Il battito nelle corde

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il Battito nelle Corde

dai campi di concentramento e ritorno


Alessandro Mischi

il Battito nelle Corde

dai campi di concentramento e ritorno Direzione editoriale: Roberto Mugavero Editor: Paolo Tassoni L’Editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti iconografici senza riuscire a reperirli. Lo stesso resta a disposizione per gli eventuali aventi diritto. © 2012 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978-88-7381-417-7 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com


Alessandro Mischi

il Battito nelle Corde

dai campi di concentramento e ritorno Prefazione di Arrigo Sacchi

Minerva Edizioni



Prefazione Conosco Alessandro ormai da parecchi anni e lo considero una persona capace e sensibile per cui, quando mi ha portato da leggere il suo libro, l’ho fatto con piacere. La storia è avvincente e nello stesso tempo ti fa riflettere: racconta di come la vita ti possa cambiare improvvisamente e di come tutto quello che ti sembrava ti fosse dovuto possa svanire da un momento all’altro per un imprescindibile segno del destino. Un giovane aristocratico, di nobili origini, vive la sua vita “fortunata”, fatta soprattutto di tennis, cosa che lo appassiona più di tutto nella vita, quando improvvisamente viene catapul­tato, causa la guerra, nei campi di concentramento. E si ripercorre quel periodo storico, quei momenti tangibili che persone “sfortunate” hanno dovuto vivere, loro malgrado, quando imperavano la fame ed il desiderio di sopravvivenza. Quella stessa sopravvivenza che il nostro personaggio riesce ad ottenere grazie al suo sogno di sempre, il tennis, mai sopita. E nonostante l’orribile momento raccontato, i campi di concentramento, la storia scorre piacevolmente e si trovano tanti momenti in cui si sorride se non addirittura si ride perché il linguaggio usato per descrivere eventi e personaggi è intelligente, perspicace e sdrammatizzante. E quando il nostro personaggio è costretto, per sopravvive­re, ad uccidere un uomo, l’unico tedesco da cui gli era giunto un segno di amicizia, si arriva ad una svolta: egli capisce la brutalità di quel gesto che lo segnerà per il resto della vita e lo porterà a delle intense considerazioni sulla vita stessa e sui comportamenti. Dicevo, appunto, romanzo che fa riflettere, al di là della storia raccontata in modo molto piacevole e sarcastico, e qui mi ricollego all’introduzione iniziale, dove ho descritto Alessan­dro come persona intelligente e sensibile, per dire che non mi ero affatto sbagliato. Arrigo Sacchi



Capitolo 1 Dai campi da tennis ai campi di concentramento

Ognuno di noi nasce da un vincitore eppure siamo tutti dei perdenti. Tutte le vite sono uguali all’inizio e alla fine. Una vittoria e una sconfitta. Nel mezzo l’esistenza. Sì, perché tra migliaia di gameti solo uno è vincente. Un minuscolo spermatozoo riesce a sopravvivere e a fecondare l’ovulo. Ottiene come premio per la vittoria la vita per poi avere come unica certezza quella di perderla. Forse è proprio per questo che siamo ossessionati dall’idea di vincere. Vincere sempre, comunque e prima di ogni altra cosa. Vincere la guerra. Vincere le Olimpiadi. Vincere un titolo. Vincere una corsa. Vuole vincere il podestà come l’arrotino. Vogliamo vincere una donna. Che sia dalle parti del cuore o della gloria, del portafoglio o del terreno, vorremmo sempre vincere per dimenticare che il nostro destino è quello di una sconfitta. La morte non si vince. Soltanto uno ci è riuscito ma era il figlio di Dio. Ogni mattina questo stesso pensiero mi percuote come lo “stock”, il rumore secco di una racchetta mentre colpisce una pallina. Tutte la mattine con quel rumore nei timpani e quel pensiero. Siamo tutti condannati a morire eppure l’umanità si scanna con le guerre per accelerarne la riuscita. Quando si alza il sole sul cielo di Chemnitz, quel pensiero di morte non fa che percuotermi come un infarto acusti-

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co, forse perché anche l’aurora fa schifo qui in Sassonia. Un sole lattiginoso che non scalda. Una luce anemica su persone ormai trasparenti. Peso meno di cinquanta chili e quando vado a dormire non riesco a trovare la posizione perché non c’è carne tra le ossa delle spalle e il legno del giaciglio. Di quattrocento militari italiani siamo rimasti in vita la metà e ogni giorno che passa ne cascano a terra non so quanti. Come un tabellone di un torneo di tennis. Ogni giorno ne restano in gara la metà. Eliminazione diretta, solo che qui alla fine non si vince niente. Si è certi soltanto di perdere. Si rimane in un campo – non da tennis ma di concentramento – unicamente per assistere alla propria sconfitta. Ecco il mio nuovo circolo: il Koncentrament Lager. Solo che che qui non ci sono i campi in erba o in terra rossa ma capannoni ricoperti di melma sanguigna. Si va nelle gallerie come topi lungo i canali delle fogne e ai piedi si calzano non le scarpe morbide di tela ma zoccoli grossi e pesanti che ti martirizzano. I vestiti non sono le magliette immacolate ma rimasugli di indumenti stracciati, impregnati di unto e carichi di polvere di ghisa che ti raschiano la pelle a ogni passo fino ad arrivare all’anima. Già, non c’è più carne intorno agli scheletri. Gli uomini sono figure irreali, ombre tremolanti, sagome fosche e silenziose. Ecco i miei compagni di circolo. Tante anime in attesa di trapassare nel regno dei morti. Qui si gioca ad assistere alla propria sconfitta. Qui si gioca a procrastinare, a temporeggiare, a rimandare quello che il destino ha scelto per te: diventare in breve materia

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organica che finirà per imputridire. Be’, io da giocatore ero maestro nel ritardare la mia sconfitta. Quando, in un torneo di tennis, ero sotto nel punteggio, mi mettevo da fondo campo a rimandare tutto ciò che potevo. E in quelle risse di terra rossa, sudore e polvere quante rimonte ho fatto. Quante partite ho vinto. Ah, che incontri! Indelebili ricordi di lotte e vittorie. Il corpo proteso in allungo, la pallina che sta per ritoccare terra e invece no! Te la rimando ancora di là, brutta carogna. «Non mollare Patrizio, non mollare mai», mi ripetevo a ogni colpo. E a ogni stock della palla scandivo il tempo. «Un altro stock, dai, forza, sono ancora vivo». Perché ogni partita per me era questione di vita o di morte. Se perdi, il tuo nome verrà cancellato dal tabellone. Equivale a morire, no? Se vinci invece arrivi a premio. Già, a premio. Qui però non si va a premio come in un torneo di tennis. Qui c’è solo il desiderio di spostare un po’ più in là l’ora fissata dal destino. Dello “stock”, del colpo musicale di tennis fra pallina e racchetta non c’è nulla. Ah, il tennis. Come adoravo giocare a tennis. L’unico ricordo che mi dia sollievo. Ecco, allora anche l’alba mi piaceva perché voleva dire che dopo poco sarei andato a giocare a tennis sui campi del Circolo Tennis di Sanremo. Il tennis, primo e, temo, unico grande amore della mia giovane e, temo ancora di più, breve, vita. Non credo che riuscirò a scampare a questo campo di “lavoro” per conoscere l’amore per una donna. Ho conosciuto le donne prima di partire grazie ai casini ma l’amore vero, quello

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che ti percuote l’anima e il cuore, ancora no e chissà se farò in tempo ad assaporarlo. Invece il tennis sì, quella sì che è stata una bella cotta. Non vedevo l’ora di giocare, di dirigere i miei sogni con la racchetta come il direttore d’orchestra la sua musica. Il tennis è musica. Anzi, è arte. È più di uno sport. È connubio fra danza, musica e pittura. La danza dei passi leggeri e veloci che scattano e frenano per culminare con una scivolata. L’armonia del gesto, come il pittore fa scorrere lieve e veloce il pennello sulla tela per poi caricarne i colori con colpi colmi di energia, come un uomo accarezza il volto di una donna attirando a sé il suo corpo con bramosia e desiderio, così il tennista accarezza o colpisce una pallina a tempo di un ritmo musicale. È arte, è arte, poche storie. Quando riesci ad attutire il più violento dei diritti del tuo avversario con una volée di rovescio che fa smorzare la pallina all’angolo opposto della rete questa è poesia sportiva e tu ti ritrovi con una penna, una bacchetta e una racchetta contemporaneamente in mano. Sei un artista del gesto. Sei cantore della capacità di gestire il tuo corpo nello spazio e di dirigere un oggetto tondo in volo dove tu vuoi. È arte, è arte, non è solo uno sport. Che sensazioni. Ricordo ancora il primo servizio vincente, da destra a sinistra con un effetto tagliatissimo e l’avversario che non riesce a sfiorare la pallina. Ricordo ancora poco più che bambino le prime volée. Una carezza morbida sul velcro della pallina e quella cicciotella bianca si affloscia al di là della rete, imprendibile. Che spettacolo. Non avevo una racchetta ma una bacchetta

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magica. Mi sentivo un mago e la gente dai gradoni del circolo sopra il campo centrale applaudiva il ragazzino prodigio. Già, il prodigio. Invece qui si sta alla fresa e al trapano tutto il giorno dalle sei alle diciotto e a pranzo zuppa di verdure, zuppa di ortiche, pane raffermo e scariche di dissenteria che ti uccidono. Altro che magia, che prodigio. Piattole e topi dappertutto. Molti i topi se li mangiano, ma io non ce la faccio proprio. Di solito, dopo aver finito quel poco di burro che ci danno, uso la carta a mo’ di brillantina. Me la passo sui capelli per tirarmeli indietro. Ma una notte mi sono svegliato con un topo che mi leccava i capelli. Quando lo ho raccontato a quelli del mio Stalag, il IV B, qualcuno si è anche arrabbiato. «Potevi prenderlo che ce lo saremmo mangiato, coglione!», mi ha urlato un veneto. No, i topi no. Almeno non ancora. Va bene bere dell’urina com’è accaduto durante il viaggio per arrivare a questo campo di lavoro, ma i topi non ce la faccio, ora. Magari più avanti. Quando la mia amica fame mi avrà privato di tutto ciò che di umano ancora mi rimane. Io e lei siamo grandi amici e mi tiene sempre compagnia, quella grande baldracca. Va con tutti però non ti abbandona mai. E fortuna che, giocando a tennis, ho sempre avuto un fisico atletico. Quando dalla caserma di Banne vicino a Trieste ci hanno portato qui dentro vagoni blindati, come degli animali, i primi a morire sono stati proprio quelli che non avevano mai fatto nulla. Li ho visti subito. Spalle ricurve, torace stretto, braccine sottili che al primo pezzo

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di ghisa da portare si piegavano in due. Le mie braccia invece erano forti, allora. Avevo un destro che allenavo tutti i giorni a suon di diritti e rovesci contro il muro del circolo mentre solo con il sinistro mi sollevavo da terra per tre serie da venti ripetizioni l’una, perché braccio e spalla fossero simmetriche. Per fortuna, essendo così robusto, mi sono fatto subito rispettare. Quando ho dovuto fare a coltellate con un gruppo di prigionieri polacchi non mi sono tirato indietro. «Vieni sotto che ti apro a mani nude, brutto maiale», ho urlato a un porco polacco. Grosso il doppio ma flaccido. Lento di braccia. Gli ho dato due colpi in testa con un mulinello del braccio così veloce che se avessi avuto una racchetta in mano avrei fatto un servizio vincente. Il servizio l’ho fatto a quel porco. Una gragnola di fendenti che se non mi avessero fermato lo avrei ridotto come una tagliata di manzo. E me la sarei mangiata volentieri. Il topo no, ma la carne di porco polacco l’avrei assaggiata volentieri. Perché se per il conte Ugolino «più che l’onor poté il digiuno» e si è sbafato i suoi figli, io una fetta di porco polacco avrei potuto mangiarla a cuor leggero, oltretutto non l’avevo mai visto prima e da subito ci siamo stati sull’anima. Comunque l’ho battuto. Ho vinto io. E così sono riuscito a prendermi io il premio: un sacchetto di bucce di patate. Che tristezza, che rabbia, che pena. Fare a coltellate per un sacchetto di bucce di patate. La fame ti tocca nel profondo dell’essere ed è così abbruttente che che chi non l’abbia mai provata non lo può nemmeno immaginare e ora, che sono passato dai campi

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da tennis ai campi di concentramento, tutta la rabbia agonistica che avevo nel giocare mi aiuta nel a sopravvivere. Anche qualche buccia di patata può allungare la mia presenza in questo torneo della vita a eliminazione diretta. Se me lo avessero detto quando a quattordici anni andavo a scuola con l’autista e la Lancia di mio padre gli avrei riso in faccia. Invece, quattro anni dopo sono qui in questo lager a festeggiare ogni giorno il passaggio del turno di questo torneo che mette in palio solo una cosa. La mia pelle. Sempre più bianca, sempre più diafana, con croste che te le gratti fino a sanguinare. Però non mi ritiro. Col cavolo che mi ritiro. Come quando giocavo nei tornei e mi facevo male. Speravo sempre che capitasse qualcosa di peggio al mio avversario. Una volta ho vinto una partita anche se avevo una caviglia grossa come un melone. Mentre correvo lungo la riga di fondo sui campi in terra battuta del circolo tennis di Alassio presi una storta tale che sentii il dolore fino alla punta della lingua. Se mi fossi tolto la scarpa non sarei stato più in grado di rimetterla, invece presi la cintura dei pantaloni di tela, la legai attorno alla caviglia e la feci passare sotto la pianta del piede. Corsi quasi su una gamba sola ma alla fine vinsi io, ah! Perché con lo zoppo si gioca sempre male. È una vecchia regola del tennis. Se cerchi di farlo correre facendogli palle corte vicino alla rete alla fine snaturi il tuo gioco, ti deconcentri e non riesci a mettere lo zoppo in difficoltà. E alla fine, se non si molla mai e ci si adagia sulle scuse, si riesce a vincere. Chissà, magari mi riuscirà anche qui a Chemnitz. Pas-

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siamo tutta la giornata nelle officine ad affilare metalli, respirare polvere e a comporre elementi in ghisa. Pezzi che poi vanno all’Auto Union di Dresda per diventare carri armati. In pratica costruiamo pezzi di armi che faranno fuoco anche sui miei connazionali. Grazie al lavoro dei prigionieri la fabbrica di Dresda di carri armati ha raddoppiato la produzione, dicono. Il nostro lavoro fa macellare altre persone, altri italiani. L’esatto contrario del motivo per cui abbandonai i campi da tennis e partii volontario per la guerra nel 1943. Volevo anche io dare la mia parte. Ma non ho neanche fatto in tempo a finire l’addestramento a luglio che il nove di settembre ci siamo trovati i carri armati dei tedeschi. Cannoni grandi così puntati contro l’ingresso della caserma. «Se vi arrendete tornerete a casa», ci dissero. Me lo sentivo che erano balle ma vallo a spiegare ad altri quattrocento militari, molti dei quali semianalfabeti. «Non ci faranno tornare a casa, tanto vale combattere. Se abbiamo fortuna possiamo farcela». Nessuno mi ha dato ascolto. Alla parola “casa” nessuno ha capito niente. Invece, con il senno di poi, avremmo potuto combattere, forse resistere. Certamente saremmo morti meglio. E certamente saremmo stati sepolti in territorio italiano. Molti dei miei commilitoni invece non torneranno in Italia neanche da morti. Un bombardamento sulla nostra fabbrica ha distrutto quella specie di camposanto che abbiamo costruito dietro lo Stalag IV B. Quei poveri ragazzi sono morti due volte. Per ognuno di loro avevo cercato di fare almeno una bella croce di

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legno. Una volta adoravo il legno. Mi piaceva il profumo del legno di una racchetta nuova, rigirarmela tra le mani come il violino per un musicista. Ogni racchetta nuova per me era come uno Stradivari. Tutte avevano la loro custodia con i morsetti perché il telaio non “imbarcasse”, come si dice in gergo. Però in un incontro di tennis oltre che al ritmo, alla musicalità, allo “stock” della pallina contro le corde, vedevo anche qualcosa di ancestrale. Ci si ritrova uno contro l’altro con un legno in mano come agli albori della civiltà. Solo che nel tennis non ci si randella nei denti, anche se più forte colpisci più probabilità hai di fare punto. Si combatte ma non ci si ferisce. E alla fine ci si stringe la mano. Invece adesso il legno mi ricorda soltanto quelle croci che con una pialla ho cercato di rendere più lucide possibili, per dare onore a questi ragazzi. Una pioggia di bombe una notte ha fatto saltare tutte le baracche del nostro stalag e ne sono morti una cinquantina. Ho piallato altre piccole cinquanta croci. Invece che mangiare ho tagliato e lucidato il legno per fare le croci. Per riprendere le forze ho strisciato sotto i capanni e ho rubato del cioccolato dalla baracca dei prigionieri inglesi. Lì sì che arrivano i pacchi della Croce Rossa. Da noi italiani invece nessuno ha ricevuto niente. La cioccolata l’ho dovuta mangiare di nascosto mentre ho smerigliato le croci. Una volta sverniciavo così le racchette, perché volevo che avessero il colore del legno e lo facevo sempre con gioia, ridendo. Andavo a trovare a Bussana Vecchia, Giovanni il poeta.

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Bussana è un paesino alle porte di Sanremo. Sulle colline e con un panorama mozzafiato. Un terremoto alla fine del Settecento lo ha parzialmente distrutto. Morirono quasi in duecento. I sopravvissuti lasciarono il paese. Da allora fu disabitato. Poi, alcuni artisti, scrittori, oppositori del regime hanno incominciato a viverci. Una sorta di confino volontario. Però credo che loro ci stessero bene. E io con Giovanni mi trovavo proprio bene. Non si parlava mai di politica. Giovanni sapeva che mio padre era una camicia nera, ma lo rispettava. Per mio padre la patria era tutto. Poi a pari grado c’erano la famiglia, il senso del dovere, la fede in Dio. Giovanni rispettava tutto questo anche se lui voleva sentirsi sempre un uomo libero. Faceva il falegname ma vendeva anche i suoi versi. Bellissimi. Li firmava “E.A. Fronte” e io non ho mai saputo per che cosa stesse quel “E.A”. Però era un uomo che mi dava tranquillità, scriveva poesie bellissime e intarsiava il legno. Da lui ho imparato a conoscerne le venature, a lucidare, laccare e piallare il legno perché le mie racchette dovevano essere le più belle, le più lucide. Ridevamo, chiacchieravamo e io ero felice. Fu a Giovanni che dissi subito la mia intenzione di partire volontario. Prima a lui che ai miei genitori. E Giovanni mi regalò una racchetta bellissima. Una Maxima in legno, personalizzata con il tricolore che gli si attorciglia lungo il fusto. Un gesto gentile da parte di un anarcoide come lui. «Quando tornerai ti farà vincere qualcosa di importante», mi disse. Chissà se sarà vero. Chissà che fine ha fatto Giovanni. Chissà se si ci rivedremo.

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Con erba, gesso e sangue ho fatto delle tacche tricolori per quelle croci. Il sangue me lo sono tolto scrostandomi una ferita nel piede. Un male cane ma sono riuscito a non urlare. E quelle croci le ho lucidate senza neanche riuscire a tirar fuori una lacrima. Amo troppo la vita ma non ho più traccia dei miei sentimenti. O quantomeno non riesco più a piangere. Neanche quando ci frustano e la pelle della schiena resta attaccata ai frustini. Urlo ma non piango. Neanche quando l’altro giorno mi hanno battuto come un polpo sul battilardo nel mercato del pesce di Sanremo. Non avevo risposto all’appello e nel campo si era sparso il panico. Pensavamo che uno dei prigionieri fosse fuggito. Non sono stato molto sveglio all’appello ma ci voleva anche un po’ di immaginazione a riuscire capire che un “Uert” tutto aspirato e urlato corrispondeva al mio nome e cognome: Patrizio Degli Uberti. Il “degli” non lo hanno letto così come il nome e Uberti era scritto così male che la “bi” sembrava una “acca”. Quando hanno chiesto a ognuno di noi di scandire il nostro nome e cognome è stato subito svelato il mistero e contemporaneamente un cazzotto mi ha sollevato da terra. Me ne hanno date tante con lo scudiscio quei Kapò maledetti, ma almeno ora non si sbagliano a scandire il mio cognome. Be’, è già una piccola soddisfazione oltre a quella di non aver pianto. Mentre mi colpivano per venticinque volte con il bastone non volevano neanche che li guardassi negli occhi. Invece io ho continuato a guardarli. «Non guardare mai negli occhi il pubblico, ti crea conflit-

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to e ti distrae», diceva il mio maestro prima di scendere in campo per ogni incontro di torneo. È vero. Quando si cambiava campo io guardavo sempre in giro. Cercavo negli sguardi degli altri qualcuno che mi dicesse con gli occhi «dai, puoi farcela». Però mi distraevo troppo. Invece quando ho smesso di guardare in giro e su in tribuna – cercavo soprattutto una biondina che mi piaceva tanto e che un po’ mi filava – ero più concentrato. Ma il mio avversario lo guardavo sempre negli occhi. Volevo gelargli il sangue. «Ti faccio male ora», gli dicevo con gli occhi. Ora che il male invece me lo fanno ’ste carogne le guardo lo stesso negli occhi. Vorrei che fosse uno spillo nelle loro pupille. Una piccola fitta nel cervello per dire loro: «guarda che razza di schifo di essere umano che sei. Non hai niente di umano, solo una frusta ti consente di esercitare prepotenza». Alcuni quando ti menano magari si fermano un attimo. Forse la fitta gli è arrivata, brutte carogne schifose. Sono i più indulgenti. Altri invece si irritano ma io li gelo con lo sguardo lo stesso. Non voglio abbassare gli occhi. La resa è il miglior servizio che si fa al vincitore e io non voglio arrendermi. Non l’ho mai fatto. Devo avere un motivo per reggermi in piedi. Devo avere qualcuno da odiare. E come quando giocavo meglio contro gli sbruffoni così ora resisto di più con i carnefici. Perché oltre alla mia cara amica fame – quella gran troia che va con tutti – ho un’altra amica che invece sta solo con me. La mia amica rabbia. Lei sì che è buona. Mi riempie lo stomaco. Mi fa rialzare in piedi quando ci frustano.

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Mi aiuta e mi accompagna nei giorni – tutti – difficili. E soprattutto non mi fa mancare mai il pensiero che più allevia le mie ferite. Mi fa sopravvivere fra lo sterco del bugliolo ed i pidocchi dei giacigli fatti di paglia e segatura. «Prima o poi ve la farò pagare».

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