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alberto bucci
alberto bucci
fuori tempo Riflessioni di un coach tra vita e canestri
con Maurizio Marinucci e Andrea Basagni “Perche’ l’uomo e’ fatto di sensazioni, emozioni e debolezze che non e’ possibile sottoporre a un controllo programmatico. Se non riusciamo piu’ ad emozionarci, come facciamo a emozionare i nostri giovani? Se non ci stupiamo piu’ sara’ difficile stupirli, e se i nostri occhi non colgono cio’ che c’e’ di meraviglioso intorno a noi come possiamo meravigliarli?”
fuori tempo
ALBERTO BUCCI è nato a Bologna il 25 maggio 1948. Innamorato del basket, a venticinque anni già allenava in Fortitudo, ma la gloria e i successi sono arrivati anni dopo sull’altra sponda della Città dei Canestri, con la Virtus Bologna. In carriera ha conquistato tre scudetti con la Virtus (quello della Stella, il decimo nella storia della società, nel 1984, quindi nel 1994 e 1995), sfiorandone uno storico con Livorno nel 1989. Ha vinto anche quattro edizioni della Coppa Italia (con la Virtus nell’84 e nel ’97, con Verona nel ’91 e con Pesaro nel ’92), e una Supercoppa Italiana nel 1995, sempre con la Virtus. Ha ottenuto anche tre promozioni in serie A1, con Fabriano, Livorno e Verona. Negli anni recenti ha guidato ai vertici mondiali le Nazionali Master di varie categorie sia maschili che femminili. E’ stato candidato sindaco di Rimini alle elezioni comunali del 2006, ottenendo il 40,2% delle prefere nze.
MINERVA EDIZIONI
Alberto Bucci è un grande maestro di basket, un coach titolato e ammirato, uno che sui parquet ha visto tutto e vinto tanto. Ma è anche molto di più. Come dice l’amico Giorgio Comaschi nella splendida introduzione a questo libro, “…un uomo che ha alzato le vele più difficili contro il vento più difficile molto tempo fa e ha fatto vedere a tutti che credendoci si può, che la testa è più forte di qualsiasi cosa, che se vuoi puoi, o comunque alla fine riesci…” Un uomo “fuori tempo”, non per caso. E queste sue riflessioni a tutto campo, piacevoli e allo stesso tempo profonde, sono anche e soprattutto questo: un “time out” che ci porta fuori dalla storia di Alberto che tutti conosciamo, quella che è stata sotto i riflettori. O meglio, ci porta “intorno” a quella storia. A conoscere attimi, emozioni, gioie, difficoltà di una vita vissuta sempre con la curiosità e l’entusiasmo di un ragazzo. Alberto Bucci, figlio della Bolognina, il quartiere di Bologna che ha visto crescere anche Alfredo Cazzola, che fu suo amico da ragazzo e suo presidente negli anni di gloria della Virtus, ha attraversato mille battaglie con “la testa dura” e l’entusiasmo addosso. Ora, dice, è venuto il tempo di raccontarle. Lo fa in modo originale: in prima persona, ma anche attraverso il ritratto che ne fa Maurizio Marinucci con lo sguardo dell’amico, del discepolo, del fratello minore, e ancora dialogando con un giornalista esperto e sensibile (e anche lui amico di antica data) come Andrea Basagni, da cui esce un ritratto sincero di Alberto, con il suo modo di intendere lo sport e soprattutto la vita. Un uomo che ne ha viste e ne ha vissute tante, sempre con un approccio positivo e costruttivo. E adesso si racconta trasformandole in una storia avvincente e per più di una ragione istruttiva.
alberto bucci
fuori tempo Riflessioni di un coach tra vita e canestri
A mia moglie Rossella. Alle mie figlie Beatrice, Annalisa e Carlotta. Alberto Bucci
Nel mondo sono andato Dal mondo son tornato Sempre vivo ‌ Luciano Ligabue (Ho ancora la forza)
RITRATTI Collana
Alberto bucci Fuori teMPo con Maurizio Marinucci e dialoghi insieme ad Andrea Basagni
Direzione editoriale: Roberto Mugavero Grafica e impaginazione: Ufficio grafico Minerva Edizioni © 2015 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Fotografie di Lodo & Lodi snc © Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. L’editore ringrazia di cuore Marco Tarozzi per aver pensato, curato e coordinato questo importante volume su Alberto Bucci, come pochi sanno fare. ISBN 978-88-7381-758-1
Minerva edizioni
Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com
alberto bucci
fuori tempo Riflessioni di un coach tra vita e canestri
con Maurizio Marinucci e dialoghi insieme ad Andrea Basagni Prefazione Gianni Petrucci Introduzione Giorgio Comaschi
Minerva edizioni
INDICE Prefazione
p. 9
Introduzione
p. 11
Cap. 1 La beffa
p. 13
Cap. 2 Bologna
p. 21
Cap. 3 Rossella
p. 37
Cap. 4 Crescente e Lambrusco
p. 41
Cap. 5 Rimini
p. 47
Cap. 6 Fabriano
p. 51
Cap. 7 La stella
p. 55
Cap. 8 Gli scherzi
p. 67
Cap. 9 Verona
p. 75
Cap. 10 Pesaro
p. 83
Cap. 11 Virtus 2...scudetti
p. 92
Cap. 12 Quante strade nei miei sandali
p. 107
Cap. 13 Parma
p. 129
Cap. 14 Le maxinazionali
p. 133
Cap. 15 Gli amici Totò e Peppino
p. 137
Postfazione
p. 153
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Prefazione
Ad Alberto Bucci sono particolarmente legato perché in comune abbiamo tanti ricordi che si riferiscono al mio primo periodo in Federbasket, quello di Segretario Generale. Arrivai in FIP nel 1978, proprio quando Alberto trentenne si stava affacciando alla grande pallacanestro. Dopo l’esordio con la Fortitudo, andò a Rimini per portare la squadra dalla serie D alla serie A2. Ma me lo ricordo soprattutto a Fabriano dove, con una squadra di A2 centrò la promozione in serie A e l’anno successivo la salvezza. A Fabriano diventò il grande Alberto Bucci del basket italiano. Cosa che non passò inosservata a Basket city. L’anno successivo guidò infatti la mitica Virtus Bologna: fu subito scudetto e Coppa Italia. Me lo ricordo ancora alla guida della Libertas Livorno, e mi vengono in mente le immagini della burrascosa finale scudetto persa con Milano per un canestro realizzato allo scadere. L’invasione di campo, la confusione, la fuga negli spogliatoi con Alberto sempre sereno che accettò il verdetto del campo. L’ho sempre considerato uno dei grandi del basket italiano, e lo dimostrano gli scudetti, le Coppe Italia, le Supercoppe, promozioni e salvezze. Ho avuto modo di incontrarlo di frequente e devo ammettere che parlandoci capisci perché Alberto può stare tranquillamente in panchina su un campo di basket, oppure in cattedra ad insegnare. Gli è stato richiesto di entrare in politica e sebbene neofita ha ottenuto oltre il 40% dei voti
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Alberto Bucci. Fuori tempo
dalla città che ama, Rimini, mentre quale rappresentante degli allenatori di basket si è seduto in Consiglio Federale dove ha suggerito innovazioni sempre interessanti, sfruttando la sua grande esperienza. È un vincente e lo ha dimostrato anche recentemente quando gli è stato richiesto di allenare la nazionale italiana Master. Sei titoli europei e quattro mondiali. Per un grande uomo come Alberto, le battaglie sono sempre dietro l’angolo, ma le affronta sempre con grande determinazione e le vince sempre. Ad majora Alberto e complimenti per questo libro che conserverò tra i miei ricordi più cari.
Gianni Petrucci (Presidente CONI)
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Introduzione
Dunque, diciamolo subito chiaro e tondo: Alberto Bucci è uno di quegli uomini (rari) che è riuscito a tenere i pantaloni corti. E la cosa è assolutamente magica perché in questo modo diventa un tuo amico d’infanzia anche se non lo è stato, un complice di qualsiasi cosa porti a sorridere, un compare di fesserie, cretinerie e pensieri profondi ma sempre con la leggerezza appunto del pantalone corto. Va protetto, Alberto. Come tutti i bambini. Ma proprio per questo credo sia affascinante da conoscere, per tutti. Io e lui ci siamo incuriositi a vicenda quando ci siamo conosciuti e continuiamo a farlo. Alberto. Un uomo che ha alzato le vele più difficili contro il vento più difficile molto tempo fa e ha fatto vedere a tutti che credendoci si può, che la testa è più forte di qualsiasi cosa, che se vuoi puoi, o comunque alla fine riesci. Se tutti volessero fare una cosa come ha fatto Alberto Bucci nella sua vita saremmo messi molto meno male di adesso. Un uomo fuori tempo. Fateci caso, in tutti i sensi. Fuori tempo perché è capace di portarti a ragionare su valori che a prima vista consideri desueti, fuori tempo appunto, ma che invece sono il pane quotidiano dello stare e dell’esserci. Fuori tempo perché il tempo per lui è stato fondamentale, il tempo, i secondi, le frazioni, gli attimi in cui puoi vincere e andare in paradiso o perdere e andare all’inferno. Alberto il tempo l’ha colto. Negli attimi che hanno voluto dire qualcosa. E ha fregato tutti perché ha capito che uno che vince ha vinto, d’accordo, ma uno che ha perso non ha perso. Semplicemente non ha vinto. E questo è fuori tempo
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in un mondo in cui chi ha vinto è un eroe e chi ha perso un brocco da scacciare dal branco. Alberto fuori tempo, nel tempo da scandire. Col suo passo fuori tempo, regalino perfido di una malattia battuta 10 a 0 nella strada della vita, che lo ha esposto alle cattiverie verbali del tifo avversario, ma che lui ha asfaltato con l’entusiasmo, la voglia, la forza, il pantalone corto e, quando ci voleva, anche quello lungo. Ha vinto, ha perso, ha pareggiato ma alla fine chi se ne frega: è andato avanti col muso al vento di chi annusa cosa sta cambiando per cercare di capirlo. Per cui è bello essere fra quelli che conoscono Albertone e che hanno la fortuna di essergli amico. Sedetevi tutti ad ascoltare la sua storia che ormai le storie non le sa raccontare più nessuno. Fate finta che sia il maestrone che avreste sempre voluto a scuola. Quello a cui si vuole bene e col quale a volte anche ci si incazza perché vi ha detto una cosa vera, che non volevate sentirvi dire. Provate. E chissà che a anche voi non venga voglia di capire quanto sia bello saper andare fuori tempo.
Giorgio Comaschi
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CAPITOLO 1 LA BEFFA
Ho visto il passaggio di Fantozzi tagliare il campo e raggiungere con precisione le mani di Forti sotto canestro. Ho visto Forti tirare e segnare appoggiando la palla frettolosamente al tabellone e ho sentito il suono della sirena di fine partita. Non esisteva l’instant replay, né luci sul tabellone in grado di segnalare lo scadere del tempo. Non sapevo se il canestro fosse valido oppure no. Ho visto qualche ceffone volare e dita alzate, ma non ricordo più quali. Ho visto gli arbitri avvicinarsi al tavolo e decretare la vittoria a Livorno. Ho visto Alberto Bucci abbracciato dai suoi giocatori e giornalisti fiondarsi a rubare qualche parola di gioia e di felicità dai protagonisti di quella finale. Ho visto un fiume di persone inondare il parquet e festeggiare la conquista del primo scudetto. Qualche ora dopo tutto questo era solo un sogno. Era il 1989 e Livorno e Milano si giocarono la finale scudetto tra le più discusse di tutta la storia del Basket italiano. Io ero a Pesaro, dove la pallacanestro era ed è una religione e, quell’anno, una monetina ci impedì di vedere la finale nel vecchio hangar. Come tutti i pesaresi, ero incollato alla televisione ipnotizzato da una finale che non sembrava mai terminare. Eppure finì e non ci fu nessuno a Pesaro che trovò giustizia in quel verdetto.
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Non conoscevo Alberto Bucci e già lo ammiravo quando incominciavo a muovere i primi passi da allenatore, ma iniziavo a intuire che nei manuali tecnici che leggevo non avrei trovato le regole che il basket segue. Come direbbe Phil Jackson: «Sul campo il mistero della vita continua a giocare partita dopo partita». Ma questo lo imparai conoscendo Alberto e non l’ho mai più dimenticato. Alberto non sempre parla volentieri di quella vicenda, forse perché tutti insistentemente gli chiedono qualcosa su quanto accadde: però lui è sicuro che quel canestro era buono.
“Dieci mesi, 29 giorni, 23 ore, 59 minti, 59 secondi e 73 centesimi”. Alberto Bucci Appena si seppe che avrei rotto con la Virtus, mi arrivarono sei offerte per allenare altrettante squadre di A1 di alta e media classifica più un club di A2. Dopo aver parlato con il presidente ingegner Boris e i fratelli D’Alesio scelsi subito Livorno in A2: il progetto era consistente e senza dubbio stimolante. Non era una questione di ingaggio, le sfide sono sempre l’elemento che hanno spostato il peso sulla bilancia e a Livorno ce n’erano tante in campo che non potevo tirarmi indietro. Livorno era appena retrocessa - mentre i cugini-rivali della Pallacanestro erano saliti in A1 - e il primo anno vincemmo subito il campionato tornando nella massima serie. Flavio Carera, Alex Fantozzi, Andrea Forti, Alberto Tonut erano un nucleo formidabile, “quattro moschettieri” che rimasero con me per quattro anni.
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Carera era un grande difensore, generoso e in attacco sfruttava l’“uncino” che nella pallacanestro moderna è stato quasi dimenticato. Fantozzi, livornese purosangue, era un grande combattente con una mentalità vincente e un eccezionale istinto tecnico, sicuramente uno dei migliori playmaker italiani. Forti era il “diesel” della squadra, non si fermava mai, dotato di intelligenza cestistica e di un ottimo tiro da tre. Tonut era il bello del gruppo, forse non il “cattivo”, ma in campo aveva fisicità, tiro e duttilità. Trovai come americano Kevin Restani, purtroppo ora scomparso, che si rivelò una persona incredibile, come uomo e come giocatore, tanto è vero che quando smise di giocare, gli proposi di farmi da vice allenatore. L’altro americano era Mark McNamara che dopo tanti anni di Nba faceva basket quasi per hobby. Era diventato famoso anche fuori dallo sport perché in America nel 1983 aveva recitato con Harrison Ford nel film “Il ritorno dello Jedi” ultimo episodio per la saga di “Guerre stellari”. Lui interpretava lo scimmione Chewbecca, ancora me lo ricordo. Una grande squadra, la Cortan Livorno. Gli anni successivi, sponsorizzati prima dalla Boston e poi dall’Enichem, sempre potendo contare su quel nucleo di italiani, costruimmo una formazione di grande personalità che riuscì a fare un campionato capolavoro nell’88-89. Gli stranieri erano Joe Binion e Wendel Alexis. La partita, quella partita, cioè la gara 5 di finale scudetto, straordinariamente incerta dall’inizio alla fine, si era conclusa con la nostra vittoria per un punto grazie a un canestro di Forti in contropiede proprio alla sirena. Il tavolo dette buono il canestro insieme a uno dei due arbitri, Francesco Grotti. Campioni d’Italia! Pubblico in delirio e campo invaso per i festeggiamenti con milioni di italiani davanti alla tv. Poi, dopo almeno una ventina di minuti,
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venimmo a sapere che il primo arbitro, Pasquale Zeppilli, aveva annullato il canestro di Forti e dunque partita e scudetto erano di Milano. Nei giorni a seguire rivedemmo parecchie volte il filmato con quel tiro finale di Forti. Con noi c’era anche il tecnico del cronometro luminoso che segna il tempo. Arrivammo alla conclusione “scientifica”che il canestro era buono per 37 centesimi di secondo e che la macchina segnatempo, per difetto, poteva sbagliare al massimo di 10 centesimi di secondo. Quindi in ogni caso avevamo vinto per 27 centesimi di secondo. Ma c’è di più: la Philips Milano per un errore del segnapunti al tavolo aveva giocato con Albert King per più di 10 minuti gravato di 5 falli. Errore dimostrato dalle sequenze televisive dove si vedono i cinque falli chiamati a King e l’errore del segnapunti nell’assegnare uno di questi falli a un giocatore di Livorno, Pelletti, che aveva lo stesso numero 10 sulla maglia, ma che non era mai entrato in campo. Dunque, un clamoroso errore tecnico e partita da rifare. Il primo ricorso fu giudicato da 5 giudici e finì in parità, 3 contro due ma col voto del presidente che valeva doppio. Quindi ripetizione della votazione, ma i tre che ci avevano dato ragione rifiutarono di tornare a votare essendo stata consumata una evidente quanto clamorosa ingiustizia, archiviata come semplice “errore tecnico”. Sei mesi dopo, attraverso il comune amico Francesco Bernardi di Rimini, l’arbitro Zeppilli chiese di incontrarmi e ci vedemmo tutti a tre a pranzo a Modena. In quella occasione mi giurò sulla memoria del padre appena scomparso, che potendo ripetere quel finale drammatico stavolta, prima di prendere una decisione, avrebbe ascoltato gli ufficiali di campo e il secondo arbitro Grotti, per i quali il canestro di Forti era valido. Il suo errore comunque era stato in as-
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soluta buona fede. Non avevo motivo per non credergli e lo rispettai per l’umanità che mi dimostrò. Quando ancora oggi mi chiedono che cosa ricordo di quell’anno a Livorno rispondo: dieci mesi, ventinove giorni, ventitré ore, cinquantanove minuti, cinquantanove secondi e settantatré centesimi meravigliosi. Ventisette centesimi di secondo non mi possono rovinare quell’anno. Tre cose in particolare mi rimarranno sempre impresse nella memoria. Il calore della gente. Pur sapendo che a fine stagione sarei andato via da Livorno, più di una volta i tifosi riuscirono a farmi commuovere per il tanto affetto che avevano per me. La leadership di Fantozzi. Alla quarta partita di playoff, a Milano, Fantozzi ricevette prima del fischio d’inizio il premio come miglior giocatore dell’anno. Terminato il primo tempo eravamo sotto e proprio Fantozzi, mentre andavamo negli spogliatoi, mi chiese se nell’intervallo poteva parlare ai compagni prima di me. Glielo feci fare e lui prese in mano il premio, una ceramica, e disse: «Se volete sono disposto a spaccarlo. Mi interessa poco. Quello che voglio a tutti i costi – aggiunse - è tornare a giocare la finalissima a Livorno». Il terzo ricordo riguarda, invece, la semifinale scudetto, che giocammo in precedenza contro la Virtus Bologna. In occasione del primo e del secondo incontro con le “V nere” ero stato ricoverato in ospedale per dei calcoli ai reni e alla cistifellea con un inizio di epatite. Stavo davvero male. Vincemmo la prima a Livorno e perdemmo la seconda a Bologna. La partita di Bologna la vidi dal letto in ospedale davanti alla tv e vi risparmio i particolari sulle condizioni. Un vero e proprio inferno. Così decisi che non potevo assolutamente mancare alla terza partita, perché tanto a letto
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sarei stato peggio! Firmai il foglio per assumermi la responsabilità delle dimissioni e chiamai un amico che per me era un fratello, Bruno Lipparini, bolognese come me, ma che diventava tifoso delle squadre che allenavo. Venne in ospedale a Bologna a prendermi e mi portò a Livorno. Nei due giorni prima della finale i miei giocatori venivano attorno al letto, a casa mia, a preparare l’allenamento. I miei assistenti Suggi e Restani mi raccontavano che i ragazzi si allenavano ancora meglio di quando ero in campo io. Per la terza partita, contro tutti i pareri dei medici, volli andare in panchina. Fu un calvario per il dolore e lo stress, ma provai una gioia incredibile per la prestazione straordinaria dei miei ragazzi. Vincemmo di oltre 20 punti, 110-86. E questo fu il regalo più bello per me e per la città di Livorno, la prima finale scudetto! Ancora oggi quando riguardo il filmato di quella vittoria mi commuovo un po’.
è tempo di allenarsi Primo giorno di allenamento a Livorno: la palla è al centro del campo e i giocatori sono divisi nelle due metà campo allineati sulla linea di fondo. «Vediamo chi la prende», dice il coach e dà il via ai giocatori. Uno di questi, dopo qualche metro di sprint, si butta pancia a terra e inizia a scivolare dalla lunetta fino al centro del campo fermandosi solo quando ha arpionato il pallone e, rialzatosi, lo riconsegna al coach. Era Flavio Carera Il Porthos dei quattro moschettieri livornesi, nato a Bergamo nel 1963, centro di 206 cm, 130 partite in nazionale, 670 in serie A e 9 anni con coach Bucci tra Fabriano, Livorno e Bologna.
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Le giacche di Alberto Flavio Carera Alberto aveva un rapporto con Livorno semplicemente straordinario. Ancora oggi la gente lo ama, compresi quelli di provenienza Pallacanestro. Alberto per me è stato importantissimo. Mi consacrò come pivot titolare e, in questo modo, le sue squadre potevano rinunciare a un lungo straniero per prendere un’ala o una guardia. Era molto esigente e chiedeva sempre il massimo a tutti noi, anche in allenamento. Era ed è un fanatico della puntualità e un perfezionista. Per Alberto davamo il massimo, il 100%, e anche lui non si risparmiava certamente. Riusciva a caricarci in maniera incredibile. A Livorno agli allenamenti c’erano sempre almeno 500 persone e questo rappresentava un problema: non era facile riprendere un giocatore che sbagliava davanti a tanta gente. Ma come si poteva lasciarli fuori? Il basket era una festa. Ora invece a Livorno è finito tutto e si vive solo di ricordi. La fusione tra Libertas e Pallacanestro ha stravolto la tradizione e ha ucciso tutto. Non si possono mettere insieme Guelfi e Ghibellini! Con Alberto ho ricordi straordinari. Uno su tutti. Quando eravamo impegnati nella semifinale scudetto contro la Virtus e lui era a letto seriamente ammalato, andammo a casa sua a trovarlo. Ci parlò alla sua maniera e ci dette una carica notevole. Uscimmo sapendo che avremmo vinto! E così fu. Nell’altra semifinale la Philips eliminò la Scavolini grazie alla famosa monetina che aveva colpito Meneghin. Poi la finalissima del 27 maggio ’89 contro Milano, quella di Grotti che ci aveva assegnato il canestro di Forti e lo scudetto e le decisione di Zeppilli che rovesciò il risultato per Milano venti minuti dopo.
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Qual è il primo pensiero che ho parlando di Alberto? Certamente la positività che riesce a trasmettere. È stato così ovunque abbia allenato e infatti ha lasciato ottimi ricordi a Rimini, Fabriano, Bologna, Livorno, Verona, Pesaro. Ma un altro pensiero, stavolta simpatico, riguarda le sue giacche. Forse per scaramanzia o forse perché così fanno i grandi direttori d’orchestra, Alberto entrava in campo qualche minuto dopo la squadra, una volta con la giacca verde, un’altra con la giacca rossa o gialla o azzurra. E sotto, camicie e cravatte non meno sgargianti. Tra i tifosi c’era chi scommetteva con quale colore Bucci si sarebbe presentato, sempre in un tripudio di applausi e di cori tutti per lui. Un grande personaggio!