CLESSIDRA Collana di saggistica storica diretta da Giancarlo Mazzuca
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Prefazione di Sergio Zavoli
pag. 7
Sangue romagnolo nota autori
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Premessa
pag. 15
Parte Prima - Le strane coppie - Le valli della politica Capitolo primo Da sempre ribelli Capitolo secondo L’alba rossa del Novecento
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Parte Seconda - Mussolini-Bombacci - Il nero e il rosso Capitolo primo Fino alla morte Capitolo secondo I due rivoluzionari Capitolo terzo Il “dux in fieri” Capitolo quarto Il sole dell’avvenire Capitolo quinto Marce su Livorno e Roma Capitolo sesto Mosca-Roma e ritorno Capitolo settimo L’ora della verità Capitolo ottavo Convergenze definitive Capitolo nono Socializzazione utopistica Capitolo decimo Appesi per i piedi
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Parte Terza - Nanni-Arpinati - Fratelli siamesi Capitolo primo Vincoli di sangue Capitolo secondo Salvate il “soldato” Neri Capitolo terzo Squadracce contro
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pag. 40 pag. 46 pag. 61 pag. 69 pag. 79 pag. 91 pag. 103 pag. 115 pag. 129 pag. 138 pag. 143 pag. 145 pag. 153 pag. 158
Capitolo quarto Sangue e schiaffi Capitolo quinto La caduta Capitolo sesto I confinati Capitolo settimo Gli ultimi carbonari Capitolo ottavo La trafila Capitolo nono “Cantos” di Malacappa Capitolo decimo “Io sono Arpinati”
pag. 166 pag. 172 pag. 181 pag. 192 pag. 198 pag. 213 pag. 221
Epilogo
pag. 231
Bibliografia
pag. 235
Ringraziamenti
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A Gabriella e Licia
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Se dovessi porre un distico in capo a questo libro farei ricorso all’inchiesta dal titolo Nascita di una dittatura, traendone quel passaggio in cui Rachele Mussolini – da me lungamente intervistata a Carpena nella vecchia casa di famiglia – con una sincerità e direi persino un certo sprezzo per i grandi poteri, quasi sempre fonte di altrettanto grandi guai, mi disse: «Se Benito avesse accettato di andare in America a fare il giornalista, come gli avevano proposto, sarebbe andata meglio per tutti, anche per lui...». Quella signora, ancora animata da una fresca anzianità – con qualche ruga vicino agli occhi chiari e lucenti, e soprattutto il piglio di una popolana cresciuta non grazie agli onori, ma alla franca, veloce saggezza di una contadina romagnola – aveva in uggia, tra i laudatores del marito, la lunga serie, diceva lei, degli opportunisti e dei voltagabbana, che lusingarono il duce al di là della decenza, ricevendo gradi e prebende, salvo fuggire come tanti sorci quando la barca cominciò a fare acqua e addirittura affondare. Non andò così per tutti e Mussolini resisteva, in genere, alle intemerate della moglie. Dopo il Gran Consiglio del 25 luglio 1943 – che aveva decretato, di fatto, la fine del regime – Rachele dirà al marito: «Li hai fatti almeno arrestare tutti?». E il duce, che sapeva come rabbonirla, rispon-
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derĂ : ÂŤOggi no, lo farò domani!Âť, mentendole come di piĂš non sarebbe stato possibile. Rivado a ciò per dire che questo libro attraversa una temperie tra politica, psicologica e affettiva in cui si richiama un “quartetto romagnoloâ€? degno di una vulgata provinciale che ancora sbocconcella la storia tra vero e inverosimile, seppure tenuta in vita dalle sue per nulla infondate premesse ideologiche e sentimentali, o viceversa. Sta di fatto che quel “sangue romagnoloâ€?, estraneo alle tenere pagine di Edmondo De Amicis, è assimilabile a qualche ridondanza di Alfredo Panzini, sempre in vena di romagnolismo sebbene fosse nato a Senigallia: ÂŤRimanete fedeli alla Romagna, è l’unica terra dove si conserva quel po’ di buono che è rimasto nel mondoÂť. Un primato ovviamente discutibile, con quella vena oratoria che lo scrittore – avvezzo, invece, all’ironia – riservava ai suoi contadini di Bellaria dove aveva ďŹ ssato il proprio radicamento elettivo (“i giorni del sole e del granoâ€?, ricordate?) pretendendo che i villici usassero la cravatta, borghese ďŹ n che si vuole, ma non il ribaldo ďŹ occo alla “Lavallièreâ€?, di origine francese e repubblicana. Ciò premesso, i lettori troveranno in queste pagine una prova originale e riuscita di biograďŹ a, un genere storico non a torto considerato tra i piĂš ardui per il talento e le competenze che richiede: l’attitudine alla penetrazione psicologica, il saper stare in un difďŹ cile equilibrio, sempre a rischio di qualche caduta, tra la freddezza nell’analisi dei fatti e il calore nell’interpre-
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tazione delle persone; infine, la verve narrativa per far rivivere la storia che, come scrive Croce, «non si ripete e non si serba intatta». Quattro biografie – o, se volete, ritratti – tenute insieme da un legame, l’amicizia, che resiste alle durezze non di rado laceranti della vita, fino all’ora del bilancio lasciato a chi sopravvive, che lo valuta secondo i lasciti certi o controversi di chi si congeda. Preso dal racconto, mi sono domandato se, scrivendo di Mussolini, Bombacci, Arpinati e Nanni, gli autori abbiano o no sentito di avventurarsi in un terreno coperto dalla cenere del tempo; che però nasconde, per dirla con Orazio, un tappeto di braci non ancora spente, che basta appena rimuovere per vederle riprendere colore e rianimarsi. Mi è tornato in mente un maestro del genere biografico, André Maurois, autore di due capolavori, le vite di Shelley e Disraeli, per il quale la scelta di un soggetto da “ritrarre” rispondeva quasi sempre a un bisogno non solo intellettuale, ma anche psicologico, in definitiva umano, cioè dettato da una curiosità non complice e tuttavia, in qualche modo, partecipe. È il motivo per cui il racconto diventa non solo interessante, ma anche avvincente, grazie a una narrazione affilata, dirò così, che coinvolge e trattiene il lettore. Lytton Strachey – nel suo celebre Eminenti vittoriani, inclusi i graffianti, ironici e tuttavia emozionanti ritratti di Florence Nightingale, la celebre missionaria laica negli ospedali di Crimea, e del generale Gordon, l’ultimo difensore di Kartum contro i dervisci – rac-
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comanda di «comprimere in poche folgoranti pagine» la complessa varietà dei caratteri personali. Anche in questo volume s’incontra una tecnica impiegata con altrettanta padronanza; come nel tracciare la vicenda di Torquato Nanni, e del suo amico Arpinati, uno dei ras del fascismo, più volte in attrito con Mussolini perché incapace di adulazione o, se si vuole, di duttilità, cui toccarono cinque anni di confino, più altri cinque per il mancato ravvedimento; e il cui nome ancora ricorre nella descrizione dell’intreccio tra le vite di Mussolini e Nicola Bombacci, compagni di scuola, amici, in seguito radicalmente divisi: Bombacci, uno dei fondatori, insieme con Gramsci, Bordiga, Togliatti e Terracini, del Partito comunista, quindi espulso dal partito, infine pronto a riunirsi a Mussolini nell’ultima disperata avventura di Salò, conclusa a Piazzale Loreto. Non aggiungerò altri esempi per non togliere sorprese alla scoperta del lettore; mi premeva, del resto, dare risalto al quadro su cui si collocano i quattro percorsi, collegati tra loro tanto strettamente da far pensare a un unico racconto quadripartito: il quadro è la Romagna, terra dei sempre ribelli, dove Byron, prima dell’eroica morte a Missolungi, si sentì e si disse “carbonaro”. Tutto è tracciato con vigore e cautela. Qualcuno si domanderà come in quest’opera, scritta da romagnoli su altri romagnoli, a parte qualche citazione, manchi Pietro Nenni, lontanamente solidale con Mussolini fino alla comune galera di Forlì, per avere osteggiato la guerra di Libia, e poi divisi en-
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trambi dall’incomunicabile spirito di libertà di quelle due “teste dure”, per dirla con Rachele Mussolini pur sapendole ormai nettamente distinguere. Gli è che il tribuno di Faenza visse fino alla caduta del fascismo, potendo salutare il ritorno della libertà e la nascita della Repubblica; in cui, leader del Psi, parlamentare, uomo di governo e di Stato, vide avverarsi ciò per cui aveva lottato. Quella storia, dunque, non poteva assimilarsi alla tragedia romagnola narrata in queste pagine scritte per rievocare un dramma che coinvolse vari generi di fedeltà, di fuga da se stessi, di ritorni sui propri passi. Tutto nel segno tragico di un fatale, doloroso, insanguinato tramonto. Sergio Zavoli
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Nella nostra carriera abbiamo scritto diversi libri ma, questo, è forse il più caro. È quello che, con un po’ di retorica, potrebbe essere definito il coronamento di una vita. Non vorremmo essere tentati dall’autocelebrazione, ma, dopo quasi cinquant’anni di mestiere assieme e di lavoro gomito a gomito al Resto del Carlino – ci siamo conosciuti, infatti, sul finire dei ruggenti anni Sessanta, quando Giancarlo era un giovane apprendista alla redazione di Forlì e Luciano un giornalista già affermato –, è stato naturale scrivere un libro a quattro mani. E non è un caso che la protagonista principale di quest’opera sia l’amicizia, un’amicizia profonda, che va al di là delle divisioni politiche e degli interessi di parte, che lega quattro uomini, i nostri moschettieri, per tutta un’esistenza (e oltre). Non è neppure un caso che il libro racconti storie vere di Romagna, la nostra terra, la terra dove l’amicizia ha ancora un senso e le passioni restano forti: entrambi siamo, infatti, originari di Santa Sofia. Se Luciano Foglietta ha sempre vissuto nel centro appenninico, la mamma di Giancarlo Mazzuca, Maria Naldini, era nata a Camposonaldo, una frazione di S.Sofia, nel 1916 (due anni prima il Grande Terremoto
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che rase al suolo il paese), ed era lontana parente di Torquato Nanni, l’intellettuale del gruppo al centro di una trama che è degna di un romanzo. Per questi motivi, il nostro lavoro è dedicato alla Romagna e a tutti coloro che ci hanno sopportato per mezzo secolo. Per ora, ovviamente, a Dio piacendo... G.M. e L.F.
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Verso la fine dell’Ottocento, in un fazzoletto della Romagna, un triangolo di appena una ventina di chilometri per lato, diviso a metà tra le terre ex papaline e quelle che avevano fatto capo ai granduchi di Toscana, nascono, nell’arco di tredici anni (18791892), quattro personaggi che hanno avuto un ruolo di primissimo piano nell’Italia della prima metà del Novecento. Un poker dai nomi altisonanti: Benito Mussolini da Predappio, Nicola Bombacci e Leandro Arpinati da Civitella di Romagna, Torquato Nanni da Santa Sofia di Romagna. Quattro personaggi, quattro amici, che, nel bene o nel male, hanno fatto la storia del Paese per mezzo secolo. Su di loro, a cominciare ovviamente dal duce, sono stati scritti fiumi di inchiostro, ma nessun libro li ha finora messi in relazione assieme così strettamente. Eppure le loro vite – che si accavallano e si intrecciano, si allontanano per poi, improvvisamente e incredibilmente, ricongiungersi – hanno la stessa unica matrice. Sono tutti figli di quel socialismo anarcoide che si è imposto in Romagna a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento e che ha pro-
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dotto anche altre figure di spicco, a cominciare dal faentino Pietro Nenni (finito in carcere, a Forlì, con Mussolini, dopo le proteste del 1911, per la spedizione italiana in Libia). I quattro imboccheranno, poi, strade diverse – chi a destra e chi a sinistra, chi fascista e chi socialista rivoluzionario poi comunista, chi fascista poi pentito e chi socialista turatiano – ma si ritroveranno, alla fine, assieme, due a due, strane coppie davvero, nel momento culminante della loro vita. Nel giro di pochi giorni, in quel drammatico e risolutivo aprile del 1945, Mussolini e Bombacci sono giustiziati a Dongo, Arpinati e Nanni (che aveva cercato di fare da scudo a Leandro) a Malacappa. Tutti e quattro muoiono sotto il fuoco dei partigiani. Persino Nanni, che era sempre stato socialista e che, in gioventù, aveva anche rischiato di essere ammazzato dalle “squadracce” fasciste se non fosse intervenuto, in suo soccorso, proprio Arpinati: venti anni dopo Torquato aveva, quindi, cercato di restituire il favore, ma, questa volta, fu la fine per entrambi. Così come era andata male a Bombacci, che aveva fondato nel 1921, a Livorno, il Partito Comunista Italiano, a stretto contatto con Lenin, ed era stato preso di mira dalle camicie nere durante la Marcia su Roma. Nonostante i trascorsi bolscevichi, Nicolino (così Mussolini chiamava confidenzialmente Nicola Bombacci) è finito (ingloriosamente?) a fianco di Mussolini nel momento del declino definitivo del fascismo, con i plumbei e drammatici giorni della Repubblica Sociale di Salò.
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Storie di grandi contrapposizioni, quelle dei nostri protagonisti, storie di confini e di esili, di lotte fratricide, di passioni intense, di duelli sanguinari, ma anche di amicizie durature, al di là delle tensioni, delle rivalità politiche e delle tragedie di quel tempo. Come è possibile che personaggi così importanti siano nati, negli stessi anni, in un fazzoletto di terra? È stata solo un’incredibile coincidenza o lo scenario di quella Romagna, a cavallo tra i due secoli, è risultato determinante nel dare l’imprinting definitivo alla “banda dei quattro”? Insomma, perché mai nelle due valli contigue del Rabbi e del Bidente hanno vissuto, contemporaneamente, personalità che sembrano ricalcare il modello del “superuomo” di Nietzsche? Non è, poi, ancora più singolare il fatto che gli amici-nemici, separati nella vita, si siano ritrovati assieme nella morte? Solo uno scherzo del destino? Sangue romagnolo cercherà di dimostrare due verità. La prima è che Mussolini, Bombacci, Arpinati e Nanni, in quel determinato periodo storico, non potevano nascere in nessuna altra terra al di fuori della Romagna. Come scrive lo stesso Nanni, «per comprendere l’anima romagnola bisognerebbe risalire nei secoli e si desumerebbe una continuità rettilinea nei caratteri della razza. Individualismo, insofferenze di ogni oppressione, profondità di sentimenti, impulsi selvaggi di “primitivi”che non sono stati contaminati dalle lunghe dominazioni nemiche». La seconda verità è che il senso dell’amicizia fa aggio su tutto il resto, soprattutto in Romagna. Sbagliano,
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per esempio, gli storici e i giornalisti che considerano Bombacci un traditore (dei comunisti) tout court. Ancora nel luglio del 2010, il direttore del Tempo, Mario Sechi, parlando del deputato ďŹ niano Fabio Granata, che aveva lasciato Berlusconi per conuire nel nuovo partito di Futuro e LibertĂ , lo ha deďŹ nito “Bombacciâ€?. Non da “comunista a fascistaâ€?, par di capire, ma il contrario: “da fascista a comunistaâ€?. Il motivo dell’errore è semplice: se Ciano e Grandi sono stati considerati traditori dai mussoliniani con qualche ragione, per Bombacci, ritenuto un rinnegato dai “rossiâ€?, il discorso è molto diverso. L’amicizia tra l’Uomo del destino e il collaboratore di Lenin (il quale, detto per inciso, aveva tanta stima del duce da rimproverare ai compagni italiani di essersi fatto scappare Mussolini che Vladimir Iliyc Ulyanov considerava il miglior socialista in servizio) è durata tutta una vita, anche quando le loro strade politiche si sono divise. C’è, a questo proposito, un episodio quasi inedito, che ci ha raccontato, anni fa, Indro Montanelli (con alcune imprecisioni corrette da Annamaria Bombacci, nipote di Nicola) che aiuta a comprendere quale sia la differenza tra “traditoriâ€? e “nemiciâ€? che restano, in realtĂ , amici in fondo al cuore. Una storia, quella narrata da Cilindro, che conferma perfettamente la nostra tesi: si trattava di un legame, il loro, a prova di bomba. Ecco il racconto di Montanelli: siamo negli anni Trenta. Indro fa un po’ di confusione tra Luciano De Feo, suo consigliere culturale e Quin-
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to Navarra, cameriere personale del duce, che poi avrebbe narrato l’episodio allo stesso Montanelli. Il collaboratore era entrato in confidenza con Mussolini perché, così come il capo del fascismo, soffriva (o faceva finta di soffrire) di un’ulcera. Tra loro si era così creata una sorta di complicità sanitaria e, ogni mattina, quando il segretario si recava nella famosa Sala del Mappamondo per la firma della corrispondenza, i due parlavano del decorso della loro malattia: «Stanotte, ho riposato bene, e voi?». Un giorno, l’uomo di fiducia appare particolarmente taciturno e Mussolini gli chiede le ragioni di quello strano comportamento. Il motivo, ammette l’assistente, è proprio Bombacci, il marxista romagnolo, emarginato per motivi politici. La moglie di Nicola aveva, infatti, osato scrivere al duce chiedendogli, in nome dell’antica fratellanza, un’elargizione in denaro per poter curare il figlio che era ingessato per una gravissima forma di scoliosi e doveva sottoporsi a una lunga cura riabilitativa al “Codivilla” di Cortina. L’assistente, credendo, in buona fede, di interpretare il pensiero del capo del governo, aveva spedito immediatamente a Bombacci un assegno di mille lire. A posteriori, conveniva ora, si era trattato di un errore gravissimo perché Starace, segretario del Partito Nazionale Fascista, l’aveva platealmente redarguito e, per punizione, gli aveva stracciato la tessera del partito in mille pezzetti davanti ad altri gerarchi. Quando il collaboratore termina il racconto, Mussolini, rabbuiatosi in volto, lo congeda in
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modo brusco. Passano due giorni e Starace chiama a rapporto il segretario del duce: con un gran sorriso, gli consegna una tessera del PNF nuova di zecca e, con un buffetto sulla guancia, aggiunge ammiccando: «Ci avevi creduto, cretinetti, eeh!». La storiella raccontata da Montanelli forse ci spiega, più di qualsiasi altra considerazione, per quale motivo il comunista Bombacci abbia, poi, voluto morire accanto al fascista Mussolini. Con queste premesse, il libro ha un solo scenario di fondo: “Amarcord Romagna”, cioè le radici romagnole (dalla culla alla tomba) che i quattro capipopolo non recideranno mai.
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3$57( 35,0$
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/( 9$//, '(//$ 32/,7,&$ &$3,72/2 35,02 '$ 6(035( 5,%(//, Già all’inizio dell’Ottocento, George Byron aveva avuto modo di sperimentare, durante il suo lungo soggiorno a Ravenna, il temperamento, il sangue caldo e la passionalità dei romagnoli (e delle romagnole), prodromi di quel successivo terremoto politico con epicentro le valli del Bidente e del Rabbi. Ha scritto il lord inglese: «In Romagna c’è solo qualche assassinio di tanto in tanto perché ognuno ammazza o fa ammazzare chi gli pare e piace, ma questo non commuove nessuno». Parole sacrosante del grande poeta che, di lì a poco, sarebbe andato a morire a Missolungi, per la libertà della Grecia. Quella a sud del Sillaro è sempre stata, in verità, una regione turbolenta ma è, soprattutto, nel XIX secolo che hanno trovato terreno fertile gli scontri politici, le battaglie ideologiche, il dilagare del banditismo (leggi il Passatore e l’episodio dell’assalto al teatro di Forlimpopoli nel racconto del grande “cuciniere” Pellegrino Artusi: la cena è servita!...). Chi, con occhio da esperto di lungo corso (a metà tra sociologia e politica), aveva saputo cogliere in toto i fermenti romagnoli era stato Massimo D’Azeglio, quando ancora era un “semplice” scrittore e pittore piemontese, dedicando all’argomento un intero libro: Gli ultimi casi di Romagna. Secondo il futuro erede di Cavour,
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i presunti “semiselvaggi” romagnoli altro non erano che amanti della libertà, arcistufi dei governi e dei papi (compreso il vescovo di Imola, Giovanni Mastai Ferretti, che dalla Romagna salirà direttamente al soglio pontificio come Pio IX), che consideravano oppressori trincerati dietro un’intransigenza ottusa e nemica. «I casi di Romagna – precisava D’Azeglio – sono un episodio dell’indipendenza italiana, questione che tanto più fervidamente viene agitata nel segreto dei cuori e dei colloqui, quanto più severamente le è vietato palesarsi in liberi discorsi ed in libere dimostrazioni». D’Azeglio aveva vissuto in prima persona quei giorni intensi del 1845. Inviato a Roma, forse dallo stesso Carlo Alberto, il futuro statista raggiunse, a Rimini, quel manipolo di rivoltosi, comandati da Piero Renzi, che aveva assalito una caserma delle truppe papaline e occupato la città. Tra i cospiratori, c’erano personaggi di primo piano come Luigi Carlo Farini di Russi, anch’egli futuro collaboratore di Cavour e presidente del Consiglio, che scriverà il Manifesto di Rimini, un vero e proprio programma del riformismo liberale inviato a tutti i sovrani europei. Ancora nulla di veramente rivoluzionario: si chiedevano solo riforme politiche ed economiche senza intaccare il potere assoluto dei pontefici. Scrive ancora D’Azeglio: «Ma se ho creduto e credo che i suoi autori non abbiano posto mente a quel che v’era d’impossibile, d’intempestivo, perciò d’ingiusto, nella loro impresa, ciò non vuol dire che s’abbiano a tenere per ladri e codardi, come hanno ripetuto i fogli italiani e stranieri; ed ora che sono vinti, ora che sono parte ricacciati in
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esilio, parte chiusi in carcere e sottoposti a giudici, che non dirò prevaricatori, non avendo il diritto d’accusar chicchessia senza chiedere prove, ma che dirò esposti a molte tentazioni di prevaricare, non piaccia a Dio che in tutta Italia non sia chi alzi la voce per la verità, per dirla imparzialmente a vinti e vincitori.»
Osservazioni giuste, quelle di D’Azeglio, anche perché, in tutta la prima metà dell’Ottocento, in Romagna, le proteste nascono e muoiono all’insegna del liberalismo contro la ventata di restaurazione che ha colpito l’Europa dopo la caduta di Napoleone e la pace di Vienna. Non è un caso che il nipote del generale corso, Luigi Napoleone, il futuro Napoleone III, partecipi ai moti di Romagna del 1831 ed è singolare il fatto che, nel 1858, l’attentatore del principe, diventato imperatore, all’uscita dell’Opera di Parigi, sia proprio un romagnolo, l’anarchico Felice Orsini di Meldola. (Nicola Bombacci, altra strana coincidenza, da bambino si era trasferito con la famiglia a Meldola dalla natia Civitella di Romagna, iniziando nella città di Orsini il suo sofferto percorso politico da anarchico-socialista). Nella seconda metà dell’Ottocento, la musica cambia in tutta Europa, Romagna compresa. Già al congresso di Parigi del 1856, dopo la guerra di Crimea, Cavour propone inutilmente – lo scrive Emilio Rosetti (grande ingegnere e giramondo di Forlimpopoli) ne La Romagna (Ulrico Hoepli 1894) – di far cessare l’occupazione militare austriaca negli stati pontifici e di staccare la Romagna, formando una specie di principato vassallo. Un’idea che viene ripresa da Vit25
torio Emanuele II all’inizio del 1859: Pio IX respinge senza indugi la proposta ritenendola «poco degna di un principe cattolico». Ma la situazione è ormai senza ritorno per la Chiesa: la Provvidenza non può nulla contro i rivolgimenti che stanno per esplodere. Già nel 1859 le cosiddette “quattro delegazioni di Romagna” avevano mandato al diavolo i papalini, obbligandoli a trincerarsi nelle Marche. Il Governo provvisorio, guidato da Luigi Carlo Farini, aveva poi proclamato la dittatura di Vittorio Emanuele, incaricando il generale Garibaldi di vigilare sui nuovi confini. L’Eroe dei due mondi amava e conosceva perfettamente la Romagna sin dal 1849, quando, dopo la caduta della Repubblica Romana, si era rifugiato nella libera San Marino trovando poi la salvezza (ma la moglie Anita era morta durante la fuga) oltre l’Appennino con l’aiuto del sacerdote don Giovanni Verità di Modigliana e dei coraggiosi romagnoli che, a rischio delle loro vite, si erano impegnati nella trafila per scortarlo al sicuro. Nel settembre del 1859, si era dunque svolto il plebiscito e la Romagna, assieme all’Emilia, si era unita al Piemonte e al nuovo Regno d’Italia anche se l’annessione, soprattutto per l’opposizione di Napoleone III (sì, proprio lo stesso dei moti del ’31...) venne dichiarata solo l’11-12 marzo 1860 assieme a quella della Toscana. La fine del potere temporale dei papi e la proclamazione del Regno d’Italia non attenuano, anzi aumentano, il forte anticlericalismo che si respira in Romagna
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e che interessa anche quelle zone della fascia montana appartenenti ai granduchi di Toscana. Nella seconda metà dell’Ottocento si moltiplicano, così, giornali e giornaletti “mangiapreti”, come più tardi sarà La Scopa, edito e diretto da Torquato Nanni, che aveva come sottotitolo: “Giornale anticlericale della Romagna appenninica”. Come rileva Lorenzo Bedeschi (che era un sacerdote...) quel giornalismo poteva soddisfare i palati popolari, ma anche quelli più esigenti, e si differenziava da quello dell’ Avanti! che, in quegli anni, si attardava piuttosto sui processi dei cosiddetti preti immorali (una campagna ante-litteram rispetto a quella, a livello mondiale, che è andata in onda, in pieno ventunesimo secolo, contro i preti pedofili). Le crociate anticlericali di tanti capipopolo e, in particolare, di Nanni – chiaramente influenzato dalle idee del suo amico Giuseppe Prezzolini –, erano, dunque, indirizzate contro le gerarchie ecclesiastiche e contro gli squaciarël, i cattolici più bigotti, anche se Torquato e i suoi compagni non erano completamente atei perché, con le dovute eccezioni, non avevano del tutto smarrito i sentimenti religiosi. Per i cattolici romagnoli più intransigenti, la politica era, comunque, diventata un tormento. Veniero Cattani (Rappresaglia, Marsilio 1997) ci racconta di un gustoso episodio che ha, come teatro, proprio Santa Sofia: il giornale di Nanni si era talmente attirato le critiche della Santa Sede che il Vaticano aveva deciso di mandare un visitatore apostolico sull’Appennino tosco-romagnolo. La rela-
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zione dell’ispettore, monsignor Cordella, vescovo di Sovana e di Pitigliano, datata 1909 e pubblicata dalla tipograďŹ a vaticana, è molto dura ma, a leggerla, fa un po’ sorridere perchĂŠ scritta in un latino davvero maccheronico: ÂŤIn paroecia (Santa SoďŹ a) quam maxime oret sodalicium socialistorum et athea ephemeris quae bis quoque mense prodit, cuius lectio ďŹ delibus sub gravi prohibenda estÂť. Insomma, bisognava fare pulizia cominciando, quasi paradossalmente, dalla Scopa di Torquato. Solo con la Rerum novarum di Leone XIII, il mondo cattolico sembra ďŹ nalmente in grado di risvegliarsi, sotto la spinta di don Giovanni Ravaglia e di Eligio Cacciaguerra di Cesena, ma la parentesi sarĂ di breve durata: con lo scioglimento dell’Opera dei Congressi da parte di Pio X e con la successiva condanna del Modernismo, tutto tornerĂ come prima. Di pari passo, con l’anticlericalismo dilagante, era anche cresciuta l’inuenza del socialismo nelle due Romagne (quella toscana e quella ex pontiďŹ cia) ma la diffusione, almeno agli inizi, non era stata altrettanto rapida, perchĂŠ contrastava con gli ideali repubblicani giĂ ben radicati in queste terre. Era, quello, il tempo in cui anche il movimento anarchico, con una forte presenza nelle valli del Rabbi e del Bidente, aveva cominciato ad abbracciare alcune idee socialiste, portate avanti dal partito fondato nel 1892, l’anno della nascita di Leandro Arpinati e del ripristino del sistema elettorale a suffragio uninominale. Al voto di quell’anno, i liberali
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prevalgono ancora in Emilia-Romagna con 26 deputati rispetto ai 13 eletti dall’alleanza di sinistra (radicali, socialisti e repubblicani). Ma già nel 1895 la differenza si attenua: i liberali ottengono 25 deputati mentre la sinistra ne conquista 14 (6 radicali, 6 socialisti e 2 repubblicani). Soltanto nell’ultimo decennio del XIX secolo, grazie alla maggior presa sugli strati popolari delle idee collettivistiche, l’escalation socialista diventa quasi vertiginosa. Via via che si avvicina la fine del secolo, la Romagna accentua i connotati politici tendenti al “rosso” sulla scia dell’espansione a tappe forzate delle nuove organizzazioni operaie e contadine – precisa Luigi Lotti, allievo di Giovanni Spadolini e faentino – e della crescente delusione della popolazione nei confronti dei governi che si avvicendano dall’Unità d’Italia in poi, sia quelli della Destra storica, sia quelli della Sinistra trasformista. Un malessere post-unitario alimentato, come scrive Corrado Stajano, «da una povertà oggi inimmaginabile, tra fame, analfabetismo, malattie – la pellagra, la tubercolosi –, dove la rivolta ebbe realistiche motivazioni». Un disagio che talvolta è capace di rimettere assieme mazziniani-repubblicani e socialisti schierati contro la Chiesa anche dopo la fine del potere temporale dei papi. È il caso dei funerali a Modigliana, il 3 dicembre 1885, di don Giovanni Verità, il sacerdote della trafila garibaldina. Scrive proprio Spadolini in Romagna vicende e protagonisti: «Il funerale si svolse con l’assenza di ogni segno di
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cattolicità, ma con decine di labari democratici, di stendardi massonici, di bandiere repubblicane, di vessilli delle società operaie. Centinaia di camicie rosse intrecciate coi ritratti di Mazzini a prevalente sfondo nero, quasi a ricomporre le polemiche fra i due padri del Risorgimento popolare e democratico». Alla delusione post-unitaria seguono l’irritazione, lo scontento, persino la rivolta. Il prestito nazionale forzoso, la tassa sul macinato, le leggi elettorali antiquate e discriminatorie, la poca libertà amministrativa concessa agli enti locali (c’era già voglia di federalismo fiscale...) e la miseria endemica sono i tanti campanelli d’allarme che Roma non riesce a cogliere. E, soprattutto in Romagna, accade un fatto strano: tanti “reduci” risorgimentali (garibaldini, mazziniani, liberali) cominciano a tingersi di rosso. Le dottrine positiviste avevano fatto presa e gli idoli della gioventù proletaria non erano più Garibaldi e Bixio, ma Carlo Marx e l’anarchico Errico Malatesta. Dapprima erano dilagate le dottrine elaborate dal filosofo francese Proudhon che rifiutava ogni tipo di potere al di sopra dell’individuo, poi quelle divulgate dal tedesco Max Stirner e dal libertario russo Pëtr Kropoktin, l’amico di Bakunin che, assieme a Cafiero, aveva rilanciato, soprattutto in Romagna, le idee anarchiche. Tali idee, ben amalgamate con certi principi del nascente socialismo dell’imolese Andrea Costa, spingono contadini e operai a staccarsi sempre di più dal partito repubblicano e a sposare
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l’estremismo libertario. Le tensioni deflagrano nei fatti di Villa San Michele di Ravenna, dove la battaglia tra due squadre di socialisti e di repubblicani provoca cinque morti, così come sfociano nel processo del “delitto Battistini”, il dirigente socialista cesenate ucciso nel 1891 dal sicario di un manipolo di repubblicani. Riesplode un clima di violenza che è dipinto dai giornali dell’epoca forse in modo esagerato. Il sociologo positivista Guglielmo Ferrero era convinto che la Romagna, a cavallo dei due secoli, fosse una società violenta e affaristica, soprattutto nei rapporti pubblici, dove i ceti si confondevano senza distinzione di classe: «In molti punti la cancrena affaristica ha infettato profondamente il bel corpo della forte e selvaggia Romagna». In questo clima di violenza e di povertà i quattro moschettieri romagnoli muovono i primi passi nella politica.
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