VITTORIO POZZO. IL PADRE DEL CALCIO ITALIANO (di Dario Ronzulli)

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RITRATTI Collana

VITTORIO POZZO

Il padre del calcio italiano

MINERVA DARIO RONZULLI

A Stefano Biondi, senza il quale questo libro non sarebbe mai stato concepito.

Vittorio Pozzo nel 1924.

INTRODUZIONE

Mercoledì 4 maggio 1949, sono passate da poco le 17. Sulla collina di Superga che sovrasta Torino c’è nebbia, tanta nebbia. E un odore di morte e di dolore che ti entra nell’anima e che non andrà più via. Il cappellano della basilica, don Tancredi Ricca, sta facendo i segni della croce su corpi oramai privi di vita, in mezzo alle lamiere di un aereo che quella collina non l’ha evitata. Non ci vuole molto a capire di chi siano quei corpi: le maglie granata con lo scudetto sul petto, sbalzate fuori dalle valigie, sono un indizio eloquente per tutti perché per tutti l’associazione è semplice, scontata. Quelle sono le maglie del Grande Torino, quello è l’aereo del Grande Torino di ritorno da Lisbona.

La voce impiega tempo zero a diffondersi in città e tra i primi ad accorrere appena saputa la notizia c’è chi quella squadra aveva contribuito a costruirla, a plasmarla, a farla diventare Grande. Vittorio Pozzo arriva a Superga e si mescola alla gente accorsa lì, incredula e impotente e sconvolta. Non piange, Pozzo: paradossalmente il dolore è troppo forte per sfociare in lacrime. Quei ragazzi li conosceva bene, da Commissario tecnico della Nazionale aveva convocato la

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maggior parte di loro e due anni prima contro l’Ungheria ne aveva fatti giocare 10 tutti insieme. Non solo: al presidente del Torino, Ferruccio Novo, Pozzo aveva dato delle dritte sui giocatori da prendere per costruire quella squadra, diventata Grande a furia di vincere o meglio stravincere scudetti.

Non piange, Pozzo, fino a quando un maresciallo dei carabinieri lo riconosce e, avvicinatosi, gli dice: «Lei li conosce tutti, nessuno meglio di lei…». È vero, Pozzo li conosce tutti ed è l’unico tra i presenti che può dare con certezza un nome a quei corpi. Rifiuta una volta, due volte, poi arriva il magi strato: «Commendatore, se non lo fa lei devo chiamare trenta famiglie…». Di fronte a tale prospettiva non può tirarsi indietro. Per quanto sappia benissimo che si appresta a fare qualcosa di straziante inizia l’opera. Su un lato del terrazzo ci sono le membra pressoché integre di quattro persone, quelle più facili da riconoscere. Poi ci sono gli altri per i quali il riconoscimento deve passare da dettagli diversi: la cravatta, la camicia, una foto nel portafoglio. Dall’occhiello di una giacca penzola il distintivo d’oro della Squadra Nazionale, che lo stesso Pozzo aveva regalato ai suoi ragazzi con una raccomandazione: «Tenetelo caro, sacro ché non sono in tanti a poterlo possedere».

Pozzo lavora instancabile, da vecchio Alpino ligio al do vere mette da parte i sentimenti e si concentra sull’eseguire il compito. Ma non è facile, non può essere facile. Non ci sono solo i giocatori ad aver trovato la morte quel giorno: ci sono i dirigenti, gli allenatori, l’equipaggio, i giornalisti al seguito della squadra. C’è tra gli altri Luigi Cavallero de “La Nuova Stampa”, che ha preso quasi all’ultimo il posto proprio di Pozzo, che per quel giornale è la prima firma. Non è facile, non può essere facile. Però Pozzo non si ferma un attimo, procede senza indugi, nonostante il dolore cerchi di

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farsi strada, prova appena un minimo di sollievo nel vedere che quei poveretti con tutta probabilità sono morti sul colpo senza soffrire. Magrissima consolazione.

A interrompere Pozzo è una mano che si poggia sulla sua spalla, una mano grande e tremante. Pozzo si gira e vede un uomo molto più alto di lui, avvolto da un impermeabile e che non trattiene la commozione. È John Hansen, attaccante danese della Juventus che l’anno prima, ai Giochi olimpici di Londra, aveva segnato 4 gol nella vittoria della sua Nazionale contro l’Italia di Pozzo. «Your boys», dice Hansen con un filo di voce rotta dal pianto. E lì Vittorio non si tiene, non può contenersi più. Al danese risponde con uno sguardo triste e allo stesso tempo di ringraziamento, china il capo e si allontana per piangere e sfogare tutto insieme il lacerante dolore che a quel punto esplode.

Quelli erano una parte dei suoi ragazzi e lui per i suoi ragazzi avrebbe fatto di tutto.

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La Nazionale appena laureatasi Campione del Mondo nel 1938.

Tre gol di Angelo Schiavio, due di Adolfo Baloncieri, tre di Elvio Banchero e tre di Mario Magnozzi. Totale undici, abbondantemente sufficienti all’Italia per avere ragione dell’Egitto, che di reti ne segna tre, nella finale per il bronzo ai Giochi olimpici di Amsterdam 1928. È il primo risultato di prestigio della Nazionale, che in semifinale aveva dato filo da torcere alla poderosa Uruguay dominatrice del calcio mondiale degli anni Venti. La squadra azzurra ha un’età media bassa e tanti altri giovani promettenti all’orizzonte, insomma è iniziata un’era che assicura di essere piena di soddisfazioni. Ma ci vuole l’uomo giusto per guidare questa Italia e Augusto Rangone non lo è. Ma come, è colui che ha guidato la squadra al terzo posto olimpico e non è adatto? I giocatori sono legati a lui anche per il suo modo di intendere il calcio, con piena libertà individuale, e non è adatto? No, non lo è. Perché la Nazionale di calcio è una delle più potenti macchine da propaganda che il regime fascista possa utilizzare in campo internazionale e, per guidarla, non può bastare essere un allenatore capace, ci vuole qualcosa di più, ci vuole un uomo possibilmente fascista o

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che almeno ne condivida gli ideali nazionalistici. Per tutto questo Rangone non è adatto, soprattutto agli occhi di chi deve decidere, ovvero il presidente della Federazione Italia na Giuoco Calcio Leandro Arpinati. Che è anche presidente della Federazione Italiana di Atletica Leggera, e pure Podestà di Bologna, e altresì un pezzo grossissimo del Partito Fascista sin dalla prima ora – tanto da essere arrestato più volte nella fase più violenta e sanguinaria dello squadrismo – ma soprattutto è uno dei pochissimi a poter dire al duce Benito Mussolini quello che pensa senza troppi fronzoli e senza timore di ripercussione per la propria carriera. È Arpinati che deve scegliere il nome del Commissario tecnico unico, ché di tornare a una pluralità di nomi a guidare la Nazionale proprio non se ne parla. E il nome ce l’ha, ben fisso in mente: Vittorio Pozzo.

Di professione dirigente dell’ufficio esportazione pneu matici della Pirelli e giornalista calcistico de “La Stampa” e di vari settimanali, amante del football ben oltre il viscerale, il torinese di nascita Pozzo, la cui famiglia è di Ponderano, paese a due passi da Biella, è stato per brevi periodi della sua vita un allenatore, la Nazionale l’ha già diretta ai Giochi olimpici di Stoccolma 1912 e Parigi 1924, ma ha deciso da tempo che quel tipo di attività e il relativo stress non fanno per lui. E quando durante il torneo di Amsterdam Arpinati lo avvicina per offrirgli l’incarico al posto di Rangone, che deve ancora ottenere il bronzo ma è di fatto già esautorato, Pozzo risponde di no. Arpinati insiste, di Pozzo ha una gran stima, gli piace la sua idea di calcio che emerge dagli articoli, ne apprezza i modi schivi e riservati tipici sabaudi. Ma Pozzo insiste da par suo e rifiuta. È in una fase della propria vita in cui non vuole cambiamenti, sta bene così com’è, non è neppure una questione di soldi perché di guadagnarne

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facendo l’allenatore non ne vuole sapere. Si è pure sposato da poco in seconde nozze con Concetta Longo e ha due figli adolescenti da guidare nella vita. E poi, parliamoci chiaro, chi avrebbe voglia di diventare lo zimbello e il bersaglio dei giornalisti e dei consiglieri federali? Il Commissario tecnico quello è e Pozzo lo sa bene, vista la sua militanza dall’altra parte della barricata. No no, grazie ma non se ne parla. Arpinati non è uomo da accettare tanto facilmente un no come risposta, ma di fronte alla fermezza di Pozzo deve ar rendersi e volgere lo sguardo altrove, almeno per il momento. Prima però deve liberarsi di Rangone e l’appiglio arriva da uno scontro, anche piuttosto acceso, sull’utilizzo degli oriundi, ovvero i discendenti degli emigrati italiani all’estero, specialmente in Sudamerica che nella terminologia dell’epoca si chiamano rimpatriati. Per regolamento gli stranieri nel cam pionato italiano non possono giocare e allora fatta la legge tro vato l’inganno, i presidenti pescano a piene mani in Uruguay, Argentina e Brasile tra i figli di coloro che hanno dovuto abbandonare il Bel Paese alla ricerca di fortuna. Il primo oriundo a giocare in maglia azzurra è l’attaccante Julio Libonatti, che ha vinto una Coppa America con l’Argentina prima di essere acquistato dal Torino, dove dà spettacolo insieme ad Adolfo Baloncieri e Gino Rossetti. Libonatti però ad Amsterdam non c’è perché gli ordini dall’alto, leggi Arpinati, sono chiari: ai Giochi si va senza oriundi. Ufficialmente Libo resta a casa perché possono partecipare solo atleti dilettanti e c’è il rischio che venga accusato di professionismo con conseguente squalifica della Fifa, ma appare sin da subito una cosa campata in aria: sì, guadagna bene, ma non è che gli altri azzurri giochino per puro divertimento. Rangone vorrebbe portarlo perché cono sce benissimo il valore del granata, ma Arpinati è inamovibile: gli oriundi in campo con la maglia azzurra ai Giochi non ci

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vanno. Alla fine del torneo il Ct non si trattiene e fa capire benissimo, in privato e in pubblico, che con Libonatti in campo la semifinale con l’Uruguay sarebbe andata diversamente e, dunque, di fatto se non è arrivato un risultato migliore del terzo posto la «colpa» è di Arpinati. È praticamente la presentazione delle proprie dimissioni: con una distanza così netta con il presidente federale impossibile andare avanti. E infatti non si va avanti con Rangone, non più Ct ma comunque an cora nel consiglio federale. Con Pozzo che ha detto di no la scelta per la panchina azzurra cade sul 37enne Carlo Carcano, che è nato a Varese ma che di fatto è un piemontese acquisito. Il suo Alessandria gioca bene, diverte, con pochi mezzi e tanti giovani è una spina nel fianco delle Big. Diventa lui il nuovo Commissario tecnico unico, peraltro rimanendo allenatore dei Grigi e dunque con un doppio impegno molto insolito nella storia del calcio nostrano. Su Carcano girano tante voci e non può essere altrimenti, visto che è omosessuale e il clima nell’Italia fascista degli anni Venti è ben lontano dall’essere tollerante. Ma Arpinati ignora tutto, a dimostrazione di come sia uno che pensa con la testa propria, anche a costo di andare contro l’ideologia dominante, ideologia alla quale peraltro lui ha contribuito, contro i suoi superiori e i suoi pari grado. Il neo Ct rimette Libonatti in squadra, parte anche bene nelle prime quattro partite, poi l’Italia cede male a Vienna con tro l’Austria e pure a Torino contro la Germania nell’aprile del 1929. Ma quanta responsabilità ha davvero Carcano? La domanda non è semplicemente calcistica perché sono tanti i rumors, e Pozzo è uno di quelli fermamente convinto della teoria, che si riferiscono a Carcano come un prestanome più che un allenatore, che parlano di un dirigente della federazio ne non meglio identificato che sceglie la formazione anche in base a questioni geopolitiche (tot bolognesi, tot piemontesi,

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tot lombardi). Quel dirigente potrebbe essere Rangone: a lui Carcano deve tutto, è con lui che ha iniziato la carriera da giocatore, è con lui che ha imparato i rudimenti del ruolo di allenatore, l’ipotesi è credibile. Fatto sta che dopo il k.o. con i tedeschi Arpinati esonera Carcano, che torna all’Alessandria, ma per poco: nell’estate del 1930 la Juventus di Edoardo Agnelli lo sceglierà come allenatore e, con lui, vincerà quattro scudetti di fila prima che diventi impossibile difenderlo dalle maldicenze sui suoi gusti sessuali.

Dunque nell’autunno del 1929 siamo punto e a capo. La Nazionale italiana non ha un allenatore, sono passati mesi senza che venisse nominato qualcuno, chiunque. Ma al contrario di quello che si possa pensare non è indice di mancanza di idee, anzi: l’idea è quella vecchia, il nome è ben chiaro nella testa di Arpinati sin dall’anno prima. Sì, Vittorio Pozzo, ancora lui. Non ci sono alternative, Pozzo sarà il Commissa rio tecnico unico dell’Italia. Non ha la tessera del partito e qualcuno storce il naso, Arpinati non se ne cura e tira dritto, intimamente convinto che sia la scelta migliore, giusta, unica. C’è solo quel piccolo problema legato al convincere il suddetto ad accettare. Il presidente della Figc inizia a tempestare di lettere e telefonate Pozzo per fargli cambiare idea, invitandolo anche a parlare di persona. A rincarare la dose ci sono i telegrammi del segretario della federazione Giuseppe Zanetti, che un giorno sì e l’altro pure scrive a Vittorio sollecitando una risposta, anzi la risposta positiva. Quelli non sono inviti a cui poter dire di no, il ponderanese è costretto a prendere il treno da Milano, una volta terminato di lavorare in ufficio, e arrivare nel capoluogo emiliano per parlare con Arpinati. Una, due, dieci volte. È un pressing estenuante e, ad ogni motivazione di Pozzo, il gerarca controbatte metten do l’interlocutore all’angolo.

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«Non è mia intenzione accettare cariche retribuite.»

«È encomiabile da parte sua: benissimo, può lavorare per noi senza stipendio. Avrà tutta la libertà di manovra che vuole.»

«Ah. Be’, non ho neanche molto tempo da dedicare all’attività che mi viene richiesta.»

«Guardi che è un incarico che non richiede molto tempo.»

«Non so come la prenderebbero in azienda.»

«Per quello non si preoccupi: posso sempre intervenire personalmente.»

“Ecco, allora forse prima che arrivino insistenze dall’alto è meglio parlarci da sé con i dirigenti”, pensa Pozzo. In particolare con Piero Pirelli, figlio del fondatore dell’omonima impresa Giovanni Battista. Piero non è solo un alto dirigente dell’azienda di famiglia: fino al 1928 è stato presidente del Milan e di tasca sua ha fatto costruire l’impianto che ospita i rossoneri, San Siro. È uomo di calcio, dunque, oltre che di mondo e Pozzo sa che, anche per questo, con lui può parlare liberamente. E, da uomo di mondo, Pirelli consiglia al suo dipendente di resistere finché possibile e poi, inevitabilmente, dire di sì. Anche perché «tenga conto che se vogliono possono anche obbligarla ad accettare».

Ma Pozzo è ancora molto restio. Le parole di Piero sono di buon senso, lo riconosce. E di Arpinati si fida a pelle, gli pia ce il suo modo schietto di approcciarsi, sa che la protezione politica e sportiva che gli garantisce non è solo una promessa ma che seguiranno fatti concreti. Ma anche Pozzo è, a 43 anni, uomo di mondo ed è pienamente consapevole che oggi Arpinati è lì al posto di comando, ma domani o dopodomani non è detto che ci sia ancora. A bazzicare in federazione ci sono tanti personaggi abili a muoversi nell’ombra e dietro le quinte, alimentando sospiri e voci a seconda degli interessi personali. Tutta gente che a Pozzo non piace neanche per

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sbaglio e con la quale non vuole avere nuovamente a che fare. Ancorato a questa idea, e sempre con il pensiero fisso che quello del Commissario tecnico sia un ruolo per lo più ingra to, una mattina novembrina Pozzo apre i giornali e legge che la sua candidatura ad allenatore della Nazionale è saltata: non ha capacità reali, c’è stata solo una grande montatura, in giro ci sono tanti mister migliori di lui. Vittorio sorride amaro, ben sapendo che le cose non sono andate così. La sera prima, all’ennesima telefonata, ma questa volta dal segretario Zanet ti, Pozzo aveva ribadito il proprio no. Vabbè, si sapeva che qualcuno stava remando contro, no? Non Zanetti, con cui i rapporti sono buoni. Anche se sente qualcosa di strano dentro di sé, si dice che in fondo è meglio così: almeno è finita la pressione federale per accettare l’incarico. Mai convinzione durò così poco. Mentre il torinese è indaffarato nelle sue cose in ufficio, il telefono suona: è Arpinati, tornato alla carica più grintoso che mai. Non dà a Pozzo nemmeno il tempo di respirare, dice che i giornali li ha letti anche lui e conclude il suo discorso con un perentorio: «Domani le capiterà di leggere sulla stampa la sua accettazione».

E a quel punto Pozzo cede e dice di sì. Ma non c’è solo l’insistenza di Arpinati: è che scatta in lui l’orgoglio, l’amor proprio, per dare uno schiaffo morale a chi voleva bruciarlo, chiunque esso sia stato. Ecco cos’era quel qualcosa di strano che sentiva. E poi sì, parliamoci chiaro: continuare a dire di no a una delle altissime cariche del Partito alla lunga sarebbe stato controproducente oltreché impossibile. La sera dell’8 novembre 1929 Pozzo è nell’ufficio bolognese di Arpinati per definire gli accordi. Niente compensi, piena libertà di an darsene in qualunque momento, nessuna interferenza nelle scelte. E con il lavoro alla Pirelli? Vittorio viaggerà di sabato e domenica notte e i giorni in cui sarà con la Nazionale ver-

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ranno conteggiati come ferie. Arpinati lo asseconda in tutto e per tutto: è troppo importante, nella sua visione, che Pozzo si sieda su quella panchina. E mentre i due discutono, per un attimo, per un solo attimo, a Vittorio balena in mente l’ipotesi che a far scrivere sui giornali quelle frasi che l’avevano pungolato sia stato lo stesso Arpinati nel tentativo, evidentemente riuscito, di solleticare la fierezza del torinese. Sarebbe stata una mossa da abile stratega e il bolognese indubbiamen te lo è. Ma l’ipotesi svanisce subito dalla testa del neo Ct: ammesso e non concesso che sia vero, c’è altro a cui pensare, c’è una Nazionale da costruire e da schierare in campo di lì a pochi giorni contro il Portogallo. Pozzo torna dunque sulla panchina azzurra 17 anni dopo la prima volta e, a differenza di quanto accaduto in passato, questa volta sembra davvero destinato a rimanerci per tanto, tanto tempo.

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«Sai cosa mi sembri quando ti metti a correre? Sì sì, quando fai i 200 e i 400. Sai cosa sembri? Una di quelle macchine che si vedono adesso, quelle senza cavalli. Corri corri corri e poi cos’hai preso? Niente, te lo dico io, neppure un pugno di mosche. Vieni a giocare a football che almeno insegui un pallone.»

Il calcio italiano deve moltissimo alla figura di Giovanni Goccione. Non solo perché è stato uno dei primi giocatori della Juventus, capitano del primo scudetto bianconero nel 1905, ma anche perché è lui a solleticare l’interesse per il giuoco del pallone preso con i piedi in Vittorio Giuseppe Luigi Pozzo, figlio di Luigi Pozzo e Domenica Villa. In realtà il calcio Pozzo lo conosceva già perché in piazza d’Armi a Torino, dove andava per allenarsi nella corsa, si ritrovavano tutti i giovani sportivi della città, chi per fare atletica, chi per fare ginnastica, chi appunto per giocare a calcio. Questi ultimi, veri e propri pionieri, erano visti con un misto di curiosità, indifferenza e incomprensione. Però quella palla che rotola un fascino ce l’aveva e il preadolescente Pozzo non ne era indifferente, tanto che si fermava spesso a guardarle. Poi

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Goccione, di quattro anni più grande dell’amico, dà la spallata decisiva e da lì non si torna indietro.

Come non è un caso che il padre della lingua italiana Dante nella Firenze del XIII secolo nasca e cresca e sviluppi il proprio talento, allo stesso modo è tutt’altro che una coincidenza che il padre del calcio italiano venga fuori dalla Torino di fine Ottocento. L’ex capitale del Regno d’Italia è il luogo fertile dove il football attecchisce. Nel 1887, un anno dopo la nascita di Vittorio avvenuta il 2 marzo, pro prio a Torino ritorna dall’Inghilterra il 23enne ragioniere Edoardo Bosio, che di mestiere fa il commerciante e aveva lavorato per la ditta tessile Thomas & Adams di Nottingham. Quel gioco inventato dai sudditi di Sua Maestà a Bosio è piaciuto tantissimo, ha imparato a praticarlo e nei bagagli per il ritorno a casa ci mette anche dei palloni di cuoio che in Italia sono oggetti pressoché sconosciuti. Di fatto il foot-ball – come si scrive in quegli anni – nel Bel Paese lo porta lui. Il gioco conquista subito amici e colleghi di Bosio che insieme fondano il Torino Football & Cricket Club. Ci vorranno due anni per vedere un altro club a Torino, il Nobili nato per volontà del principe Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi che, prima di esplorare il mondo dal Polo Nord al K2, viene preso dalla febbre del calcio. Nel 1891 Torino Football & Cricket Club e Nobili si fondono creando l’Internazionale Football Club di Torino che, tra i suoi soci e giocatori, annovera anche Herbert Kilpin, il quale sul finire dell’Ottocento si trasferirà a Milano e fonderà il Milan, morendo a 46 anni molto probabilmente a causa del grande consumo d’alcol: si narra, ed è proprio Pozzo che divulga l’aneddoto, che tenga una bottiglia di whisky Black & White in una buca dietro la porta e non certo senza utilizzarla.

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È una fase di totale estemporaneità, di inventiva, di fantasia al potere, una fase nella quale le stramberie non mancano e si escogitano i modi più strampalati per avere ragione degli avversari. Hugo Mützell, un prussiano che vive a Torino, diventa famoso per una strategia odorosa: sugli sviluppi di un calcio d’angolo capita spesso che si batta forte la mano sul ventre, producendo effluvi di chiara provenienza corporea e rendendo l’aria intorno a sé irrespirabile. A quel punto, con compagni e avversari come minimo distratti, Mützell può colpire il pallone indisturbato.

Oltre a Torino anche a Genova, dove abbondano i marinai inglesi, il calcio raggiunge un pubblico più vasto rispetto al resto del Bel Paese. Il giorno dell’Epifania del 1898 è in programma nel capoluogo ligure la sfida tra Genoa e Rappresentanza Torino: non è la prima partita giocata in Italia, ce ne sono state altre, non è neanche la prima volta che due città si scontrano tra di loro. Però è Genova contro Torino, è la prima sfida tra due Big del calcio italiano. Pozzo, che ha 12 anni e nel frattempo è diventato un gran tifoso dell’Fc Torinese, litigando con Goccione da subito accanito fan della Juventus, a Genova vorrebbe andarci ma ha il problema delle spese di viaggio che non sa come coprire. Figuriamoci se c’è la possibilità di chiedere ai genitori una sovvenzione: le finanze della famiglia Pozzo sono buone, ma non certo tali da sperperarle per quell’attività così futile. E allora, insieme ad alcuni amici, Vittorio vende i suoi libri di latino, racimola il denaro necessario e va in treno fino al capoluogo ligure. Al campo sportivo di Ponte Carrega la selezione mista dell’Internazionale Torino e dell’Fc Torinese vince 1-0 con la rete del marchese Gordon Thomas Savage.

Oltre che in piazza d’Armi, le partite di calcio dei giovani torinesi si disputano al giardino della Cittadella, di fronte al

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liceo Cavour che Pozzo sceglie per i suoi studi ginnasiali. Nel campo fatto di ghiaia, dove la palla diventa lucida in poco tempo e dove cadere significa provare dolori fastidiosi, si svi luppano forti rivalità tra i licei cittadini: la sfida tra il Cavour e il D’Azeglio è di fatto l’antesignana dei derby tra Torino e Juventus. Per giocare bisogna contribuire con cinquanta centesimi a cranio per comprare il pallone; poi magari succede che un bambino di nome Attilio e di cognome Fresia sbuchi all’improvviso dagli “spalti”, si impossessi del pallone e, dribblando tutti, ma non per modo di dire, davvero tutti e 22 i giocatori, porti con sé la sfera. Fresia diventerà uno dei talenti più appetiti dalle squadre italiane e non solo, visto che nel 1913 il Reading lo acquisterà, rendendolo il primo italiano a giocare in Inghilterra: durerà poco, qualche mese, giusto il tempo di capire lo scarso feeling con il campionato di Sua Maestà.

Il calcio è già una parte importante nella vita di Pozzo, ma non è ancora amore incondizionato perché il nostro è un ragazzo già con un alto senso del dovere ed è molto pratico: sapendo che con quell’attività ludica non si potrà mai e poi mai guadagnare, preferisce completare gli studi senza minimamente pensare a una carriera footballistica. Completato il liceo, a 18 anni si iscrive prima alla facoltà di Farmacia e, poi l’anno dopo, a quella di Scienze dando in tutto due esa mi; non è evidentemente la sua strada, allora d’accordo con i genitori va all’Accademia Commerciale Internazionale di Zurigo e qui il calcio assume una valenza diversa, inaspettata: siccome c’è la regola per gli studenti di non esprimersi nella lingua madre, giocare a pallone diventa l’unico modo per parlare in italiano senza pagare il franco di multa.

Da Torino intanto arriva a Pozzo la notizia che i suoi amici della Torinese si sono uniti ad alcuni dissidenti del-

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la Juventus e hanno fondato una nuova società, il Football Club Torino. In quella squadra entrano il prussiano Mützell, che nel frattempo ha imparato a rinunciare all’uso delle armi chimiche in campo, e pure il rubapalloni Fresia. A Vittorio i neo dirigenti granata chiedono di informarsi su un paio di giocatori del Grasshoppers, se magari sia possibile portarli in Italia. Pozzo raggiunge sì un accordo con il club biancazzurro ma non per far liberare i suddetti giocatori, che di lasciare Zurigo non ne hanno voglia, bensì per costituire insieme ai suoi compagni accademici la squadra riserve del Grasshop pers. Il calcio resta sempre un hobby domenicale, nulla più, anche perché pure in Svizzera non è che l’organizzazione sia migliore di quella italiana. Quando Pozzo e i suoi compagni si recano a Lutry per un’amichevole, entrando in campo hanno una sorpresa mica da poco: esattamente in mezzo al terreno di gioco campeggiano trionfanti e intoccabili tre al beri di ciliegi. La squadra avversaria è quella di un collegio, il campo è stato ricavato in un parco del collegio, i ciliegi sono proprietà del collegio e quindi i giocatori devono mettersi l’anima in pace.

Nel 1908 Pozzo si diploma all’Accademia. Nei due anni precedenti ha giocato a calcio per hobby, è stato a Parigi e in Baviera, ha perfezionato il francese e il tedesco. È un 22enne di mondo, ma gli manca un pezzo, che in quegli anni è molto importante, pressoché fondamentale: l’Inghilterra, la vera grande potenza di inizio secolo. Destino vuole che Vittorio sbarchi a Londra nel mese di ottobre, ovvero durante il torneo di calcio dei Giochi olimpici. Il White City Stadium, capace di ospitare quasi 70mila persone, ap pare ancora più immenso di quel che è agli occhi di Pozzo, abituato ai campi con gli alberi in mezzo o con le funi a dividere i giocatori dai pochi spettatori. È qui che scatta la

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scintilla definitiva, è qui che il calcio prende pieno possesso nel sangue del giovane torinese, che inizia a frequentare tutti gli stadi londinesi, senza naturalmente dimenticare i suoi doveri lavorativi. Dopo un po’ Londra diventa troppo stretta e può sembrare una bestemmia ma il calcio british in quegli anni è vivo e pimpante soprattutto al Nord: bisognerà aspettare l’Arsenal del 1931, guidata dal rivoluzionario Herbert Chapman, per avere una londinese Campione d’Inghilterra. Meglio andare al Nord allora, dove studiare la lavorazione della lana – così mamma e papà sono contenti –e dove capire meglio come i Maestri giocano a football. Tra Yorkshire e Lancashire Pozzo inizia a diventare un vero e proprio fanatico del calcio. La settimana la passa a lavorare e si annoia terribilmente. Poi arriva il sabato e comincia il divertimento: gira come una trottola alla ricerca di partite da vedere, di giocatori da ammirare, di allenatori da studia re. Prende appunti sulle tecniche, sulle tattiche, sul modo di stare in campo, sulla preparazione, su qualunque sfaccettatura possibile e immaginabile. La famiglia lo richiama in Italia, lui rifiuta perché lì sta troppo bene, il padre gli sospende l’invio dell’assegno, ma questo non destabilizza Pozzo che si guadagna da vivere dando lezioni di lingua alla Berlitz School. Si concede tuttavia di tanto in tanto un ritorno in Patria, ma sempre con il calcio in primo piano: il 13 febbraio 1910 è in campo nel ruolo di interno destro con la maglia del Milan proprietà di Piero Pirelli. Contro il Genoa finisce 1-0, sarà l’unica presenza in rossonero.

In Inghilterra una squadra in particolare cattura il suo cuore ed è il Manchester United, un giocatore in particolare cattura il suo cuore ed è il centromediano e capitano Charlie Roberts. Dopo una partita all’Old Trafford Vittorio si fa co raggio e avvicina il suo idolo.

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«Mister Roberts, Mister Roberts! Mi chiamo Vittorio Pozzo. Non sa quanto ammiri il suo modo di giocare! Mi piacerebbe molto fare quattro chiacchiere con lei a proposito della gara di oggi.»

Roberts accetta, quell’italiano gli ispira simpatia e poi ha due occhi curiosi e vispi che lo attirano. A quella chiacchierata ne succedono altre, nasce un’amicizia e nasce anche in Pozzo l’idea di cosa debba fare un centromediano in campo: lanciare in verticale per gli avanti, soprattutto per le ali, sen za pensarci troppo, non stare lì a cincischiare con il pallone e magari accontentarsi di passarlo al compagno più vicino. Esattamente tutto ciò che fa Roberts.

C’è un altro «incontro» in terra inglese che influenzerà la carriera di Pozzo. Nel suo interesse quasi morboso per lo United finisce per seguirlo in trasferta a Blackburn. Ala de stra per i padroni di casa gioca William Billy Garbutt, ex soldato di artiglieria ed ex Arsenal. Nel tentativo di superare un avversario si procura una profonda lacerazione all’inguine e non deve solo lasciare il campo ma proprio il calcio giocato: siamo nel primo decennio del Novecento, un infortunio del genere significa in automatico appendere le scarpette al chiodo. Pozzo è in prima fila e assiste alla fine della carriera da calciatore di Garbutt, che però allo stesso tempo è di fatto l’inizio di quella da allenatore. Quando l’anno dopo l’infor tunio, nel 1912, si trasferirà a Genova per lavorare al porto, Garbutt verrà contattato dal Genoa per guidare i rossoblù ed è molto probabile che una buona parola l’abbia messa proprio Pozzo. I giocatori per rispetto lo chiameranno Mister Garbutt e da qui prenderà il via l’abitudine solo italiana di definire, appunto, Mister l’allenatore di calcio.

Il matrimonio della sorella Lina richiama Pozzo in Italia ed è la volta buona per i genitori per tenere, praticamente

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con la forza, il 24enne Vittorio a casa. Oddio, casa: ogni occasione è valida per prendere il treno e andare in Svizzera o in Inghilterra, vedere partite di calcio, incontrare vecchi e nuovi amici per lo più legati al gioco. Neanche il matrimonio nel 1911 con la concittadina Caterina Recanzone serve per frenare la sua voglia di girare. Per sostenere economicamente la famiglia, Pozzo trova lavoro in un birrificio e in più collabora con vari giornali, inviando loro i propri reso conti dall’estero, materiale prezioso per gli amanti del gio vane calcio italiano che non hanno la benché minima idea di come funzioni oltre le Alpi. “La Stampa”, quotidiano di Torino, diventa presto la sua casa cartacea di riferimento, a cui affidare i propri pensieri e le proprie idee su cosa fare per migliorare la struttura del calcio nostrano. A un giovane brillante, che conosce le lingue, che ha esperienze fuori dall’Italia, che ama il calcio, la federazione non può non guardare con interesse e, infatti, poco dopo le nozze Poz zo viene nominato segretario federale. Certo, sarebbe bello pensare che sia stato scelto solo per meriti e qualità, ma in realtà non è così: nel gioco di potere che ha riportato la sede federale da Milano a Torino facendo prevalere i voleri dei maggiori club piemontesi a scapito di quelli lombardi, una sorta di Manuale Cencelli ante litteram affida al Football Club Torino la carica, appunto, di segretario federale. E tra coloro che bazzicano il club chi meglio di Pozzo per sobbarcarsi la mole di lavoro che c’è da fare? Vittorio ha spirito di sacrificio e voglia di fare, ma si pente presto di aver accettato: abituato com’è al calcio inglese e alla sua organizzazione quasi impeccabile, si ritrova all’interno di un organismo totalmente senza né capo né coda. E senza neppure una sede, perché l’Automobile Club, dopo aver ospitato qualche riunione, fa capire chiaramente che quegli

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scalmanati dei calciofili è bene che trovino un altro posto dove andare. E dunque Vittorio è costretto a tenere tutti i documenti in casa propria, invadendo le stanze e mettendo a dura prova la pazienza degli altri familiari. No, non si può andare avanti così in quel caos e non è un riferimento solo all’abitazione dei Pozzo. Il calcio italiano è preda dei capricci dei grandi club che fanno e disfano a loro piacimento, è in balia dei compromessi sottobanco. Esempio lampan te la gestione della Nazionale, affidata alle Commissioni Tecniche, ovvero un insieme di personalità diverse tra loro – arbitri, dirigenti, giornalisti ed ex giornalisti – indicate per lo più dai club, con l’obiettivo di selezionare i giocatori e mandarli in campo. Durano un battito di ciglia o poco più, quella che si insedia il 17 marzo 1912 dura pure meno. Umberto Meazza, Alfredo Armano, Harry Goodley, Edoardo Pasteur, Francesco Calì, Giuseppe Servetto, Emi lio Megard e Giannino Camperio si dimettono insieme a tutto il Consiglio Federale alla vigilia della partenza della Nazionale per i Giochi olimpici di Stoccolma, primo torneo internazionale a cui l’Italia viene invitata. Se ne vanno tutti, in polemica con le pressioni dei club lombardi che hanno adesso il vento in poppa e puntano a riportare a Mi lano la sede, almeno fisica, federale. Anche il presidente, il marchese Alfonso Ferrero di Ventimiglia, uno dei fondatori del Nobili Torino nonché della Fiat, rassegna le dimissioni, ma mantiene la carica per il disbrigo degli affari correnti; oltre a lui rimane in carica, sempre con lo stesso compito, Vittorio Pozzo. Il problema grosso sorge quando ci si rende conto che la Nazionale, e la federazione con essa, deve andare a Stoccolma perché è la sede non solo del Torneo olimpico ma anche del primo Congresso Internazionale della Fifa e l’Italia ha fatto tanta fatica a farsi invitare e non

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presentarsi sarebbe proprio una roba da maleducati, oltre che un’occasione persa. Il Marchese deve indicare almeno un selezionatore e non ha di fatto alternative.

«Guardi Pozzo, gliela faccio breve. Andare a Stoccolma bisogna andare, altrimenti viene fuori un uragano. Lei se ne intende di football, parla bene le lingue. Prenda lei il comando, vada, faccia quello che può. Buona fortuna.»

Vittorio Pozzo inizia dunque in questo marasma la sua carriera di allenatore e diventa allo stesso tempo il primo Commissario tecnico unico della storia della Nazionale. A Stoccolma porta la squadra che può portare, nel senso che le convocazioni Pozzo non le fa scegliendo i giocatori che più li aggradano, ma selezionando chi si dichiara disponibile a sobbarcarsi un viaggio prima in treno e poi in piroscafo nel mar Baltico. E mica tutti ci stanno a fare quella sfacchinata! Per esempio il centromediano dell’Inter Virgilio Fossati, che potenzialmente è uno dei pilastri della squadra, resta a casa di sua volontà. Per di più tra quelli che vorrebbero andarci ci sono coloro fermati dal servizio militare e ai quali non viene concessa la licenza. In un modo o nell’altro si arriva a 14 elementi: il nucleo principale è quello della Pro Vercelli Campione d’Italia; in difesa c’è Renzo De Vecchi, che ha 18 anni, ma è già titolare inamovibile del Milan ed è un talento talmente illuminante che i suoi tifosi lo hanno ribattezzato, con poco senso della sobrietà, Figlio di Dio; a giocare da interno destro c’è il 19enne dell’Inter Franco Bontadini, uno con uno spiccato fiuto del gol, ma capace allo stesso tempo di orchestrare la manovra. La squadra non sarebbe nemmeno tanto male se non fosse che non si allena per nulla in vista del torneo perché non ne ha il tempo oltre che la predisposizione, nel senso che il concetto di preparazione è molto vago. Negli altri sport le cose vanno diversamente, ma fino a un certo punto: con

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la squadra viaggia il celebre mezzofondista Emilio Lunghi, la cui tabella di avvicinamento alle gare si conclude la sera pre cedente con un lungo e corposo incontro con una signorina diversa di volta in volta. Morirà 39enne nel 1925 e tutti penseranno alla sifilide o a qualcosa di simile, invece a stroncare Lunghi sarà una setticemia. A Stoccolma neanche Pozzo ha il tempo di allenarsi ad allenare. Dopo un viaggio infinito il gruppo arriva a destinazione il giorno prima dell’esordio con tro la Finlandia, che in una gara arbitrata dall’austriaco Hugo Meisl vince 3-2 al supplementare e relega gli azzurri al torneo di consolazione. Lì una rete di Bontadini permette di battere la Svezia 1-0 prima che l’Austria seppellisca la banda Pozzo sotto un perentorio 5-1. Quel torneo fondamentalmente sottotono rappresenta per il Commissario tecnico un’altra occasione di apprendimento calcistico. Come nel suo periodo in glese Pozzo si interessa di tutto, parla con tutti, osserva tutto, assorbe tutto. Resta in Svezia dopo l’eliminazione definitiva della Nazionale perché deve rappresentare la federazione al Congresso Fifa e con la sua persona l’Italia entra di fatto nel giro della politica calcistica mondiale. Insomma un’esperienza molto positiva e fruttuosa ma che Pozzo sente ancora non pienamente soddisfacente. Tanto che quando ritorna a casa inizia a farsi mandare, pagando discrete somme, giornali spe cializzati da tutta Europa: la sua sete di sapere calcistico non si spegne mai. Vittorio fa anche un’altra cosa quando torna a casa: rimette il mandato da Ct e da segretario perché va bene tutto, va bene l’entusiasmo, va bene l’amore per il football ma quel ruolo lì, peraltro nel contesto di una federazione senza né capo né coda preda continua delle dispute tra poli geografici contrapposti, non fa per lui.

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