Il grande cucciolo (di Stefano Ronchetti)

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Stefano Ronchetti

Portava un collare di cuoio e lì, attaccata, una targhetta con inciso il nome – “Jack” – e sotto due lettere: G.C.

il grande cucciolo

Stefano Ronchetti nasce a Roma nel 1959. Dagli anni Ottanta svolge la professione di Art Director e copywriter con significative esperienze nel settore industriale dove consegue importanti riconoscimenti professionali. Appassionato di cinema e letteratura, nutre una particolare sensibilità verso il mondo degli animali e della natura.

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Cover design: Alessandro Battara Illustrazione: martm © 123RF.COM

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n ricco uomo d’affari, autorevole figura e voce narrante, decide di svelare un segreto che conserva da tanti anni. È l’incredibile vicenda del piccolo Bruno, suo nipote, e dell’incontro con il “Grande Cucciolo”. Tutto sembra frutto della fantasia del piccolo finché una notte accade qualcosa di unico che cambierà la percezione della vita.

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lla fine mi sono deciso di raccontarla, questa storia. Per molti anni l’ho tenuta segreta, conservata gelosamente nel mio cuore. La conoscenza del mistero di cui sto per farvi dono mi ha anche consentito, in questi lunghi anni, di osservare il mondo con altri occhi e di vedere certi accadimenti per ciò che sono: miracoli o, per meglio dire, interventi giunti da una dimensione sconosciuta, sconosciuta quasi a tutti. Non so bene perché tutto ciò sia capitato proprio a me, perché sia stato io il prescelto, e perché abbia avuto il privilegio di vedere e di sentire ciò che ho visto e sentito: con le mie orecchie e


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con i miei occhi. Ma, in ogni caso, non credo che la risposta a questa domanda cambi la realtà dei fatti. Se devo dare una motivazione di getto, per tentare di fornire un senso a ciò che mi è capitato, metterei al primo posto il mio amore per gli animali. Un amore sconfinato, un amore che diventa un modo del tutto mio e profondo di sentirli, di viverli, di percepire il loro universo, il loro modo di gioire e di soffrire in una vita che, quasi sempre, è più breve della nostra. E poi la loro indubbia saggezza, che se solo fossimo in grado tutti noi, di capirla per bene, questo mondo sarebbe, a mio giudizio, indubbiamente migliore. Ho tentato, assolutamente, negli anni, di donare questo segreto a qualcuno ma, ogni volta che iniziavo a raccontare, vedevo le facce, percepivo lo scettiscismo, palpavo l’ironia e così, a un certo punto, capendo ciò che la gente stava pensando, sorridevo e dicevo: «Sto scherzando!». E la chiudevo lì. Tutto questo ovviamente vale per il mondo degli adulti perché per i bambini, invece, è tutto possibile, loro non hanno problemi a credere. Entrano nelle storie con


semplicità, senza pregiudizi, ti ascoltano e poi – non sono mica stupidi – se la cosa non è vera capiscono che è solo una storia, la conservano nel cuore, e magari, un giorno, quando diventeranno anziani, la racconteranno ai loro nipoti. Il mondo degli animali è più in contatto con i bambini: si capiscono meglio. Non è un caso se la mia storia, il mio segreto, la devo proprio a un piccolo: mio nipote. Fu lui a farmi entrare in questa vicenda circa una quarantina di anni fa. Insomma, per farla breve, è per questo che ho deciso di scriverla la storia, così non vedo le facce e mi sembra più semplice. Poi oggi è una bella giornata, limpida, e il mare è silenzioso, immobile come un lago: sembra stia aspettando che io inizi. Mio nipote fu dichiarato ufficialmente disperso nell’ultima guerra. Al tempo aveva quarantatré anni ed era un ufficiale: Tenente Colonnello. Nell’ultima missione agì da eroe, salvando decine di vite dei suoi giovanissimi soldati. Lui stava dalla parte giusta del conflitto, semmai possa esistere una parte giusta in

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una guerra. Con il suo plotone si erano ritrovati in un fossa naturale lunga e stretta, senza vie d’uscita. Alle loro spalle le montagne, lisce come una lavagna, di fronte e sul lato sinistro le truppe nemiche: di molto superiori numericamente a loro. Sul lato destro si trovava un fiume in piena che non era possibile guadare, se non in un solo punto maledettamente esposto al fuoco del nemico. Erano giorni che le due linee si confrontavano con tentativi di assalto messi in atto dalle truppe nemiche e con un fuoco di sbarramento da parte degli uomini di mio nipote senza venirne a capo. Ogni tanto provavano a uscire da quella maledetta trincea, fuori da lÏ allo scoperto, per dirigersi su quel lato del fiume che consentiva il passaggio e che poteva significare una dignitosa ritirata e, soprattutto, la salvezza, ma i cecchini non ne risparmiavano uno: di tutti coloro che tentarono di attraversare in quel punto nessuno riuscÏ a rivedere casa. Per giunta, le razioni di cibo e di acqua iniziavano a scarseggiare, mentre il nemico, invece, era foraggiato senza problemi dalle retrovie. Dopo pochi giorni


mio nipote fu costretto a ordinare il razionamento dell’acqua e del cibo. Capì che, presto o tardi, avrebbero ceduto e sarebbe stata una strage, così decise il tutto per tutto. Riunì ufficiali e sottufficiali per esporre il suo piano. Aveva bisogno di quattro volontari, dell’unica mitragliatrice rimasta con i caricatori ancora pieni, di tutte le granate disponibili e della quasi totalità dei proiettili che ancora restavano in dotazione. Sarebbe stata un’azione per cui era difficile ipotizzare la sopravvivenza, ma si poteva tentare. Il piano consisteva nel riunire tutto il plotone all’uscita di quella trincea naturale, quella verso il lato che portava in direzione del guado, e quindi verso la salvezza. Lui, con i suoi quattro volontari, sarebbero invece usciti allo scoperto dal lato opposto per mettersi subito al riparo dietro un carro abbandonato, saltato su una granata qualche giorno prima, ancora fumante, e distante non di più di una trentina di metri. Da lì, con una pioggia di proiettili verso il lato destro delle postazioni nemiche, avrebbero scatenato un inferno di fuoco a copertura, mentre il plo-

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tone poteva tentare di uscire senza perdite di vite umane. Di volontari ne vennero avanti ben più di quattro, e lui scelse i più anziani di grado e di età. Decisero che avrebbero agito all’alba. La notte prima mio nipote la passò a scrivere alla famiglia. Non erano lettere di addio ma il consueto racconto della sua vita al fronte, come in una sorta di diario, senza nessun accenno alla missione del giorno dopo. Non aveva sonno e passò il tempo a riflettere e a disegnare qualcosa sul suo blocco: il disegno era la sua passione. Venne l’alba, i cinque uscirono allo scoperto e corsero veloci verso il carro abbandonato. Sorpresero il nemico a tal punto che non fu sparato nessun colpo. Giunti al riparo, mio nipote montò la mitragliatrice e inserì il caricatore con uno scatto preciso e iniziò a sparare nella direzione delle postazioni nemiche e tanto fecero anche i suoi compagni di missione. Immediatamente, come concordato, dalla parte opposta di quella trincea naturale iniziarono a uscire i ragazzi soldati,


molti con il viso ancora da fanciullo, correndo velocissimi verso il fiume per mettersi in salvo. Il piano funzionò e nessuno fu colpito e tutte quelle giovani vite furono salvate. Dalla parte opposta della trincea fu veramente un inferno e non durò pochi minuti come avevano previsto. Il piano ipotizzava, per quel drappello di eroi, una via di fuga oltre il carro – che avevano presunto libera – per poi ricongiungersi con il plotone in fondo alla valle all’altezza delle prime abitazioni ma, quando il primo dei cinque, un sottotenente esperto proveniente dall’Accademia, tentò di passare, fu falciato da una raffica nemica. Preso in pieno, il sottotenente cadde nel fango e nell’acqua che subito si tinse di rosso spegnendo la giovane vita. Gli altri ufficiali rimasti capirono che anche quella via di fuga era presidiata. Rimasero così in quattro, difendendo la postazione e le loro vite fino all’ultimo colpo, fino all’ultima granata disponibile. Finché il nemico non rispose con una pioggia di bombe e proiettili così fitta che spazzò via tutto.

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Di mio nipote fu ritrovata solo la giacca, incredibilmente intatta, con delle inconsuete impronte di zampe di cane sul petto non ben definite. S’ipotizzò che nelle notti dopo la battaglia, prima che si potessero recuperare i corpi, fosse passato un branco di lupi in cerca di cibo che avesse calpestato la divisa lasciando quelle tracce inconfondibili oppure, ipotesi ancor più plausibile per i fatti che vi andrò a raccontare, quello fu il segno di qualcosa che miracolosamente era intervenuto. Dalla trincea recuperarono anche il blocco di fogli con l’ultimo disegno che aveva realizzato mio nipote: una grande ala piumata e una lettera “G” maiuscola stilizzata in un carattere antico, vagamente medioevale, posta nella parte inferiore del foglio. I vertici militari attribuirono poi la “G” all’abbreviazione del termine “guerra” e il disegno dell’ala piumata all’emblema del battaglione: «È morto da eroe, salvando i suoi uomini, inneggiando alla battaglia e glorificando il suo plotone», dissero. Sua madre, mia sorella, conserva la medaglia al valore in bella mostra, dentro un cofanetto


di velluto blu che ogni giorno spolvera mentre mormora frasi sottovoce, che nessuno ha mai capito. Vicino alla medaglia, che sta sul piano del camino nel salone centrale, la foto di Jack, il suo amato cane di quand’era bambino. Mio nipote si chiamava Bruno e aveva sette anni quando si verificarono gli accadimenti incredibili che sto per raccontare. Bruno amava Jack, loro erano una coppia fissa: non si separavano mai. Quel cane era stato trovato una mattina da mia sorella nel giardino della nostra casa in campagna, forse qualcuno lo aveva gettato dentro, oltre la recinzione, per sbarazzarsene. Era molto plausibile, visto che il cancello era sempre chiuso e la rete era rimasta intatta lungo tutto il perimetro. Magari qualcuno che non aveva piÚ la possibilità di mantenerlo, vista la recessione economica terribile di quegli anni. Molta gente non aveva neanche un centesimo per mangiare. Noi, per fortuna, potevamo contare su un patrimonio importante che, prima mio nonno e poi mio padre, avevano accumulato per vivere bene

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e anche per i momenti di crisi: e quello lo era, un momento di crisi. Il cane doveva avere già due o tre di anni di età quando mia sorella lo trovò in giardino. Era bianco, con macchie sparse di pelo marrone e non era di razza. Piuttosto piccolino di taglia, circa una decina di chili, non di più o forse meno. Il pelo era ben curato, liscio e lucente, e ci venne da pensare che forse aveva vissuto in una casa. Portava un collare di cuoio e, lì attaccata, una targhetta con inciso il nome – “Jack” – e sotto due lettere: G.C. Forse G.C. erano le iniziali del padrone, magari qualcuno che era stato un ricco industriale o un commerciante caduto in disgrazia per la crisi. A quei tempi c’era l’abitudine, in certi ambienti benestanti o aristocratici, di firmare con le iniziali molte cose: le camicie, le posate, diversi oggetti preziosi e così via. Era un gesto snob di distinzione e di appartenenza. La crisi economica, così gravosa per tutto il Paese, non ci aveva toccato, ma una ben più grave disgrazia sembrava si stesse abbattendo sulla nostra famiglia.


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