decenni piantava le bandiere dell’Islam nel cuore stesso dei Balcani. Un piccolo principato, posto in mezzo a simili colossi, divisi tra loro da fattori politici e soprattutto religiosi, aveva bisogno di un timoniere sicuro, per evitare di essere stritolato. Erano necessarie spiccate doti diplomatiche e militari, una notevole dose di cinismo e spregiudicata ambiguità e Mircea mostrò di essere abbondantemente fornito di tutte queste qualità o difetti, se preferiamo. La sua stessa nomina ad opera del consiglio dei boiari era stata frutto di abili e spericolate manovre politiche, eppure Mircea fu presto in grado di affrancarsi dai pesanti condizionamenti dello stesso consesso, stringendo in politica estera forti legami con la vicina Moldavia di Alessandro il Buono. Nel momento in cui il nuovo principe seppe sfruttare il proprio ruolo feudale nei confronti della stessa Transilvania, ampliando il suo potere personale all’interno di quella regione, si può affermare che avesse condotto la Valacchia storica all’apice della propria potenza e dell’espansione territoriale. Ruolo confermato dal successo militare di Karinovasi (inverno 1393-94) e dalla vittoria di Rovine del 1395, presso il fiume Arges, ottenuti contro forti contingenti ottomani. Presto però gli equilibri politici internazionali subirono uno scossone e l’esercito della lega crociata, fortemente voluta dall’imperatore Sigismondo, venne travolto a Nicopoli dalle armate ottomane nel 1396. Anche un contingente valacco, di circa 1000-1500 16


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uomini, aveva partecipato alla sfortunata impresa e quindi Mircea dovette ammorbidire la sua posizione nei confronti del Sultano ottomano, di cui divenne tributario, pur mantenendo il suo status di principe cristiano indipendente16. Del resto, proprio a cavallo tra il settembre-ottobre del 1395 e i primi mesi del 1397, il Voivoda aveva dovuto anche affrontare un tentativo di usurpazione da parte di Vlad I, un principe appoggiato dai Turchi e dal partito valacco anti ungherese. La momentanea dissoluzione della potenza turca, seguita alla sconfitta di Ankara del 1402 ad opera delle orde di Tamerlano, consentì fortunatamente una pausa di respiro a Mircea, che poté rinsaldare i vincoli feudali con la corona imperiale e con il suo titolare, Sigismondo del Lussemburgo17. È probabile che si collochi proprio negli anni compresi tra il 1396 e il 1407 la decisione, dolorosa ma inevitabile, con cui il Voivoda inviò il prediletto figlio secondogenito Vlad presso la corte imperiale, in qualità di ostaggio, sia pure di lusso. Una sorta di pegno per la riconfermata fedeltà valacca alla causa cristiana18. Il giovane era figlio della principessa ungherese Mara, della potente famiglia dei Tomai, ma non è certo che questa fosse legata a Mircea da un regolare vincolo matrimoniale. La cosa del resto non faceva troppa differenza nella tradizione dinastica valacca. Il ragazzo doveva comunque essere nato poco prima del 1385, come si può dedurre dalle scarne fonti del periodo. Quella degli ostaggi di rango era del resto prassi consueta all’epoca e in tal modo il vecchio Mircea poteva comunque sperare di avere garantito continuità alla sua dinastia, poichè al suo fianco restava il primogenito Mihail I, destinato a succedergli. Negli anni successivi intanto Mehmet I riportò la dinastia islamica degli Osmanidi (Ottomani) agli antichi fasti, tanto che il Voivoda valacco dovette accettare, nel 1417, il ripristino di un tributo di 3000 ducati d’oro ad essa dovuto per sottolineare il suo ruolo di debitore formale della Sublime Porta. Adrianopoli era del resto più vicina e minacciosa delle remote Budapest e Norimberga19. Tuttavia con queste ultime rimaneva valido il vincolo di vassallaggio feudale, secondo un principio di coesistenza solo all’apparenza contraddittorio. Quello tra la Valacchia e la Sublime Porta era infatti solo un rapporto di tipo amministrativo-economico, mentre il legame con l’Impero era anche un vincolo politico-militare. La formula “Dosta dost ve dus_mana dus_man olub” (“Sono amico dell’amico e nemico del nemico”), riportata frequentemente sui pat17


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ti bilaterali tra Moldavi, Valacchi ed Impero ottomano, sta proprio ad indicare un principio di questo genere. Un pragmatismo diplomatico, quello valacco, che veniva messo in crisi solo nel momento in cui le due potenze di riferimento, Ungheria (o Sacro Romano Impero) e Sublime Porta, entravano in conflitto tra loro20. Sigismondo tuttavia non prese bene questa scelta, pur dettata dalla Real Politik, e pesantissime sanzioni colpirono la Valacchia e il suo principe, che di lì a poco comunque morì. Nonostante le precauzioni assunte dal vecchio Voivoda, il destino aveva però deciso altrimenti per la sua discendenza e, appena due anni dopo la sua morte, nel 1420, il legittimo erede lo seguì a sua volta nella tomba.21 La morte di Mihail e il forzato esilio di Vlad restituirono così potere al Consiglio dei boiari, che scelsero come nuovo sovrano Dan II, cugino dei primi, ma in realtà separato da questi da antiche rivalità familiari. Si andavano così delineando due veri e propri rami dinastici della stirpe dei Bessarabi (o Basarabi) e cioè quello dei Danesti e l’altro, poi conosciuto col nome di Draculesti, che faceva capo proprio a Mircea22. Dalla lontana corte imperiale, Vlad assistette impotente all’esautorazione della sua famiglia e tentò anche un’avventurosa fuga per cercare di rientrare in patria, ma il tentativo fallì, forse anche per colpa della nobile dama che lo accompagnava in quella pericolosa avventura e che pare lo abbia tradito23. A quel punto Sigismondo, sovrano spregiudicato e astuto, ma anche acuto conoscitore di uomini, decise di restituire la piena libertà al giovane principe, affidandogli anzi il comando della propria guardia di frontiera24. In realtà l’Imperatore aveva in un primo momento concesso la propria fiducia a Dan, il nuovo Voivoda valacco, che si era guadagnato sul campo la sua stima combattendo strenuamente i Turchi, ma Vlad poteva comunque divenire una pedina politica utile in un futuro non troppo lontano. Il figlio di Mircea profittò allora della nuova favorevole situazione e si stabilì nella città transilvana di Sighisoara, al confine con la Valacchia. Da questo osservatorio privilegiato assistette così al rovesciamento di alleanze che portò un suo fratellastro, Alexandru Aldea, a rimpiazzare nel 1431 lo stesso Dan II, che aveva dovuto affrontare, oltre a quella turca, anche l’ostilità della Moldavia e di una parte della nobiltà valacca, pagando con la vita il suo ultimo tentativo di opporsi all’avanzata ottomana. Nel frattempo Sigismondo, l’8 febbraio di quello stesso anno, aveva conferito al gio18


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vane figlio di Mircea proprio l’Ordo Draconis, durante una solenne cerimonia tenutasi nel castello di Norimberga. Un’ulteriore testimonianza del suo personale interesse nei confronti di Vlad, per il quale pareva giunto il sospirato momento del ritorno in patria, anche se poi egli preferì attendere un momento più favorevole25. Il futuro Voivoda e nuovo Cavaliere dell’Ordine del Drago (in latino “Draco”), assunse per sé l’attributo di “Dracul”. In romeno infatti “Drago” si traduceva “Drac” mentre il suffisso “ul” indicava l’articolo determinativo “il”. Nella lingua romena però il termine “drac”, o “dracu”, stava ad indicare anche il Diavolo, figura del resto spesso affiancata al concetto del Drago nell’iconografia medievale. Da questa similitudine, come si può immaginare, derivarono spesso ambigue interpretazioni dell’originale titolo onorifico, che di volta in volta poteva suonare come il Cavaliere del Drago o il Cavaliere del Diavolo26. L’uomo che in quell’inverno del 1431 faceva ritorno a Sighisoara, dove lo attendeva la sua piccola corte e soprattutto la moglie Cneajna, della nobile famiglia Musatin di Moldavia, era comunque carico di aspettative e di legittimo orgoglio. I festeggiamenti, pubblici e privati, dovettero essere adeguati alla circostanza, se il 2 novembre di quello stesso anno, appena nove mesi dopo il suo trionfante ritorno, il principe valacco ricevette la notizia che Cneajna aveva dato alla luce un maschietto, il secondogenito della famiglia, cui venne imposto lo stesso nome del padre: Vlad27. Dovettero però trascorrere ben cinque anni da quegli avvenimenti perché i tempi fossero considerati maturi e il nuovo Cavaliere del Drago potesse varcare il confine alla testa dei suoi fedeli, per riprendersi il trono di Valacchia28. Questo quinquennio non fu comunque un periodo di inattività, perchè le continue incursioni ottomane rendevano il presidio della frontiera ungherese un compito tutt’altro che facile, per il quale erano richieste in egual misura abilità diplomatica e capacità militari. Durante questa forzata pausa é probabile poi che Vlad maturasse anche una conversione al cattolicesimo, quanto mai opportuna in funzione del determinante appoggio che in quel momento gli veniva offerto dall’Ungheria e dallo stesso Sigismondo, ma alquanto pericolosa in vista del suo ritorno nella patria d’origine, ufficialmente ortodossa da più di un secolo. Nel frattempo Alexandru Aldea, nonostante l’appoggio di Ungheria e Moldavia, aveva dovuto inchinarsi al diktat di Murad, impe19


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gnandosi a pagargli un tributo e aprendo la strada alle colonne turche che periodicamente colpivano la Transilvania. Questa inevitabile scelta gli aveva alienato molte simpatie in campo cristiano, ma Sigismondo era troppo impegnato all’epoca contro Polacchi e Hussiti di Boemia per abbozzare una reazione concreta. Nel 1432 ebbe così luogo una disastrosa incursione ottomana diretta in Transilvania e Moldavia, che però costò ingenti perdite agli stessi soldati di Murad, anche per l’ambiguo ruolo tenuto dall’esercito di Aldea nell’occasione. Subito dopo Sigismondo parve finalmente abbozzare una reazione contro la Sublime Porta, ma per il Voivoda valacco era troppo tardi, infatti di lì a qualche mese lo stesso Aldea morì, forse di malattia. Era giunto il momento di Dracul, che traversò i Carpazi già a settembre 1436, e in poche settimane conquistò il sospirato trono, tanto che, in un documento del 20 gennaio 1437, egli già si definiva “... gran voivoda e signore, governante e regnante su tutto il paese di Ungherovalacchia [Valacchia prossima all’Ungheria] e duca dei territori oltramontani, il Fagaras e l’Amlas.29” Al momento della sua investitura ufficiale Vlad aveva dunque quasi quarant’anni e quella corona l’aveva attesa a lungo, tuttavia nelle sue vene scorreva il sangue del saggio Mircea e i suoi primi atti di governo furono improntati ad equilibrio e prudenza. Il panorama internazionale era peggiorato negli ultimi decenni: Serbia e Bulgaria erano di fatto controllate dagli Ottomani e il nuovo sultano Murad II si mostrava molto più aggressivo del suo predecessore Mehmet, facilitato in questa strategia anche dalla discordia che regnava nel campo cristiano e che un contemporaneo colse con poche efficaci parole: “Considerate perciò che quando i Cristiani fanno la guerra tra di loro tutto ciò è detestabile dinanzi al Signore Iddio e a tutti i santi e agli uomini. E sappiate che i pagani non sono coraggiosi e forti per se stessi, ma per la nostra discordia, e con la nostra invidia siamo noi a procurare loro la vittoria.30” Questo stato di cose costrinse così il nuovo principe valacco a riprendere il pericoloso gioco di equilibrismo tra i suoi potenti vicini, che era già stato determinante per i suoi predecessori. Era però una caratteristica costante di quasi tutti i despoti balcanici quella di mettere al primo posto, nell’azione politica, la sopravvivenza del proprio potere personale e, subito dopo, di garantire una qualche forma di vantaggio al proprio paese o alla propria fazione e Vlad non sfuggiva a questa regola. La stessa minaccia ottomana, oppor20


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tunamente sfruttata, poteva divenire del resto un utile strumento politico. Neppure Sigismondo avrebbe potuto rimproverare al suo lontano vassallo di essersi piegato alla ragion di stato, accettando magari qualche compromesso col pericoloso Murad, pur di garantire la sopravvivenza della cristiana Valacchia. Tanto più che il vecchio imperatore (sarebbe morto in quello stesso anno) faticava sempre più a occuparsi in prima persona della difesa del confine meridionale dei Balcani. Accettato questo principio, chi avrebbe potuto condannare il Voivoda se qualche reparto valacco, costretto dalle pressioni musulmane, si fosse unito all’esercito turco, durante le scorrerie che questo lanciava verso le marche cristiane di confine, saccheggiando e razziando?31. Un modo “scorretto” per rimpinguare le casse del principato e per lanciare allo stesso tempo un obliquo messaggio a Ungheria e Impero, che troppo spesso trattavano gli ortodossi romeni come degli “scismatici”, applicando loro limitazioni amministrative, fiscali e religiose32. Tutto questo mentre la Sublime Porta si mostrava invece disposta a tollerare e addirittura a garantire la libertà di culto dei sudditi di Vlad33. Alla luce di quanto detto dunque non ci stupisce troppo il passo dello storico bizantino Ducas, che così narrava gli avvenimenti del 1437: “Dragulios, voivoda di Valacchia, [...] è arrivato passando gli stretti e ha incontrato il sultano Murad a Brasov. E, prosternandosi, ha fatto atto di sottomissione e gli ha promesso che, quando Murad sarebbe passato in Ungheria, gli avrebbe concesso il passaggio [attraverso il suo paese] e avrebbe marciato davanti a lui fino alle frontiere della Germania e della Russia. Murad si è rallegrato molto di queste promesse, l’ha invitato al suo tavolo e gli ha servito da bere, l’ha accolto con tutti gli onori e gli ha offerto molti regali, per lui e per il suo seguito, che superava le 300 persone. Dopo, abbracciandolo, gli ha permesso di accomiatarsi.34” Subito dopo Vlad, affiancato dal primogenito Mircea, unì infatti i suoi contingenti all’armata ottomana, che si apprestava ad invadere la Transilvania e i soldati valacchi combatterono al fianco di quelli turchi contro i fratelli cristiani, partecipando al comune bottino, sia pure con la morte nell’anima (timore mortis), come confessò, con una certa ipocrisia, il loro Voivoda35. Unica apparente concessione all’antico vincolo di fedeltà al campo imperiale, o più semplicemente astuto calcolo politico, fu il costante prodigarsi del 21


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principe valacco per salvare la vita al maggior numero possibile di prigionieri cristiani catturati durante l’incursione. In alcuni casi intere comunità giunsero ad arrendersi in massa al rinnegato cristiano, pur pagando un caro prezzo per questo, ma conservando almeno la certezza di ottenere l’incolumità personale e collettiva, che invece sarebbe stata certamente sacrificata consegnandosi alle forze musulmane. Si trattò della peggiore incursione turca mai verificatasi nella regione sino a quel momento e solo le città fortificate di Sibiu e Brasov ne uscirono indenni. I bey ottomani “si lavavano le mani nel sangue dei cristiani”, come ricordò un contemporaneo36. Paradossalmente il principe valacco andava così acquisendo benemerenze presso le popolazioni che depredava, ma si trattava di un gioco pericoloso e lo stesso Murad invitò l’alleato a non calcare troppo la mano. Il Sultano poteva anche accettare critiche alla propria condotta politica, ma non certo attentati all’integrità del bottino di guerra. A quel punto Vlad probabilmente intuì di essersi spinto troppo oltre, anche a seguito delle voci pervenutegli di un accordo che si andava delineando tra il nuovo re di Ungheria, Ladislao III Jagellone, reggente per conto del piccolo Ladislao il Postumo, ed il Voivoda di Transilvania, Janos Hunyadi, una delle maggiori vittime delle scorrerie valacco-ottomane, appena nominato dallo Jagellone comandante in capo, assieme al conte di Temes, delle difese ungheresi del confine meridionale37. Questo vero e proprio complotto avrebbe mirato a rimpiazzare il Draculesti con il più fidato Besarab II, dell’odiato partito dei Danesti. Il rischio era grosso e quindi, quando Murad, dopo qualche tempo, sferrò un nuovo attacco alla Transilvania e alla Serbia, la Valacchia rimase dapprima neutrale, per poi schierarsi al fianco delle truppe dello stesso Hunyadi38. Mossa che si dimostrò quanto mai opportuna, soprattutto quando le armate ottomane si ritirarono, battute dagli eserciti cristiani coalizzati. A quel punto però la posizione politica del valacco si era fatta quanto mai critica, ma un’insperata boccata d’ossigeno gli pervenne proprio dall’ex-alleato ottomano, sotto forma di un invito personale di Murad, perché lo raggiungesse presso la corte di Adrianopoli. Un ulteriore riaccostamento alla Sublime Porta poteva infatti essere utile in quel momento, ma l’astuto Vlad fu colpito dall’insolita cortesia dimostrata dall’ambasciatore turco, nel momento in cui costui aveva riferito il messaggio del suo signore. Tanto più che 22


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la reazione del Sultano, alla notizia delle sconfitte inflittegli pochi mesi prima, era stata invece rabbiosa, come ebbe a testimoniare un frate francescano, Bartolomeo de Yano: “E quando lo seppe per poco non uscì di senno e, dal gran dolore, non rese l’anima; però si vestì di nero e, per ben tre giorni, non bevve e non mangiò, non parlò, forse disse soltanto queste parole, spesso ripetute: “È venuto il tempo in cui Dio ci ha tolto la spada”, poi gettò con un gran gesto il copricapo per terra.” 39. Con questi presupposti dunque, l’apparente bonomia del “subachi” (funzionario ottomano) di Giurgiu, latore dell’ambasceria, risultava di cattivo auspicio. L’Hunyadi era certo un nemico pericoloso, ma l’abbraccio di Murad poteva rivelarsi mortale. Il Voivoda doveva però scegliere in fretta e soprattutto senza sbagliare. Note 1 Cfr. Matei Cazacu, L’histoire du prince Dracula en Europe centrale et orientale (XV siècle), Librairie Droz, Genève 1988, p.1. 2 Brano tratto da Skazanie o Drakule voevode (“Detto sul voivoda Dracula”) scritto da Teodoro (Feodor) Kuricyn nel 1486. 3 Secondo Matei Cazacu, Dracula: la vera storia di Vlad III l’Impalatore, Mondadori, Milano 2006 p. 17, l’anno sarebbe stato il 1408. Sulla corretta data di fondazione dell’Ordine esistono discordanti opinioni. Il 1418 appare la data più accettabile, anche per il dilagare dell’eresia hussita in Europa, a partire soprattutto dal rogo di Huss nel 1414. Cfr in tal senso Licurgo Cappelletti, Storia degli Ordini Cavallereschi, Livorno 1904 e Franco Cuomo, Gli Ordini Cavallereschi nel mito e nella storia, Roma 2004, pp. 145-146. Altri studiosi ritengono invece possibile la data del 1387, anno in cui Sigismondo divenne re d’Ungheria. Per quest’ultima ipotesi cfr. Luigi Cibrario, Descrizione storica degli Ordini Cavallereschi, Torino 1846 e Raffaele Cuomo, Ordini Cavallereschi antichi e moderni”, Napoli 1894. 4 Cfr. Matei Cazacu, Dracula: la vera storia … op. cit. p. 17 menziona il nome corretto che sarebbe stato Societas draconistarum. A tale proposito non si discosta di molto da tale interpretazione, se non per la data, che colloca al 1408, la Lorinczi in Nel dedalo del Drago. Introduzione a Dracula, Bulzoni editore, Roma 1992, pp. 40-43. 5 Lo stesso nome deriva dal turco “balkan”=montagna e tale è rimasto a indicare l’intera penisola europea. 6 Cfr. Marinella Lorinczi in Nel dedalo del Drago. … op. cit. p. 131. 7 Alexandru Marcu, Riflessi di storia romena in opere italiane dei secoli XIV e XV, in Ephemeris Dacoromana, I, 1923, p. 369, ricorda la ciclica attribuzione, più o meno fantasiosa, del nome Valacco a pseudo derivazioni romane, come quella da una Flaccus romano, riportato anche dal Piccolomini nella sua Cosmographia. Ioan Pop così sintetizza il problema del nome “Ad esempio, i Romeni si sono sempre chiamati, in conformità alle più antiche testimonianze, Rumâni (a cominciare dal XVI secolo anche Români) dal termine latino “Romanus”, ma gli stranieri li hanno chiamati “Vlahi” o con un termine molto vicino (“Vlachi”, “Valachi”, “Blaci” o “Blachi” nelle fonti latine, “Blacoi” in quelle greche, “Volohi” nelle cronache est slave, “Blazi” nelle fonti francesi, “wolosyi” in quelle polacche, “Olah-Olahok” in quelle

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ungheresi, “Ulah, “Illac” nelle fonti orientali ecc.). Persino i Paesi abitati dai Valacchi sono stati chiamati dagli stranieri Vlahii fino al XIX secolo. I due nomi – Român e Vlah – hanno lo stesso significato e tutti e due dimostrano l’origine romana dei Romeni. La parola “Român”[8] porta in sé il ricordo di Roma in senso lato e denomina una parte dell’eredità romana, in senso stretto. Anche il termine di “Valahus” contiene due significati imparentati: uno generico, che designa popoli di origine romanica e uno speciale, che si riferisce esclusivamente al popolo romeno (mentre altri popoli romanici hanno ricevuto nomi diversi)[9]. Di conseguenza, anche il nome che si sono dato i Romeni stessi, quanto anche la denominazione data a loro da altri popoli portano in sé l’idea dell’origine romana di questo popolo, circondato esclusivamente da popoli di altre origini. In queste condizioni era normale che tanto i Romeni quanto gli stranieri, tramite alcuni loro rappresentanti, fossero coscienti nel Medioevo di questa origine.” La regione era detta anche Valacchia Transalpina, cfr. Marinella Lorinczi in Nel dedalo del Drago…. op. cit. p. 131. 8 Nel XIII e nel XIV secolo infatti, durante le migrazioni dei Romeni transilvani verso est, passarono in Moldavia anche gruppi di Ungheresi e di Tedeschi, che svolsero un ruolo importante nel ripopolamento, soprattutto urbano, della regione. In seguito si stabilirono nei centri urbani anche Armeni, Ruteni ed Ebrei. Regione definita anche Mesia Inferiore o Superiore o ancora Rossovalacchia, cioé Valacchia che confina con la terra dei Rozani i Ryussi o Ruteni, cfr. Marinella Lorinczi in Nel dedalo del Drago…. op. cit. p. 131. 9 Nel 1583 un gesuita, padre Antonio Possevino, scriveva “… tre sorti di nationi habitano la Transilvania. Gli Ungheri, i quali propriamente sono fuori di Transilvania; [...] i Valacchi, che non hanno certa sede. I Sassoni, i quali hanno sette città; onde chiamano in loro lingua la Transilvania Siebenburger”. Cfr. a tale proposito Antonio Possevino, Transilvania, II, 1, in Le relazioni tra l’Italia e la Transilvania nel secolo XVI, Roma 1931, p. 80. Analogamente il Piccolomini, nella sua Cosmographia, menzionava la Transilvania come abitata da tre stirpi: i Teuthones (venuti dalla Sassonia e buoni guerrieri), i Siculi (“Hungarorum vetustissimi”, agricoltori e pastori e non più di 60.000) ed infine i Valachi, che egli considera “Valachi genus italicum sunt...”. Cfr. a tale proposito Alexandru Marcu, Riflessi di storia romena in opere italiane … op. cit. p. 369. A tale proposito Matei Cazacu, Dracula: la vera storia … op. cit. p. 40, ricorda come gli Szekelj, tribù ugro-finniche affini agli Ungari, venissero stanziati nella regione tra XI e XIII secolo, mentre per quanto riguarda i Sassoni così annota: “[...] i re ungheresi ricorsero ai coloni delle regioni del Reno, della Mosella e del Lussemburgo, che si insediarono con i loro locatores e fondarono le prime città del paese. Poichè essi beneficiavano del diritto sassone di Magdeburgo, preso a modello per tutto l’insieme della colonizzazione tedesca dell’Europa orientale, questi “ospiti fiamminghi” (hospites flandrenses) presero il nome di Sassoni, Sachsen nella loro lingua, Sasi per i Romeni e gli Slavi.” Notizie utili sull’argomento anche in Thomas Nagler, Die ansiedlung der siebenburger sachsen, Kriterion, Bucarest 1979, e in Ioan Aurel Pop e Thomas Nagler (a cura di), The history of Transylvania (fino al 1541), Roman Cultural Institute, Cluj-Napoca 2005. Riassumendo le origini della Moldavia, lo stesso autore così scrive, Ibidem p. 85: “A differenza della Valacchia, formata da tre regioni, la Moldavia ne comprendeva solo due: il paese alto (Tara de sus), a nord, e il paese basso (Tara de jos), a sud. In origine questi due principati erano anche chiamati Valacchia, il paese dei Romeni. Ma poi, per differenziarli dall’altro stato romeno, si utilizzarono le forme Rossovalacchia (Valacchia vicina alla Russia) e Maurovalacchia (Valacchia nera, settentrionale), diventata Piccola-Valacchia. Il nome Moldavia, che a metà del XIV secolo designava il piccolo principato del nord, finì per imporsi, alla fine dello stesso secolo, quando avvenne l’unione del paese alto con quello basso.” Per Claudio Mutti, Miti e leggende di Dracula e della Transilvania, Newton & Compton, Roma 2004, p. 7, i Valacchi (o Blacchi, Vlacchi etc.) erano discendenti dell’elemento romano importato nella regione con la colonizzazione, mentre gli Szekely (definiti come Siculi o Ciculi dalle fonti latine e italiane) erano una popolazione linguisticamente assimilabile ai Magiari, ma etnicamente da questi diversa. Ancora G.C. Dragan, in “Storia dei Romeni, edizioni Nagard, Milano 1996, p. 107 ricorda

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che “Con l’aiuto delle forze transilvane, il principe romeno Dragos attraversò le montagne nel 1359 e creò lo stato feudale romeno di Moldavia.”. In seguito la regione venne definita Russovalacchia per distinguerla dalla Valacchia vera e propria, mentre per i Turchi fu sempre Kara-Bogdan. 10 Cazacu, riprendendo nuovi approfondimenti di G.I. Bratianu e S. Papacostea, così afferma: “Sappiamo molto poco sugli inizi della dinastia valacca. La più antica cronaca del paese racconta che nel 1290-1291 il fondatore dello stato, chiamato Principe Nero (Negru Voda), si rifugiò nel sud dei Carpazi. Fuggiva dal suo ducato di Fagaras, noto anche col nome di Paese dell’Olt (Tara Oltului), in Transilvania meridionale. [...] Oggi sappiamo che nel 1291 il ducato, probabilmente confiscato al suo possessore, era stato concesso dal re Andrea III d’Ungheria a un nobile ungherese, Ugrinus. Il ducato aveva sempre avuto una popolazione per la maggior parte romena e il duca [...], romeno anch’esso, si era dovuto rifugiare al di là dei Carpazi, nell’attuale Valacchia. La decisione del re d’Ungheria metteva fine all’ultima formazione politica romena della Transilvania, provincia destinata a essere governata dai rappresentanti di tre “nazioni” (nel senso medievale di natio: nobiltà di un gruppo etnico), gli Ungheresi, i Sassoni e gli Szekely.” In Matei Cazacu, Dracula: la vera storia … op. cit. p. 27. 11 Basarab o Besarab è un nome di origine turca che significa “il padre conquistatore, regnante”. A fine XIII secolo popolazioni turche come i Cumani occupavano vaste zone della Romania attuale e lo stesso padre di Basarab, Thocomerius (o Toktamir=”ferro duro”) denotava nel nome origini turche. Da L. Rasonyi, Contributions à l’histoire des premiéres cristallisations de l’Etat des Roumains. L’origine des Basaraba, in Archivium Europae CentroOrientalis, I, 1935, pp. 221-253. 12 Sempre Matei Cazacu, Dracula: la vera storia … op. cit. p. 37, che riprende A. Verancsics, Sui preparativi del re Giovanni contro il sultano Solimano che attaccava la la Transilvania (1538-1540), in Monumenta Ungariae Historica, II serie, Scriptores, II, Budapest, 1857, p. 85. Il Verancsics (1504-1573), che fu anche segretario regio e vescovo della Transilvania, ricordava che: “Presso i romeni i figli naturali e quelli legittimi accedono al trono in maniera eguale. Infatti è generalmente permesso a tutti avere due o tre mogli. ai boiardi e ai grandi signori anche molte di più, e i voivoda sono liberi di averne quante ne vogliono. Dunque, anche quando ne hanno una che chiamano moglie inseparabile e la onorano del titolo di principessa, concedendole un’autorità, un rango e una considerazione superiore a tutte le altre, e anche mantenendo il rapporto nel tempo, essi amano tuttavia i figli delle concubine quanto quelli della moglie [...] e tutti sono considerati legittimi e aventi diritto all’eredità. E tutta la genia di questi voivoda, in special modo in Valacchia, è sempre occupata a versare sangue e a commettere altre crudeltà. Infatti, quando uno di essi sale al potere, chiunque abbia un legame con lui, sia fraterno sia di altro grado di parentela, fugge fino all’ultimo all’estero per evitare di essere condannato a morte. Poichè solo i genitori risparmiano i loro figli e i figli i loro genitori. Tutti quelli che vengono catturati vengono uccisi, oppure, se un po’ d’umanità induce il nuovo voivoda a evitare un crimine, viene tagliato almeno il naso, di modo che così contrassegnati siano privati del diritto di successione al trono paterno.” E in modo ancora più esplicito, lo stesso autore, in De situ Transylvaniae, Moldaviae et Transalpinae, in Monumenta Hungariae Historica, II serie, Scriptores, II, Budapest 1857, pp. 137-140: “Un tempo i principi venivano insediati dai re d’Ungheria che a volte installavano altri principi oppure rimettevano sul trono quelli che aveva cacciato [...]; di fronte a questi re, i principi giuravano solennemente fedeltà e pagavano loro un tributo annuale oppure obbedivano loro, poiché da molto tempo erano stati annessi o piuttosto posti di nuovo sotto la dipendenza dell’Ungheria. Molto spesso, infatti, sentendo risvegliarsi dentro di sé il ricordo del potere di un tempo e sforzandosi di regnare nuovamente da padroni in casa propria, si ribellavano. È ciò che fecero soprattutto i Valacchi all’epoca dei regni di Carlo [Roberto], di Luigi [il Grande], e di Sigismondo [di Lussemburgo], poiché la dominazione ungherese era detestata più di ogni altra cosa [...]. Come se fossero colpiti da una follia innata essi [i Valacchi] hanno l’abitudine di uccidere quasi tutti i loro principi, sia apertamente sia di nascosto, e se ne spartiscono i beni. Ed è un vero miracolo se qualcuno riesce a regnare tre anni o a morire di morte naturale sul trono.

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Una volta, in soli due anni, hanno eliminato due o tre principi. E nessuno della stirpe ignora il fatto che essere eletto significa la morte assicurata. Ma quest’onore li ossessiona a un punto tale che, pur sapendo di poter regnare anche un solo giorno, se ne troverebbero facilmente mille disposti a farlo; anche se venissero tutti uccisi, altri mille seguirebbero senza timore pensando che spetterebbe loro una morte buona e felice se fossero riusciti a salire sul trono almeno una volta. Talmente grande è la sete di gloria che si trova presso questo popolo barbaro.” In realtà, almeno a partire dal XIV secolo, risulta che il sistema di successione prevedesse una coreggenza del principe regnante con il primogenito, cui sarebbe stato attribuito il titolo di Voivoda di Oltenia. In alternativa risulta però che venisse praticata anche la coreggenza tra due fratelli, come nel caso di Dan I e Mircea il Vecchio. Cfr. Matei Cazacu, Dracula: la vera storia … op. cit., pp. 33-34. Dracula userà per se sempre il titolo di Voivoda o anche quello di Gospodar (o gospodin), che traduceva il latino dominus. 13 Così veniva definita la nobiltà valacca in Ion Donat, Domeniul Domnesc în Ţara Românească (secolele XIV – XVI), Bucarest, 1996, pp. 101-102: “[...] oligarchia poco numerosa ed ereditaria, [...] dal carattere chiuso [...] così divisa dalla lotta per ottenere ricchezze e titoli che, in molti casi, non è possibile nemmeno parlare di unità morale delle famiglie nobili, i cui membri si oppongono gli uni agli altri sino alle forme più riprovevoli della persecuzione politica e anche sino all’omicidio. Le confische dei beni praticate dai principi, che, colpendo qualche membro di una famiglia, costituivano un’occasione per ottenere favori per qualcun altro della stessa famiglia, facilitavano fatalmente questa situazione.” Le figure di maggior rilievo all’interno di questa vera e propria casta erano il ban, cioé il governatore della bassa Valacchia, il vornic, sorta di ministro dell’interno, il vistier, responsabile di tesoro e finanze, il postelnic, vero e proprio ministro degli esteri, lo spatar, comandante delle milizie e il logofat, responsabile della giustizia. Il divan costituiva l’assemblea dei boiardi più importanti, che di fatto affiancava il voivoda nella gestione del potere, anche se a quest’ultimo era riservata la gestione dei tributi, la coniazione della moneta, l’amministrazione della giustizia e soprattutto la guida suprema dell’esercito. Non si può ignorare la somiglianza tra quest’ultimo organismo e il Divan ottomano, che affiancava il Sultano nella gestione del potere. 14 È probabile che lo stesso nome derivasse dal cumano “basar” (“regnare”) e “aba” (“padre”), quindi “Re padre”. 15 Cfr. La Valachie médiévale et moderne: esquisse historique , in T. Velmans (a cura di), Art et société en Valachie et Moldavie du XIV au XVII siècle, in Chaiers Balkaniques, 21, 1994, pp. 95-158. Cfr. G.I. Bràtianu, Les Rois de Hongrie et les principautés roumaines au XIV siècle, in Bulletin historique de l’Académie roumaine, XXVIII, 1947, pp. 67-105. 16 Sulla battaglia di Nicopoli cfr. anche Emmanuel Constantin Antoche, Les expéditions de Nicopolis (1396) et de Varna (1444): une comparaison, in Mediaevalia Transilvanica», v.4; 1-2 2000. 17 Cfr. S. Papacostea, La Valachie et la crise de structure de l’Empire ottoman (1402-1413), in Revue roumaine d’histoire, XXV, 1986, pp. 23-33. 18 Per Matei Cazacu, Dracula: la vera storia … op. cit. p. 35 e note 21 e 22 p. 302, esistono versioni diverse sulla prigionia di Dracul. Per alcuni ospite “forzato” presso la corte imperiale a Buda e per altri ostaggio di Murad II, almeno alla data del 1422, come confermerebbero gli storici greci Dukas e Calcondilas. Cfr Harry J. Magoulias, Decline and fall of Byzantium to the Ottoman Turks by Doukas. An annotated translation of the Historia turco-byzantina, Detroit 1975. Non è da escludere però che la presenza di Vlad presso la corte imperiale datasse almeno al 1395. 19 Cfr. anche Viorel Panaite, The Ottoman law of war and peace: the Ottoman empire and tribute payers, Boulder, East European Monographs, 2000 e Mihai Maxim, L’Empire ottoman au nord du Danube et l’autonomie del Principautes roumaines au XVI siècle: etudes et documents, editions Isis, Istanbul 1999.

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20 Come ricordato in Matei Cazacu, Dracula: la vera storia … op. cit., pp. 31-32. 21 Ibidem , nota 17 pp.301-302 l’autore riporta una testimonianza ripresa da Fontes historiae daco-romanae, IV, Bucarest, 1982, p. 341: “[...] il diacono Jean Eugenikos di Salonicco, scriveva che nel luglio del 1420 si sono avuti grandi terremoti cui sono seguite la caduta della Grande Valacchia nelle mani dei turchi e la condanna a morte del figlio del voivoda Mircea, Michele, che viveva come un debosciato, e di altri suoi figli.” 22 Secondo Matei Cazacu, Dracula: la vera storia … op. cit. p. 33 Maometto I avrebbe imposto, alla morte di Mihail, un figlio illegittimo di Mircea sul trono valacco. Lo stesso autore, Ibidem, op. cit. p. 302 rimanda a una testimonianza di Pio II, ripresa da Cosmographia [Historia rerum ubique gestarum locorum descriptio], Opera geographica et historica, Helmstadii, 1609, p. 229: “Ai nostri giorni esistono due fazioni presso i Valacchi: i Dan e i Dracula. Questi ultimi, essendo più deboli e vedendosi continuamente perseguitati in tutti i modi dai Dan, chiesero soccorso ai turchi e con il loro aiuto militare schiacciarono i Dan e li annientarono quasi del tutto. I Dan si avvalsero dell’aiuto di Giovanni Hunyadi che al tempo regnava sugli Ungheresi; costui, però, non restituì loro i beni ma tenne per se la gloria e la ricchezza. E, dopo aver strappato le terre dei Dan al dominio dei turchi, le occupò e le serbò per sé e per i suoi successori come possesso perpetuo.” Una testimonianza analoga, attribuibile all’arcivescovo Nicolaus Olachus (1493-1568), discendente dalla famiglia principesca valacca e riportata nella sua opera “Hungaria” del 1536, viene citata da Stefan Andreescu, nel suo Vlad the Impaler:(Dracula), traduzione di Ioana Voia, the Romanian cultural foundation, Bucarest 1999, pp. 15-19: “Dai tempi dei nostri antenati fino a oggi ci sono, nel nostro paese, due famiglie della stessa origine: i Dan, discendenti del principe Dan, e i Dracula, da Dragul, ai quali fa riferimento Enea Silvio [...]. I principi legittimi vengono eletti fra questi, sia con l’aiuto del nostro re [d’Ungheria], sia con quello dell’imperatore turco.” 23 Secondo alcuni storici, Vlad Dracul si sarebbe formato presso la corte di Buda (13951418), da cui avrebbe tentato di fuggire una prima volta in direzione della Polonia. Ripreso, si sarebbe rifugiato in un secondo tempo presso Murad II, per poi riparare a Costantinopoli, da dove, attraverso la Valacchia, avrebbe infine raggiunto la Transilvania. Sul fallimento della prima fuga cfr anche Ivan Lantos, Dracula. Storia e leggenda di un incubo, Editoriale Nuova, Novara 1984, p. 16. 24 Nel dicembre del 1430, o gennaio del 1431, Vlad Dracul scriveva ai cittadini di Brasov: “Sapete bene che il signore l’Imperatore mi ha affidato la custodia di questo confine e che senza il mio accordo non avrete la pace con la Valacchia. E avete sentito anche che la mia signoria va presso il mio signore l’imperatore.”, cosi riporta Matei Cazacu, Dracula: la vera storia … op. cit., p. 302-303 nota 24, citando un passo di I. Bogdan, Documente privitoare la relaţiile Ţării Româneşti cu Braşovul şi Ţara Ungurească în sec.XV-XVI, I (14131508), Bucarest 1905, pp. 54-55. 25 Sempre Cazacu, Ibidem p. 36, affermava che “[...] nel 1431 ... una delegazione di boiardi valacchi si recò a Norimberga e chiese al re-imperatore di nominare un nuovo principe al posto del defunto Dan II. In realtà quest’ultimo non era morto, ma è probabile che i grandi signori del paese volessero disfarsene.” 26 Secondo William Wilkinson, Tableau historique, géographique et politique de la Moldavie et de la Valachie, Paris 1824, p. 17 n. 1, l’interpretazione del termine Dracul potrebbe essere più generica, in particolare l’autore afferma che “[...] Dracula, nella lingua della Valacchia, significa <diavolo>. I valacchi avevano l’usanza, un tempo come oggi, di dare questo soprannome a tutte le persone che si distinguono per il loro coraggio, le loro gesta crudeli o la loro abilità.” Un dubbio sulla reale origine del nome Dracul viene avanzato dal Giraudo, che mette a confronto le ipotesi comunemente accettate a tale proposito, anche se riconosce come reale la trasmissione del soprannome e quindi del “titolo” da padre in figlio, ricordando come in numerose fonti anche Radu il Bello, fratellastro di Vlad III, venisse indicato come Dracula o Draculea. Cfr. a tale proposito Gianfranco

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Giraudo, Drakula. Contributi alla storia delle idee politiche nell’Europa Orientale alla svolta del XV secolo, Libreria Universitaria editrice, Venezia 1972, p. 43 ss. A tentare di conciliare le diverse ipotesi che, di volta in volta, identificavano l’appellativo Dracul al concetto del Drago o del Diavolo (tesi contrapposte ad esempio sostenute dagli storici romeni Nicolae Jorga e Ion Bogdan), potremmo adottare la tesi dello storico austriaco Christian Engel, che nel suo Geschichte der Moldau und Walachey” del 1804, accettava l’origine legata all’appartenenza all’Ordine cavalleresco, ma proponeva che l’accezione diabolica del nome stesso derivasse dalla fama acquisita nel tempo dallo stesso Dracula per le sue gesta. 27 Cazacu a proposito della nascita di Dracula fornisce due interessanti precisazioni. In Dracula: la vera storia … op. cit. pp. 25-26 presenta una “forbice” di date per la nascita del principe, che vanno dal 1429 al 1436 e sempre Ibidem op. cit. p. 300 ricorda come Vlad si firmasse con tale nome nella prima parte della sua vita, mentre, almeno a partire dal 1475, usasse poi la formula Ladislaus Dragwlya (o Dragkwlya o Drakulya), che del resto compariva anche sul suo sigillo. A tale proposito si rimanda anche a I. Bogdan, Documente privitoare la realttile Tàrii Romanesti cu Brasovul si cu tara Ungureasca in secolele XV si XVI, (1413-1508), Bucarest, 1905, pp. 323-4. In lingua slava vlad significa “potenza” e i suoi derivati Vladimir o Vladislao, (rammentando che mer, sempre in slavo, indica colui che è illustre) alludono quindi ad una persona illustre o coronata di potenza. Analogamente, se la radice araba vlad indica la città o la contrada e il termine amir significa signore, otteniamo un risultato simile, nel caso di Vladimiro ad esempio, sia nel mondo cristiano che in quello musulmano e cioè illustre per potenza o signore di città, quindi comunque “potente” in senso lato. 28 Da un documento presente in Documenta Romaniae Historica, D, Tara Romaneasca (Valacchia), I, Editura Academiei Romane, Bucarest 1966, (1222-1456) pp. 280-281 risulterebbe, per la verità, che Vlad, alla data della sua investitura a Cavaliere del Drago (8 febbraio 1431), risultasse già ufficialmente principe di Valacchia: “Per grazia di Dio, principe della Valacchia e duca d’Amlas e di Fagaras”. 29 Cfr. Matei Cazacu, Dracula: la vera storia … op. cit. p. 46, che riprende un documento conservato in un’unica traduzione ungherese di XVIII secolo, pur se sospetta. Cfr. “Documenta Romaniae Historica, D., I, pp. 463-464 e B, I, pp. 142-143. 30 In Konstatin Michailovic di Ostrovica, Cronaca turca ovvero Memorie di un giannizzero, Sellerio editore, Palermo 2001, p. 93. 31 Per avere un’idea più precisa del tipo di pressione che lo strapotere militare turco esercitava sulle marche cristiane di confine, riportiamo integralmente un passo di Giorgio d’Ungheria, giovane studente sassone che trascorse gli anni tra il 1438 e il 1458 nei territori dell’impero ottomano. Il nostro cronista si soffermava in particolare a descrivere le imprese degli “akindji” o “akingji”, gli scorridori o saccheggiatori, le cui colonne minacciavano costantemente la frontiera cristiana e che tra XV e XVI secolo colpirono ripetutamente l’Ungheria, la Croazia, la Serbia, la Bosnia, la Carniola, la Stiria, la Corinzia e persino Friuli e Bassa Austria. “Il Gran Turco, oltre al suo esercito generale, dispone sempre di un corpo speciale formato dai 20.000 ai 30.000 uomini, che si distinguono molto più per l’eccellente attitudine alla lotta che per la forza fisica. Questo corpo è comandato da uno degli uomini più esperti del suo esercito; così come per le bande di ladri, esso agisce molto più di notte che di giorno. I suoi uomini hanno diritto almeno una volta all’anno al saccheggio, a volte anche due o tre volte all’anno, a seconda che se ne presenti l’occasione. Ciò avviene sempre in un modo così discreto che i vicini a malapena si accorgono che essi si sono messi in marcia, e questo per un motivo di cui parlerò più avanti. Poichè questi uomini conducono tutte le operazioni a cavallo, è loro necessario potersi preparare e regolarsi, insieme ai loro cavalli, secondo un codice di manovre e una disciplina rigida, di modo che se devono spostarsi per un’intera settimana, giorno e notte, né essi né i cavalli debbano soffrire per la durata di una simile cavalcata. Ecco perché, nei periodi in cui non hanno nulla da fare, si occupano

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di sé stessi e dei loro cavalli, e si nutrono in modo da ingrassare e fortificarsi. Inoltre, quando decidono di uscire dal campo, iniziano, sette o otto giorni prima, a imporre a se stessi e ai cavalli una disciplina unica e severa, ovvero razionamenti nel bere e nel mangiare e un allenamento misurato, affinché tutto il peso superfluo venga eliminato e tutto il grasso accumulato resti loro nel midollo e li renda adatti alla cavalcata. Prima di partire fanno sapere la strada che prendono e il luogo dove sono diretti, luogo peraltro dove non hanno nessuna intenzione di andare, e ciò allo scopo d’ingannare le spie, nel caso ve ne fossero. Non partono prima di aver preso con sé una o due guide degne di fiducia, che conoscano perfettamente le strade e i sentieri del paese in cui devono recarsi. Si spostano con tale velocità che, nello spazio di una notte, percorrono un tragitto che richiederebbe tre o quattro giorni e, così facendo, se mai qualcuno li avesse notati, non potrebbe in nessun caso precederli e tradire il segreto del loro arrivo imminente. Hanno una tale capacità di conoscere la natura e le qualità dei loro cavalli che sembrano padroneggiare tutta la scienza animale. [...] E accennerò solo ai punti seguenti: non tengono conto del freddo dell’inverno, del caldo dell’estate e di ogni altra costrizione legata al clima o alla stagione; non sono mai stanchi né intimoriti dal carattere inospitale dei luoghi che attraversano o dalla lunghezza dei tragitti; soprattutto, ed è particolarmente ammirevole, non portano con sé né bevande, né cibo, né armi, né vestiti che potrebbero impacciarli negli spostamenti; si soddisfano con poco, quasi niente quando attraversano vasti spazi, e non si fermano mai prima di piombare di sorpresa su qualche imprudente e ritornarsene appagati. Riguardo a quest’argomento, dirò solo rapidamente che ciò che si dice su di loro è del tutto incredibile. E, per dir la verità, se io stesso non avessi verificato queste cose con la mia esperienza e se non le avessi viste con i miei occhi non avrei mai potuto prestar fede a tutto quello che ho sentito dire. [...] Chi può immaginare il terrore e lo spavento che suscitavano su coloro che se li vedevano piombare addosso all’improvviso ! Sicuramente, anche se questi ultimi avessero avuto cuori di ferro o di diamante, rimanevano di sasso e senza più forze. Ma che cosa può mai fare, a chi può mai rivolgersi, colui che si trova improvvisamente davanti, con la spada sguainata, il suo mortale nemico? Se tutto ciò sembra spaventoso solo a sentirlo raccontare, l’esperienza diretta è ancora più terribile, come ho visto con i miei propri occhi. Ma a che cosa serve tutto ciò? Soltanto a questo: al fatto che essi possano catturare gli uomini cogliendoli di sorpresa, senza spargimenti di sangue né massacri, e a mantenere vivi sul piano fisico coloro che essi hanno intenzione di ammazzare sul piano spirituale. [...] Così, con un solo uomo essi compiono due crimini: il turco infatti cerca di soddisfare la sua bramosia vendendo l’uomo, e il diavolo cerca di togliere la fede dall’anima per condurle miserabilmente con sé nella Geenna” Da Giorgio d’Ungheria, Des Turcs. Traité sur les moeurs, les coutumes et la perfidie des Turcs, tradotto dal latino da Joel Schnapp, Anacharsis, Tolosa 2003, pp. 58-61. 32 Era evidente che la massa della popolazione valacca preferiva questo stato di cose, con la possibilità di guadagno individuale che un simile atteggiamento comportava per le categorie produttive del paese, piuttosto che l’incubo costante di scorrerie e incursioni turche. Sigismondo poi si ostinava a ospitare nelle città transilvane i partigiani e forse i figli dell’ultimo dei Danesti e questo era considerato da Vlad un vero e proprio affronto. 33 Cfr. Matei Cazacu, Dracula: la vera storia … op. cit. p. 47, che riprende una lettera del domenicano Giovanni di Ragusa ai padri del Concilio di Basilea, con la quale (17 novembre 1436) si ricordava che Vlad Dracul aveva dovuto sottoscrivere quasi subito un trattato tributario con Murad II, sulle stesse basi di quello a suo tempo accettato dal predecessore Alexandru Aldea. Così in N. Iorga, Notes et extraits pour servir à l’histoire des croisades au XV siècle, Bucarest 1915, IV p. 26. Era frequente il caso di preti che incitassero alla resa le comunità cristiane attaccate dai Turchi, poiché costoro garantivano libertà di culto alle comunità che si arrendevano senza combattere, mentre agivano con la forza contro quelle che si ostinavano alla difesa. 34 Cfr. Matei Cazacu, Dracula: la vera storia … op. cit. p. 48 da Ducas, Historia turcobyzantina (1341-1462), ex recensione Basilii Grecu, Bucarest 1958, pp. 250-2 (XXIX, 6-8)

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35 Anche il despota serbo Giorgio Brankovic aveva dovuto accettare un patto simile per garantire la sopravvivenza di quanto rimaneva del suo regno e a tale proposito era giunto a dare in sposa a Murad la propria figlia. Ibidem p. 49. 36 Probabilmente le forze ammontavano ad almeno 30.000 akindijs (scorridori) turchi, ma altre fonti parlano addirittura di 70.000 uomini. Cfr. M. Guboglu - M. Mehmet, Cronici turcesti privind tarile romane (Cronache turche riguardanti i paesi romeni), I, Bucarest, 1966, p. 53. Per l’ambiguo atteggiamento tenuto nell’occasione da Vlad Dracul rimandiamo ancora una volta a Giorgio d’Ungheria, op. cit., in quell’occasione catturato dagli incursori: “A quell’epoca ero un ragazzo di quindici o sedici anni, originario della stessa provincia. L’anno precedente avevo lasciato il luogo in cui ero nato [Romos] ed ero venuto a compiere i miei studi presso una fortezza, o meglio una cittadina, chiamata Sebes dagli ungheresi e Muhlbach in tedesco. Questa piccola città era abbastanza popolata ma mal fortificata. Quando il Gran turco vi arrivò, vi ebbe insediato il suo campo ed ebbe iniziato l’assedio, il principe dei valacchi, che era giunto insieme al Gran Turco, venne davanti alle mura e, in nome dell’amicizia che tempo addietro aveva stretto con gli abitanti della città, fece cessare la battaglia, poi chiamò i cittadini. Li persuase a seguire i suoi consigli e a non iniziare la guerra con il Gran Turco poiché le fortificazioni non erano in alcun caso sufficienti. Ecco il consiglio che diede: che consegnassero pacificamente la città al Gran turco. Lui stesso avrebbe cercato di ottenere dal Gran Turco il permesso di portare con sé i notabili della città fino al proprio paese. Poi, quando avessero voluto, sarebbero potuti ritornare oppure restare. Quanto al resto della popolazione, il Turco l’avrebbe condotto fino al proprio paese senza che subisse il minimo danno materiale o personale e gli avrebbe dato delle terre in possesso. In seguito, quando se ne fosse presentato il momento, avrebbero potuto scegliere se tornare o rimanere in pace. E noi vedemmo che tutto avvenne come lui aveva promesso.” E così fu fatto, con l’eccezione di coloro che scelsero la difesa ad oltranza della città: “[...] Tale era la situazione quando, al mattino [dell’indomani], il Gran Turco in persona venne alle porte della città e ordinò che si scrivessero individualmente sui registri tutti coloro che uscivano con le loro famiglie. Poi, dopo aver designato una scorta, che venissero condotti fino alla sua terra senza il minimo danno materiale o fisico. Concesse al principe dei Valacchi il diritto di condurre nello stesso modo alcuni cittadini e i notabili fino al suo paese.” Da Giorgio d’Ungheria, Des Turcs. Traité sur les moeurs,… op. cit., pp. 30-33. Il Babinger colloca questa disastrosa incursione nell’autunno del 1438, successiva quindi alla morte dell’imperatore Sigismondo del 9 dicembre 1437 e considera la scorreria in Transilvania come una sorta di diversivo, per stornare l’attenzione cristiana dal suo vero obiettivo e cioé la Serbia di Giorgio Brankovic, che venne colpita poco dopo e, in modo ancora più deciso, nell’estate dell’anno successivo. Comunque l’incursione in Transilvania sarebbe durata circa 45 giorni ed avrebbe provocato la perdita di circa 70.000 uomini, molti dei quali ridotti in schiavitù come appunto il giovane frate Giorgio di Muhlenbach, che ci ha lasciato l’attenta cronaca appena citata. Se Sibiu venne risparmiata per le sue mura, minor fortuna ebbero Brasov, Medias ed i sobborghi di Sighisoara. Cfr. a tale proposito Franz Babinger, Maometto il Conquistatore e il suo tempo, Einaudi editore, Torino 1967, pp. 15-16. 37 Il precedente re d’Ungheria, Alberto d’Asburgo, succeduto a Sigismondo, era morto di dissenteria il 27 ottobre 1439, mentre guidava un esercito imperiale alla difesa di Semendria, ultima roccaforte della Serbia che di lì a poco sarebbe scomparsa come stato indipendente. Il nuovo reggente ungherese dovette affrontare la dura opposizione di Federico d’Asburgo, futuro imperatore, ma nonostante questo era fautore di una energica politica militare nei confronti dei turchi, profittando anche delle risorse che gli derivavano dal doppio ruolo di sovrano di Polonia e di Ungheria. Cfr. Matei Cazacu, Dracula: la vera storia … op. cit. pp. 55-56. 38 A tale proposito risultò decisivo un incontro tra i due Voivoda, verificatosi probabilmente tra novembre e dicembre del 1441. Come ricorda Matei Cazacu, Dracula: la vera storia … op. cit. p. 57. Sempre secondo Cazacu, Ibidem, op. cit. p. 58 l’Hunyadi riuscì a

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soppiantare Vlad con il fidato Basarab II già al termine della vittoriosa campagna del 1442, quindi nella tarda primavera di quell’anno. 39 Sulle sconfitte ottomane del 1442 cfr. Francisc Pall, Le condizioni e gli echi internazionali della lotta antiottomana del 1442-1443, condotta da Giovanni di Hunedoara” in Revue des études sud-est européennes, III, 1965, pp. 433-463 e anche E. C. Antoche, La bataille de la riviére d’Ialomita (2 septembre 1442), une victoire majeure de la chrétienté face aux armées ottomanes, in L. Henninger (a cura di), Nouvelle histoire bataille, Paris-Vincennes, 1999, pp. 61-88 (Cahiers du Centre d’études d’histoire de la défense, 9).

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La battaglia di Varna. 10 novembre 1444 (Illustrazione di Eugenio Belgrado)

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