Narrativa Minerva Collana diretta da Giacomo Battara
elettroshock sono ancora vivo
elettroshock
Direzione editoriale: Roberto Mugavero Grafica e impaginazione: Alessandro Battara Le immagini di questo volume sono protette dalle leggi sui diritti di copyright internazionale. La loro riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo, è vietata senza il consenso del detentore del copyright. © 2014 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978-88-7381-539-6 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com
ignazio e italo
cucci
elettroshock sono ancora vivo e la chiamano depressione
romanzo
M inerva E dizioni
DISTICO Ditemi sempre la veritĂ
premessa STAI QUI CON ME
Era il 26 giugno del 1978 e a Ezeiza - l’aeroporto di Buenos Aires affollato come una piazza di mercato da migliaia di sconfitti - aspettavo l’Air France che doveva portarmi a Milano via Parigi insieme a una dozzina di colleghi e amici. Voglia di casa, tanta, dopo un mese di pallone in giro per l’Argentina. La sera prima, al Monumental, era andato in scena il trionfo di Rafael Videla e la sua orchestra: vittoria dei biancocelesti sull’Olanda, 3 a 1, due gol di Kempes e uno di Bertoni, per gli oranges Nonninga. Per l’Argentina anche Gonella, arbitro di Vercelli. Italiani e argentini, tutti fratelli...Eravamo stati coinvolti nel festone di Piazza della Repubblica, un’ora e passa sotto l’Obelisco a scambiarci baci e abbracci eppoi una fuga verso l’hotel, in Maipù, tenendo stretta l’ultima conquista: un pollo arrosto strappato in una locanda che aveva chiuso i battenti per non essere travolta dai festanti. Poteva andar meglio, quell’ultimo giorno nella città dei sorrisi e delle lacrime, fra tifosi gaudenti e matres piangenti. Poteva andar meglio anche il seguito, il ritorno a casa. Altro che Baires-Parigi-Milano. Overbooking. Mi autonominai capogruppo, feci casino, mi consegnarono il percorso: Baires-Santiago-Lima-Bogotà-San Juan de Portorico-Barcellona: Italia. Poi telefonai a casa. Grazia e le bambine erano al Lido di Spina. -Come va? Sto tornando! Fra qualche giorno sono a casa... 9
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-Perché fra qualche giorno? -Complicazioni di viaggio...ti racconterò...C’è qualcosa che non va? -Niente di particolare... -Quando fai così qualcosa non va... -Francesca non sta bene...Non agitarti...Niente di grave... -Ma cos’ha se non è grave? -Forse un po’ d’influenza...Una bronchitina...Il dottore non riesce a capire, mi ha parlato anche della malattia del bacio, sai?, la mononucleosi...Come dire che non sa niente...Aspetto te per portarla a Bologna da Zamboni, lui non sbaglia mai diagnosi... -Adesso dov’è Francesca? -Sta riposando... Sta riposando. Sta riposando. Sta riposando. Mi son portato dentro quelle parole per cinque giorni, il tempo di tornare a casa da quell’Odissea Americana. Nel dormiveglia del volo, il cuore passava le paure al cervello. Non vedevo l’ora di svegliarmi in un aeroporto. E telefonavo. -Come sta oggi? -Non è cambiato niente...è solo stanca... -E Benedetta? (il giorno prima mi ero colpevolmente dimenticato della mia piccolina) -Corre dalla mattina alla sera. Ti aspetta... Così fino a quando arrivai a Milano e presi una macchina per correre a casa, a Spina, viale Michelangelo, quattro pini e due salici piangenti. Mi aspettavano. Benedetta commossa e ridente. Grazia affaccendata, come sempre. Francesca...Francesca pallida e un sorriso dolce e mesto insieme...Come stai, papà? Come stai tu? 10
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Il giorno dopo, a Bologna. Il dottor Zamboni: “Un’influenza”. Non ci credevo. Una telefonata a Paolo Tarantini, medico amico, e lui: “La portiamo al Sant’Orsola dal tuo amico Puddu, così stiamo tranquilli”. Questione di ore, poi Puddu telefonò a un altro primario, guardandomi di sottecchi senza farmi capire, e Francesca intanto “Papà, torniamo al mare? Sono stanca...”. Paolo non sapeva più che dire, aveva gli occhi lucidi come se stesse per piangere: “Facciamo un salto da professor Tura, lui è uno specialista dei bambini...”. Francesca aveva undici anni quando l’assistente del professor Sante Tura, Baccarani, uomo di poche parole forse tutte amare, dopo averla visitata accuratamente e averla sottoposta a esami del sangue (non dimenticherò mai l’emocromo, una maledizione ripetuta mille volte) ci disse, senza pietà: “Leucemia”. E Tura, che stava facendo visite nel reparto di Ematologia, si fece subito vedere per sapere, ma in realtà sapeva già tutto e tentava di comunicarci un minimo di sollievo: “È leucemia ma vedrete che con cure appropriate...”. Baccarani disse la sua, quasi mormorando soprapensiero: “... ma non c’è niente da fare...”. Undici mesi di intensa disperazione. Sapevamo che la morte sarebbe arrivata da un momento all’altro e allora non ci lasciavamo mai. Io lavoravo tanto, come sempre, ma intanto Francesca stava con la mamma eppoi le raggiungevo per una passeggiata, per ascoltare musica, per vedere i filmetti in tivu...C’erano giorni che l’incubo pareva eclissarsi. Giorni in cui la morte era presente come un famigliare e a volte le parlavo in dialoghi muti. Una notte dovetti stringere Francesca così forte che quasi le facevo male ma stava andandosene e mi ave11
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va chiesto “papà, tienimi con te”: fummo attraversati da brividi, insieme, sentii anche che mi fuggiva, le mani e il volto freddi, gli occhi semiaperti, quando il silenzio fra noi fu così profondo da negare anche i sospiri e mi sentivo morire anch’io; poi sentii fra le mie braccia il suo corpo fremere e lei si risvegliava serena, stringendomi forte, “papà, mi hai tenuto con te”, e sorrideva; Francesca non piangeva mai, era dolorosamente severa con la vita ma si capiva che con il suo carattere forte non sarebbe stato facile, portarla via. Quella volta ci opponemmo insieme alla morte e ci s’illuse che avremmo potuto ripetere quel gesto di forza e d’amore. Non ne parlammo mai. Tacevamo come complici di un rito stregato. Finchè c’è l’amore vivrà - mi dicevo, illudendomi. Si parlava, allora, di qualche miracoloso trapianto fra consanguinei. Ci credevano poco anche i medici ma Baccarani disse “Proviamoci”. Purtroppo Benedetta non era compatibile e restò addirittura choccata prima dal prelievo di sangue midollare poi dall’esito negativo. Era smarrita, la mia piccolina, e aveva sensi di colpa. Convinti che ormai avremmo vissuto la fase terminale della tragedia, la portai a Londra da mio fratello. Poi furono gli ultimi giorni di Francesca. Con gli ultimi tentativi di sapere se altrove la scienza avesse fatto passi avanti per salvarla: il dottor Baccarani mandò uno dei suoi all’istituto Pasteur, a Parigi, mentre dal mio mondo arrivavano consigli e offerte per qualche viaggio della speranza. Ne parlai ancora con Tura che mi sconsigliò quei percorsi disperati e un giorno mi disse: “Adesso Francesca sta meglio, siamo riusciti a impedire che le tocchi il destino dei tanti che muoiono qui, in questo laz12
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zaretto, in mezzo a tanto sangue; è serena, la porti a casa...”. Fummo soli con lei, nella nostra grande casa di campagna dove ormai c’era solo silenzio e tacevano anche i cani e i gatti, come sentissero la morte incombente; soli con lei, senza mai cedere al pianto, anzi riempiendola di sorrisi e carezze; ancora per pochi giorni: era sempre a letto, nel nostro letto grande, i suoi capelli biondi sparsi sul cuscino, il volto segnato dalla sofferenza, quegli occhi già ridenti e ora mesti segnati da stanchezza e inquietudine; le stavamo accanto giorno e notte, sempre sereni, mai disperati, non avrebbe accettato lacrime nè lamenti. Una domenica mattina disse di sentirsi meglio. Anzi: bene. -Vuoi alzarti? -No, papà, stai qui con me. Lascia che la mamma badi alla casa. Poi, un’ora dopo: -Siediti qui, sul letto, stammi vicino...ho paura... Non era mai successo prima. Mi prese la mano, mi guardò con un’aria triste: -Papà, perché non mi hai mai detto che dovevo morire? Chiuse gli occhi e ci lasciò. Era il pomeriggio del 17 giugno 1979. Giurai che mai più nulla sarebbe contato, per me, come quell’addio. Ignazio è nato diciotto mesi dopo, non per prendere il posto di Francesca ma per dare continuità alla vita in una famiglia piombata nel buio. Ci mancavano i bisticci delle bambine, Benedetta stava sempre sola soffocando la sua natura espansiva, la sua allegria che trovava sfogo solo a scuola e aveva 13
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invece bisogno di altri spazi e atmosfere. Che presto trovò, tornando a Londra e via via aprendosi a un mondo che non avrebbe mai lasciato: i viaggi, la musica, le amicizie bizzarre, senza darci mai paure, come se la dolorosa esperienza famigliare l’avesse fortificata e maturata anzitempo. Un giorno ci disse che avrebbe voluto tornare a Londra da sola, in treno. Restammo per un po’ senza notizie, poi arrivò una telefonata: “Sono in Grecia, davanti al mare più bello...No, non sono sola, ho degli amici, sentite...”: in sottofondo il suono di una chitarra e voci squillanti. Benedetta aveva scelto la sua vita. Ma quando arrivò Ignazio fu bello anche per lei, se lo teneva come un bambolino, lo portava a passeggio, gli insegnava parole e giochi; e la casa tornò a riempirsi di risate. Era il momento di far punto, ci mancava ancora qualcosa: così arrivò Beatrice, tenerissima e irrequieta fin dalla nascita. Non saprei come raccontare quegli anni ritornati felici. So soltanto che i bambini crescevano con la rapidità delle piante e dei fiori toccati da Grazia con mani magiche. Lasciammo San Lazzaro di Savena per Roma secondo le mie inconsce abitudini che mi spingevano a salti epocali: vent’anni a Rimini, venticinque a Bologna, poi a Roma, Roma come Destino, mi ritrovavo nelle pagine di Paolo Volponi, l’illustre amico che un giorno - raccontandomi della sua gioventù trascorsa in guerra con mio fratello Cleto, ovvero dalla parte sbagliata - mi avvertì: “Il bene e il male viaggiano sempre insieme, e devi farci l’abitudine; non avrai mai il potere di scegliere e allora non far caso agli spaventati, agli esaltati, ai moralisti che credono di essere padroni di se stessi. 14
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Non illuderti se arriva la felicità, non disperarti nei giorni del dolore...”. Ne parlai con Grazia: “Sarà anche comunista - commentò - ma è cattolico come noi. Vuol dire aver fede...”. Abbiamo avuto fede quando se n’è andata Francesca, accettando il destino che ci assegnava una piccola santa protettrice, ne abbiamo tanta oggi per le sofferenze di Ignazio contro le quali - essendo pene dell’anima e non del corpo - ci battiamo da anni senza il minimo cenno di resa, senza chiederci “Dio, perché ce l’hai con noi?” se non nei rari momenti di abbandono dai quali resuscitiamo quasi vergognosi. Perché sappiamo che vinceremo. E vogliamo farlo sapere a chi spesso nasconde questi tormenti e si rifugia in formule antiche (un esaurimento nervoso) o citando situazioni colte (un male oscuro) o ancora fidandosi di psicologi e santoni. La prima medicina per la Depressione è la verità. Poi la Psichiatria. Noi ci abbiamo messo anche la Fede.
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