profili
CRIMINALI
GIACOMO BATTARA FRANCESCO ALTAN
GIALLO A
P RIGI Un difficile caso per il commissario Marten
MINERVA
Per chi mi leggerà Mi chiamo Jean Blanchard. Sono stato per molti anni prima cronista e infine capo della “nera” del quotidiano Petit Parisien. Sono vissuto a cavallo del Novecento e ora che la mia esistenza volge verso il viale del tramonto, vorrei restituire il mio corpo alla terra sapendo che, un giorno, qualcuno leggerà i miei diari. Quella che sto per raccontarvi con questo scritto è una delle numerose vicende che hanno contribuito a formare la mia vita che è stata piena e avventurosa, e che ho avuto l’onore di condividere con il commissario Alain Marten, un investigatore dotato di straordinaria sagacia che ha cambiato il modo di sbrogliare i fili sottili delle intricate ragnatele criminali. Sono stato per molti anni l’unico cronista del Parisien ad utilizzare la scrittura stenografica e ciò mi ha permesso di entrare in alcuni luoghi istituzionali altrimenti inaccessibili e, soprattutto, dopo aver mostrato nel tempo la mia affidabilità, di essere stato spesso chiamato dal commissario Marten affinché stenografassi con precisione gli interrogatori da lui ritenuti particolarmente utili per la ricerca della verità. Il rapporto di collaborazione sempre più stretto con Marten, ha trasformato la nostra relazione professionale in profonda amicizia e i numerosi casi cui ho potuto assistere, mi hanno sempre più avvicinato all’investigazione al punto che io stesso mi sono sentito molte volte più poliziotto che giornalista, diventando addirittura un punto di riferimento a cui Marten ha potuto esporre le sue ardite interpretazioni ma anche un valida “spalla operativa”. Nel narrare questa vicenda criminale che ha scosso l’intera città di Parigi, compreso i suoi altolocati ambienti sociali, e la cui eco si è riverberata sull’intera nazione, ho voluto riportare fedelmente la particolare parabola esistenziale di Christine Dupont dandole così dignità di voce narrante di sé, e questo allo scopo di non cedere nella trappola di una facile e forse anche erronea interpretazione. 5
«L’aspirante saggio non deve fuggire il male, ma abituarsi a guardarlo in faccia per poterlo neutralizzare, restando così immune al suo fascino.» Marco Aurelio
1 1 agosto 1900. Primo racconto di Christine Dupont. Lucien aveva sgranato gli occhi neri e scintillanti come l’acciaio; sembrava che avesse visto un fantasma sbucare all’improvviso e piantarsi nel centro della stanza. Era rimasto paralizzato a causa dell’inattesa visione e, prima di aprire bocca, aveva deglutito un paio di volte come se avesse appena finito di masticare del cibo. Poi, estasiato da ciò che gli stava di fronte, perché non è detto che un fantasma debba essere per forza un essere impalpabile e malefico, mi aveva detto: «Oh Christine che meraviglia che sei con quel vestitino rosso così stretto… Sembri una sirena, ti fascia così tanto che le linee del tuo corpo emergono in tutta la loro sensualità. E quegli stivaletti che ti mettono in evidenza i polpacci muscolosi… Dio mio Christine, che fianchi, che gambe! Ecco ti prenderei al volo proprio qui, adesso, in piedi, come piace a te. Christine, mia cara, insaziabile Christine!» Naturalmente il fantasma ero io, vestita come si conviene per un appuntamento galante che forse poteva darmi alcune ore di piacere e portare qualche vantaggio economico, chissà; soltanto la notte incombente l’avrebbe rivelato. «Su su Lucien, dai, non farmi arrabbiare proprio adesso. Sai che non è il momento e poi, per fare bene le cose che ci piacciono, occorre tempo e adesso non ne ho da dedicarti. Mi aspetta la giovane Eva, quella splendida creatura appena sbocciata alla vita con quel profumo provocante di donna da respirare a pieni 7
Giallo a Parigi
polmoni. Lucien, mi sa che stanotte dovrai arrangiarti da solo. Ciao mio caro!» Lucien era l’uomo con il quale condividevo l’appartamento posto al quinto e penultimo piano di un palazzo un poco malandato, ubicato a metà di Rue de la Montagne-Sainte-Geneviève, nel cuore del “quartiere latino”, a due passi dallo stabile che sarebbe diventato il Musée de la Préfecture de Police. Il progetto era stato annunciato con grande fracasso di fanfara che accompagnava l’abituale coro plaudente di politicanti, prelati d’ogni risma, cortigiani e giornalisti di testate ammiccanti. Ma erano già trascorsi un paio d’anni dall’annuncio trionfante, e il portone d’ingresso era ancora sbarrato; nemmeno uno straccio d’operaio si era visto nei paraggi. Gentile, affabile ed elegante Lucien riusciva ad amare con lo stesso vigore e slancio sia uomini sia femmine, preferibilmente se le creature erano giovani e inesperte; dunque, come gli piaceva ripetere, si nutriva di «carne fresca con un vago sapore di latte!» Attore mancato, gran figlio di buona donna e dotato di ottimo gusto estetico, era particolarmente abile nel catturare le sue giovani prede e senza troppa difficoltà le conduceva fin quassù, in questo appartamento accogliente, con il pavimento ricoperto da tappeti e cuscini colorati sparsi ovunque: sui letti, sulle poltroncine e perfino sul parquet, in quantità impressionante. Per creare l’atmosfera giusta accendeva qualche bastoncino d’incenso profumato, stappava una bottiglia di bordeaux bevibile, come amava dire, e s’impossessava cautamente prima dei loro corpi e poi, un poco alla volta, attraverso frequentazioni sempre più assidue, delle loro menti. Conquistava la fiducia di queste tenere, inesperte creature attraverso baci, abbracci, sesso a profusione e promesse impossibili da mantenere. Alle fine, le sue prede diventavano pupazzi tra le sue delicatissime mani, ubbidienti fino a rasentare il servilismo. Poi, dopo qualche tempo, sparivano come d’incanto chissà per quale destinazione. Provavo pena per loro e un certo disgusto nei confronti di Lucien. Tuttavia io stessa non ero mai intervenuta 8
Un difficile caso per il commissario Marten
per frenare il suo istinto; sono fatti suoi, continuavo a ripetermi scrollandomi vigorosamente le spalle. Qualche volta la mia presenza era ben accetta e finivo per comporre un trio scoppiettante soprattutto se, accanto a me, c’era una giovinetta disinibita, ma anche un maschietto, cui insegnare qualche giochetto erotico. Ma la mia performance si fermava lì, non volevo bermi il loro cervello, non m’interessava. Altre volte, invece, capivo che non era il caso che restassi e me ne andavo alla chetichella, non senza un qualche rimpianto per il mancato godimento. L’appartamento di Lucien che, di fatto, era un lupanare in cui si praticava un erotismo volto a sollecitare il piacere in ogni parte del corpo e in cui il grande assente era il senso del pudore, aveva visto il passaggio di molti giovani che ambivano entrare in una delle numerose compagnie teatrali, possibilmente di un certo livello, che si erano formate negli ultimi anni in città e dedite a mettere in scena commedie spesso molto impegnative, peraltro con risultati soddisfacenti soltanto qualche volta, nei teatri minori che si trovavano prevalentemente sui boulevards della Rive Droite. Eva, la bella fanciulla che dovevo incontrare in quella calda serata d’agosto, forte della sua provocante bellezza e di una voce calda e sensuale, mi aveva confidato che ambiva lavorare in teatro, costasse quel che costasse. La sua determinazione era davvero sorprendente e mi auguravo che fosse così anche a letto, per la nostra reciproca soddisfazione. Naturalmente, avendo a che fare con una personcina che desiderava fare l’attrice, mi ero informata sugli spettacoli che venivano proposti in città e in periferia leggendo prevalentemente e quotidianamente con grande impegno la pagina degli spettacoli de Le Figaro e de le Matin che trovavo regolarmente nel caffè di Roland, un locale abbastanza puzzolente situato a un centinaio di metri da casa, a patto che ci fossi andata prima delle nove perché dopo, come per incanto, i giornali sparivano dal tavolino dove generalmente venivano riposti e di loro non rimaneva alcuna traccia. 9
Giallo a Parigi
Leggendo regolarmente le pagine dedicate agli spettacoli, mi ero fatta un’idea abbastanza precisa del grande fervore culturale che attraversa la città e di quanto fosse in espansione “l’industria del divertimento”, però, francamente, speravo che Eva non mi parlasse di nuovo di André Antoine, il «grande regista», come amava definirlo, e delle sue messe in scena nel Teatro Antoine di Parigi. Dunque anche Eva faceva parte di quell’esercito di giovani provenienti da ogni angolo della Francia, ma non solo, con in tasca il sogno di poter vivere d’arte, ciascuno nella legittima convinzione di possedere un talento impareggiabile. È evidente che a seguito dell’entusiasmo generale che si era sviluppato per le arti in genere e per lo spettacolo in particolare in tutti i suoi generi, Lucien ed io potevamo accogliere tra le nostre insaziabili braccia e bocche tanta meravigliosa gioventù, ma non solo, disposta, come penso d’aver fatto intuire, a darsi decisamente pur di poter calcare il palcoscenico d’un qualsiasi polveroso teatro. E Lucien era, tra l’altro, uno straordinario millantatore… Avevo fatto sesso con Lucien diverse volte e devo dire che quasi sempre, anzi sempre, era stato d’una noia mortale. Tuttavia lo facevo senza pensarci troppo poiché mi sentivo in obbligo nei suoi confronti dato che occupavo la più bella camera che dava su Rue de la Montagne Ste-Geneviève, senza sborsare nemmeno un franco e d’inverno stavo al caldo visto che il mio caro Lucien non sopportava indossare troppa lana. La pigione la pagava a George Martenez, il proprietario, un essere dall’aspetto immondo, preciso come la morte nel comparire ogni sabato mattina, alle dodici precise, e guai a mancare, per «ritirare il malloppo» come diceva lui. Beh, insomma, da questo punto di vista Lucien era davvero splendido e va da sé che qualche lavoretto glielo dovevo pur fare.
10
Un difficile caso per il commissario Marten
2 24 agosto 1900. Secondo racconto di Christine Dupont. Avevo dato appuntamento a Eva intorno alle tre, all’interno del Moulin Rouge, il famoso cabaret, dove era riuscita a infilarsi come ballerina di fila − non saprei dire grazie a chi era entrata a far parte del corpo di ballo, ma di certo immaginavo come. Avevo baciato la fronte di Lucien e me ne ero andata scendendo le scale in modo piuttosto impacciato, visto che il vestitino che indossavo, di certo il più bello che avessi, mi consentiva passi davvero brevi. La mantellina beige di seta che avevo al braccio l’avrei indossata giù, prima di aprire il portone che dava sulla strada. Mi sentivo elettrizzata poiché intuivo che mi attendeva una nottata piena di passione tra le braccia della giovane Eva. Era da poco passata la mezzanotte e la calura umida si era attenuata. Le luci erano fioche e un improvviso alito di vento impertinente mi aveva carezzato il viso arruffandomi i capelli che avevo sistemato con pazienza durante il pomeriggio. Per la verità speravo che quel fresco soffio si incuneasse fra le gambe, fin su e che smorzasse l’eccitazione e il calore che mi avevano pervaso a mano a mano che m’avvicinavo al luogo dell’incontro. Tre ore dopo, minuto più minuto meno, m’aggiravo annoiata nell’affollato giardino del Moulin Rouge, reggendo un calice di champagne che avevo abilmente sottratto a un vecchio, che aveva avuto la malaugurata idea d’appoggiarlo su un tavolinetto ornato di fiori. Eva si stava esibendo insieme alle altre ballerine, ma avevo la maledetta sensazione che non venisse all’appuntamento, che mi lasciasse sola. E invece eccola apparire in tutta la sua provocante sensualità e l’ansia si era un poco affievolita. Indossava una giacchettina blu e una gonna in cotone leggero, dello stesso colore. Le donava molto e appena si era avvicinata mi era parso di notare che sotto la sottana c’era ben poco che la coprisse. Perché? Mi ero chiesta con un po’ d’emozione. 11
Giallo a Parigi
«C’è troppa umidità. Non ho voglia di girare e mi mancano i franchi per andare in qualche localino ad ascoltare della buona musica. Questa notte no, non mi va proprio di girovagare, mi piacerebbe che venissi con me; nella mia stanza staremo più comode, non credi?» Non le avevo risposto, limitandomi a stringerle la mano. Tuttavia, dal suo sorriso soddisfatto, avevo compreso che il mio entusiasmo non era passato inosservato. Quella soluzione era più di quanto avessi sperato. Di solito mi occorreva più tempo per catturare la preda, magari servivano un paio d’inviti a cena che di norma erano ben accetti, e solo dopo il primo bacio, una carezza e un altro bacio… La camera che abitava in Boulevard Saint-Michel era al sesto e ultimo piano di uno stabile ben custodito. Era piccola, accogliente, arredata con gusto e dotata perfino di una piccola toilette. Dalla finestra si poteva ammirare un panorama bellissimo ed ero certa che di giorno avrei potuto vedere le sinuose curve della Senna. Avevo appena distolto lo sguardo dalla vita che lentamente si animava sulla strada e dal cielo trapuntato di stelle che, girandomi, l’avevo vista stesa sul letto nuda, con le braccia aperte e le gambe un poco raccolte e leggermente divaricate. Aveva un corpo statuario e la pelle bianca e liscia come la seta. Il volto radioso come una mattinata di maggio era incorniciato da una folta capigliatura, nera come una notte senza luna. Lentamente mi ero spogliata… Lei mi aveva guardata con un po’ di stupore e, dopo avermi abbracciata, baciata e toccata delicatamente, mi aveva sussurrato: «lo sapevo che serbavi un segreto…» Costance mi aveva travolta. La sua carica erotica era stata senza limiti e spegnere quel fuoco mi era costato uno sforzo inimmaginabile. Pensavo di trovarmi di fronte a una giovane donna inesperta e invece ne sapeva una più del diavolo, al punto che, in certi frangenti, molto particolari, avevo pensato d’avere a che fare con una depravata di primissimo ordine. 12
Un difficile caso per il commissario Marten
All’alba avevo lasciato il nido di Eva e mi ero avviata verso l’appartamento di Lucien, in mezzo a una fastidiosa foschia che proveniva dall’oceano. Per strada avevo incontrato soltanto alcune prostitute, con il corpo sfatto per le troppe battaglie e per il vino tracannato senza limite e, a debita distanza i loro magnaccia, assai giovani, che discutevano con veemenza; probabilmente facevano parte di una delle numerose bande che infestavano la città. Erano tipi loschi, svelti di lama, e quando non erano impegnati in furti o risse erano sempre pronti a menar le mani sui volti di quelle povere donne. Questi sbarbati pronti a tutto venivano chiamati apaches e, devo ammettere, che il solo fatto d’incontrarli, poteva scatenare un sentimento di prostrazione e terrore insieme. Naturalmente la polizia, il più delle volte, non era in grado d’arginare quell’orda di banditi e quindi mi ero vista costretta a portare con me il fedele e affilato serramanico che mi aveva procurato il mio coinquilino. Lucien era molto abile nel maneggio dei coltelli e un infallibile lanciatore. Dove e per quale ragione avesse imparato quest’arte, con sorprendente e fredda precisione, non glielo avevo mai domandato, e lui se ne era guardato bene dal darmi delle spiegazioni. D’altra parte, pur vivendo a stretto contatto, ognuno di noi manteneva una sorta di linea di confine invalicabile e il patto tacito era quello di non varcarla mai, per nessuna ragione. Il pigro incedere di alcune carrozze aveva stimolato la mia fantasia e avevo immaginato che insieme a madame e monsieur, sfiniti da una nottata di sesso e sollazzo, magari sfrenato, trasportassero segreti inenarrabili. Mentre camminavo a passo svelto, avevo fatto scorrere nella mia mente le immagini di Eva e le ore che avevo trascorso con lei. Quando me ne ero andata, dormiva profondamente; guardandola, avrei potuto dire che si trattava di un angelo, se non ne avessi sperimentato le sue perverse performances che mi avevano, a dir poco, annientata. Sì, mi ero detta, la fanciulla poteva aggiungersi a me e Lucien. Certo si trattava di convincere il mio amico, ma sape13
Giallo a Parigi
vo come fare. Il nostro sarebbe stato un trio di primissimo ordine e, sono convinta, capace d’ogni cosa. Un calpestio di passi frettolosi alle mie spalle mi aveva fatto trasalire. Avevo girato la testa di scatto e notato due brutti ceffi dallo sguardo torvo. Nonostante la loro andatura fosse sostenuta, erano rimasti a debita distanza, non avevano guadagnato terreno. Il mio timore era che fossero in attesa del momento opportuno per acciuffarmi e portarmi via quel poco che avevo e chissà che altro. In un attimo, la mia trepidazione si era trasformata in paura e poi in terrore; le gambe avevano iniziato a tremare e un groppo mi impediva quasi di respirare. In modo maldestro, avevo agguantato il serramanico dalla pochette e tentato di aprire la lama sottile e affilata. Ma in quella situazione, quella semplice operazione, ripetuta decine di volte sotto il vigile sguardo di Lucien, mi era sembrata un’impresa titanica. Dovevo fermarmi, bloccare il tremito delle mani, concentrarmi… Non ci sarei mai riuscita in poco tempo e intanto, quelle due brutte facce mi avrebbero raggiunta e chissà che cosa ne sarebbe rimasto di me. Mi ero resa conto che mi trovavo soltanto a poche centinaia di metri da casa. Ero nel mio territorio e conoscevo quasi tutti i garzoni di bottega, i proprietari e anche qualche giovanotto scalmanato, appartenente alla banda stanziale e tutto questo, per un momento, mi aveva rincuorato. La comparsa di Louis era stata una vera benedizione, un’oasi nel deserto. L’avevo chiamato a più non posso una, due, tre volte, fintanto che, udendo il suo nome, si era girato nella direzione giusta e mi era corso incontro, intuendo che non me la stavo passando bene. Mi era passato accanto come un fulmine e si era scagliato con veemenza contro il più corpulento dei due, mentre il compare, impaurito e vile, se l’era data a gambe. La lotta era durata meno di un minuto e Louis era tornato da me con un sorriso trionfante. Mi ero girata e avevo visto l’uomo corpulento steso a terra, stordito e con il volto imbrattato di sangue. Avevo pregato Louis che non infierisse su quel porco. 14
Un difficile caso per il commissario Marten
«Non ne vale la pena e poi sono certa che la lezione se la ricorderà fin che campa. Vedrai che in questo quartiere non verrà più». «Gli ho spaccato il naso a quel bastardo! Quei due non li ho mai visti girare qui attorno», mi aveva risposto Louis soddisfatto. «Ho un bel debito con te!», avevo replicato sospirando. «Sai bene come sdebitarti», mi aveva risposto con un sorrisetto che era tutto un programma. «Certo, certo, lo so…» Louis era stato davvero molto caro perché, oltre ad avermi tirata fuori dai guai, aveva avuto la gentilezza, probabilmente vedendomi ancora molto scossa, d’accompagnarmi fino al portone d’ingresso di casa, aveva atteso che lo aprissi non senza difficoltà e, prima che lo chiudessi per poi arrampicarmi sulle scale, mi aveva salutato con una carezza, sfiorandomi il viso. Ecco, avevo davvero bisogno di sentirmi addosso un gesto d’affetto così semplice e così profondo nel suo significato di cui, povera me, avevo perso il ricordo. L’appartamento era deserto e non avevo neppure la più vaga idea di dove potesse essere andato Lucien e, francamente, la cosa non m’interessava nemmeno tanto, anzi. Appena varcata la soglia, avevo potuto avvertire distintamente il profumo dell’incenso, segno evidente che qualcuno, oltre al mio amico, aveva stazionato nella camera da letto, luogo deputato, sopra ogni altro, a ospitare un rituale che si perpetrava da molto tempo. Mi ero lentamente spogliata, sfiorandomi le parti del corpo che maggiormente erano state sottoposte alle attenzioni, forse un po’ maniacali, di Eva. Nonostante la spossatezza, il sonno ancora non mi aveva abbracciata, mentre un sorriso compiaciuto mi era sfuggito in direzione dello specchio, abbastanza grande da riflettere la metà di me: il busto e il volto segnato, ma in fondo soddisfatto. Guardandomi e pensando a Eva mi ero nuovamente sfiorata… Qualche volta mi era capitato di soffermarmi e indugiare di fronte a quella superficie impietosa, nella vana speranza di scoprire 15
Giallo a Parigi
qualcosa di me che mi piacesse, che mi rendesse orgogliosa. Una ricerca che mai, proprio mai, aveva prodotto un risultato. Dalla finestra avevo visto il cielo incupirsi sempre più e, tutto quel buio, mi aveva intristita. Forse si stava preparando un temporale. Il cigolio della porta mi aveva destato da una specie di immotivato e disperato imbambolamento. Era Lucien che rientrava e chissà che notizie mi avrebbe portato. «Oh, finalmente! Non pensavo che questa notte saresti uscito…», gli avevo detto con un tono di voce che dissimulava il turbamento che avevo provato mentre guardavo lo specchio e poi il cielo. «Uscito, uscito… Ho accompagnato Amélie. Aveva bisogno di un luogo che potesse ospitarla per un paio di notti. L’ho portata al solito posto che conosci anche tu; ecco, è rimasta qui un paio d’ore, sembrava avesse molta fretta… Beh insomma, me ne sono liberato alla svelta. Comunque, alla fine, sarei stato meglio se non fosse venuta». Non avevo voglia di indagare, avevo ancora addosso il profumo di Eva; dopotutto erano affari suoi. Così avevo lasciato perdere e, dopo averlo salutato con un cenno della mano, mi ero ritirata nella mia stanza e mi ero gettata, così com’ero, sul letto nella speranza di sognare e rivivere ogni istante trascorso con quella giovane femmina.
3 Il “ministro della morte” Quella domenica mattina d’agosto me ne stavo seduto a bere l’assenzio in un affollato caffè-concerto del Boulevard des Italiens, il ritrovo più elegante di Parigi, leggendo un quotidiano. In prima pagina c’era la foto della torre Eiffel e del globo celeste, simbolo dell’esposizione universale di Parigi. L’editoriale ironizzava in modo velato sulla fragilità del sistema politico della ville lumière, 16
Un difficile caso per il commissario Marten
sull’“Affare Dreyfus” e sull’auspicabile ritorno in patria del giornalista e scrittore Emil Zola, fuggito in Inghilterra per evitare il carcere. In cronaca c’era un articolo che parlava del ritrovamento di una ballerina del Moulin Rouge rigurgitata dalle acque della Senna. Che strano, avevo pensato, sono un cronista di nera e non ne so nulla; un fatto del genere non può essere sfuggito anche ai miei informatori. Allora non potevo immaginare che quell’episodio avrebbe costituito solo l’inizio di un’incredibile catena di eventi che avrebbero segnato per sempre la mia esistenza. Ero irritato, sicuramente il direttore del Petit Parisien, il giornale per cui lavoravo, mi avrebbe umiliato con una sonora lavata di testa. Dovevo inventarmi qualcosa a tutti i costi. Con un gesto quasi automatico avevo infilato la mano destra nella tasca della giacca di lino, preso la scatoletta di latta con il tabacco e le cartine, rollato per bene una sigaretta e poi l’avevo fumata aspirando avidamente il fumo. Dopo aver spento la cicca della sigaretta contro il palo di ferro di un lampione, avevo inforcato la bicicletta e mi ero spericolatamente destreggiato nel caotico traffico del boulevard, tentando di schivare le numerose fiande di cavallo. Andavo di fretta e speravo che qualche imbecille in divisa non mi fermasse, perché di certo superavo i sedici chilometri orari. E mentre pedalavo avevo sorriso al pensiero che molti medici erano convinti che la bici potesse nuocere alla salute. All’angolo della strada c’erano due donne anziane che, con le loro fumanti marmitte di latta stagnata e le scodelle colorate, vendevano caffè e zuppe. Mi ero infilato in Rue de Richelieu e avevo fortemente rallentato l’andatura per far passare l’omnibus trainato dai cavalli, poi avevo ripreso a pedalare in direzione di Place Palais Royal. Nella piazza c’erano un viavai di carrozze, calessi, autovetture che per farsi strada davano qualche colpo di trombetta, coppie di signore in abito lungo che passeggiavano con l’ombrellino parasole, uomini incravattati che calzavano la caratteristica paglietta e le 17
Giallo a Parigi
balie intente a spingere le loro carrozzine. Davanti al carretto di un venditore ambulante di coco, una bibita a base di acqua, liquirizia e menta, avevo notato alcune giovani madri ben agghindate e i loro figlioli, vestiti alla marinara. Avevo svoltato a sinistra, proseguito e costeggiato la Senna, disgustato dalla puzza di escrementi e dall’odore acre di una ventata di fumo. Avevo imprecato contro le ciminiere a carbone e l’inquinamento che affliggeva la città. Oltrepassato Quai Des Celestins avevo raggiunto il porto omonimo. La melodia di una fisarmonica aveva attirato la mia attenzione. L’istrionico musicista era attorniato da ballerini improvvisati che danzavano per esorcizzare la miseria. In quel momento avevo realizzato che la belle époque era un miraggio di euforia e frivolezze per i poveracci che popolavano i sobborghi della cintura parigina; per strada o nelle baraccopoli, non potevano nemmeno permettersi di sognare. Ma per i benpensanti con il cilindro in testa, le tasche piene di denaro e il cervello perennemente in crociera, loro erano les bohémienes: dei romantici anticonformisti che avevano trovato nell’alcol, nella povertà e nell’arte, uno stile di vita. Era come sostenere che Gesù Cristo fosse morto di freddo. Il porticciolo fluviale sorgeva nell’ansa del fiume. Sulla sommità del terrapieno maestro c’era una fila di alberi, mentre l’argine in golena era lastricato e digradava dolcemente fino al basso fondale, dando modo ai cavalli da tiro di abbeverarsi e ai bambini di bagnarsi fino alle ginocchia. Non molto distante da un cumulo di sabbia di fiume, alcuni operai, con le facce e le braccia brunite stavano scaricando delle botti di vino da una chiatta da trasporto. Più in là avevo incrociato un gruppetto di vagabondi dall’aria poco rassicurante. Avevo ignorato i loro sguardi torvi e avevo ripreso a pedalare, se possibile, con maggior vigore. Finalmente avevo intravisto la persona che stavo cercando. Il suo vero nome era Paul Duval. Tra lui e un armadio non c’era molta differenza. Era sulla quarantina e i suoi occhi sembravano due globi neri sormontati da folte sopracciglia. Aveva la barba ir18
Un difficile caso per il commissario Marten
suta e un naso importante. Portava un cappello a tesa larga che nascondeva i capelli scarmigliati e un grembiule di pelle di vacca che gli sfiorava le galosce. «Buongiorno eccellenza», avevo detto con un tono affettato, fermandomi sottovento perché litigava spesso con l’acqua e il sapone. «Che il diavolo mi porti, il bellimbusto imbrattacarte! Siete a caccia di qualche balla da raccontare sul vostro giornale?», aveva domandato con un tono di voce irriverente e altisonante. «Sto cercando il “ministro della morte”», avevo replicato sussurrando e ammiccando. «Allora siete nel posto giusto, e che Dio mi fulmini se non vi concedo udienza! Ditemi, per quale balzana ragione avete scomodato il vostro bel culetto dorato?» «Dicono che una ballerina sia annegata qui, nella Senna. E mi sono chiesto, vuoi vedere che la padrona del tempo e delle anime è passata senza avvisare il “ministro della morte”?» «Non si muove foglia che sua eccellenza non voglia!», aveva tuonato Duval. «Quella poveretta si chiamava Amélie Bruant, era una brava ragazza e aveva solo ventidue anni. I suoi vecchi vivono in una catapecchia, nel villaggio di Montmartre, famiglia povera e numerosa; gente perbene, s’intende! Non come quei culetti infarinati di borotalco dei quartieri alti», aveva aggiunto ridacchiando. «Si è tolta la vita come dicono?», avevo domandato. «Chi vi ha scodellato questa panzana, quel beone scansafatiche del commissario Ravel?», aveva chiesto dondolandosi sulle gambe e gonfiando il petto come un tacchino. «Bella imitazione», avevo esclamato. «No, e voi sapete bene che per lui sono peggio di un foruncolo sulle natiche». «Quell’incapace non capirebbe la differenza tra un coniglio e un somaro, figuriamoci distinguere quella tra un annegato e un morto accoppato! Non ditemi che voi ne eravate all’oscuro?», aveva chiesto con aria sorniona. 19
Giallo a Parigi
«Certo che no», avevo replicato per non perdere la faccia. «E voi come fate a saperlo?» «No, dico, avete scordato con chi state parlando? Mi trovavo da quelle parti proprio quando il fiume l’ha restituita alla terra. Non era la prima persona annegata che vedevo, anzi; eppure la povera Amélie non aveva la solita schiuma sulla bocca e sul naso». Non ero un novellino, di morti affogati ne avevo visti tanti anch’io, dunque la sua osservazione non era fuori luogo. L’avevo mentalmente annotata e mi ero riproposto di approfondire l’argomento. Duval mi aveva fissato negli occhi con aria sconsolata. «Sto ancora aspettando il trinciato per pipa che mi avete promesso giorni fa! Non so se mi sono spiegato…» , aveva puntualizzato. «Le andrebbe di provare il Golden Virginia?» «Quella è Roba per il palatino fino dei signorini dell’alta borghesia, non credo faccia al caso mio», aveva commentato con aria sorniona, allungando il braccio destro e inchinandosi come un consumato attore di teatro. «Non ha l’inconfondibile aroma di letame essiccato del trinciato che fumate voi, ma vi assicuro che è di prima qualità», avevo replicato svuotando la scatoletta nella sua manona a cucchiaio. Dapprima Paul si era rabbuiato, poi le rughe della sua fronte si erano distese e un luccichio gli aveva attraversato gli occhi come un lampo. Da buon funambolo si teneva in bilico fra la dignità e la gratitudine, senza esporsi troppo. Mi ero asciugato la fronte imperlata di sudore con il fazzoletto, avevo salutato l’informatore e inforcato nuovamente la mia due ruote. Mentre procedevo speditamente verso la Île de la Cité, diretto in Prefettura, avevo seriamente meditato sulla deduzione di Duval e fantasticato sull’effetto che, una notizia come quella, se confermata, avrebbe avuto sulle tirature del giornale per cui scrivevo e sull’umore del direttore. Altro che ramanzina, magari ci scappava una promozione! 20
Un difficile caso per il commissario Marten
4 Alain Marten e Claire Marat Poco prima delle undici, un agente con la faccia da topo, di guardia all’ingresso della Prefettura, mi aveva accompagnato nella sede della polizia criminale. Nell’ufficio del commissario dominavano le tinte sobrie: dall’alto soffitto dipinto di bianco fino ai muri tinta avorio. Sulle pareti erano appoggiate due grandi scaffalature in mogano, colme di volumi ben rilegati che lasciavano trasparire la sua passione per l’antropologia criminale e le scienze. In fondo alla stanza, illuminata da un’ampia finestra, c’era una scrivania anch’essa di mogano e accanto la bandiera francese. Sulla sedia, dietro alla scrivania, c’era il mio amico Alain Marten, un investigatore acuto, brillante e mago dei travestimenti. Veniva dalla miseria del Maquis de Montmartre e, fino a diciassette anni, si era distinto come ladruncolo e truffatore. Per raddrizzarlo suo padre lo aveva spedito nella legione straniera. Era tornato cinque anni dopo, con il grado di sergente e la “Legion d’Onore” appuntata sul petto. Insomma era uno dei pochi sbirri che stimavo. Era a capo di una brigata di uomini e donne che aveva scelto personalmente e molti di loro avevano un passato da furfanti. Aveva faticato a lungo per formarli, insegnando loro a infiltrarsi fra i criminali, cambiando aspetto, alterando la voce e travestendosi alla bisogna. Appena mi aveva visto aveva chiuso il libro che stava leggendo, si era alzato, mi aveva salutato con un’energica stretta di mano e fatto accomodare in una delle due poltrone poste dinanzi alla sua scrivania; dopotutto, oltre che suo amico, ero anche il fotografo che documentava ufficialmente le sue indagini. Ovviamente avevo l’esclusiva su ogni caso. Le uniche condizioni erano che pubblicassi gli articoli solo se autorizzato e che mantenessi il segreto su ciò che non poteva essere divulgato. A conti fatti era un accordo vantaggioso per entrambe le parti: per la Prefettura che per il mio 21
Giallo a Parigi
lavoro e il materiale di consumo, non sborsava un centesimo e per il Petit Parisien che beneficiava di maggiori introiti e del prestigio nel poter disporre di notizie di prima mano. Ovviamente, ciò non era molto in linea con la libertà di stampa e l’etica della polizia. «Che cosa sta leggendo?», avevo chiesto notando che era ancora soprappensiero. «L’edizione in francese del manuale per giudici, poliziotti e avvocati del giurista Hans Gross». La maggioranza dei piedipiatti di Parigi che conoscevo erano demotivati, misantropi, ignoranti, assenteisti o attaccati alla bottiglia, ma Alain Marten era una continua sorpresa. «A parte lei, quanti poliziotti l’hanno letto?», avevo domandato incuriosito. «Non ne ho la più pallida idea», aveva risposto alzando le spalle. «Suppongo che la loro cultura professionale non vada oltre La Guida Pratica di Polizia, messa a disposizione dalla Prefettura, ammesso che l’abbiano sfogliata», aveva rilevato con una punta di amarezza. Visto che eravamo soli e che la porta del suo ufficio era chiusa, avevo approfittato dell’argomento per confidargli le mie perplessità sull’annegamento della ballerina del Moulin Rouge e sulle indagini condotte dal commissario Ravel. Il mio amico Alain Marten conosceva bene i metodi del suo collega. Aveva riflettuto un paio di minuti e indossando la giacca aveva detto: «Prenda l’attrezzatura fotografica». «Dobbiamo andare da qualche parte?» «Mi sembra ovvio. Ah, per il momento questa storia scotta, intesi? Se Ravel venisse a sapere che sto indagando su un suo caso, m’impallinerebbe il culo!» «Conti pure sulla mia discrezione». Due minuti dopo, eravamo entrambi sul tram way, diretti all’obitorio. L’ospedale Saint Louis era un luogo che metteva tristezza. Avevamo varcato la porta che dava nel seminterrato e attraversato un 22
Un difficile caso per il commissario Marten
corridoio con il pavimento e le pareti rivestite da piastrelle bianche. In fondo, oltre la doppia porta, c’era il reparto di anatomia patologica. Appena entrati, avevamo pensato bene di toccarci il cavallo dei pantaloni, per ogni evenienza… Oltre all’odore di disinfettante, aleggiava un’inconsueta fragranza di patchouli. Ci avevo messo un po’ per collegarla a un corpo flessuoso con un casco di capelli rossi acciambellati sulla sommità, due occhi grandi e verdi, un viso di porcellana e le labbra umettate di rossetto. L’unica nota stonata era il lungo camice bianco abbottonato sul davanti che la faceva assomigliare a un pinguino albino. «Caro signor Blanchard», aveva detto il mio amico dandomi una pacca sulla spalla, «le presento la dottoressa Claire Marat». «Sono incantato», avevo sussurrato mentre le baciavo la mano. La dottoressa aveva ricambiato la galanteria con un sorriso. «Lei non lo sapeva vero?, c’è l’ha proprio scritto in faccia». «Cosa?», avevo chiesto imbarazzato, pensando che avesse intuito il mio desiderio di potarmela a letto. «Guardi che è da più di trent’anni che noi donne possiamo laurearci in medicina; eppure lei sembra sorpreso, come se fossi fuori posto», aveva puntualizzato con un tono di voce all’apparenza risentita. Non sapevo come ribattere e mi ero limitato a lisciarmi i baffi. Era evidente che avevo accusato il colpo e dunque avevo semplicemente accennato a un sì muovendo la testa. «Vede signor Blanchard, la classe medica è ancora una baronia per soli uomini, e spesso il destino di noi donne è di finire nei posti peggiori». «Anche se il medico è una donna che non passa inosservata?», aveva puntualizzato quello sciupa femmine del commissario. «Mi ascolti bene, per arrivare dove sono, ho dovuto spaccarmi la schiena sui libri ed essere la più brava in tutto. Non potevo accontentarmi del secondo posto sul podio, sono stata chiara? Non nego che, in generale, la bellezza costituisca un vantaggio. Fortunata23
Giallo a Parigi
mente sono altri i criteri per valutare le qualità di un buon medico e sono convinta che, in futuro, noi donne saremo in grado di superare i colleghi maschi; prenda ad esempio madame Curie, che ha scoperto il radium insieme al marito. Mi dica commissario, se fosse ferito gravemente e si trovasse in un ospedale gestito da donne a chi affiderebbe la sua vita: a una dottoressa bruttina e brava o a una con la vita stretta, un vistoso décolleté ma mediocre?», aveva rilanciato la dottoressa come un giocatore che studia l’avversario. «A entrambe!», aveva risposto Alain Marten con la faccia di bronzo e un gran sorriso. «Per quale motivo?», aveva domandato lei con il volto accigliato, anche se gli occhi sorridenti tradivano il fatto che la schermaglia con il commissario la stava divertendo. «Perché quella intelligente si prenderebbe cura del corpo, e l’altra degli occhi». «Non mi pare che qualcuno abbia parlato di ferite agli occhi, o sbaglio?» Mi ero reso conto della stupidità della mia domanda, solamente dopo aver visto ridere i miei interlocutori. Così avevo intascato la seconda figuraccia da sciocco della giornata. Alain Marten era venuto in mio soccorso togliendomi dall’impiccio e riportando l’attenzione sulla dottoressa Marat. «Beh, se fossi il direttore di questa clinica, non avrei alcun dubbio su quale ruolo assegnarle». «Commissario, tenga per sé le sue velate allusioni!», aveva tuonato la dottoressa. «Perché dovrei, visto che mi riferivo alla pediatria», aveva replicato Marten con aria innocente. Se c’era una virtù che più di ogni altra riconoscevo al mio amico, era che sapeva mantenere una calma olimpica in qualsiasi situazione. «Signori ora che ci conosciamo meglio», aveva ironizzato Claire Marat «posso sapere per quale motivo siete qui?» «Dottoressa sarebbe possibile vedere la salma di Amélie Bruant?», aveva chiesto serio il commissario Marten. 24
Un difficile caso per il commissario Marten
Il medico legale si era allontanato ed era ritornato dopo qualche minuto spingendo una barella coperta da un lenzuolo bianco e gentilmente aveva detto: «Posso scoprire il cadavere?» «Proceda pure… Ah, potrebbe dirmi gentilmente l’ora del decesso?» La dottoressa Marat aveva preso una cartellina da un cassetto. «Stando al certificato ufficiale è morta per annegamento questa notte, fra le tre e le sette. Posso sapere che cosa state cercando?» Marten era rimasto in silenzio, aveva abbassato la testa sul corpo gelido di Amélie, le aveva scostato la ciocca di capelli biondi dagli occhi e dato inizio all’esame esterno. Le sue dita si muovevano rapide qua e là, tastando e premendo. I suoi occhi azzurri sondavano ogni centimetro, dalla testa ai piedi, indugiando più a lungo sulla nuca, sul collo, sulle braccia e sulle mani. Infine aveva fiutato le labbra e controllato le unghie. «Signor Blanchard, prenda il suo apparecchio fotografico». «Agli ordini capo». All’epoca utilizzavo una fotocamera portatile, “Le Cyclist de Mazo”, che trasportavo in una comoda valigetta insieme alle lastre fotografiche, ricoperte da gelatina d’argento. Rapidamente l’avevo montata sul treppiede, armeggiato sul soffietto e sull’obiettivo, messo a fuoco e iniziato a scattare, inquadrando prima il cadavere e poi i particolari anatomici che l’amico commissario mi indicava. I tempi di posa erano piuttosto lunghi, ma i risultati veramente soddisfacenti. A lavoro finito, il mio amico si era rivolto alla dottoressa Marat: «se non ha nulla in contrario, vorrei che ispezionasse l’interno della bocca, le narici, il collo, il cuoio capelluto e le parti intime: per verificare la presenza del fungo schiumoso, di eventuali lesioni da soffocamento, da corpo contundente o di uno stupro. Ah, forse l’osso ioide è rotto», aveva precisato indicando un’ecchimosi sulla gola. A quel punto Claire Marat aveva sgranato gli occhi: era insolito che un poliziotto fosse così erudito, che sapesse cos’era il fungo schiumoso degli annegati o conoscesse il nome dell’ossicino 25
Giallo a Parigi
posto alla radice della lingua. «Potrebbe trattarsi di un trauma anteriore del collo, dovuto a una caduta accidentale avvenuta prima o durante l’annegamento; infatti, sul referto di morte, il medico legale ha scritto che potrebbe aver urtato contro un ostacolo naturale». «Ma anche no!», aveva eccepito sicuro Alain Marten. «La frattura potrebbe essere dovuta a un pugno, a un colpo vibrato con un bastone, all’impiccagione, allo strozzamento oppure… Osservi bene il collo, quello non è forse un solco da strangolamento? Scommetto la paga di un mese che non c’è acqua nei polmoni e che non c’è la tipica diluizione con aumento di volume del sangue, dovuto all’acqua dolce assorbita dai polmoni». In un attimo il viso di Claire Marat aveva assunto un colorito paonazzo. Era come una locomotiva a vapore in procinto di esplodere. Ma chi si crede di essere questo sgherro spocchioso, aveva pensato di sicuro. Temendo che l’incontro professionale si trasformasse in un litigio tra galletti avevo tentato di raffreddare gli animi. «Dottoressa perdoni la mancanza di tatto del mio amico…» «Signor Blanchard, stia zitto! E lei commissario come osa contraddirmi? », aveva sbottato con le labbra tremanti. Claire Marat sapeva che quello screanzato poteva avere ragione, ma si sarebbe fatta tagliare la lingua piuttosto che ammetterlo. «Comunque per fugare ogni dubbio eseguirò l’esame autoptico», aveva concluso stizzita. «Ovviamente dovrò assistere e il signor Blanchard farà qualche foto per documentare il nuovo corso dell’indagine», aveva puntualizzato Alain Marten, come se lo scatto d’ira del medico legale non lo avesse sfiorato minimamente. «Lei sa che cosa mi sta chiedendo di fare? Ha una vaga idea di quanto potrebbe costarmi?», aveva replicato la dottoressa. Il mio amico aveva lasciato che le parole di Claire Marat gli scivolassero addosso come gocce di pioggia sulla cerata di un mari26
Un difficile caso per il commissario Marten
naio. «Chi è il luminare che ha certificato l’affogamento di questa sventurata?», aveva chiesto deciso. «Il dottor Vernier, primario di questo reparto, credo». «Allora non si preoccupi non le accadrà nulla. Parlerò con lui e lo farò riflettere». Stavamo per andarcene, quando la dottoressa ci aveva fermato con un gesto appena accennato della mano: «Commissario, se non sono indiscreta, c’è una cosa che vorrei sapere…». «Dica pure», aveva risposto Marten con il suo solito sorriso stampato sulle labbra. «Ha dato qualche esame di medicina?» «Non ho fatto l’università, ma ho avuto l’onore di assistere ad alcune lezioni di medicina legale del grande Lacassagne». Confesso che ero rimasto molto sorpreso da quella risposta, segno che conoscevo poco il mio amico; un motivo in più per scavare nel suo passato.
5 Al Moulin Rouge L’ora di pranzo era passata da un pezzo e, per dirla tutta, il mio lavoro e quello del mio amico Alain Marten mal si conciliavano con i pasti regolari, perciò mi aveva trascinato all’interno di un bistrò e ordinato spezzatino di montone, pane e un boccale di vino. Alle quattro ci eravamo incamminati verso la fermata del tram way. Eravamo diretti a Montmartre, perché il mio amico commissario voleva parlare con il responsabile del Moulin Rouge, ma prima dovevamo passare in Prefettura per dare un’occhiata al fascicolo di Alfred Souris, il direttore del locale. Fino a quel momento non avevo fatto caso all’abbigliamento di Marten: un leggero blazer doppiopetto blu da lupo di mare, camicia bianca, pantaloni beige 27
Giallo a Parigi
e un paio di stivaletti neri, allacciati. Quello stravagante modo di vestire non era di moda, ma gli conferiva un certo fascino, d’altronde era un tipo originale. Nella piazza Bianca c’erano un andirivieni di carrozze e qualche automobile. La fermata del tram way brulicava di persone e i caffè avevano le tende parasole abbassate. Sulla sommità di un palazzo c’era un grande cartello che pubblicizzava la marca di un sapone e di una grappa di vinaccia, mentre, di fronte a me, c’erano la struttura cilindrica con il tetto a cono e le pale eoliche del Moulin Rouge. Varcato l’ingresso, c’erano i giardini, dove s’inscenavano gli spettacoli all’aperto. Ciò che aveva attirato la mia attenzione, oltre alle splendide affiches realizzate da Toulose-Lautrec e all’enorme pista da ballo, era un gigantesco elefante finto. Per la verità anche le gallerie avevano un impatto notevole, forse per gli arredi lussuosi, la sovrabbondanza di specchi, le sculture e i mobili sfarzosi. Il direttore Souris era un tizio piccoletto, elegante e smilzo, con tanto di baffi impomatati, il pizzetto appuntito e gli occhi da furetto. Si pavoneggiava e parlava ostentando un marcato rotacismo. «Illustre commissario, signor Blanchard, a cosa devo l’onore?», aveva esordito dopo essersi presentato con una stretta di mano a pesce lesso. «Vorremmo parlare con lei di Amélie Bruant», aveva risposto il mio amico Alain Marten. «Oh, che tragedia!», aveva detto portandosi le mani al volto. «Era una così brava ragazza vero?» «Pare proprio di sì», avevamo risposto all’unisono. «Come “pare”?! Mi state forse dicendo che non si è trattato di una disgrazia?», aveva esclamato Souris con la bocca aperta e gli occhi spalancati. Il commissario Marten allora aveva assunto un’aria solenne. «Per il momento non ci sono elementi che escludano il suicidio», aveva affermato mentendo, «però, siccome la signorina Bruant non ha 28
Un difficile caso per il commissario Marten
lasciato nessuna lettera d’addio alla famiglia, è mio dovere accertare il motivo che l’ha spinta a compiere un gesto così estremo. Non le sembra?» Il direttore aveva accolto le parole del commissario con un gesto di approvazione. «Ora signori, volete essere così gentili da seguirmi nel mio ufficio?», aveva domandato con un tono servile. Entrambi avevamo annuito con un gesto del capo. Souris ci aveva accompagnati lungo il corridoio scodinzolando e ci aveva fatto accomodare nelle poltrone, mentre lui si era seduto dietro a una pomposa scrivania stile impero. «Gradite un cognac o un sigaro?», aveva detto aprendo una scatola in radica di noce. Di fronte a tanta cortesia mi era sembrato altrettanto cortese accettare l’offerta e dunque avevo preso un grosso “cubano”, lo avevo annusato, arroventato il “piede” con uno zolfanello ed esalato una nuvola di fumo. L’aroma era ottimo e mi ero sfregato le mani in attesa dell’intervista che, il mio amico, stava per iniziare. Ormai conoscevo il “copione a memoria”: prima le domande generiche, di cui conosceva già le risposte e poi quelle mirate per verificare i mutamenti delle espressioni del volto. «Direttore posso chiamarla Alfred?», aveva chiesto Alain Marten dopo aver sorseggiato il suo cognac. «Commissario lei sa meglio di me che la forma è sostanza. Se qui dentro si venisse a sapere una cosa del genere, perderei il rispetto dei miei dipendenti. Senza offesa ovviamente», aveva precisato unendo le mani come se avesse mancato di rispetto al Padre eterno. Il mio amico lo aveva rassicurato e dato inizio allo spettacolo. «Scommetto che una persona erudita e di successo come lei ha studiato nel collegio commerciale di Lille?» «Come fa a saperlo?!», aveva esclamato il direttore Souris, sgranando gli occhi e sollevando le sopracciglia. È scemo o finge di esserlo?, avevo pensato lasciandomi sfuggire un accenno di sorriso. Il mio amico aveva fatto spallucce e sorriso. 29
Giallo a Parigi
«Come si chiamano sua moglie e suo figlio?» La banalità della domanda aveva disorientato il direttore. «Carole e Dominique», aveva risposto serio. «È vero che da quando ha aperto, il Moulin Rouge ha avuto un grande successo?» «Sì, e chissà se, tra cent’anni, scriveranno che ero il Napoleone del divertimento», aveva commentato ironicamente Souris. «Mi dica, quali erano esattamente le mansioni di Amélie Bruant?» «Commissario, mi stavo chiedendo quando avrebbe posto la prima domanda sensata». «Risponda per favore». «Questo locale è frequentato da una clientela selezionata francese e da facoltosi turisti stranieri», aveva precisato con una punta d’orgoglio. «C’è un’orchestra stabile, si esibiscono cabarettisti, clown, giocolieri, artisti del circo e alcune ballerine famose. Ma gli intrattenimenti più richiesti sono le danze e gli spettacoli erotici. Il compito di Amélie, come quello di tutte le ragazze del Moulin Rouge, era di esercitarsi nella sala prove, esibirsi e ballare con i clienti». «Solo esibirsi e ballare con gli avventori o…», aveva aggiunto il commissario Marten, lasciando che la frase incompleta aleggiasse nell’aria. «Cosa vorrebbe insinuare? Questo è un locale per bene, frequentato anche da persone molto influenti!» «Io non insinuo nulla, direttore Souris. Sto semplicemente facendo il mio lavoro, senza tralasciare alcun dettaglio che possa far luce sul caso, e poi non era mia intenzione offenderla». «Certe allusioni sono irrispettose», aveva ribattuto risentito. «Suvvia direttore Souris», aveva detto Marten con un tono di voce suadente, «è risaputo che alcune ballerine abbiano maggiori attenzioni per i clienti più, come dire, affascinanti? Dopotutto è una questione di simpatia», aveva concluso facendo una pausa d’effetto. «Quello che fanno le ragazze dopo il lavoro non è affar mio», aveva risposto con una leggera piega all’insù dell’angolo sinistro delle labbra. 30
Un difficile caso per il commissario Marten
«Può dirmi a che ora Amélie ha finito di lavorare la notte fra giovedì e venerdì mattina?» «Alle tre. Lo ricordo bene, perché mi aveva chiesto il permesso di uscire prima. In linea di massima, il suo orario di lavoro giornaliero era di dieci ore, e prima che me lo chieda, qui apriamo alle ventidue e chiudiamo alle undici». «Ricorda se quando è uscita, era da sola o in compagnia di qualcuno?» Il direttore aveva riflettuto per qualche secondo prima di rispondere. «Se non sbaglio, era insieme a uno sconosciuto, un signore galante, snello, di altezza media e con i tratti del viso delicati». «Ci sono solo un ingresso e un’uscita?» «No commissario, ci sono anche le uscite di emergenza», aveva aggiunto asciugandosi il sudore che gli imperlava la fronte. «E venerdì notte c’era qualcuno che sorvegliava l’entrata?» «Sì, c’erano la cassiera e i due buttafuori». «Pensa che abbiano visto Amélie e il suo amico?» Di nuovo il direttore Souris si era mostrato indeciso. «No, lei e il signore sono usciti dalla porta riservata al personale». «Quindi lei è l’unico ad averli visti?» «Sì». «Direttore, se le mandassi un disegnatore, sarebbe in grado di fornire una descrizione più dettagliata?» «Non lo so, commissario; comunque posso provarci, no?» «Amélie aveva qualche legame particolare con le colleghe o con il personale del Moulin Rouge? E saprebbe dirmi dove viveva?» «Era amica di tutti e di nessuno in particolare, non so se mi ha capito… Lavorava sodo e si faceva i fatti suoi. Abitava nella Piazza di Pigalle, in un monolocale in affitto». Non ci restava che salutare il direttore e uscire dal cabaret incamminandoci lentamente verso la piazza, tanto per sgranchirci le gambe. «Allora commissario, il direttore ha mentito?» 31
Giallo a Parigi
«Mio caro amico, nei testimoni la verità va indirettamente ricercata mediante comparazioni, riferimenti e deduzioni. C’è chi mente intenzionalmente, in buona fede o perché si inganna da solo. Ciò che si è udito o visto può essere influenzato da valutazioni personali che derivano dal modo particolare di percepire e ragionare, e in questo ogni uomo è diverso dagli altri. Souris non riuscirebbe a essere trasparente nemmeno sotto tortura; ha mentito su alcune cosette, è rimasto nel vago su altre, ma tutto sommato mi ha fornito un quadro sufficiente», mi aveva risposto sorridendo e sfregandosi le mani. «E quale sarebbe?», avevo chiesto incuriosito. Marten era assorto nei suoi pensieri e il suo cervello era come le macine del mulino durante la piena del fiume. «Ci sto ancora lavorando…» «Beh, ora dovrei proprio andare, devo sviluppare le lastre e stampare le foto». «D’accordo, io invece faccio un salto fino a Pigalle. Voglio dare un’occhiata all’appartamento di Amélie Bruant». Non aveva fatto neppure in tempo a finire la frase che un branco di teppisti, armati di coltelli, ci aveva accerchiato. Dando una rapida occhiata alla piazza, mi ero reso conto che la gente era sparita. All’interno di un caffè, c’era un gruppo di curiosi appollaiati con le facce incollate alla vetrata. Le canaglie che ci stavano circondando, non avevano più di vent’anni. Erano conosciuti con l’appellativo di les apaches e facevano parte di un esercito di oltre trentamila giovani delinquenti che costituivano la piaga peggiore della città. Avevano i capelli lisci e impomatati, con una mèche a boccolo incollata sulla tempia e il berretto calato sulla nuca rasata. Indossavano magliette sgargianti a righe, pantaloni larghi, una cintola di flanella rossa e stivali allacciati. Le ragazze, dedite perlopiù alla prostituzione, avevano un occhio di cerbiatta tatuato sul lato destro della tempia. 32
Un difficile caso per il commissario Marten
Un giovanotto con una brutta cicatrice ricamata sulla faccia si era posto al centro del cerchio. Non c’erano dubbi su quale fosse il suo rango. «Commissario voglio proprio vedere di che pasta sei fatto. Che nessuno osi toccarli!», aveva ringhiato ai suoi. «Se vinco, vi sbudello; se perdo, vi lascio andare. Ci stai sbirro merdoso?», aveva aggiunto sghignazzando e sputandogli in faccia. Alain Marten si era pulito con il dorso della mano e aveva annuito con un impercettibile cenno del capo. Erano in troppi, non sapeva se qualcuno avesse chiamato le guardie e non poteva affrontarli a colpi di pistola; non era nel suo stile. Poteva solamente contare sull’esperienza maturata sulla strada e nella legione straniera, giacché io me la stavo facendo sotto dalla paura, dopotutto ero solo un reietto dell’alta borghesia, cacciato da casa perché incapace di seguire le viscide orme paterne o per abbatterne l’imponente figura. «Il ferro o si piega o si spezza!», urlava il vecchio quando trasferiva il suo sapere sulla mia schiena a suon di cinghiate. Smise la “cura” solo parecchi anni dopo, quando si era reso conto che sul mio dorso non c’era più spazio per altre lezioni. Il commissario Marten aveva trentacinque anni, non superava il metro e ottanta ed era in ottima forma; l’altro invece lo sovrastava di dieci centimetri e aveva una stazza che ricordava quella di uno stallone da tiro. Il mio amico lo stava studiando attentamente. Il giovane ostentava protervia, ma dava l’impressione di essere goffo e poco sagace. «Commissario ficcanasare da queste parti può nuocere gravemente alla salute», aveva detto. «Non ti bastano più le nottate passate nei locali notturni o a consolare le mogli degli altri? Vedo che ti sei fatto un amichetto», aveva aggiunto con un tono canzonatorio. Marten l’aveva guardato dritto negli occhi e sorriso. Sono certo che avesse visto del buono in lui. Poi, inaspettatamente, aveva tentato di negoziare, di dissuaderlo, di tendergli la mano. Era come parlare a un blocco di granito. Alla fine si era rassegnato, si era tolta 33
Giallo a Parigi
la giacca e me l’aveva consegnata. Veloce come il fulmine, aveva caricato il piede sinistro e colpito la mano che brandiva l’arma, facendo volare per aria il pugnale. Il ragazzo, sorpreso, era stato colto da un attimo di esitazione, si era piegato per una fitta al polso e aveva reagito in modo inaspettato, tirando un sinistro pieno di rabbia che avrebbe steso un bue. Marten aveva visto il gancio fendere l’aria e tentato di schivarlo. Invece era volato all’indietro soffocando un grido di dolore e rimanendo disorientato per alcuni secondi. Gli apaches esultavano incitando il loro capo. Il giovane intanto era avanzato torreggiando sopra Marten, gli aveva sputato in faccia di nuovo e tirato un calcio. Il commissario respirava a fatica, ma si era rialzato con uno scatto di reni e una capriola all’indietro; aveva serrato la mascella e, saltellandogli intorno, lo aveva colpito al volto con una doppietta tirata in rapida successione. Il bestione schiumava di rabbia, e mentre fingeva d’arrendersi aveva lasciato partire un gancio terrificante. Buon per Marten che si era riparato con gli avambracci, riuscendo a deviare il colpo. Un fiotto d’adrenalina aveva costretto il suo cuore a pompare più sangue e a contrarre i muscoli. Il teppista intanto si era sbilanciato in avanti e Marten ne aveva approfittato per colpirlo con un pugno d’incontro di notevole potenza. Le ossa del naso erano state centrate emettendo lo stesso rumore di un biscotto spezzato ma, nonostante il dolore, aveva avuto il coraggio di sorridere scoprendo i denti sporchi di sangue. Il commissario aveva fatto appena in tempo a deviare la traiettoria del suo pugno destro con le mani. Se gli avesse centrato la tempia, avrebbe probabilmente avuto l’effetto di un martello su una noce di cocco. Aveva alzato la guardia e abbassato la testa; sembrava uno schermitore pronto all’affondo, poi il suo piede destro era scattato fulmineo e si era abbattuto sul ginocchio del teppista che si era piegato abbassando la testa. 34
Un difficile caso per il commissario Marten
Era l’occasione che probabilmente il mio amico aspettava; infatti, gli aveva immediatamente assestato un sinistro sulla mandibola così potente che io avevo potuto chiaramente udire il sinistro rumore dell’osso che si spezzava. L’avversario aveva perso l’equilibrio per poi stramazzare al suolo, battendo violentemente il viso sul bordo del marciapiede. Sembrava che avesse bofonchiato parole in segno di resa. Alain Marten era tutto sudato, e guardandosi le mani aveva notato le nocche escoriate e un polso contuso. Sembrava tutto finito, ma con la coda dell’occhio avevo visto uno di quei bastardi scattare come un fulmine verso di me. L’istinto di sopravvivenza mi aveva indotto a reagire immediatamente e a lanciarmi su di lui, un secondo prima che la lama del suo coltello affondasse nelle carni molli del mio ventre. Il brutto ceffo era rotolato a terra, ma si era subito rialzato con un’agilità sorprendente, caricando a testa bassa. Fortunatamente questa volta il suo bersaglio non ero io. Il commissario aveva schivato l’affondo con una rotazione del tronco e gli aveva vibrato un violento pugno che si era stampato sulla sua nuca, l’aveva disarmato e avvolto il braccio destro intorno al collo. Una presa terrificante! Mentre stringeva con decisione, lo tirava verso di sé con la mano sinistra e aumentando la pressione sulla carotide gli aveva fatto perdere i sensi. «Vi consiglio di andarvene se non volete che glielo spezzi!», aveva tuonato fissandoli negli occhi. A quel punto i teppisti avevano rotto il cerchio, caricato i feriti sulle spalle e si erano rapidamente dileguati. «Spero abbiano imparato la lezione. Qualche volta cacciare in branco non assicura la cattura della selvaggina». «Soprattutto quando la preda è un lupo solitario che un tempo praticava la stessa arte, vero amico mio?», avevo replicato strizzando l’occhio. 35