Narrativa Minerva Collana diretta da Giacomo Battara
hitorizumo Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Francesco Altan, Maria Irene Cimmino © 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN: 978-88-7381-509-9 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com
Nicola Skert
hitorizumo Romanzo
Minerva Edizioni
Ad Alessandra
Prefazione
Mi viene in mente Duel. Di Spielberg. C’è un uomo che si chiama David e c’è un tir imponente e scuro, senz’anima, senza l’umanità che il volto di un conducente potrebbe dargli. Nel film si consuma un duello atroce, sfibrante e noi tutti, noi spettatori, siamo David, il protagonista, l’uomo che affronta con gli strumenti da uomo, qualcosa che appare sempre meno umano. Non accade molto, in Duel, eppure accade moltissimo. Capiamo il limite di David ed il limite di noi tutti e vogliamo capire che cosa decide di fare lui. E che cosa decideremmo di fare noi se fossimo lui. Questo c’importa, e molto di più che sapere chi guida il mastino d’acciaio, nero come le nostre più remote paure, come le nostre più cupe miserie. Duel è narrazione, non è descrizione, non è un resoconto, non è esibizionismo visionario. E’ narrazione vera. Perché parlo di Duel per raccontarvi Hitorizumo di Nicola Skert? Perché me lo ricorda, perché ne sono rimasto attratto e affascinato come mi era accaduto con Duel, perché mi sono di nuovo sentito costretto a fare i conti con i miei limiti e con le mie ombre. E perché mi sono eccitato come sempre di fronte ad un’introspezione faticosa ma necessaria. E perché, ad un certo punto, mi sono disinteressato completamente al “perché”, ma mi sono completamente dedicato, come lettore, al “come”. Mi spiego meglio: poniamo che un giorno, sul pianeta terra, si spenga il sole, completamente. Basta, niente sole, niente luce, niente calore, niente vita, 7
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niente più niente di niente, ma solo uomini a fare i conti con i propri limiti, con i propri appetiti e con il proprio istinto di sopravvivenza, che lava via come una spugna ruvida ogni morale e ogni etica. Si disgrega in un attimo quel manto di fibra trasparente che ci tiene tutti insieme e che chiamiamo società. Si è spento il sole, quindi. A questo punto possono accadere due cose. Farsi dire ciò che accade subito dopo questo black out di vita, da uno scienziato, o farselo raccontare da uno scrittore. Lo scienziato affilerà le armi del razionalismo e cercherà di raccontarci cosa ragionevolmente può accadere, secondo logiche di causa ed effetto assolutamente governate. Ti servirà bello pronto per appagarti un “perché”. Magari impossibile, irreale, ma ragionevole, con una sua coerenza intrinseca. L’uomo, i protagonisti, i loro sentimenti e le reazioni della pancia, verrebbero trascurati come microscopiche variabili impazzite che non servirebbe spiegare, come non si spiegano i bulloni che fanno saltare l’ingranaggio. Perché è l’ingranaggio che va spiegato, non l’imprevisto che lo fa inceppare. Se invece, a raccontare un mondo calato in un manto buio, infilato nell’assenza di vita, o nell’assenza di vita che da lì a poco si verificherà, è uno scrittore, allora sei interessato al duello che inscena l’uomo, con se stesso, con la natura, con la memoria e il senso di colpa. E piano piano, così come il sole che muore dietro l’ombra brutale della presunzione umana, muore anche la curiosità di sapere dov’è il suo nascondiglio. La domanda a cui uno scrittore ti mette di fronte, ma uno scrittore bravo e che dispone del talento per farlo, è un’altra, e cioè: dov’è il na8
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scondiglio degli uomini, dove si trova, fuori?, dentro di noi?, e che cosa c’è dentro? Quanti piani, quanti livelli, quanta polvere infilata sotto il tappeto per non vedere, quanto irrisolto che ci pilota senza che neanche ce ne accorgiamo? E in quel nascondiglio, che ognuno di noi ha, ci sono gli attrezzi giusti per affrontare la morte, l’istinto della violenza, l’amore? Ci sono i bulloni per far impazzire l’ingranaggio? E come sono fatti? Vorremmo saperlo, visto che lo scienziato non ce l’ha detto. Ma io, che ho letto Hitorizumo e Nicola Skert, ora lo so, come sono fatti quei bulloni, o per lo meno so come sono fatti i bulloni dei protagonisti di questo affascinante romanzo, ricco di tensione e visioni di un mondo che sembra impossibile ma che in realtà c’è già e ci siamo dentro fino al collo. Io che ho letto Hitorizumo ora ho la sensazione che è il caso di andarlo a visitare più spesso, il mio nascondiglio. Nicola Skert sa qual è la differenza fra un uomo razionale, di scienza, e uno scrittore, perché è tutte e due le cose. Ma questa volta, il duello, l’ha vinto lo scrittore con il suo talento fino, e ci ha fatto credere solamente di avere dato inizio ad un romanzo spegnendo il sole sul pianeta terra, mentre invece non ci aveva ancora fatto capire che l’esperimento era un altro. E cioè, spegnere gli uomini, spegnere noi stessi, facendoci diventare solo ombre di duelli mai davvero affrontati. Alex Boschetti
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Milioni di uomini avvertono gli zoccoli del cavallo sul quale un mantello fluttua cingendo una falce. Percuote il cielo della vita compiendo ampi cerchi, sempre più stretti, sempre più stretti... e poi scende a picco in caduta verticale verso la preda adocchiata. È un’ombra affamata, il suo mantello è trattenuto dal vento, vano tentativo di trattenere il consueto insulto alla vita. Svolazza come una bandiera, quella bandiera alla cui nazione un giorno tutti apparterranno, cosmopolita a caccia di accoliti. Solca il cielo di quella finta notte, oscurando le stelle al suo passaggio, stella cadente che una scura traccia lascia nel suo funesto vergare il cielo, nefasto simbolo che marchia il rapsodo dell’inesistenza. La sua falce è tratta, e punta dritta indicando una folta schiera d’individui, nemico sempre sconfitto. L’esercito invincibile solleva la polvere dell’ennesima vittoria nel campo dove neanche gli avvoltoi osano cibarsi, quella terra la cui vita è sempre il bottino del loro saccheggio. Eppure i bambini, alla nascita, vedono solo ombre…
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La luce era intensa, quella mattina. Paolo ebbe modo di accorgersene quando un raggio di sole, filtrando dalle persiane sbrecciate, andò a conficcarsi nella palpebra socchiusa dell’occhio destro, ferendo il sonno profondo che lo cullava. Aveva risalito lentamente la guancia, quella colonna di luce arroventata da un’alba infuocata, come una tigre pronta a balzare sulla preda e al momento giusto, zac!, si era portata sulla palpebra innestando un irreversibile meccanismo chimico di risveglio. Sembrava una mattinata come le altre, forse più bella del solito, e di certo Paolo non poteva immaginare cosa nascondesse nel progredire delle ore. D’altronde, nessuno era stato in grado di prevederlo e nessuno ebbe più modo di verificarne le cause. Paolo avvertì, ancora sospeso nel dormiveglia, l’urlo di un’ambulanza in progressivo avvicinamento, poi il senso dell’udito fu distratto da un suono più familiare: dall’altra parte del muro sentiva Angela monologare col telefono, consultò l’ora e decise di sollevarsi dal letto. Dal bagno avvertiva la conversazione telefonica agitarsi. Qualche guaio in ospedale, ipotizzò. Già di prima mattina. Giulio dormiva ancora e, come sempre, sarebbe stato necessario svegliarlo all’ultimo secondo disponibile e sentirlo reclamare: «Buio! Voglio ancora buio!» Quindi vestirlo, offrirgli una colazione fugace davanti all’ipnotico cartone animato del mattino, infine scavalcare il serpentone di macchine incolonnate per ar12
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rivare a scuola prima che chiudessero i battenti, come castellani assaltati da predatori senza scrupoli. Giunto in cucina, Paolo vide Angela lavorare sui fornelli per preparare la colazione, sostenendo il cellulare tra collo e spalla come fosse un violino, benché si trattasse di ben altra musica. Attese che terminasse la comunicazione e le si avvicinò fin quasi a sfiorarla. «Bisogna riparare la persiana. È rotta», esordì baciandole il collo da dietro. «Non si usa più augurare prima il buon giorno?», replicò Angela con un sorriso, scostandosi leggermente. «Non quando una luce accecante ti sveglia prima del dovuto». «Esagerato». «Realista. Poi sai che mi mette di malumore. Posso non mangiare per giorni…» «… ma dormire poco ti manda fuori di testa», concluse Angela. «Lo so. È da quando ti conosco che me lo dici». «Vero!» sorrise lui. «Con chi parlavi al telefono, piuttosto?» «Con la mia collega. Non l’ha presa molto bene, quando l’ho avvertita che oggi non vado a lavorare». «Come mai?», chiese Paolo aggrottando le sopracciglia. «Non hai sentito Giulio, stanotte?» «Lo sai che neanche un bombardamento può interrompere il mio sonno… cos’è successo?» «Lui ha trascorso la notte tossendo e lamentandosi, io accudendolo». «Mi dispiace, per entrambi. Ha febbre?» 13
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«Probabile, mi sembrava avesse la fronte calda. Credo sarebbe meglio se stesse a casa, oggi». «Allora vi raggiungo presto anch’io». «Presto. Si fa per dire. Quando chiederai trasferimento?» «Ora devo muovermi!» replicò Paolo consultando l’orologio, sorvolando sulla questione. «Paolo, non puoi continuare a trascorrere due ore del tuo tempo in macchina, il laboratorio dista settanta chilometri da qui!» «Lo so Angela, lo so, ma ora devo proprio andare». «E poi mi preoccupa sapere che guidi l’auto con quel problema alla vista». «Non mi dà fastidio…» «Non è normale vedere un’ombra a lato dell’occhio» insistette Angela, «dovresti andare da un oculista». «Va bene, mamma, prenderò un appuntamento». «Non scherzare con la vista» replicò lei stringendogli affettuosamente la guancia. Pochi minuti dopo, Paolo era sulla soglia di casa e scambiava un rapido bacio con la moglie. «Ti chiamo più tardi per sapere come sta Giulio» disse. Angela annuì con la testa, ma adombrandosi rivelò che stava pensando a qualcosa di poco piacevole. «Tutto bene?» le chiese Paolo. «Più o meno...» «A cosa stai pensando? Conosco quel viso imbronciato». «Niente… è che prima o poi dovremmo dirglielo». «Dire cosa a chi?» «A Giulio. Cosa, lo sai benissimo». 14
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Lo so, pensò Paolo. Lo so. Ricacciò due pensieri scomodi che s’infilarono in rapida successione a livello di coscienza per dire la loro. Non era il momento e non era il caso. Non lo era quasi mai, per Paolo. «Hai visto che bella giornata?» replicò. «Neanche una nuvola in cielo». «Già, completamente terso e uno splendido sole» aggiunse Angela beffarda, poggiando le mani sui fianchi. «Sempre abile a cambiare discorso, eh? Perché non mi chiedi pure che ora è, se ho una sigaretta, o mi parli di politica?» «Il tuo solito sarcasmo» ribatté Paolo con lieve imbarazzo. «Ora è tardi, devo scappare. Ciao». Si scambiarono un breve bacio e Paolo si diresse verso l’auto. «Prima o poi dovremmo affrontare la questione!» gli gridò Angela mentre lui si allontanava. Paolo salì in macchina, la salutò ancora con la mano e indossando un sorriso forzato si allontanò spedito lungo il viale. Vide Angela con le braccia conserte sulla soglia tramontare dietro lo stipite. Non posso farci niente se quel figlio non è suo, si disse Paolo lungo la strada. Non posso farci niente. E quando ne facciamo uno nostro, domandò Angela nella sua mente, una delle sue richieste più ricorrenti. Uno nostro. Già… uno nostro. Si guardò nello specchietto retrovisore, interrogando gli occhi scuri nelle cui profondità cercava una risposta. Non la vide e forse neppure la cercò. Reagì nel modo che gli era più familiare. Ricacciò i pensieri scomodi nel subconscio, questa volta schiacciandoli con decisione nel suo cantuccio più remoto, e s’infilò lungo la tangenziale trasferendo un moto rabbioso al motore. 15
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Paolo giunse al posto di lavoro, un bizzarro edificio frutto di quell’architettura moderna che sacrifica ogni funzionalità all’insegna dell’estetica. Una colonna alta trenta metri si svasava formando un disco perimetrato da vetri a specchi, un incrocio tra una torre di controllo e la cisterna di un acquedotto cittadino. Paolo s’introdusse nell’ascensore che risaliva il centro del cilindro e le porte a scomparsa si aprirono direttamente su un ampio settore del disco apicale. Vedendo il laboratorio, allontanò definitivamente i pensieri scomodi che Angela gli aveva annidato in testa, come con un semplice gesto della mano si lacera una ragnatela che ostacola il percorso. «Ben arrivato, Paolo» esordì il direttore alzando lo sguardo dalla scrivania, accarezzandolo con un raro sorriso. «Buongiorno capo, mattutino oggi!» «Eh già, mi sono svegliato proprio bene. Riposato, direi». «Passato un buon fine settimana?» «Non c’è che dire. Magnifico, aggiungerei», confermò inarcando la schiena come per stiracchiarsi. «Per oggi, novità?,» replicò Paolo per cambiare discorso. «Direi di sì. Ho appena avviato il computer, oggi dobbiamo verificare le potenzialità del nuovo modello». «Dei vecchi ce ne facciamo ben poco oramai, eh?» 16
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«Esatto. Ti ricordi quando negli anni Settanta sostenevano che nel Duemila avremmo potuto fare previsioni a tre mesi?» «Ora non arriviamo alle quarantotto ore, con una percentuale d’affidabilità che scende al sessanta per cento». «Tanto vale tirare una monetina», scherzò il direttore. «Per le previsioni di oggi: testa o croce?» «Croce!», esclamò sorridendo Paolo. «Con i tempi che corrono dobbiamo porci nuovamente nelle mani di Dio». «Allora scelgo testa, quella cui personalmente faccio affidamento». «In ogni caso, il metodo del testa o croce è sicuramente più economico: il costo della monetina invece di modelli statistici ed eserciti di computer!» Scambiarono una risata nervosa e infine calò il silenzio ronzante prodotto dai calcolatori elettronici. Era molto presto e i loro colleghi non erano ancora giunti al lavoro. Paolo si diresse verso la scrivania e avviò il proprio elaboratore. Il direttore gli stava accanto e, a quanto pare, aveva una gran voglia di parlare. Doveva aver proprio passato un buon fine settimana. «Tutta colpa del cambiamento climatico» riprese lui. «Ci sta mettendo proprio in imbarazzo, eh?» «Sempre più difficile prevedere i fenomeni atmosferici…» replicò Paolo. «Già, con la serie storica di dati possiamo ormai pulirci il culo». «Senza contare che non siamo neppure certi di esserne la causa, o se si tratta di fenomeni ciclici naturali al di fuori di ogni controllo…» 17
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«Vero. In ogni caso mi sembra che tua moglie abbia già preso posizione contro il riscaldamento globale…» «Infatti», replicò Paolo elencando sulle dita: «casa ecologica passiva, impianto di riscaldamento combinato geotermico-biomasse a pavimento, pannelli fotovoltaici e solari, impianto eolico casalingo e per finire, serbatoio per la raccolta d’acqua piovana filtrata». «Ti sarà costata una fortuna». «Meno di una casa a normale impatto ambientale». «Non ha installato pure il filtro anti-particolato nel fuoristrada?» «Esattamente». «Ha già pensato di mettersi pure in formalina per conservarsi meglio?» «Spiritoso. Piuttosto, la devo chiamare» replicò Paolo afferrando la cornetta del telefono. «Oggi non è andata in ospedale a lavorare. Giulio ha la febbre». «Una bella fortuna avere una dottoressa in casa. Almeno le sue diagnosi sono più precise delle nostre!» Il direttore si allontanò da Paolo per dirigersi da Mirko che era appena sopraggiunto in laboratorio. Paolo lo salutò con la mano libera. Era il suo collega, quello con cui condivideva gran parte della giornata per interpretare i modelli climatici previsionali. Un’attività che li appassionava a tal punto da averli condotti a una profonda amicizia. Tuttavia si fermava lì, alla porta di uscita dal laboratorio. Oltre, nessuno dei due era ancora riuscito ad andare. Mentre dalla cornetta il telefono di Angela squillava libero, Paolo vedeva il direttore attaccar bot18
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tone con Mirko, inarcando nuovamente la schiena all’indietro, le mani nella tasca della giacca casual. Scosse la testa, sorridendo. «Pronto!» esclamò Angela, interrompendo le riflessioni di Paolo. «Ciao, come sta Giulio?» «Febbricitante, ma nulla di grave, una leggera alterazione». «Ciao papà!» sentì urlare lontano dalla cornetta. «Ciao Giulio! Come stai? Giulio!» «È già andato a giocare…» lo informò Angela. «Però! Sta proprio male» ironizzò Paolo. «Torno il primo pomeriggio, allora. Per ogni cosa, chiamami». «Certo. Bacio… Sì Giulio! Adesso arrivo!» Giulio la chiamava per giocare. Concluse la telefonata così. Prima o poi dovremmo dirglielo a Giulio, pensò Paolo. Non possiamo tenerglielo nascosto troppo a lungo. Ha diritto di sapere. Ma quando, quando il momento giusto? Come d’abitudine, ricacciò a livello subconscio quello scomodo moto morale e si mise a digitare sulla tastiera del computer. Finché un’ombra gli attraversò il campo visivo. Paolo trasalì allontanando d’istinto le braccia dalla tastiera. Seguì con lo sguardo l’ombra che andò dileguandosi al lato dell’occhio, senza capire se fosse dentro o fuori l’orbita oculare. Poi osservò Mirko e il direttore che lo ignoravano, rassicurandosi che non l’avessero visto. Non aveva voglia di perdersi in scomode spiegazioni per quella reazione ai loro occhi insensata. Forse ha ragione Angela, si disse, forse dovrei andare da uno specialista. Una volta liquidata la questione, riprese a tamburellare pesantemente sulla tastiera. 19
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«Ehi! Non è mica un pianoforte!» esclamò il direttore da lontano. «Lascia stare la fuga in sol maggiore e vieni qui piuttosto, che dobbiamo far girare il nuovo programma» «Lo vogliamo usare già oggi?» s’informò Paolo illuminandosi in volto. «No. Per il momento continuiamo a pubblicare le previsioni col modello vecchio, finché non l’abbiamo tarato bene». «Va bene, vediamo che cosa hanno partorito i nostri fisici». «Informatici», suggerì il direttore dall’alto della sua laurea in informatica. «Semmai, statistici», replicò Mirko difendendo la sua laurea. «Ciao Paolo, a proposito. Come stai?» aggiunse. «Ciao Mirko, tutto bene… comunque per mettere tutti d’accordo, diciamo che è stata una equipe, così siamo tutti contenti, ok? Allora, cominciamo?» incitò Paolo sfregandosi le mani. «Oliamolo con un set di dati, vediamo come si comporta…» «Lo colleghiamo al radar?» suggerì il direttore «Proviamo…» «Chissà la faccia di Edi, quando tornerà dalla luna di miele e si troverà la sorpresina». «Già, ha scelto il periodo migliore per farsi una crociera nell’Atlantico. ‘Mi raccomando, non cominciate senza di me’, aveva detto», scimmiottò Mirko ghignando malignamente. Erano allegri e frizzanti, come dei bambini attorno all’albero di Natale, benché si trattasse di un computer e il regalo fosse solo virtuale, al di là dello schermo piatto. Un nuovo giocattolo con cui 20
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trascorrere tutta la mattinata per capire come funzionasse. Ma non ebbero modo di completare l’opera. Un evento imprevisto calò sul loro gioco, con estrema rapidità, interrompendolo bruscamente. Un buio improvviso oscurò i loro volti. Si scambiarono un’occhiata cieca, nessuno tra loro avrebbe potuto indovinare che indossavano lo stesso sguardo interrogativo e inquieto. Non capivano ancora il perché, ma il mutamento cromatico suggeriva istintivamente che non si trattava di un comune blackout. Qualcosa non quadrava. I computer rimasero accesi ed emettevano una debole luce diffusa. Mirko accese la lampada da tavolo e osservò con sguardo ebete il filamento di tungsteno incandescente. Emetteva un cono di luce che li lasciava perplessi. Senza riflettere, quasi per un ordine involontario, la mente di Paolo sollevò il corpo dalla sedia e lo condusse controvoglia verso la vetrata che dava sul parcheggio. Spalancò la bocca senza emettere alcun suono, lisciando tra indice e pollice la barba incolta che cresceva sul mento. «Non è possibile» sussurrò infine con voce strozzata.
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«Mamma, mamma! Dov’è finito Drinky?» «Ma, Giulio! È da quando hai cominciato a camminare che non ci giochi più!» «Ma adesso lo voglio, voglio giocarci!» «Credo che sia in cantina, in qualche scatolone di giochi vecchi». «Me lo vai a prendere?» «Non puoi giocare con qualcos’altro?» «No. Solo con Drinky…» «E va bene!» si arrese Angela trattenendo uno sbuffo. «Vado a cercarlo...» «Grazie mamma!» Giulio le mise le braccia al collo, elargendole un sonoro bacio sulla guancia. Angela sorrise e si diresse giù per le scale. «Aspettami in camera» disse, «che in cantina fa freddo. Torno tra un momento». «Va bene, mamma. Posso giocare con le pentole in cucina, intanto?» «No. Quelli sono i giochi della mamma, non si toccano». «Quando mi compri allora una cucina finta?» «È un gioco per bambine…» «Non è vero! In tv i cuochi sono tutti maschi!» «Quasi tutti…» acconsentì Angela. E comunque, uno a zero per Giulio. «Va bene. Ne compreremo una. Come premio per lo spirito d’osservazione. Tu intanto non ti muovere e per ogni cosa, chiamami!» Si voltò per dirigersi in cantina ma prima di muo22
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vere un passo, sobbalzò su se stessa. Le era parso di vedere un’ombra, con la coda dell’occhio. Era rimasta immobile per un frangente, prima di guizzare sulla parete e poi sul soffitto, svanendo. «Che c’è, mamma?» domandò Giulio allarmato vedendola trasalire. «Nulla, Giulio, nulla, mi era sembrato di veder un’ombra...» «Io non ho visto niente…» «Infatti, è stato un’illusione ottica». «Un che?» «Te lo spiego più tardi. Ora vado in cantina» tagliò corto lei, riflettendo negli occhi un lieve turbamento. Angela discese la gradinata in cemento chiedendosi se l’ombra fosse stata prodotta da un gioco di luci, oppure se si trattasse di un problema oculistico vero e proprio. O cerebrale, aggiunse. Di certo, si era trattato di un fenomeno del tutto innaturale. Come se quell’ombra, prodotta dalla mente o da singolari circostanze ottiche, fosse dotata di un moto proprio e volontario. Un fenomeno che proprio non riusciva a catalogare nella sua ben allenata componente razionale. Come d’abitudine, avviò mentalmente un’analisi differenziale della sintomatologia per individuare, lungo la breve ma complessa via che porta dai nervi ottici alla corteccia cerebrale, eventuali anomalie neurologiche e già snocciolava un elenco sufficientemente allarmante. Si ricordò del primo esame di patologia, all’università, quando sperimentava l’anamnesi sul suo corpo perfettamente sano individuando i sintomi di mille malattie. 23
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Paolo! Si ricordò infine, allarmandosi ancor di più. Lo stesso disturbo di Paolo… Forse è il caso di fare qualche accertamento specialistico, si suggerì. Liquidò il dibattito interiore, non senza turbamento, richiamata all’attenzione dai piedi nudi sul cemento freddo del pavimento. Aveva già raggiunto la cantina da un bel pezzo ed era il caso di cominciare la ricerca dell’orsacchiotto di Giulio. Tracciò una rapida panoramica mnemonica con lo sguardo. Regnava il classico disordine di un ripostiglio nel quale si deposita e compatta tutto ciò che pare superfluo, come la memoria archivia ricordi di seconda importanza e quando si deve rammentarli, è una fatica enorme farli riaffiorare. Così Angela si mise a cercare con gran fatica nel caos imperante, maledicendo Paolo. I mariti sono sempre dediti alla propria cantina, si diceva, ci passano le ore libere come le talpe nelle loro tane. La riordinano, allestiscono un bancone con gli attrezzi, una piccola enoteca, il paradiso del piccolo meccanico diventata realtà adulta. Il filo conduttore con l’infanzia. Tranne che per Paolo. A lui non importava un bel niente. D’altronde, tranne che per la meteorologia e la famiglia, da quando i suoi genitori erano morti in un incidente d’auto aveva perso interesse per tante cose: gli amici, i viaggi, la musica. Trascorreva una vita piuttosto ritirata tra casa e lavoro e Angela lo assecondava. Attendeva con pazienza che terminasse questa fase che riteneva transitoria, benché ormai durasse da alcuni anni. Cinque, per l’esattezza. Paolo aveva bisogno di ricostruire la sua vita pezzo per pezzo, dalla sua più piccola unità di base: 24
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quello che gli era rimasto. D’altronde, era lui quel giorno alla guida dell’auto. Conduceva i suoi genitori alla baita in montagna che avevano appena finito di ristrutturare, quando il terreno cedette trascinando il fuoristrada giù per il precipizio. Paolo si salvò, miracolosamente. Neanche un graffio, nessuna ripartizione equanime delle ferite. I suoi genitori si erano accollati tutte le spese dell’incidente, saldandole con un mutuo eterno nell’aldilà. Angela proseguiva la ricerca dell’orsacchiotto tradendo un’espressione malinconica. I ripostigli, le cantine, le soffitte sono pregne di trappole della memoria, ovunque tese e pronte a scattare. Oggetti pronti ad aggrapparsi a un ricordo, facendolo rivivere nella mente e ogni volta è una dolce o acuta sofferenza. Represse, per quanto possibile, i propri sentimenti adoperandosi alacremente nella ricerca. Spostava casse, comodini, biciclette, apriva armadi e ne richiudeva altri socchiusi dal tempo. «Ma dove diavolo è finito quel cartone!» esclamò esasperata. «Mamma, mamma!» urlò improvvisamente Giulio, discendendo le scale di fretta. Angela trasalì dallo spavento. «Giulio! Che paura…» disse, sollevando un sospiro di sollievo. «Non ti avevo detto di aspettarmi su? Che c’è?» «È andata via la luce». «Ma se funziona!» replicò Angela indicando la lampadina accesa. «Oddio. Hai le allucinazioni…ti è salita la febbre? E tu vieni quaggiù al freddo…» «No, mamma» la interruppe. «Non hai capito». «Non ho capito cosa?» «Non dentro. Fuori...» 25
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Angela scosse la testa non sapendo come replicare. Accolse Giulio tra le braccia e risalì le scale tastandogli la fronte. Il corridoio era illuminato dalle lampadine che il piccolo aveva acceso discendendo dal piano superiore. «Giulio. Ti ho detto mille volte di non accendere le luci durante il giorno» lo ammonì. «È un inutile spreco di energia. Mi dispiace rimproverarti quando stai poco bene ma…» Non finì la frase. Quando spense l’interruttore della luce calò un buio quasi perfetto, se non fosse stato per la luce ancora accesa della cantina che filtrava dalla porta socchiusa. Angela rimase interdetta. Schiacciò ancora l’interruttore illuminando il corridoio. Poi lo premette di nuovo, verificando nel buio la veridicità di un fenomeno che non riusciva a spiegarsi. Replicò l’operazione alcune volte, finché non intervenne Giulio, allarmato per il comportamento della madre. «Mamma…basta. Lascia la luce accesa». Angela si ridestò dallo stato compulsivo. «Hai abbassato le tapparelle per farmi uno scherzo?» gli chiese a bruciapelo. «No, mamma». «Sul serio?» «Sì, mamma, non ho fatto niente» replicò Giulio scuotendo il capo lentamente. «Niente di niente». «Allora, che diavolo sta succedendo?» «Non lo so, mamma. Ho paura». Angela si diresse in cucina, premette l’interruttore e illuminò la stanza. Le pareti riflettevano la luce, tutte tranne una che l’assorbiva in corrispondenza di un rettangolo nero, dalle dimensioni e l’aspetto famigliare di una comune finestra. Appoggiò il viso al vetro annebbiandolo col respiro, divenuto improv26
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visamente affannoso, e osservò l’ambiente esterno. Le finestre delle case circostanti emettevano luce, quanto l’illuminazione pubblica e le automobili che circolavano nella statale vicina. Per il resto, era calata una notte perfetta. Con istintivo timore volse lo sguardo al cielo, poi all’orologio da muro, infine di nuovo al cielo. Le rispose una trapunta stellata. Pure la luna, nonostante dovesse essere piena, era invisibile nella volta celeste. Una plausibile notte, benché fossero da poco passate le otto e trenta di un mattino fino a pochi minuti prima illuminato da un intenso sole primaverile. In un cielo completamente terso, sgombro dal più minuto fenomeno nuvoloso. Un formicolio percorse la radice dei capelli dalla nuca alla fronte di Angela, attestandosi nel punto di massima tensione nervosa. Reagì come Paolo. Spalancò la bocca, colmandola di stupore. «Mamma. Mamma, che succede?» chiese Giulio allarmato. «Mamma!» Il telefono squillò, ridestando Angela dallo stato di stordimento. «Mamma, il telefono» la incalzò Giulio con voce rotta dalla paura, strattonandole il braccio. «Rispondi!» «Sì piccolo, adesso. Adesso rispondo...» replicò Angela e sollevò la cornetta con la lentezza imposta dallo shock. «Sì, pronto?» «Angela!» rispose una voce concitata. «Finalmente… tutto bene?» «…» «Angela! Mi senti?» «…» «Angela, rispondi!» 27
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Dall’osservatorio meteorologico si godeva di un’ottima panoramica della città. Le luci accese dei condomini la punteggiavano uniformemente, mentre qua e là era tinteggiata dai bagliori delle automobili bloccate dal traffico impazzito. In quei settori della città serviti da sistemi automatici si era attivata l’illuminazione pubblica, conferendo una situazione di apparente normalità, mentre altri rimanevano all’oscuro rivelando l’anomalia che Paolo intuiva si sarebbe presto diffusa in tutto il resto del tessuto urbano. Paolo era immobile, come fosse stato pietrificato dallo sguardo di Medusa. La mano appoggiata alla vetrata, la bocca ancora spalancata e l’indice e pollice aggrappati a un pelo di barba che punzecchiava il mento. E lo sguardo, vitreo, risucchiato dall’oscurità esterna. Pure la mente taceva, registrava le informazioni visive ma era incapace di dare un’interpretazione razionale a quello che osservava. Anche la memoria, ammutolita, non rispondeva alle richieste di soccorso impartite dal cervello per dare senso a quel drappo nero sceso sulla Terra. Mirko rimase immobile, lo sguardo appiccicato al filo di tungsteno incandescente come un bambino chiude gli occhi per nascondersi. Il direttore si avvicinò a Paolo, lentamente, con istintiva circospezione. Teneva lo sguardo volutamente lontano dalla finestra. «Non è possibile» abbozzò Paolo con un filo di voce, scotendo la testa lentamente. «Guarda». 28
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Il direttore raggiunse la finestra accanto e piegò le coste della tapparella. «È buio pesto...» commentò con tono piatto, registrato sullo stesso piano emotivo. «Già. Come se avessero spento il sole». «Ma che diavolo può essere?! Non di certo un’eclissi, si dovrebbe almeno vedere il disco solare, da qualche parte…» «Invece, niente». «Dobbiamo capire di che si tratta». «Chiamiamo l’osservatorio astronomico» suggerì Paolo, «lì forse ci sanno dire qualcosa». «Le linee saranno intasate…» «Ho il numero di Giulia» rispose afferrando la cornetta del telefono. Lo scambio di battute era asciutto ed elementare, imbrigliato dal comune sbalordimento. Paolo attese pochi squilli, poi prese a parlare con tono concitato. Il direttore e Mirko si misero alle sue spalle, angeli confusi che chiedevano protezione invece di offrirne. «Ciao Giulia, sono Paolo. Che diavolo sta succedendo?... Ah… Bene, non ne avete idea… Non avete visto niente i giorni precedenti? Che so, qualche anomalia… Ho capito, va bene. Quando sai qualcosa in più chiamami, ciao». Paolo ripose la cornetta, il direttore e Mirko gli fiatavano sul collo rivelando tutta la loro ansiosa curiosità. «Allora?» chiesero all’unisono. «Allora niente, non l’avete capito? Brancolano nel buio». «Bella battuta, proprio simpatica!» commentò Mirko liberando una risata nervosa. 29
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«Già, adatta alle circostanze» aggiunse il direttore. «Sentitemi bene» li interruppe Paolo, sorvolando sulla loro facile ironia. «All’osservatorio astronomico non hanno rilevato alcuna particolare anomalia i giorni scorsi. Qualche tempesta solare, variazioni nel campo magnetico terrestre, ma tutto nella norma». «Un buco nero?» suggerì Mirko. «Non dire cazzate. Non saremmo qui a parlarne, ora». «Dell’antimateria che si è frapposta tra noi e il sole?» «Sentite, non perdiamoci in facili congetture» tagliò corto Paolo alzando la voce. «Noi di astrofisica non ci capiamo un bel niente. Potrebbe essere accaduta qualsiasi cosa: il sole che si è spento improvvisamente, una massa invisibile che si è perfettamente allineata tra noi e il Sole, Dio che si è tolto le mutande prima di coricarsi, gettandole accidentalmente sulla lampada del comò che chiama Sole, oscurandolo». S’interruppe, osservando serio i suoi interlocutori. Mirko e il direttore attendevano senza fiatare la fine di quel curioso monologo che voleva essere pure scherzoso, l’isterico tentativo di esorcizzare la tensione. «Possiamo continuare a masturbarci a vicenda,» proseguì Paolo, «anche per tutta la giornata con le ipotesi più balorde. Ma non ci servirebbe a nulla. L’unica cosa che possiamo fare, è utilizzare i nostri strumenti per monitorare gli effetti in atmosfera di questo buio improvviso. D’accordo?» I due lo fissarono in silenzio, scambiandosi rapide occhiate. «D’accordo» replicò infine il direttore. 30
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«Ah! Per me non è successo nulla» sdrammatizzò Mirko, con una convinzione tale che sembrava volesse prima persuadere se stesso. «Vedrai che fra poco tornerà tutto normale, un po’ di materiale in più per i rotocalchi televisivi e i ricercatori astrofisici, nient’altro». «Dio mio. Cosa sta accadendo…» «Dio non c’entra nulla». «Questo lo dice lei. L’apocalisse…» Paolo li abbandonò alla loro conversazione. In stato di shock, alimentavano la discussione solo per riempire quel vuoto che non riuscivano a colmare con l’esperienza, l’istinto, le proprie conoscenze scientifiche e teologiche. Avevano paura, semplicemente, e la mascheravano ricoprendola con un sottile velo di fragili parole. Senza dire più nulla, Paolo si diresse verso un computer e consultò diversi programmi, febbrilmente. «Il radar non dice nulla. Tutto normale» pensò ad alta voce. I due continuavano a discorrere senza neppure ascoltarlo. Paolo continuò a interrogare i programmi. Verificò il gradiente della temperatura in città nelle ultime ore. Il grafico temporale mostrava una parabola, il cui punto di flesso discendente coincideva con l’avvenimento eccezionale. La temperatura stava inesorabilmente calando, al ritmo di oltre due gradi all’ora, stimò mentalmente, e nulla faceva presagire che il processo potesse arrestarsi, semmai il contrario. Consultò altre stazioni meteorologiche sparse per la regione, infine allargò il campo della ricerca a livello nazionale, ottenendo il medesimo ri31
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sultato. Sembrava oramai evidente che la superficie terrestre si stesse gradatamente raffreddando. Anche l’umidità atmosferica stava precipitando a valori sempre più bassi, e i venti parevano smorzarsi. Qualcosa stava accadendo, qualcosa di grave. E troppo repentinamente. Paolo si chiese che cosa sarebbe potuto accadere se, per qualsiasi motivo, i raggi solari non avessero più raggiunto la terra per un periodo indeterminato. Un fenomeno del tutto innaturale, certo, e per questo mai profondamente studiato. D’altronde, si sarebbe trattato di un esercizio teorico del tutto fine a se stesso, nella migliore tradizione della scienza di base che andava estinguendosi per progressivo assottigliamento dei finanziamenti. Paolo telefonò nuovamente all’osservatorio astrofisico e, dopo un breve scambio di battute, chiuse la comunicazione portandosi le mani sui capelli. «La temperatura si sta abbassando sensibilmente, e non solo» disse più rivolto a se stesso. «Ehi! Avete capito? Sveglia!», li esortò, «la cosa si sta facendo grave qui...» «Eh, cosa?» domandarono confusi. «Temperatura, umidità atmosferica e venti stanno calando gradatamente, e non si tratta di un fenomeno isolato: riguarda tutto il paese, e forse l’intero pianeta». «Ma che diavolo sta succedendo…» «Succede che sulla Terra non sta arrivando un singolo raggio di sole, un singolo pacchetto di energia. Ci stiamo spegnendo». «Stai scherzando?» domandò il direttore. «Le sembra il caso? Ho ritelefonato all’osservatorio e confermano tutto». 32
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«O mio Dio, questo vuol dire che…» «Che la Terra si sta raffreddando, velocemente». «Fino a quale temperatura? E in quanto tempo?» intervenne Mirko. «Non lo so in quanto tempo. Un giorno, una settimana, un mese. Quello che è grave è che farà molto freddo. Troppo freddo». «Quanto?» «Non ne ho idea. Ai poli troviamo temperature minime fino a settanta-ottanta gradi sotto zero» ragionò Paolo. «Questo perché a quelle latitudini i raggi solari non raggiungono la superficie terrestre con un significativo angolo incidente, ne scorrono quasi paralleli. La lambiscono, semplicemente». «Lo sappiamo, Paolo. Solo che in questo caso non ci sarebbe neppure un punto tangente…» «Esattamente». «O mio Dio…» «Io torno a casa». «Anch’io». Lo scambio di battute terminò così. Paolo già non li ascoltava più, non ascoltava più il panico che stava lentamente crescendo nel laboratorio, una volta esaurito l’effetto anestetico dello shock iniziale. Aveva altro cui pensare, qualcosa di più urgente, alimentato da una serie di scenari ben poco rassicuranti che la sua mente sovreccitata gli stava proponendo in rapida successione. Riprese in mano la cornetta e fece l’ultima telefonata. Attese numerosi squilli mordicchiandosi il labbro, prima che un suono metallico liberasse l’auricolare dal fastidioso suono di chiamata. 33
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«Angela! Angela! Mi senti?», chiese nuovamente Paolo. «Sì...» rispose, balbettando in stato confusionale. «Angela, finalmente! Mi hai fatto morire di paura. Tutto bene?» «No…non so…» «È accaduto anche lì?» «Che cosa?» «La luce!» esclamò concitato. «Angela, riprenditi, Cristo! Mi ascolti?» «Sì sì… scusa, sono solo molto scossa». «E ci credo… siete senza luce anche lì, allora?» «Se intendi fuori, è tutto buio. Cosa diavolo sta succedendo?» «Non lo sappiamo ancora». «Un’eclissi di sole?» «Impossibile. Sarebbe stata prevista, e poi sta durando troppo…» «E cosa può essere, allora?» «Non lo so, e non mi piace per niente. Adesso ascoltami bene. Io torno a casa subito, tra un’ora sono da voi. Non aprire a nessuno, chiudi le porte, gli scuri e abbassa le tapparelle». «Paolo, mi stai facendo paura». «È solo una precauzione» la tranquillizzò. «Devo capire cosa sta accadendo. Vai in cantina, nell’armadio accanto alla scalinata troverai alcune candele e la lampada a gas da campeggio. Le bombolette di ricambio sono nella scatola in basso. La lampada elet34
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trica invece la trovi in cucina, nell’ultimo cassetto in alto, accanto alla cappa». «Paolo?» «Sì?» «Non ti sembra di esagerare?» «No. Fa’ quello che ti dico. Ti prego» aggiunse. «Prendi dall’armadio le coperte invernali, e vestiti pesanti…» «Ma…siamo in piena primavera!» «Fa’ quello che ti dico. Non ho tempo per spiegarti. Un’ultima cosa: riempi alcune bottiglie d’acqua e tienile in cantina. La temperatura là sotto dovrebbe mantenersi più costante...» «Temperatura? Ma che dici…» lo interruppe Angela. «Ci sentiamo più tardi» concluse frettoloso Paolo. «Fra un’ora sono da voi». Ripose la cornetta del telefono. Quell’ora che aveva pronosticato era in realtà solo un atto di fede, e Paolo lo sapeva benissimo. Angela calò in un profondo silenzio, la cornetta ancora in mano che suonava a vuoto la sequenza di fine chiamata. Cosa voleva dire Paolo? si chiese. Era molto agitato, e ci credo… Cosa sta succedendo? Cosa diavolo sta succedendo? Dio mio, perché devo prendere le coperte? Vieni qui, Paolo. Arriva presto… «Mamma, papà cosa voleva?» chiese Giulio, riassumendo in una tutte le domande di sua madre. «Niente, caro» replicò lei censurando tutti i particolari, tranne uno. «Ci avvisava solo che tornerà a casa fra un’ora». «Che bello! Tutti a casa, come a Natale!» «Sì, Giulio, ma ora ascolta». 35
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Angela lo depose sul pavimento, s’inginocchiò innanzi a lui e lo guardò dritto negli occhi, come ogni volta che doveva dirgli qualcosa di importante. «Ora dobbiamo fare un gioco. Pensa a quando andiamo al mare, in vacanza». Giulio annuì. «Bene. In tal caso, a casa c’è qualcuno?» Giulio scosse la testa. «Giusto. Quindi noi facciamo finta di essere andati in vacanza e che a casa non ci siamo. Per cui se qualcuno suona il campanello, che facciamo?» «Non rispondiamo?» «Esatto! Bravo Giulio…» «E al telefono?» Angela rifletté brevemente. «Solo se compare il nome di papà, d’accordo? E poi, quando andiamo in vacanza, prima di uscire di casa cosa facciamo?» «Chiudiamo tutto e spegniamo le luci». «Giusto. Ma dal momento che noi siamo in casa, lasciamo le luci accese ma chiudiamo tutto, d’accordo?» «Va bene mamma. E quando finisce il gioco?» «Quando arriva papà». «Va bene mamma. Mamma?» «Sì?» quasi sibilò al limite della pazienza. «E la luce quando torna?» Angela attese qualche secondo prima di rispondere, guardandolo fisso e serio negli occhi. «Quando arriva papà» rispose infine. «Ti va di cominciare il gioco dell’acqua, intanto?» aggiunse per cambiare discorso. «Sì dai, che bello! Cosa devo fare?» 36
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«Raccogli quelle bottiglie di plastica laggiù», disse indicando la cassa dove ne conservava alcune, «poi le porti sotto il rubinetto e me le riempi. Io arrivo subito». Giulio accettò la proposta con molto entusiasmo. La mamma gli permetteva di giocare con il rubinetto in cucina, uno strappo alla regola che lo avrebbe tenuto impegnato per alcuni minuti. Il gioco lo divertiva, benché non capisse bene di cosa si trattasse. Angela inspirò con forza, raccolse mentalmente le informazioni che le aveva passato Paolo e si mise all’opera. Sigillò la porta d’ingresso e setacciò le stanze chiudendo gli scuri di ogni finestra. Ogni volta che ne chiudeva uno, si ripeteva come un mantra la stessa domanda: che diavolo sta succedendo, che diavolo sta succedendo, che diavolo sta succedendo. Afferrandoli, sperava che il mantra dissolvesse quell’incubo nero che voleva essere reale, che tornasse la luce là fuori, che il disco solare ripristinasse l’illuminazione di questo piccolo frammento colorato di universo. Invece, nulla. Cominciava a provare un senso di inquietudine sempre più profondo. Come se non bastasse, ogni volta che apriva le finestre per avvicinare le ante di legno, avvertiva l’aria progressivamente raffreddarsi. Anche i rumori parevano attutirsi, come d’inverno quando il manto di neve assorbe ogni suono, ovattandolo. Notò che circolavano poche automobili, la maggior parte delle persone temporeggiava rimanendo a casa, al lavoro oppure ovunque si trovasse nel momento in cui era accaduto il fenomeno. Trovandosi in cantina, Angela non sapeva neppure quanto fosse durata la transizione dalla luce al buio, 37
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se fosse stato un evento pressoché immediato oppure graduale. Si chiedeva qualcosa che, ormai, non rivestiva più nessuna importanza. Angela osservò le ombre dei vicini ritagliate alle finestre dai lampadari accesi. Ombre che si sporgevano sui davanzali voltando la testa a destra e sinistra, poi in alto, a scatti e in rapida successione, come nevrotici uccelli sui loro trespoli. In ogni pensiero pareva balenare la danza di un sole che non voleva tornare. Solo alcuni si avventuravano a piedi, a giudicare dagli effimeri coni di luce elettrica che fendevano la tela scura, intessuta nel buio totale, in cui pareva essere caduto l’intero pianeta. Tuttavia l’illuminazione pubblica rendeva quella notte in pieno giorno ancora tollerabile, tingendola di un velo di falsa normalità. La mente di Angela continuava a mulinare pensieri e ipotesi per distrarla da quella bruma di tensione che sentiva inspessirsi nella sua sfera emotiva, minacciandone l’autocontrollo. Torna presto, Paolo, si disse. Torna presto. E quel freddo crescente poi… cominciava a intuire le preoccupazioni del suo compagno. L’ultima finestra che si risolse a chiudere era quella del bagno al piano superiore. Rimase un tempo indeterminato a osservarla, sperando in un miracolo. Dopo quella, si sarebbero completamente isolati dal mondo esterno. Un vago senso di soffocamento la colse brevemente. Deglutì a vuoto, aprì la finestra e sporgendosi impugnò la maniglia dello scuro. Prima di richiuderlo, inspirò profondamente l’aria fresca di quella falsa notte e si diresse in cantina. Raccolse candele, accen38
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dini, la lampada a gas, alcuni ricambi e la scatola delle bombolette, infine risalì al piano superiore e aprì l’armadio dove custodiva gli indumenti invernali. Raccolse una spessa trapunta e alcuni giacconi pesanti. «Mamma? Che stai facendo?» chiese improvvisamente Giulio che l’aveva raggiunta, facendo sobbalzare lei e le preoccupazioni in cui era immersa. «Giulio! Che paura mi hai fatto prendere...» «Perché prendi le coperte?» «Un altro gioco» replicò lei prontamente. «Allestiamo una tenda in salotto». «E i giacconi?» «Facciamo finta che sia inverno…» «Ma fa caldo…» «Lo so, Giulio, ma quando si fa un gioco bisogna accettarne le regole, altrimenti non vale più…» «Ma a me questo gioco comincia a non piacere affatto…» «Hai finito di riempire le bottiglie?» gli chiese per cambiare discorso. «Sì». «Bravo bambino. Hai fatto attenzione a non bagnarti?» «Sì mamma. Mamma?» «Che c’è?» «Sei strana...» «Ma no, caro...» «Invece sì. E perché non c’è luce fuori?» «Non lo so, amore. Ma tornerà presto» lo rassicurò Angela con uno sguardo lontano, stringendolo forte tra le braccia. «Tornerà presto...» Giulio rispose con calore all’abbraccio, in silenzio. 39
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«Allora, andiamo a giocare al campeggio, oppure no?» lo incalzò infine sua madre. «Sì dai! Che bello!» Angela emise un breve sospiro di sollievo. Era riuscito a distrarlo, ma non sapeva ancora per quanto avrebbe potuto sostenere quella situazione. Già si prefigurava un improvviso crollo emotivo di Giulio, una crisi di pianto, un attacco isterico. Sarebbe stata in grado di affrontarlo? Era brava a gestire le emergenze in ospedale, in un ambiente controllato. Ma ora, come avrebbe reagito? Non lo sapeva. Per ora, mi sono comportata bene, si rincuorava. Continua così, Paolo sta arrivando. Continua così… continuava a ripetersi allestendo la tenda e quando la terminò, affidò Giulio alla inesauribile fantasia del bambino. Prima di allontanarsi l’osservò con attenzione. Sembrava tranquillo, concentrato nel gioco. Sì, si disse, per il momento me la sto cavando bene. Si diresse in cucina, appoggiò pesantemente le braccia tese sul tavolo e raccolse le idee con cui affrontare la situazione. Consultò l’orologio alla parete. Le lancette segnavano con una bocca triste che erano appena passate le nove e venti del mattino. L’oscuramento totale del sole era avvenuto da circa tre quarti d’ora e Angela cominciava seriamente a preoccuparsi. Tese l’orecchio verso il salotto. Sentiva il bambino giocare con i suoi amici immaginari dentro la tenda e questo la tranquillizzò. Salì al piano superiore e poi aiutandosi con una sedia scrutò l’ambiente esterno dall’alto lucernaio della camera da letto. Il cielo era ancora nero, debolmente rischiarato dalle luci della città vicina che si riflettevano sulle basse nubi. Lo aprì e una ventata 40
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di aria ancora più fredda della precedente la investì, sorprendendola. Diede una rapida occhiata nei dintorni. Non era cambiato nulla, i lampioni ancora accesi, le auto che dardeggiavano, le finestre delle case illuminate. Lo stesso spettacolo di mezz’ora prima, un normale inizio di serata, se non fosse stata prima mattina. Rosa da un’agitazione incontrollabile, si mise a camminare avanti e indietro lungo il corridoio, infine prese la decisione di chiamare nuovamente Paolo e verificare se si fosse già allontanato dal laboratorio. Sollevò la cornetta e digitò il numero più volte, ma le rispondeva sempre la stessa voce registrata che la informava di provare a richiamare più tardi. Le linee erano probabilmente già intasate da un sovraccarico di chiamate. Tutti erano impegnati a verificare contemporaneamente dove fossero i loro cari, per sapere se stavano bene oppure semplicemente per commentare l’insolito fenomeno. «Mamma, mamma! Dove sei?» chiamò improvvisamente Giulio dal piano inferiore. «Arrivo, sono quassù, in camera» lo informò Angela. Appena sente il cordone ombelicale tendersi troppo, ecco che Giulio lo strattona per richiamare la madre a sé, come fosse un bambolotto ai suoi ordini. Angela almeno aveva la fortuna di poter gestire al meglio quel cordone, giacché nel suo caso era più composto da materiale istituzionale che biologico. Ma questo non le impediva di governare con difficoltà una situazione familiare anomala di cui prima o poi avrebbe dovuto render conto a Giulio. E più di lei, Paolo. 41
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«Eccomi qua, dimmi tutto…» chiese Angela una volta sopraggiunta in salotto, introducendo la testa sotto la tenda. «Dov’eri?» le chiese. «In camera, stavo rifacendo il letto…» rispose, chiedendosi nel contempo il motivo per cui si è così inclini a mentire ai bambini, anche quando non c’è necessità alcuna. «Vieni a giocare con me» la invitò. «Entra dentro…» «D’accordo, però posso stare poco, devo finire di lavorare». «Io non voglio andare a lavorare da grande». «Ne riparleremo, Giulio» replicò Angela accarezzandogli la guancia. «Dimmi, allora, cosa devo fare?» «Allora, tu fai il cattivo che entra nella mia casa e…» Lo squillo del campanello interruppe improvvisamente il dialogo. Angela e Giulio impietrirono guardandosi fissi l’un l’altro. «Ora, comincia il gioco vero» sussurrò Angela, portando l’indice alle labbra. Giulio non fiatò e rincarò la dose coprendo la bocca con il palmo della mano. Dagli occhi filtrava un misto di allegria e tensione. Era un gioco davvero strano.
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