I miei primi quarant'anni

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I MIEI primi

quarant’anni


Ritratti Collana

I MIEI PRIMI quarant'ANNI Marina Ripa di Meana

Direzione editoriale: Roberto Mugavero Editor: Paolo Tassoni

Le immagini di questo volume sono protette dalle leggi sui diritti di copyright internazionale. La loro riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo, è vietata senza il consenso del detentore del copyright. Le immagini di questo volume sono tratte dall’archivio della famiglia Ripa di Meana Prima edizione aprile 1984, Sperling & Kupfer editori, Milano © 2012 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978-88-7381-462-7 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com


Marina Ripa di Meana

I MIEI primi

quarant’anni Minerva Edizioni



L’autore di questo itinerario parte fortemente svantaggiato: di niente, o quasi, gli sembra valga la pena di parlare seriamente... Tutti gli aneddoti contenuti nel volume sono veri, o almeno tali li reputa l’autore. Stendhal, «Passeggiate romane»



Premessa Ogni volta che incontro qualcuno che ancora non mi conosce personalmente, quando partecipo a una trasmissione televisiva o alla presentazione di un libro, o a qualche sfilata di moda, ancora oggi, a distanza di trent’anni, la prima domanda che mi viene rivolta è sempre a proposito dei Miei primi quarant’anni. Di libri ne ho scritti quattordici, alcuni hanno anche ottenuto un certo successo, eppure la gente non fa che chiedermi di quella mia prima autobiografia, come se l’avessi appena scritta, come se io fossi la stessa ragazza di allora. È un libro che non tramonta mai, che continua a destare curiosità e interesse. Perciò quando l’editore mi ha proposto di ripubblicarlo, ho accettato con entusiasmo. Si può dire che I miei primi quarant’anni hanno inaugurato un modo nuovo di raccontare la vita brillante e avventurosa di una ragazza come me, bella, ambiziosa e determinata, che usciva da una tranquilla famiglia borghese per lanciarsi alla conquista del mondo. Ho frequentato personaggi di ogni genere: re, regine, principesse, capi di Stato, premi Nobel, artisti, scrittori, attori, registi, poeti, stilisti, ma anche perdigiorno, geniali pezzenti e insolenti imbroglioni. E ho cercato di raccontare questa variegata e scintillante ribalta esattamente come l’ho vissuta, con coraggio, disinvoltura e senza falsi pudori. Marina Ripa di Meana ottobre 2012 7



Introduzione Per quarant’anni mi sono sentita un po’ Cenerentola e un po’ Robin Hood: in questa fantasia ho passato la vita. Non sono un’intellettuale, non ho mai scritto, ma mi sento una stella. Perché le cose che racconto siano andate come sono andate non mi è chiaro. Non mi è mai interessato distaccarmi dai fatti per ragionarci sopra. Mi è interessato solo vivere con tutte le mie forze. Oggi scrivo perché non si deve perdere memoria di un periodo su cui c’è molto da ridere e da piangere per tutti, in particolare in Italia dal 1960 in avanti. La mia è soltanto un’esperienza individuale, ma il racconto attraversa tante cose: avvenimenti, storie di persone, situazioni generali. Questo libro racconta un sogno e una rivolta. Il mio sogno e la mia rivolta sono partiti da via Ruggero Fauro (che ancora oggi non so chi fosse), da un piccolo appartamento romano borghese, come tanti altri. Gli eventi successivi hanno avuto uno sviluppo vorticoso: li riferisco come li ho vissuti. Invento soltanto alcuni personaggi-simbolo, che non appartengono alla realtà, personaggi senza un vero nome e un vero cognome. So che molte pagine risulteranno dure, invece, per le persone reali che nomino, che ho amato, e che continuo ad amare. Non potevo, però, attenuarle per «riguardo». Mi sono proposta di essere fedele alla vita che scorre bollente, gonfia di passioni e di infamie, con giornate altissime e ore di schifo. La vita è popolata di 9


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laidi e di opachi; anche, per fortuna, dei loro opposti. PiÚ esattamente: tutto e il contrario di tutto convivono quasi sempre nella stessa persona. Ho imparato in questi quarant’anni che non esistono persone solo buone e persone solo cattive. Quello che ho vissuto e quello che ho scritto sono una semplice testimonianza a favore della complessità della natura umana. Spero che questo libro sia letto da molti. Spero che un giorno piaccia alla mia unica figlia, Lucrezia. Scrivendolo ho cercato di farle capire che rispetto solo quello che considero bello e poetico.

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Capitolo

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Sono quasi nata in acqua e l’idea di chiamarmi Marina sembrò a mia madre la cosa più logica e naturale del mondo. La mamma ama moltissimo il mare e, fino al giorno prima che io nascessi, non smise mai di fare i bagni tra gli scogli di Punta Capolinaro davanti alla casa che i miei genitori, a quel tempo, avevano a Santa Marinella. Il 21 ottobre 1941, poche ore dopo quell’ennesimo bagno autunnale, mi dette alla luce nella clinica romana di Villa Bianca. In un certo senso il mare fu la mia prima culla. Se si pensa che – secondo la leggenda – Venere è nata dalle acque, credo proprio che la passione di mia madre mi abbia portato fortuna, anche se, a giudicare dai miei primi quarant’anni, si direbbe piuttosto che sia nata alle falde di un vulcano. Ero una bambina con una faccia intensa, due occhi scuri, le ciglia lunghe e un paio di sopracciglioni neri neri. Insomma, anche nell’aspetto esterno avevo il mio carattere. I miei primi ricordi di infanzia, però, risalgono a qualche anno più tardi quando, insieme con la tata, andavamo a Villa Glori per la passeggiata e io spingevo la carrozzina di mia sorella Paola, più piccola di me di due anni. Era bionda, con due occhioni celesti, e sembrava Gesù Bambino. Erano tutti così impressionati dalla bellezza di Paola che la cosa finì con l’ingelosirmi. Io, in 11


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fondo, facevo meno impressione. Sì, non ero male, ma forse un po’ troppo rotondetta e avevo un’espressione buffa: ecco, più che bella, ero buffa. Nonno Emilio, il padre di mio padre, era molto autoritario e anche molto sordo. Era faticosissimo parlargli e, forse, la sua sordità lo rendeva per me ancora più lontano e severo. Non veniva quasi mai a casa nostra ed eravamo sempre noi ad andarlo a trovare, tranne il sabato. Quel giorno veniva lui e ci portava dei grandi pezzi di carne che sceglieva personalmente dal suo macellaio di fiducia, Angelo Amati, fratello del futuro re dei cinematografi romani. Era una specie di rituale, un’operazione che il nonno compiva con una cura scrupolosa e quasi ossessiva. Suo padre aveva guadagnato parecchi soldi con un forno a Melito Porto Salvo, in Calabria, e aveva comprato nella zona dei terreni che aveva coltivato a bergamotto, ma il nonno aveva lasciato la Calabria giovanissimo per studiare legge a Milano. Poi si era trasferito a Roma e aveva aperto un grosso studio di commercialista. Aveva avuto molto successo e in famiglia amava interpretare il ruolo del patriarca meridionale. Vestiva sempre di scuro e prendeva tutte le decisioni più importanti che riguardavano la nostra educazione, dalla scuola alla villeggiatura. Era affettuoso, ma non era certo espansivo. Comunque ci faceva dei bei regali. Fu lui a regalarmi la prima bicicletta e le cose più costose come il cappotto di lana o un bel paio di scarpine; e per lui avevo un misto di ammirazione e di timore. Nonno Emilio aveva sposato una tedesca. 12


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Si chiamava Adelaide Würzelbauer (che in tedesco significa «radici del contadino») ed era nata in un piccolo centro della campagna vicino a Monaco di Baviera. Era bionda, di media statura, e aveva i capelli tirati sulla testa alla maniera di Simone Signoret. Era molto pignola, fissata con la pulizia, ordinatissima, disciplinata, meticolosa come soltanto una tedesca può esserlo. Raccomandava sempre a me e a Paola di lavarci le mani. Ce lo ricordava venti volte il giorno e ci regalava anche dei nécessaire per le unghie, dicendoci di pulirle con un «lustrino» di pelle di daino. Ci portava spesso dei plumcakes e, soprattutto, era una grande camminatrice. Amava moltissimo la natura, i tramonti che seguiva con lunghissime passeggiate attraverso il quartiere Flaminio. Credo che sia stata lei a trasmettermi questa passione. La nonna materna, Elide, di origine slava, anche lei molto bella e con i capelli del mio stesso colore, non l’ho mai conosciuta. Ho un ricordo dolce, anche se non troppo preciso, di mio nonno Ferruccio Bedoni. Era un bell’uomo che assomigliava a Fredric March. Dirigeva un ufficio della Banca Nazionale del Lavoro e per Natale riceveva sempre mucchi di biglietti d’auguri, grandi pacchi, fiori, una cosa che mi impressionava tantissimo e che mi aveva convinto che fosse una persona importante. Abitava ai Parioli, in via Caroncini, insieme con mia zia Fiorella, la sorella minore di mia madre, che era bionda e aveva un bellissimo gattone d’angora. La nostra casa era lì vicino, ad un passo, in via Ruggero Fauro 54 (telefono 872244). Io dormivo in una stanza che dava sul corrido13


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io con Paola e ancora oggi ricordo che avevo il terrore di essere lasciata sola, quando i miei genitori uscivano la sera e noi restavamo con la tata. Temevo che, da un momento all’altro, anche la tata ci lasciasse. Mi sembrava di udire dei passi e, siccome il mio lettino si trovava proprio davanti alla porta e nel corridoio la luce restava accesa, avevo l’impressione di vedere un’ombra che si avvicinava o andava su e giù minacciosa. Era una paura intensissima, un vero terrore. Dopo tanti anni, non mi è completamente passata, tanto che, quando sono sola in casa, mi riprende di colpo. Strano, perché non è che i miei genitori fossero tipi da abbandonarci. Anzi, il più delle volte, passavano la serata in casa. Decidevano sempre dopo aver mangiato. Andavano nel soggiorno, si sedevano sulle poltrone davanti alla finestra, vedevano sul Messaggero se c’era un nuovo film all’Astra o al Parioli, oppure andavano a trovare la famiglia Mascioli, i loro amici più cari che noi bambine chiamavamo zio Peppino e zia Maria perché erano molto affettuosi, ci portavano regali e avevano una terrazza con una fontana piena di pesci rossi. A tavola mangiavamo tutti insieme, tranne i primi tempi, quando eravamo piccole e pranzavamo con la tata, una ragazza triestina che ci preparava spesso il caffellatte, le uova e le patate fritte. Si chiacchierava del più e del meno ma, a ripensarci, erano quasi sempre papà e mamma a parlare. Noi bambine, più che altro, seguivamo «lo spettacolo». Ma ciò che costituiva per me un vero spettacolo era la bellezza di mia madre Vittorina. La vedevo 14


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bellissima; e io ero fiera di lei quando veniva a prendermi a scuola perché ero convinta che tutte le mie compagne la guardassero con ammirazione e fossero anche invidiose di me. Era di statura leggermente superiore alla media, ma dava l’impressione di essere altissima. I vestiti che preferiva erano dei tailleur principe di Galles, che si faceva fare da un sarto per uomo ed erano più stretti ed avvitati di quelli che si usano adesso: erano ideali per mettere in risalto il suo corpo armonioso e, soprattutto, le gambe indimenticabili. Quelle gambe, che poggiavano su due caviglie sottilissime e avevano una linea stupenda, erano per me una specie di ossessione. Mi piaceva molto osservarle da dietro, quando andavamo insieme a passeggio, o ammirarle quando mia madre si preparava per uscire e metteva le scarpe con i tacchi alti che si portavano a quell’epoca. La mamma era una donna curata e naturalmente elegante, ma non aveva un guardaroba ricco o molti gioielli e, per di più, era sempre piuttosto vaga. Ricordo che un pomeriggio, mentre Paola ed io eravamo a Villa Glori con la tata e stavamo facendo merenda con dei panini ripieni di mortadella, mia madre arrivò tutta trafelata dicendoci di rientrare per cercare con lei un anello di brillanti che s’era perso. Non era un gioiello di grandissimo valore, ma lei ci teneva molto perché era il suo anello di fidanzamento. Il rientro precipitoso a casa e, naturalmente, l’anello ritrovato non mi ripagarono del piacere perduto per sempre di quel panino alla mortadella. Nonostante questi frequenti incidenti da svampita, la mamma cercava di affermare la sua autorità e rimpro15


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verava mio padre perché, secondo lei, ci viziava. In un certo senso era vero. Mio padre, Lionello Punturieri, era pazzo per le sue due figlie e non aveva davvero il carattere autoritario di nonno Emilio. Era molto bello anche lui e insieme con mamma formavano una coppia speciale, ma la cosa che più mi colpiva era la sua grazia. Da buon avvocato, era molto sornione e ironico, sembrava non prendere mai nulla sul serio e, alla fine, dolcezza a parte, riusciva sempre a fare quello che voleva. I miei genitori avevano tra loro un rapporto così stretto che, persino per noi figlie, era difficile inserirsi in quel fittissimo dialogo che tagliava fuori chiunque altro. Non credo di avere mai più conosciuto due persone che si siano amate in modo altrettanto esclusivo, al punto da isolarsi completamente dal resto del mondo. L’unica cosa che contava era il loro rapporto. Hanno dedicato tutta la vita l’uno all’altra, senza separarsi un attimo. Non c’è mai stato un giorno che non abbiano mangiato insieme, né ricordo una sola volta che la mamma non sia andata in ufficio a prendere papà alla fine della giornata di lavoro. Un amore unico, per loro. Per me, però, una gran bella noia. Era tutto di una monotonia, di una regolarità impressionante. Si mangiava sempre alla stessa ora, poi loro staccavano il telefono e andavano a riposarsi. La domenica, papà ascoltava la partita alla radio e mamma protestava. Leggevano molto: il Messaggero, tanti giornali, libri, ma non i settimanali con gli scandali e i pettegolezzi dei reali e dei divi del cinema che mia madre trovava stupidi e di cattivo gusto. Poi discutevano per ore, parlando fitto 16


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fitto e polemizzando continuamente anche sulle cose che a me parevano insignificanti; tutto pur di mantenere sempre quel dialogo un po’ maniacale. A parte quei piccoli battibecchi che facevano più che altro scena e sembravano una replica perfetta di certe gags teatrali, nulla turbava l’implacabile ritmo di quel tran-tran quotidiano. Era tutto sotto controllo. Il lavoro di avvocato dava a mio padre buone soddisfazioni. Non avevamo tutte le preoccupazioni economiche che nell’immediato dopoguerra turbavano parecchie famiglie della media e dell’alta borghesia. Si mangiava bene, frequentavamo buone scuole, d’estate si andava nella casa di Santa Marinella, ma quanto a emozioni stavamo a zero. Non si parlava mai di viaggi o di spostamenti, ogni cosa filava sui binari della più assoluta normalità. Gli unici viaggi che ricordo sono quelli di Monaco di Baviera, dove papà dovette andare per sistemare alcuni affari rimasti in sospeso dopo la morte di nonna Adelaide, e una scappata estiva a Cannes. Poi, qualche viaggio a Firenze e Venezia, dove si facevano lunghissime visite ai musei e niente di più. Papà e mamma, da borghesi ben coltivati, esprimevano una cultura che mi sembrava pedante e non riusciva mai a suscitare il mio interesse. Fra l’altro, a scuola, a differenza di Paola che aveva sempre ottimi voti, ero un vero disastro. In famiglia, non facevano che ripetere che, da grande, avrei avuto tante difficoltà nella vita e che Paola avrebbe dovuto aiutarmi. Insomma, era una specie di ritornello: «Povera Paola, meno male che c’è lei che è così studiosa: ti dovrà aiutare...». In effetti, perdevo i libri, dimenticavo tutto; bucavo le car17


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telle, odiavo soprattutto la matematica. Non riuscivo mai a capire quei famosi problemi, quelli di Pierino che ha sei uova e ha un paniere che ne contiene cinque e, allora, l’ultimo... ecco! quei problemi lì non li capivo mai. Le suore del Santa Elisabetta, l’istituto di piazza Pitagora dove ho fatto le elementari, mi dicevano senza tanti complimenti che ero un’asina tremenda e papà faceva grandi sforzi per farmi digerire anche gli odiati problemini, ma sembrava tutto vano. Ero di una vaghezza impressionante, non mi concentravo mai e, tra i banchi di scuola, pensavo sempre a qualcos’altro. Pensavo alla natura, ai colori, alle cose belle, alle luci dei tramonti d’estate e delle sere prima del Natale, ai grandi viali alberati, all’odore dell’erba e mi sentivo scoppiare di felicità. Mi sembrava che a scuola tutto fosse angusto o sporco, sentivo che alcune mie compagne puzzavano, mentre fuori c’erano il sole, la luce, la bellezza. Sentivo un’attrazione fortissima verso tutto ciò che era bello. Cercavo sempre di fare amicizia con le bambine più belle, di star loro vicina e trovavo irresistibile soprattutto Marilù che, nonostante avesse una decina d’anni, era molto sviluppata, aveva già i seni e una faccia piuttosto particolare, che potrebbe ricordare quella di Ornella Muti. Sin da bambina, prima ancora di raggiungere l’età dello sviluppo, mi ero convinta che la bellezza fosse associata in qualche modo alla forza e conferisse un certo potere. Le bambine più belle erano sempre più disinvolte e sicure, mentre le brutte dimostravano di essere impacciate e maldestre e promisi a me stessa che – sebbene allora 18


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non fossi considerata né mi considerassi particolarmente bella – avrei fatto parte del primo gruppo. Cominciavo a valorizzare i miei pregi e a minimizzare i difetti fino a farli scomparire, e i progressi realizzati mi rassicuravano e mi davano la certezza di essere su una giusta strada. Avevo capito che la bellezza è qualcosa che, sì, ci viene data alla nascita, ma che poi noi stessi creiamo, sviluppiamo e plasmiamo. In un senso, forse più profondo, il mio desiderio di bellezza nasceva dal fatto che l’ambiente in cui vivevo – la mia casa di via Ruggero Fauro e la scuola – mi suggeriva, invece, un’idea di soffocamento e di modestia. Mi chiedevo come mai due persone così belle, così affascinanti, così sensibili e intelligenti, così innamorate come i miei genitori potessero vivere in una casa così modesta. Era un contrasto incomprensibile. Ma, forse, erano proprio quella vita ordinata, quelle abitudini di ferro a rendere le pareti della casa di via Fauro un limite invalicabile. Oltre quelle pareti non s’andava, mentre io avevo capito subito che esse non erano il mondo e tanto meno il «mio» mondo. No, la vita poteva essere molto diversa sempre che ci fosse la fantasia di inventarsi qualcosa, di rompere l’atmosfera asfissiante delle consuetudini, di andare incontro alla bellezza. Finite le elementari, nonno Emilio disse che Paola ed io dovevamo ricevere un’educazione più curata e i miei decisero di iscriverci all’Assunzione, in viale Romania. Certe abitudini, come quella di fare la prima colazione con mio padre al Bar del Cigno in viale Parioli, erano ri19


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maste le stesse, ma qualcosa stava cambiando. E, soprattutto, stavo cambiando io stessa. Crescevo e cominciavo ad avere anche qualche incontro «sentimentale». Un certo cortocircuito lo avevo già sentito con un bambino che si chiamava Franchino: era il figlio del pollarolo sotto casa da cui si andavano a prendere le uova. Era brunetto, con una carnagione scura, i pantaloni corti e mi guardava in un modo diverso dagli altri. Fu lui a farmi provare, per la prima volta, il piacere di essere fissata. Erano soltanto sguardi, ma per me si trattava di un’emozione nuova e, appena era possibile, scendevo a comprare le uova. Ma il primo flirt, se così si può dire, l’ho avuto a undici anni con un bambino che si chiamava Fausto e abitava nel palazzo delle mie cugine, in viale Parioli. Una volta, dopo che avevamo giocato insieme, uscendo dall’ascensore mi spinse contro il muro e mi dette una specie di bacio. Fu il mio primo bacio e ne fui turbata; lo consideravo una cosa mia, che non si doveva dire, che doveva restare segreto. Quando Fausto mi mandava dei bigliettini, li nascondevo sempre con cura. Non volevo che si sapesse proprio nulla di questa mia «relazione». I primi veri turbamenti sessuali li ebbi, però, con una cameriera. Si chiamava Assuntina, ed era una ragazza siciliana che io trovavo molto brutta. Eppure, fu lei a farmi scoprire il sesso e, in un certo senso, a sedurmi per prima. Un giorno, mentre i miei erano usciti, mi chiese se volevo provare a «fare il cavallo» con lei. Pensai che si trattasse di un gioco. Lei si mise sopra di me, proprio come fanno gli uomini, e cominciò a strofinarmi. Sentii 20


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uno strano calore, sempre più intenso, poi una specie di stordimento. Avevo avuto il mio primo orgasmo. Prima di allora nessuno mi aveva mai parlato di sesso e non capii subito l’importanza e il significato di quel nuovo gioco, ma ebbi immediatamente la sensazione che fosse una cosa proibita, di cui non dovevo parlare con nessuno. Nonostante Assuntina non mi piacesse per niente, volevo sempre «fare il cavallo». Succedeva la sera, quando i miei genitori uscivano, e ora aspettavo di rimanere sola come se si trattasse di una festa. Altre volte Assuntina, approfittando di una mia leggera influenza o aiutandomi a fare il bagno, mi iniziava a nuovi giochi erotici. Nessuno sospettava niente. Ne parlai una sola volta a un ragazzo, che era un po’ il mio confidente, mentre mi trovavo in vacanza a Ortisei. Gli confessai questa cosa che «facevo il cavallo» e lui si mise a ridere, lo raccontò agli altri amici e tutti cominciarono a prendermi in giro e a chiamarmi Cavallo. Mi convinsi sempre di più che era bene non parlare a nessuno di questa storia. Comunque «fare il cavallo» mi piaceva. Assuntina era cosi brutta, benché avesse solo vent’anni, che non provai mai una volta desiderio di lei, ma avevo continuamente voglia di quel gioco. Ormai, il mio corpo aveva scoperto il piacere fisico e ne sentiva l’esigenza. Era molto bello addormentarsi sfinita la sera dopo aver fatto quella cosa. Era un’esperienza molto forte che, appena possibile, cercavo e che mi lasciava sempre come intontita. Era una delle cause della mia vaghezza e della mia distrazione. Mi 21


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dicevano tutti che sembravo passeggiare tra le nuvole, ma nessuno sospettava le autentiche ragioni di quel comportamento. Eppure, tra i tredici e i quattordici anni, il mio fisico era tutt’altro che sviluppato, anzi era piuttosto acerbo. Non avevo seno e sembravo quasi un maschio, a parte i fianchi rotondi e il sedere pesante. Non avevo affatto la sicurezza della mia bellezza, un problema che mi ha accompagnata tutta la vita (e che è stato il «mio» problema) e, nonostante la mia notevole altezza, mi sentivo quasi ritardata fisicamente. Il mio corpo, però, reagiva come quello di una donna adulta. Avevo mestruazioni violentissime, che mi facevano star male e mi procuravano dolori tremendi. Era un autentico inferno. Piangevo tanto e ricordo che, alcune volte, dovettero riportarmi da scuola a casa in barella perché rimanevo paralizzata dai dolori. Ogni mese era una tortura: sangue, sangue, sangue. Persino mia madre e le professoresse, che sapevano bene come stavano le cose, talvolta sembravano incredule e si spaventavano. Benché mi sentissi goffa e non trovassi guardandomi allo specchio nessuna sicurezza, cominciavo a piacere ai ragazzi. I primi successi li ebbi al campo dell’Acqua Acetosa, dove andavo spesso a pattinare. Il pattinaggio era il mio sport preferito anche perché appagava finalmente il mio narcisismo. Papà e mamma mi avevano regalato un paio di stivaletti bianchi che mettevo insieme con alcuni gonnellini pieghettati in occasione delle mie «esibizioni». Ero abbastanza brava e sapevo fare con disinvoltura di22


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verse figure, ma mi accorsi presto che parecchi ragazzi seguivano le mie piroette, interessati non tanto alla mia bravura quanto alle mie gambe: gli stivaletti alti e bianchi le slanciavano. I ragazzi non facevano che dirmi: «Che gambe, Marina, hai due gambe che sono il massimo», e quella specie di trionfo mi fece una tale impressione che, da allora, ho sempre pensato che nasconderle fosse un peccato. Credo di non essere mai stata desiderata come in quel periodo. Il gioco era quello di farsi vedere e, soprattutto, di farsi desiderare. Mi bastava immaginare di essere desiderata per impazzire di felicità. Andavo all’Acqua Acetosa subito dopo aver mangiato, nelle prime ore del pomeriggio, dalle due alle quattro. Per me, quell’arco di tempo racchiudeva il vero incantesimo della giornata. Dalle due alle quattro: ore ricche di gioia, brevissime e interminabili insieme. In quelle due ore succedevano tutte le cose più importanti: i giochi, gli incontri con i ragazzi, le speranze, le attese. Il resto, al confronto, non era nulla. Per anni, dopo che ebbi smesso di andarci, in quelle stesse ore sognai di trovarmi ancora lì, su quella pista di pattinaggio che avevo tanto amato. Sentirmi ammirata mi procurava una sensazione di grande euforia, di vitalità, di felicità. Spesso bastava una semplice passeggiata. Negli Anni Cinquanta, camminare (o meglio «saper» camminare) era importantissimo per una donna: era un’arte da imparare e da perfezionare con la dovuta attenzione. Si incontrava una persona, si proseguiva e ci si portava dietro il suo sguardo pieno di 23


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ammirazione, qualcosa che restava addosso e che rappresentava un sicuro riconoscimento del proprio fascino. Non mi importava affatto che il ragazzo che se ne stava imbambolato alla finestra non mi piacesse: l’importante era essere desiderata. Uscivo di casa, sentivo l’aria che mi accarezzava il volto, andavo tra la gente quasi con impeto ed era la vita stessa che mi veniva incontro. Anche adesso, nel primo pomeriggio, non c’è giorno che non senta la necessità di fare una passeggiata, camminare nei prati o per i viali dei giardini, vedere la gente, sentirmi guardata, sapere di esistere. Tutta la mia vita si svolgeva nel quartiere dove abitavamo. Per me era il mondo. Non ci si spostava mai. Mi sembrava che la vita cominciasse e finisse lì, che tutto dovesse succedere in quel quartiere. A ripensarci, è impressionante. Prendere il filobus 53 per andare in piazza San Silvestro, in centro, era una specie di avvenimento che si verificava ogni tre mesi, come andare da Roma a New York. Se si mangiava al ristorante era sempre da Celestina ai Parioli, se compravamo i giornali lo facevamo immancabilmente all’edicola di via Castellini, se prendevamo qualcosa al bar era il baretto all’angolo con via Caroncini: persino andare al Bar Hungaria, poche centinaia di metri più avanti, sembrava un viaggio. Amavo moltissimo questo quartiere. Nella discesa di via Ruggero Fauro c’era una fila di bancarelle dove si vendevano lenzuola, gomme americane, vestitini e, soprattutto, i primi blue-jeans che erano arrivati in Italia dopo la guerra. Dopo colazione, quando i miei genitori dormivano, se non andavo all’Ac24


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qua Acetosa, facevo una scappata in piazzale delle Muse a mangiare un sandwich, a bere una Coca-Cola. A volte, più tardi, scendevo per pochi minuti al Bar Felice, proprio sotto casa, e prendevo un cono. L’ora del gelato rappresentava una gran festa, qualcosa di speciale. Si incontravano i ragazzi, le amiche, si giocava, si chiacchierava. Oppure, d’inverno, col calar della luce, verso le sei, scendevo per comprare un quaderno e c’erano i primi baci rubati sotto i lampioni, ed erano attimi di felicità. Erano proprio baci rubati, perché mia madre non voleva che io e Paola ci fermassimo in mezzo alla strada, non stava bene che due ragazze se ne stessero per strada «come due straccione». Un’altra cosa vietata erano le calze di nylon. I miei non volevano che le portassi, un po’ perché erano considerate sexy ed erano cose che soltanto una donna adulta avrebbe dovuto portare e un po’ perché erano costose. A me piacevano moltissimo e, con i miei risparmi, appena possibile me le compravo. Le mettevo nascondendole sotto i calzini di lana, uscivo, toglievo i calzini, e me ne andavo tutta fiera in giro esibendo quelle calze di nylon. A volte, succedeva di incontrare papà e mamma che mi incrociavano passando in macchina ed era un guaio. Cominciavo a balbettare, diventavo tutta rossa e loro non ne capivano la ragione; io credevo che, se si fossero accorti di quelle calze, mi avrebbero sgridato, ma loro non se ne accorgevano mai, proprio mai. Qualche volta la facevo più grossa e, visto che ero ormai abbastanza sviluppata da potermelo permettere, prendevo i vestiti della mamma e le sue scarpe con i tac25


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chi altissimi. Mi mettevo quella roba e uscivo, come se dovessi andare alla conquista del quartiere. Se mi avessero regalato un grattacielo, non avrei forse provato la stessa gioia. Era una gioia quasi cosmica. Naturalmente, se la mamma se ne accorgeva, erano discussioni interminabili. Mi diceva che ero ancora una ragazzina, che le rovinavo i vestiti e che le sformavo le scarpe. Mia madre non incoraggiava questa mia passione per ciò che considerava futile, come gli abiti e la bellezza, e mi spingeva – d’accordo con mio padre – verso le letture. Io ero piuttosto pigra e preferivo che fossero loro stessi a leggermi un libro o una storia, in particolare durante le malattie. Mi ero appassionata a Rebecca, la prima moglie di Daphne du Maurier, perché certe descrizioni stimolavano la mia immaginazione. Oppure, leggevo e rileggevo Le Mille e una notte o le avventure di Salgari come Jolanda, la figlia del Corsaro Nero. In un certo senso, erano libri che mi assomigliavano. Ma le letture non erano il mio forte. Con il passare degli anni, mi sono accorta che mi sento realizzata e felice soltanto quando riesco a trovare, nella vita e nel lavoro, la mia espressione creativa. Tutto il resto, in fondo, mi annoia. Ma i miei genitori cercavano, forse senza rendersene conto, di modificare la mia natura spingendomi a interessi che mi erano estranei. Se le letture non costituivano il mio forte, non si poteva dire altrettanto dei vestiti. Ero appena una ragazzina quando scoprii l’enorme piacere che mi dava il fatto di giocare con le «pezze». 26


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Avevo cominciato prestissimo, all’età di nove anni. Nell’ingresso c’era un armadio che veniva usato come ripostiglio e dove erano stati sistemati parecchi vestiti della nonna Adelaide e della mamma, che mi sembravano bellissimi. C’era un vestito di raso bianco di mia madre, un altro di taffettà rosa, uno di velluto verde, alcuni vestiti di tulle. Prendevo questi abiti e li rielaboravo, li accorciavo, li tagliavo. Giocare con le stoffe e con quei colori abbaglianti mi dava un’eccitazione paragonabile soltanto al fatto di sentirmi ammirata. In un primo tempo, ebbi il permesso di giocarci soltanto: indossavo i vestiti o li facevo indossare a mia sorella e poi tutto doveva ritornare a posto come prima. Alla fine, la mamma decise di regalarmene qualcuno e così potei modificarli secondo il mio gusto. In camera da letto c’erano uno specchio e una seggiolina piccolissima e io trovai che quello era il posto ideale per fare i miei esperimenti. Accorciavo i vestiti o facevo dei turbanti, come quelli delle eroine delle Mille e una notte, e li provavo su Paola, che si prestava a fare da modella brontolando. Sbuffava continuamente, mentre io insistevo sempre per provare «ancora dieci minuti». Si andava avanti per ore. Paola diventava sempre più bella. Ricordo che un anno, per carnevale, si mascherò da bambola ed era di una tale bellezza che tutti si fermavano per strada ad ammirarla. Ma, a differenza di me, non si curava affatto di piacere agli altri. Nonostante i suoi grandi occhi celesti che la facevano sembrare un angelo, assumeva atteggiamenti da maschiaccio. Mentre io tenevo tantissimo alla 27


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mia persona, lei andava sempre in giro con un paio di blue-jeans, le scarpe da tennis e una camicetta, per giorni e giorni, senza cambiarsi mai. Giocava a pallone, insomma si comportava come un ragazzo. Il suo gioco preferito, però, era quello con i burattini. In casa aveva organizzato un teatrino di marionette e, mentre io tagliavo e cucivo le mie «pezze», lei passava intere giornate con i suoi pupazzi. Le piaceva tantissimo la musica ed ascoltava per ore Diana di Paul Anka o i rock di Elvis Presley, oppure Frankie Lane o i Platters, insomma i successi degli «urlatori» che in quel momento furoreggiavano. Nonostante la sua trascuratezza nel vestire e la sua aria da teddy-boy, i corteggiatori non le mancavano. Ma le nostre vite, benché fossimo quasi coetanee, procedevano su binari completamente diversi. Mi sentivo molto più donna. Io detestavo la scuola e lei era un’allieva esemplare. Io manifestavo i primi segni di insofferenza nei confronti della famiglia e lei, invece, ci si trovava bene e aveva un rapporto molto più equilibrato con i nostri genitori. Io avevo frequenti alti e bassi d’umore, mentre lei era quasi sempre allegra. C’erano però anche momenti di complicità. Ricordo che, una volta, lanciammo dalla finestra dei pomodori addosso a due signori in smoking che stavano passando e successe un vero pandemonio perché questi andarono dal portiere e attribuirono la colpa, non si sa come, ai Nasalli Rocca, che abitavano all’ultimo piano ed erano persone tranquillissime. Poi, ricordo che, quando mio padre comprò la prima Topolino, io, che avevo una specie di vera passione per la guida, prende28


capitolo primo

vo l’auto di nascosto e costringevo Paola a stendersi per terra sull’asfalto, esattamente sul posto dove papà aveva parcheggiato, in modo da tenerlo occupato sino alla fine del giro per rimettere la macchina nella stessa posizione, come se non si fosse mossa. A parte queste brevi complicità, vivevamo insieme ma separate. Io avevo le mie amicizie, lei aveva le sue. Io non conoscevo i suoi turbamenti o i suoi problemi con i ragazzi, lei non conosceva i miei. Non parlavamo mai dei nostri rispettivi amori e, tanto meno, di sesso, un argomento che – più che proibito – era assolutamente ignorato in famiglia. In quel periodo (avevo appena compiuto tredici anni), ero diventata molto amica di due ragazzi, Mario e Oderisio, entrambi molto belli, e con il primo avevo una storia che potrei definire la mia prima «relazione seria». Era segretissima: lui, come un baby Casanova, di notte scavalcava il balcone ed entrava nella mia stanza. Lo sistemavo nel mio letto mentre nella camera vicina continuava ininterrotto il chiacchiericcio dei miei genitori, e mia sorella, nel lettino accanto, dormiva con gli occhioni celesti sbarrati e la bocca aperta. Ci scambiavamo baci e carezze, ed era emozionante come fare l’amore. Vivevo a contatto di gomito con mia sorella, ma la sentivo diversa e questo contribuiva a rafforzare la mia sensazione di isolamento in famiglia. Era tutto tranquillo, tutto regolare, tutto giusto, tutto terribilmente noioso. Non succedeva mai nulla. Non c’erano emozioni. Avevo la sensazione che il tempo non passasse mai. Avvertivo una specie di vuoto, nel quale le nostre vite ristagnavano. 29


I MIEI PRIMI QUARANT'ANNI

Era un vuoto esistenziale terribile, che mi rendeva sempre più insicura. In questo clima di assoluta normalità, dal quale ogni emozione sembrava essere bandita, ciò che respiravo era soprattutto noia. Tutto, in quella vita, mi sembrava dominato dalla noia. Si mangiava con un senso di noia. Si andava a dormire con un senso di noia. Più il tempo passava e più ci si annoiava. Più si chiacchierava e più la noia si faceva sentire. Se si parlava di una persona, la si descriveva in un modo così piatto, da renderla immediatamente noiosa. Non si faceva mai uno sforzo per cogliere negli altri il lato poetico e neppure quello turpe, insomma ciò che avrebbe dato a queste persone un po’ di sangue e un’anima. Il risultato fu che cominciai a provare, da allora, interesse soltanto per i poeti e per i manigoldi, per la semplice ma validissima ragione che avevano entrambi il merito di non essere noiosi.

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