“Il canto delle cicale”
Platone nel Fedro racconta che un tempo le cicale altro non erano che uomini appassionati a tal punto della musica da dimenticare perno di nutrirsi, no anche a morire pur di continuare a cantare. Per ricompensare l’amore di questi uomini verso la musica, le Muse decisero di trasformarli in cicale, degli animali che potessero trascorrere l’intera loro breve esistenza cantando. Dopo la morte questi insetti avrebbero poi avuto il compito di riferire alle Muse quali uomini sulla Terra le onoravano e quali no. Ad Urania e Calliope le cicale riferiscono che alcuni uomini passano la loro vita terrena losofando.
“Il canto delle cicale” di Giuseppe Augurusa
Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Paolo Tassoni Impaginazione: Francesco Zanarini © 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Le immagini contenute in questo volume sono state fornite dall’autore. Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualunque mezzo elettronico, meccanico, o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.
ISBN: 978-88-7381-475-7
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a Chiara, Giacomo e Sergio, alla loro pazienza
indice
Prologo
pag. 7
1 Vittoria di Pirro
pag. 23
2 In principio era il lavoro
pag. 41
3 Tanto tuonò che piovve
pag. 55
4 Il gioco delle tre carte
pag. 72
5 Spy stories
pag. 89
6 Relazioni pericolose
pag. 107
7 Autunno caldo
pag. 122
8 La caduta degli “dei”
pag. 145
9 Il cavaliere grigio
pag. 164
10 A volte ritornano
pag. 182
11 Un giorno in Procura
pag. 199
Epilogo
pag. 220
Sezione fotograca
pag. 225
Prologo
Cronache da un mondo interiore Il pavimento dello studio è disseminato di cartellette, su ciascuna è impresso un anno, un numero che ha la pretesa di archiviare un tempo così lungo in uno spazio forse troppo esiguo. Le pulizie di primavera prevedono anche questo: sistemare una volta per tutte anche quello scatolone pieno di documenti per troppo tempo rimasto a marcire in un angolo. Liberarlo da quella coltre di polvere che, come nelle vecchie case, insieme ai mobili, copre la memoria, le storie e la vita delle persone che in esse vi hanno dimorato. Sopra c’è scritto “Hitman”1, ma non si tratta del copione di un lm dell’orrore ed anche se il suo signicato evoca una storia violenta, in realtà si tratta solo di una storia violentata. Comprendo quale rituale sia archiviare, quanto sia presuntuosa la pretesa di mettere in la le vite degli altri guardando lo svolgersi dei fatti da un punto di vista, il tuo, salvo poi accorgerti che è solo uno tra quelli possibili. Sergio, mio glio, entra di corsa. I bambini entrano sempre di corsa, sarà per quel surplus di energia che in tenera età ha
1 Storico stabilimento del Lanificio biellese fondato nel 1881, situato nella città di Corsico nel milanese. Nino Cerruti, pronipote del fondatore, nel 1957 decide di entrare nel mondo della moda maschile e fonda la Hitman, azienda specializzata nella produzione di capi da uomo, alla quale collabora Giorgio Armani come stilista. Con uno staff di 350 dipendenti la Hitman produce 120.000 capi. Negli anni sessanta più del 50% della produzione è destinato al mercato estero. Nell’ottobre del 2000 per il gruppo Cerruti di cui Hitman è controllata al 100%, c’è l’incontro con la quotata Fin.part di Gianluigi Facchini, con l’acquisizione da parte di quest’ultimo del 51% della divisione Sistema Moda, a cui fanno capo la Maison a Parigi, la Hitman e la Cerruti Group service. A luglio 2001 viene completata l’acquisizione del rimanente 49%.
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bisogno di essere consumata, per meglio dire, trasformata come postula il primo principio della termodinamica. Lo stesso fenomeno che consiglia alla sua insegnante di mandarlo ad intervalli regolari a fare un giro nell’ampio atrio della scuola, incapace com’è di stare fermo sul banco per più di due ore consecutive. Mi si dice però che i gli escono anche di corsa: escono dalla tua casa e progressivamente dalla tua vita, a dispetto delle statistiche, all’improvviso, segnando inesorabilmente il passare del tempo. Escono consegnandoti manciate di sensi di colpa per quello che nel uire veloce della stagioni ci è sfuggito, il loro crescere senza chiederti il permesso, stupefacenti, come solo disobbedienza e trasgressione sanno essere. Sergio me ne dà subito una rappresentazione plastica: raccoglie orgoglioso la cartella del 2003, l’anno della sua nascita, l’anno della nascita di questa storia. Sono già passati otto anni accidenti, otto anni ad occuparsi delle vite degli altri, non necessariamente della parte più divertente, semmai delle loro frustrazioni. Mentre intanto la tua, di vita, scorre via carsica, veloce e silenziosa. Intanto fai un glio, il secondo, qualche seduta di chemioterapia perché un coglione, in senso letterale, si è gonato nel modo sbagliato. Suoni jazz tutte le domeniche, baluardo ultimo di libertà che, con forzature ideologiche improbabili anche per Giorgio Gaber, consideri protesi artistica della tua naturale propensione politica. Non diventi Sindaco della tua città perché un altro coglione, anche questo non propriamente una metafora, vince le elezioni al posto tuo. Poi provi a rientrare nei ranghi del sindacato ma non è più la stessa cosa perché la storia, a dispetto dei corsi e ricorsi, è solo simile ma mai perfettamente uguale. Anche nel brodo di cultura della socialdemocrazia nostrana, che pure ha molti meriti, incarnata oramai solo dal movimento dei lavoratori dopo la crisi dei partiti di sinistra, il limite tra autonomia e tradimento è labile, a volte indecifrabile. La 8
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causa comune sempre più questione per pochi e di pochi. Le afliazioni prevalgono sulla solidarietà nel nuovo contratto sociale nella montante società neo corporativa. Non c’è spazio per assumersi un rischio non calcolato nelle relazioni governate dalla fedeltà ai gruppi dirigenti. Lo spirito di servizio è ingenuità nella migliore delle ipotesi, insubordinazione in tutti gli altri casi. Ecco così che afora la categoria del tradimento, solo sussurrata per carità, l’accusa del peccato di ambizione non concordata, retaggi di una concezione oscurantista di una politica che si fa chiesa e le sue regole per conseguenza, dogma. Ma il salto logico è evidente: si tradisce qualcuno da cui si ha ducia. In un ambiente in cui ciascuno non si da di nessuno il tradimento è solo una abuso di linguaggio. Nulla sarà più come prima è il live motive di ogni cataclisma, anche evidentemente di quelli interiori. Anche per noi c’è una qualche faglia che si rompe danneggiando in modo irreparabile quella crosta che ha tenuto insieme per anni convinzioni, valori, punti di riferimento. Deve essere così il tradimento, quello sentimentale intendo, quello con l’altra, la bionda, come dice Chiara forse per esorcizzare l’improbabile ipotesi. Per quanto tu la faccia franca, possa essere perdonato, per quanto sia tu a causarlo o a subirlo, quella faglia si rompe e nulla è più come prima, simile ma non esattamente uguale appunto. Nessun rimpianto ovviamente. A quell’antico adagio reazionario tra la strada vecchia e quella nuova, ho sempre preferito il rivoluzionario motto confuciano che campeggia ancora sulla mia scrivania, regalo dei miei colleghi migliori: “in qualsiasi direzione vai, vacci sempre con tutto il cuore”. E quindi vai avanti, magari non sempre con la determinazione di Confucio, navighi a vista piuttosto, piegato ma non spezzato, con la barra sempre a dritta per quell’innato senso di giustizia costruito nel tempo da quando, dopo Little Bi9
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ghorn, hai cominciato a fare il tifo per gli indiani, hai visto per la prima volta le bandiere rosse entrare in chiesa un giorno di aprile del 1975 al prematuro funerale di Claudio Varalli2. Affacciato alla nestra di Giuliana, la sola ed unica tata, che dava su una Milano plumbea di smog e morti ammazzati. Non potevi sapere allora che lei, Giuliana, avrebbe raggiunto Claudio solo un anno più tardi riposandogli, per un cinico scherzo del destino, proprio accanto. Ti sei entusiasmato per la causa dei neri americani ed hai pensato che i Vietcong più che al comunismo, ambissero alla libertà. Hai rimpianto di essere troppo giovane per non aver assaporato il gusto bohemien del maggio francese e le rudezze del ’68 italiano, commosso dalla meglio gioventù, e forse un po’ troppo vecchio per essere protagonista nella lotta contro lo sfarinamento della democrazia italiana. Hai fagocitato i coniugi Sartre, Nadine Gordimer, Milan Kundera, e poi ti sei ubriacato di Charlie Parker, Miles Davis, ed altri, tutti legati, con più di qualche forzatura, da un unico lo rosso: libertà, uguaglianza e fraternità. In altre parole ti sei formato alla politica, sei diventato un idealista-pragmatico o forse un riformista radicale, ed oggi in molti, su entrambi i fronti di una guerra mai dichiarata e quotidianamente combattuta, te lo rinfacciano. E quindi torni e vai avanti. In equilibrio precario tra mestieri, passioni, sentimenti, relazioni, concorrenti o contrastanti, fa lo stesso. Di colpo ti accorgi di non saper più rispondere
2 Il 16 aprile 1975 a Milano successivamente ad una manifestazione indetta per sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi inerenti al diritto alla casa, in uno scontro tra esponenti del Movimento Studentesco e militanti del Fronte Universitario d’Azione Nazionale (FUAN), Antonio Braggion iscritto ad Avanguardia Nazionale, esplose tre colpi di revolver ferendo a morte il diciassettenne Claudio Varalli, studente dell’Istituto Tecnico per il Turismo di Bollate nel milanese, poi intitolato a suo nome. Antonio Braggion latitante no al 1978, è stato condannato ed ha nito di scontare la pena nel 1982.
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alla domanda retorica su ciò che vuoi fare da grande perché sembra fuori tempo massimo, tuttavia ancora possibile solo in un paese dove la gerontocrazia impera e puoi permetterti di sentirti giovane anche quando al parco, ragazzi imberbi e con l’acne ti chiedono il pallone, ma non è un invito a giocare. Non puoi rispondere perché l’identità al singolare non basta più a denire il perimetro delle tante cose che sei diventato, perché non puoi più dire semplicemente come un tempo “da grande voglio fare il benzinaio”, un’idea chiara, espressa con l’entusiasmo certo inuenzato dalla pompa di benzina di famiglia nell’infanzia passata nel paese amico, come i greci avevano deciso con lungimiranza di chiamarlo, Filogaso appunto. Poco più di mille anime che certo saranno state orgogliose all’indomani della crisi energetica degli anni settanta, di possedere loro, unici prescelti dal destino in un vasto affastellato di colline, un’area di servizio Agip. A quei gestori improvvisati di un presidio del cane a sei zampe: Mattei e le sette sorelle, il quadrante del Kippur, l’austerity delle grandi città industriali del nord dopo l’abbuffata del miracolo economico degli anni ‘60, saranno sembrate meno lontane dall’inesorabile destino della terra di emigranti. Un rivolo del vento della storia avrà sbuffato anche laggiù, un po’ più vicino a quell’Italia che, vista da qui, ora come allora, sembra davvero tanto lontana. Nella Calabria delle mie origini, avvolta nella canicola usa ad ovattare giornate sempre uguali a se stesse, accompagnate dalla colonna sonora del frinire ossessivo delle cicale pronte a morire nell’indifferenza generale, l’apatia e la sensazione di un eterno presente dove passato e futuro sembrano solo un esercizio di stile, sono, insieme ai colori dell’estate, le sensazioni indelebili che conservo, da glio di emigranti, di quella bella e sfortunata terra. Ora, dopo due anni di intense esperienze umane, fare una cosa sola ti sembra poco, riduttivo, limitante, carico come 11
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ti senti di una responsabilità non preventivata. Quindi ti affanni tra gli spazi angusti di statuti di organizzazioni che, in nome dell’autonomia, sembrano concepiti per la purezza della razza, ed una razza di mediocri ed ipocriti politici locali nati per comandare perché si presume unti dal Signore, mentre, più spesso, unti e basta. E non puoi non pensare che altri amministratori, intanto, stanno facendo a pezzi questa storia: sono loro i veri “hit man”, gli assassini, gli uomini che colpiscono le illusioni e le speranze di un manipolo ben agguerrito di operaie che dismessi i toni della quotidiana mitezza familiare, il tedio delle passeggiate domenicali lungo il naviglio pavese agghindate come bomboniere in abiti di qualche taglia in meno – armi modaiole non convenzionali contro lo sorire degli anni, preferite al rigore della loro professione sartoriale –, interrotto il chiacchiericcio del gossip sui Vip del momento, hanno combattuto quasi un decennio, ogni giorno feriale che Dio ha mandato in terra, una battaglia di dignità per il diritto all’indipendenza economica, al futuro dei loro gli, ad una vita senza l’angoscia del giorno dopo. Un disagio accentuato dagli sguardi pieni di commiserazione mista ad una solidarietà pelosa di amici e parenti, quasi che perdere il lavoro sia come essere appestati. Loro, piccole Davide contro i Golia dell’industria stracciona, della mala nanza, della politica irresponsabile, del pregiudizio appena sussurrato perché tanto sono solo donne e, in ossequio alla migliore tradizione conservatrice, possono sempre tornare al focolare domestico “così che la famiglia non potrà che averne giovamento”. Una storia vista certo molte altre volte in questo nostro paese dei balocchi, dove le persone oscillano continuamente in un pendolo impazzito tra speranza e rabbia. Simile alla rabbia schiumatami addosso, un giorno di giugno sulla sua barca attraccata in una meravigliosa caletta del mare nostrum, da Clemente Ventrone il mitico marinaio dalla chioma bionda 12
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delle cartoline di Favignana3 che dopo una vita degna di un romanzo del miglior Hemingway, impreca contro le sciagurate autorità che insieme al lavoro, alla casa, gli hanno tolto, con la chiusura di una delle ultime tonnare italiane, anche l’identità. Simile alla rabbia di Paolo Castellano, anonimo impiegato della Syntess di Bollate4 che ha sognato di poter rilevare l’azienda autogestendola insieme ai colleghi quando il padro-
3 Si tratta dello stabilimento per la lavorazione del tonno situato nell’arcipelago delle Egadi sull’isola di Favignana. Commissionato nel 1874 da Ignazio Florio, proprietario della tonnara, costruito su progetto dell’architetto Giuseppe Damiani Almeyda (ricordato anche per la realizzazione del Teatro Politeama di Palermo), rappresenta uno dei più imponenti esempi di archeologia industriale in Sicilia. Per la lavorazione del tonno furono impiegate fino a mille persone. Fu progressivamente chiusa a partire dal 1977 a causa della crisi dell’industria locale del tonno dopo una lunga e complicata vertenza. Per molti anni ha conservato il primato di essere l’unica tonnara in Europa. 4 Nel marzo del 2006 alla fine di una lunga vertenza per la più volte annunciata chiusura della propria fabbrica, un gruppo di ottanta lavoratori rilevano l’azienda di nobilitazione tessile di Bollate nel milanese del gruppo Timavo & Tivene, costituendo la Syntess srl in accordo con la Provincia di Milano di Filippo Penati. I lavoratori assunsero la responsabilità di tutti i livelli dell’impresa nominando i membri del CdA, i manager, i responsabili dei servizi. L’esperienza per la sua particolarità ed originalità, assurge all’onore delle cronache dell’epoca anche in virtù del riconoscimento che l’allora Presidente della Camera Fausto Bertinotti, le tributò con queste parole: «rappresentate una comunità che prova a realizzare l’obiettivo per i lavoratori più importante, quello di difendere il posto di lavoro. Io credo che fuori dal mondo del lavoro, per quanti sforzi si facciano anche la gente sensibile non possa capire cos’è il posto di lavoro, cos’è per la tua vita, per la tua gente, per la tua famiglia, cos’è essere stato qua dentro trent’anni, avere incontrato le persone come te, quelle facce che fanno parte della tua famiglia, con le quali sei stato più ore che con tua moglie o con tuo marito. E cosa sono persino questi muri che per qualcuno possono essere un pezzo di archeologia industriale ma che per te sono le pareti della tua casa, sono una parete della tua... bisognerebbe che tutto il Paese capisse un’esperienza come questa per quello che vale, come cultura generale del Paese, alcuni di voi dopo un mese di lavoro portano a casa 800 euro, in un impegno per difendere il lavoro e l’occupazione. Ecco, se il Paese fosse in grado di riflettere, per un minuto solo, su una cosa così staremmo meglio tutti, perché la gerarchia dei problemi da affrontare sarebbe più chiara. Per questo io penso, senza retorica, che il Paese dovrebbe ringraziarvi, per quel poco che vale, vi ringrazio io, come Presidente della Camera, perché voi state facendo un’impresa importante civicamente, vi auguro il successo, è possibile, lo so che è difficile ma è possibile».
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ne, sotto i colpi della crisi e con la tentazione dei facili guadagni della speculazione immobiliare, abbandonava il campo. Paolo, improvvisato capo del personale, ed i suoi prodi, non hanno perso contro le insidie del mercato come sarebbe stato normale attendersi, bensì contro l’inedia della politica e la bulimia dei soliti palazzinari. Storie e sentimenti simili che parlano di uno scontro quotidiano e fratricida tra capitale e lavoro che a dispetto dei tanti sociologismi di maniera, non sembra affatto nito. Storie simili a questa ma non perfettamente uguali: questa, quella degli hit-man, quella di altri uomini che uccidono atre donne, non sicamente ovviamente (per questo c’è già una sostanziosa tradizione nazionale), ne uccidono i desideri, le speranze, il futuro. Storie che al contrario, tutte insieme, ci parlano di un paese nel quale hai sempre una seconda possibilità solo e soltanto se non la meriti. Ma tu intanto, con sprezzo del pericolo o forse semplicemente incoscienza, indifferente alle possibili conseguenze, denunci il malaffare trainato da una forza gentile composta da molto senso civico, eccesso di zelo e troppa presunzione. Attendi con impazienza il momento topico della deposizione davanti al Pubblico Ministero5, l’istante senza ritorno dell’idea che si trasforma in azione. Mentendo sapendo di mentire quando, con poca convinzione, rispondi che “… qualcuno lo deve pur fare”, a tutti quelli che, increduli, ti chiedono perché lo fai. Menti perché sai benissimo che quel qualcuno sei tu e se non lo facessi tradiresti l’essenza stessa di ciò che sei. Quel momento poi arriva e sa di muri scrostati, ascensori ad intermittenza, faldoni accatastati in ambienti grigio topo repliche di altri mille ufci pubblici dove lo Stato
5 Deposizione spontanea dell’autore del 13 maggio 2011, davanti ai PM della Procura della Repubblica di Milano, su fatti illeciti riguardanti il conferimento di un centro sportivo in un noto Comune del nord ovest di Milano.
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sembra aver rinunciato denitivamente alla battaglia contro l’obsolescenza. Ma sa anche della cordialità dei magistrati che ti si parano davanti: Civardi e Scudieri; solo a nominarli in quella situazione surreale assumono il tono ed il ritmo delle coppie mitiche. Gente in prima linea che a dispetto di un look dimesso e della scenograa un po’ demodé, hanno nello sguardo vivido, la luce eccitante della lotta epica tra il bene ed il male, sgorgata forse da anni di attività celebrale su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato o forse dall’indignazione per le stragi di Stato, tragici effetti collaterali di una guerra fredda combattuta sul campo di battaglia della nostra caldissima penisola, piuttosto che dall’emozione, a stento trattenuta, in un’epoca che considera il pianto roba per femmine, per i vili omicidi di Falcone e Borsellino mentre, studenti di giurisprudenza, anch’essi si saranno domandati cosa avrebbero fatto da grandi. Li attraversa un imbarazzo appena percepibile mentre rilascio la deposizione spontanea sui fattacci del centro sportivo, una brutta storia tra le tante di amministratori pubblici corrotti, imprenditori compiacenti e funzionari omertosi. Stretti loro, i magistrati, tra cautele da deontologia professionale ed il dovuto riguardo ai legami familiari del convenuto: marito di una collega, come amano chiamarsi tra loro con un linguaggio da piccolo mondo antico, termine che, in bocca a questi giovani giudici, sembra stonato come una pipa sulle labbra di un adolescente. E dopo ti senti più leggero. Sparita quella sottile tta all’altezza dello sterno, la stessa di un amore non ricambiato, dell’attesa del ritorno da scuola dei tuoi gli, dei risultati delle analisi ancora chiusi in una busta, mentre scendi le scale del palazzaccio Littoriano sai di aver fatto la cosa giusta. Ed anche se un rivolo di sudore ti solca il viso per ricordarti che coraggio e paura possono coesistere, comprendi che anche questa volta Confucio ha avuto ragione. 15
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La luce riessa sulle vetrate del tribunale ricorda il luccichio dorato delle ogive dei bossoli, modesto effetto speciale in un lm di quart’ordine, le stesse capocchie delle pallottole conservate come reliquie, nella busta, recapitatami nella cassetta delle lettere a futura memoria da qualche solerte malvivente. Quasi un atto dovuto, parte di quella prassi consolidata della strategia del terrore trascritta nell’ortodosso copione dello scontro mitico, impresso nelle immagini in bianco e nero della nostra infanzia, tra guardie e ladri. Gli stessi proiettili che talvolta, riettendo su un paese allo sfascio, saresti tentato, non senza vergogna, di immaginarti tra le mani, con la nostalgia ad un tempo infantile ed arcaico della resistenza dei padri della Repubblica, raccontata in modo commovente dalle belle pagine del partigiano di Beppe Fenoglio. Un’idea eccitante e sconcertante al tempo stesso. Mentre i bossoli rotolano nel palmo della mano pensi che sarà forse stato in embrione lo stesso sentimento provato da quel Vincenzo Sisi6 l’istante prima di deragliare nel binario morto della lotta armata, per qualche scambio della vita non sufcientemente presidiato. Compagno di giochi di un’infanzia lontanissima, conosciuto per ironia della sorte nella strada per me più sicura al mondo, quella che portava dalla casa degli zii all’orto degli aranci. In quella stessa via degli Orti,
Vincenzo Sisi nato a Filogaso (piccolo Comune del Vibonese, stesso paese di origine dell’autore) nel 1953, a 17 anni emigra a Torino per cercare un futuro migliore. Delegato della Filcem CGIL, l’organismo che rappresenta i lavoratori chimici, è arrestato il 12 febbraio del 2007 nell’ambito dell’inchiesta sulle nuove Brigate Rosse. Nei capi di imputazione gli viene attribuito il ruolo di «promotore, costitutore, capo e organizzatore dell’associazione eversiva finalizzata alla banda armata e denominata Pcpm-Partito comunista politico militare». Davanti al Giudice Guido Salvini, Sisi ha inoltre rivendicato il suo «percorso di militante nel percorso per la costruzione del partito comunista nella linea del partito comunista politico-militante». Condannato a 13 anni e 10 mesi di reclusione ritenuto a capo della cellula torinese il 13 giugno del 2009. Nel settembre 2012 la cassazione emetterà la sentenza definitiva a nove anni derubricando il reato ad “associazione sovversiva”, una sentenza che farà discutere. 6
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burocratico nome da piani regolatori senza fantasia redatti da grigi amministratori locali nel tentativo improbo di sanare paesi interamente abusivi, insieme al mio senso di giustizia ne cresceva un altro: quello di Vincenzo, violento ed incompatibile con il consesso civile. E mi viene voglia di capire, provando un brivido lungo la schiena all’idea che un pezzo di quel percorso sarà forse stato comune. Comprendere senza giusticare è la formula di rito. Capire come l’idea diventa ideologia totalizzante, come la militanza si possa trasformare in violenza, come i problemi degli ultimi possano divenire questioni di ordine pubblico, come il lavoro possa trasformarsi in conitto a fuoco pensando ai più recenti Biagi e D’Antona. C’è proprio da chiedersi quand’è e com’è che le nostre vite possono trasformare la legittima indignazione in estremismo senza ritorno. Il telefono squilla a vuoto, l’utente non è raggiungibile come direbbe la voce ammiccante del gestore telefonico di turno, ma non è una questione tecnica: Vincenzo non può rispondere perché non sta più nella placida via degli Orti. Da tempo vive lontano dalle armoniche forme delle colline della Calabria, dal profumo delle arance, da quando, a diciassette anni è anch’egli emigrato al nord, nella Torino industriale, in cerca, come molti, di una prospettiva diversa rispetto a quella che il destino e l’irresponsabilità delle classi dirigenti sembrano avere prospettato a larga parte delle genti del sud. Non può rispondere soprattutto perché arrestato per banda armata e ricostituzione del partito armato delle nuove Brigate Rosse. Un’accusa fuori dal tempo per chi, insieme allo Stato, ha creduto di poter sdare anche la storia. Ma la storia è forse come quei lm che, arrivati ai titoli di coda, con un articio propedeutico a quattrini futuri, dedicano un’ultima immagine al malvagio di turno che avevamo creduto morto e che invece riappare. Piegato ma non spezzato, pronto ad un nuovo ritorno più temibile e più cruento. 17
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Sono principalmente un sindacalista e per questo mi occupo delle vite degli altri. Non di tutti gli altri, solo dei lavoratori, una parte ovviamente, meglio se sgati. Me ne occupo da quando, una quindicina di anni fa, nel reparto semilavorati della Pirelli, con il corpo impregnato di gomma e la testa di ideali, Giorgio Roilo, allora conosciuto leader sindacale oggi stimato senatore di questa sgangherata seconda repubblica al capolinea, a conclusione di una nota vertenza sul lavoro domenicale assurta all’onore delle cronache del tempo, con un’insolita modalità di reclutamento mi dice: «Peppino sai leggere e scrivere e grossi danni non potrai certo farne». Il minimo sindacale prima che un istituto contrattuale è evidentemente uno stile di vita. Un sindacalista tempi e metodi, un esperimento postmoderno, un’anomalia in natura, consegnata alla cronaca da quell’incrocio della storia costretta da un lato dalle esasperazioni del taylorismo che tutto pretendeva di misurare, nanco i movimenti impercettibili della volontà degli operai che il toyotismo degli anni ’80 poi chiamerà operatori per una sorta di innovazione del linguaggio. Lo stesso articio dialettico che passa tra spazzino ed operatore ecologico, necessario a certicare, quasi per decreto, l’adesione ideologica all’impresa prima ancora che la descrizione di un mestiere. Dall’altro, dalla necessità di ossigenarsi rispetto alla nuova aria impestata ed annunciata dai quotidiani bollettini della cronaca, che di lì a poco ci avrebbe nuovamente asssiati, rivelandoci cosa sarebbe restato degli anni ’80: «afferrati e già scivolati via... e la radio canta una verità dentro una bugia», come ci interrogava acutamente una nota canzone del tempo. Pronti cioè a tornare ad intossicarsi nell’aria resa nel frattempo irrespirabile dalla corruzione diffusa di tangentopoli e santicata dal memorabile intervento del Bettino nazionale del tutti colpevoli nessun colpevole. Un sindacalista con mansioni da impiegato fuori dal posto che la consuetudine aziendale ed anni di paternalismo 18
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gli avevano assegnato. Che ostenta l’Unità in bella vista sulla scrivania tra gli sguardi imbarazzati, in un clima da anni cinquanta, dei colleghi intenti, al contrario, a difendere pervicacemente il senso antico della differenza, del privilegio di classe, evidenziato da impercettibili segni. Il maligno, si sa, sta nei dettagli: così, cravatta e cardigan sotto la tuta, posto riservato nella mensa aziendale, l’incedere a testa alta attraverso i reparti con l’immancabile foglio bianco vergato di misteriosi dati certamente utili, nell’immaginario collettivo, a modicare le sorti dell’economia globale, ne erano i segni distintivi di un censo di presunti indispensabili, più spesso soltanto utili e neppure sempre. Segni muti e stantii della contiguità al potere. Briciole cadute da una tavola imbandita a cui, poco più di altri, è consentito di accedervi. Sindacalista impiegato tra la difdenza della CGIL operaia e tuttavia nell’impresa del mito di Sergio Cofferati, primo segretario generale di cui fregiarsi e forse penultimo sindacalista tempi e metodi. In un sindacato ancora nel gorgo del riusso delle lotte, ancora annichilito e lacerato dalla scontta sulla scala mobile, impaurito dal nuovo paradigma della rappresentanza seguito alla marcia dei quarantamila alla Fiat. Sindacalista in una fabbrica lontana anni luce dalla forza evocativa richiamata dalla colonna sonora del noto slogan Agnelli e Pirelli ladri gemelli dei tanti cortei di successo, come amavano raccontare i grandi vecchi del sindacato. Un sindacato fatto di uomini e donne dagli sguardi vividi e con i volti levigati in decenni di pratica alla dignità, orgogliosi nei ricordi di un glorioso passato e subito dopo tristi e spenti quasi a dire che non c’è proprio più il futuro di una volta. Uomini e donne intenti ancora oggi, forse più di allora, dentro una fabbrica educata oramai alla difesa, a reggere, come marinai attaccati all’albero maestro di una nave in balia della tempesta, le intemperie delle imminenti grandi ristrutturazioni, del 19
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fallimento alla scalata Continental7 e poi, più avanti, molto più avanti, dell’avventura Telecom dei tanti “non sapevo” trascritti negli atti processuali che indagavano sulle torbide trame dell’intelligence parallela8. In altri termini nell’impresa che si preparava ad entrare anch’essa ed in buona compagnia, nell’epoca della nanziarizzazione “creativa”. Sindacalista in un sindacato di lotta e di governo che oscilla tra la sua faccia istituzionale, pragmatica, dell’accordo come elemento ontologico dell’essere parte negoziale, ai limiti dell’accanimento terapeutico sui corpi sempre più inermi di caduche fabbriche in via di dismissione e la sua faccia movimentista: delle tante prove di forza use a rinnovare l’identità perduta, sensibile al richiamo di una giungla popolata da esemplari sempre più
7 Si riferisce alla fallimentare operazione del tentativo di scalata alla tedesca Continental da parte della Pirelli. Questo episodio viene da molti individuato come punto chiave del riflusso dell’impresa italiana all’estero. Quasi un paradigma della debolezza dell’impresa italiana all’estero. Ancora oggi importanti commentatori di fronte a rilevanti vertenze nazionali evidenziano (come in questa pregevole analisi del sole 24 ore del maggio 2009) che sia necessario: «evitare gli errori in cui era incorso Leopoldo Pirelli tra il ‘92 e il ‘93, trattare cioè i destini di un’importante impresa tedesca partendo “dall’alto”, con un negoziato i cui contenuti restano in gran parte segreti, confinato al vertice del Paese, il capo del governo, un paio di ministri e di banchieri, ed esteso alla sola proprietà del l’azienda. Trascurando cioè la base dell’impresa e della società: non solo i consigli di fabbrica e le rappresentanze sindacali, ma anche i managerdell’aziendadaacquisire. Nel ‘92 con le eleganti consuetudini che distinguevano il suo stile di business, Leopoldo Pirelli aveva ottenuto tutto il sostegno di cui aveva bisogno…» e tuttavia. 8 A luglio 2008 i PM di Milano titolari dell’inchiesta (Fabio Napoleone, Nicola Piacente e Stefano Civardi) depositano le carte di chiusura delle indagini sulle intercettazioni illegali della security aziendale, dopo aver convocati a fine giugno, come ultimo atto investigativo, i vertici Telecom di allora, Marco Tronchetti Provera (ex presidente) e Carlo Buora (ex amministratore delegato) in quanto persone informate sui fatti. Per non aver vigilato sulla propria security e sui metodi usati per avere le informazioni, i gruppi Telecom e Pirelli risultano indagati sulla responsabilità amministrativa delle società, pur non essendo stati mossi addebiti contro l’ex presidente e l’ex amministratore delegato Telecom. Una lunga serie di reati, tra cui l’associazione a delinquere, sono stati invece contestati a 34 persone, accusate a vario titolo di aver messo in piedi una vera e propria associazione a delinquere al cui vertice c’era l’ex capo della security Giuliano Tavaroli.
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rari nell’incedere rutilante di una modernità, già difcile da comprendere ed ancor più da spiegare alle folle solitarie di individui smarriti e ripiegati nel si stava meglio quando si stava peggio. Sindacalista sui generis, complimento o insulto che sia, delle mille parti in commedia – consulente, assistente sociale, arruffa popoli, cinico ambasciator non porta pena –, delle tante relazioni pericolose, degli incontri informali (perché se il ne non dovrebbe giusticare i mezzi, alcuni mezzi aiutano spesso il ne, anche quello più nobile, basta solo aver presente dov’è collocata l’asticella della decenza). Anche per un sindacalista come per Enrico IV di Borbone, Parigi val bene una messa. Sindacalista nel sindacato della faticosa uscita dal collateralismo politico, ora alle prese con la fatica di un neo collateralismo di circostanza, informale, praticato con una classe dirigente spesso inadeguata, solo sussurrato e forse anche per questo inconcludente. Con questo sottofondo, travolte da un insolito destino, le donne “assassinate” attraversano un decennio della loro vita, delle nostre vite, in compagnia, involontaria prima, appassionante durante, commovente inne quando l’umanità delle relazioni prevale sui ruoli che un misterioso e ripetitivo copione ha assegnato a ciascuno di noi, di un’istituzione che si fa persona. Un alleato pronto a battersi come un leone per vincere ma tu, sarta bellicosa, in fondo sai che è destinato a perdere. Ma questo forse ti basta: in un mondo di sciacalli e pescecani l’onestà intellettuale è inebriante come il riverbero di un miraggio nel deserto. Ed ora sembra che improvvisamente tutto giri intorno a te, sarta da combattimento, quando, nel pieno della battaglia, con lo sguardo improvvisamente tornato ero, nell’asssia della metropolitana quotidiana, osservi uomini intenti a recitare al cellulare, rigorosamente ad alta voce quasi che la maleducazione debba essere un irrinunciabile requisito professionale, improbabili strategie aziendali destinate a so21
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pravvivere poche ore sotto i colpi delle gerarchie di altri frustrati manager pro tempore, piuttosto che quando incroci gli sguardi di donne eccitate per lo shopping nel quadrilatero che parlano di stilisti come fossero premi Nobel. Tutto ti appare improvvisamente futile perché tutto torna a girare intorno a te. Quando guardi i tuoi gli a cui, senza pronunciarlo, giuri solennemente che ti batterai no a che morte non vi separi per garantire loro un futuro migliore del tuo: senza prematuri abbandoni scolastici, tediose giornate in solitudine nei quartieri ghetto della città metropolitana, rinunce ai sogni già alle soglie dell’adolescenza circondato da altri giovani erranti con gli occhi pesti dalla noia e bocche utili solo a pronunciare frasi vuote perché tanto sono tutti uguali. Espressioni come queste si dovrebbero bandire per legge, vere e proprie armi di distruzione di massa. Tutto ruota intorno a te, sarta d’assalto, nelle interminabili ore di assemblee permanenti dove, come accampati di una tendopoli in compagnia di tanti terremotati dalla precarietà, schiumi rabbia. Imprechi contro il destino infausto, contro la globalizzazione, contro la più grande crisi dal secondo dopoguerra che non aveva un altro momento per manifestarsi, fottendosene del tuo mutuo trentennale al promesso quanto improbabile tasso sso, delle tue vacanze con gli amici, dell’imminente matrimonio. Contro il Governo ladro che piova o ci sia il sole, contro le tante caste bulimiche di un paese ancora aggrovigliato in mille corporazioni, lobby, massonerie, clientele, tutte organizzate per privatizzare i privilegi e socializzare i sacrici. Ma anche rietti, pianichi iniziative, torni forse, dopo molto tempo, protagonista involontaria del tuo destino. Se è vero che il lavoro, almeno quando c’è, nobilita l’uomo (e la donna), la lotta per la sua difesa, talvolta, lo rende addirittura più bello.
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Vittoria di Pirro 10 febbraio 2010 Salgo di corsa le scale dell’austero palazzo municipale nel tentativo senza speranza di contenere il ritardo nel quarto d’ora accademico, frutto di una serrata trattativa con Giacomo, mio glio maggiore, sulla riduzione delle uscite serali per lavoro. Un mestiere, quello di suo padre, difcile da spiegare ai compagni di scuola che devono immaginare i loro genitori seduti per giornate intere davanti allo schermo di un computer, unico fatto che può razionalmente giusticare le occhiaie ed i tanti mal di testa serali con i quali, all’imbrunire, blandiscono ogni tentativo di gioco comune. Una volta, nei primi anni delle elementari, alla domanda su quale mestiere facesse suo padre, Giacomo rispose: “sciopera”. Inutile dire che ho perso la trattativa: dal basso dei suoi dieci anni mi ha colpito con la precisione di uno schermidore sul nervo scoperto dei sensi di colpa. Un assist micidiale dal quale è davvero difcile risollevarsi, salvo avventurarsi in maldestri quanto tardivi recuperi compensativi, manco il rapporto con tuo glio fosse regolabile come un contratto collettivo. Con un atone degno di miglior causa, entro nella sala del Consiglio Comunale gremita all’inverosimile tanto da preoccupare gli anziani uscieri impreparati a gestire l’evento, abituati come sono ad assemblee pubbliche dove al massimo partecipano i soli parenti degli astanti. Ma non questo 10 febbraio 20109.
9 Convocazione in seduta straordinaria del Consiglio Comunale del Comune di Corsico che approva, con delibera n°4 del 10/2/10, la “reindustrializzazione Hitman – progetto integrato con attività commerciale e riutilizzo urbanistico dell’area ex fabbrica in variante al piano regolatore generale”. Ossia prevede la costruzione del nuovo stabilimento di produzione della Hitman, dopo il fallimento della capogruppo Fin.Part nel 2005 e la conseguente chiusura definitiva delle attività della vecchia fabbrica due anni dopo.
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Questa sera la folla intervenuta al Consiglio Comunale in seduta straordinaria satura il lungo corridoio che dall’ingresso porta alla sala consiliare e pigia nemmeno si trattasse di un concerto Rock. E c’è da scommetterci, qualcuno starà facendo gli scongiuri immaginando che, come in ogni luogo pubblico che si rispetti di questa sorta di paese scandinavo al rovescio che è l’Italia, le norme di sicurezza con il loro carico di adempimenti e controlli periodici, saranno state ignorate o, nella peggiore delle ipotesi, rinviate alle sanzioni previste dal primo verbale inutilmente stilato da solerti funzionari a descrizione postuma di uno dei tanti disastri annunciati di cui traboccano le cronache nostrane. Fatico a passare nella calca generale aiutato però dal calore dei molti volti conosciuti negli anni e guidato dal cenno autorevole ed anche un po’ ostentato, dell’addetto stampa Trementozzi, compagno di tante discussioni semantiche su ciò che sarebbe stato meglio dire e non dire nelle decine di comunicati consegnati nel tempo alla voracità dei media. Mi fa cenno di sedermi in prima la tra i suoi colleghi giornalisti, un privilegio sottolineato dagli sguardi delle lavoratrici di Hitman accorse ovviamente in massa, volti questa volta compiaciuti per un’attenzione non scontata. Un atto non dovuto e, per questo, un riconoscimento plateale alle nostre lotte. Compiaciuto anche perché, questa sera, lo sanno tutti, salvo sorprese si festeggia la vittoria dopo sette anni di incredibili battaglie. Lo spazio destinato al pubblico sembra infatti la curva di uno stadio con la tifoseria tesa e pronta ad esplodere per l’auspicato risultato al schio nale del Presidente, arbitro dell’assemblea. La tensione si percepisce sui volti contratti delle lavoratrici che affollano la sala vestite a festa, non so se per quell’abito mentale, eredità della nostra tradizione più profonda, che suggerisce di acconciarsi al meglio in ogni occasione istituzionale, surrogato di un evento sociale potenzialmente gravido di promesse, o più semplicemente in ragione delle necessarie prove tecniche per l’approssimarsi della pacchiana ricorrenza di San Valentino. 24
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Sono tutte schierate, le sarte da combattimento, con, in prima la, secondo delle precise regole non scritte, le loro rappresentanti sindacali. Elvira Tocci la pasionaria, rigorosamente dalle 8:00 alle 17:00, no a quando, puntuale come un orologio svizzero ed a dispetto delle sue origini meridionali, Giuseppe, il marito, l’attende ogni sera al passo carraio cercandola con lo sguardo nel variopinto ume in piena delle operaie all’uscita della fabbrica, oggi poco meno di una umara secca. Ma anche la passione, la determinazione, il senso di giustizia talvolta soccombono agli stenti della quarta settimana, alle tensioni familiari, alla paura dell’ignoto. Così quando Elvira, in un giorno qualsiasi della lunga vertenza, ha comunicato alle compagne di lavoro le sue dimissioni per approdare alle più solide “certezze” di una multinazionale, si è limitata a concedere poco più di qualche sorriso di circostanza in replica alle tante congratulazioni ricevute, mentre i suoi occhi a fatica nascondevano l’evidente tristezza. Maria Sanna la saggia, sempre preceduta alla vista dalla voce con il suo inconfondibile accento sardo, imponente a confronto della sua gura segaligna a stento individuabile nelle affollate assemblee di fabbrica. Ammirazione sconnata per Enrico Berlinguer, a suo dire massimo orgoglio della terra del mirto condivisibile con il continente, argomento di cui parla sempre con voce un po’ incrinata dall’emozione. Maria, leader riconosciuta, è forse assalita dal senso di colpa per un pensionamento tanto atteso quanto meritato, ma arrivato nel momento più sbagliato, quando il gioco si è fatto duro e lei, una dura che non ha mai smesso di giocare, non poteva certo pensare di mancare. Natalina Raco l’idealista, formata all’emancipazione femminile nel movimento operaio, cresciuta nei fermenti della partecipazione collettiva, attenta osservatrice della realtà e fanatica dei diritti acquisiti; mentre ha certamente vinto la battaglia contro l’invecchiamento dall’alto della sua in25
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sospettabile età e della sua bellezza mediterranea, sembra però un po’ smarrita, attraversata com’è continuamente dal dubbio, o forse si tratta di un presentimento, che forse oggi, a differenza di un tempo, la vittoria resta una questione collettiva, ma nella scontta si torna ad essere terribilmente soli. Milena Manna, piccina e dalla muscolatura nervosa, è la stoica mamma divisa tra le lotte di fabbrica e le tante comuni preoccupazioni dell’adolescenza di un glio che scorrazza quotidianamente per le strade insicure della città metropolitana. Una somma di patemi d’animo devono attraversarla nel corso della stessa giornata, divisi tra l’esiguità del conto in banca alimentato a singhiozzo dallo scarno assegno di cassa integrazione, l’incostanza con la quale seguire il rendimento scolastico del glio e le inevitabili tensioni familiari da condividere con il compagno di vita in una parità di genere spesso solo formale: una condizione nella quale mantenere lucidità, assumere importanti decisioni con equilibrio, parlare a nome e per conto di altri, non deve essere sempre così facile. Ed inne Marialuisa Mele, l’impiegata pragmatica, oggi disorientata per la messa in discussione del ruolo sempre avuto nella fabbrica in attività, fatto delle relazioni di direzione e staff, sufcientemente lontana dal rumore delle macchine di produzione e dallo stress del cottimo, dalla dignitosa aggressività operaia e dal rude lessico familiare della contestazione, anche per questo priva di qualsivoglia tradizione sindacale. E tuttavia oggi costretta nella fabbrica vuota a reinventarsi, scoprendo nel tempo una vocazione insospettata: quella del farsi carico delle questioni collettive. Tutte, o quasi, accomunate dalle loro origini: glie del sud e delle sue bibliche emigrazioni gravide di speranze ieri, ripetute per generazioni e non ancora concluse come se per le terre del mezzogiorno nulla fosse ancora cambiato, mamme del conitto per il lavo26
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ro oggi, esempi per le più distratte e spesso indisponibili ad ascoltare giovani generazioni del “tutto e subito”. Oggi sono tutte presenti: le loro rappresentanti, più spesso i loro parafulmini, questa sera solo le loro condottiere. Il brusio, i ash dei tanti fotogra e forse l’ansia si attutiscono solo quando il Presidente del Consiglio Comunale legge il punto all’ordine del giorno: “reindustrializzazione Hitman, progetto di ricostruzione del complesso produttivo integrato…”. È solo il titolo di una delibera ma ha la forza di una dichiarazione solenne per chi ha occupato per anni il proprio vocabolario con altre più algide parole: chiusure, licenziamenti, fallimenti. Quell’incipit, al contrario, sembra, alle orecchie tese ed attente del pubblico, possedere lo stesso pathos della dichiarazione dei diritti dell’uomo. Quasi una riedizione di provincia dell’articolo uno della nostra Costituzione: anche questa piccola porzione d’Italia per un istante sembra essere nuovamente fondata sul lavoro. Reindustrializzazione, ricostruzione, produzione, parole piene che riempiono come d’incanto il senso di vuoto che in anni di delocalizzazioni, dismissioni, speculazioni, triste corollario alla chiusura di fabbriche, ci hanno pervaso attraverso la rappresentazione plastica di aree dismesse, grigie periferie, lunghe permanenze senza prospettive in ufci di collocamento sospesi in un’apparente immobile presente. Gli sguardi eri questa sera sembrano però rivendicare il merito di aver fatto riaforare quelle parole da un lungo oblio. Gli occhi consapevoli di quelle donne, pronti ad inumidirsi da un momento all’altro, sorridono come non accadeva da tempo immemore. Più prosaicamente, questa sera l’assemblea pubblica ha l’obiettivo di deliberare la costruzione del nuovo stabilimento di produzione Hitman. Lo stesso dovrà essere edicato su di un terreno pubblico concesso in diritto di supercie per quasi quattro generazioni, dopo la chiusura della vecchia fabbrica, fallita a seguito del noto crack della nanziaria Fin.Part, che 27
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ha travolto l’intero gruppo della moda10. Vicenda che, dopo aver tenuto banco per anni sulle pagine economiche dei più importanti quotidiani del paese, è passata alle cronache giudiziarie da quando si è meritata anche l’attenzione della Procura della Repubblica di Milano. L’epilogo di una vicenda complessa quella della “piccola Parmalat”: l’hanno chiamata così quella del noto brand “Cerruti 1881”, il marchio che fregiava le giacche di Richard Gere in “Pretty woman” per capirci. L’hanno chiamata così i giornali per le dimensioni economiche del fallimento, ma soprattutto in ossequio alla madre di tutti i crack nanziari che, da qualche anno a questa parte, sembrano essere il naturale sbocco di imponenti crisi per le imprese di grandi dimensioni. Vicende tutte o quasi accomunate da un management sempre incline a comportamenti poco ortodossi rispetto alle regole di trasparenza, nella redazione dei bilanci, piuttosto che nei vincoli del mercato azionario, e che puntualmente niscono per essere oggetto di attenzione da
In un estratto dell’eccellente ricostruzione del giornalista Walter Galbiati di Affari & Finanza, la sintesi di uno dei più grossi Crack della moda: “Una storia di mala finanza che non ha mancato di lasciare morti e feriti sulla sua strada. E come il più delle volte capita, le vittime, oltre che tra i lavoratori e i fornitori, si contano tra i piccoli risparmiatori. Le cifre del disastro: un passivo di oltre 300 milioni di euro, ben 250 milioni fanno capo a obbligazionisti. Solo 35 milioni, invece, sono da ricondurre al sistemabancario. La storia della Finpart è quella di un’azienda cresciuta velocemente attraverso acquisizioni di altre aziende, dove però i mezzi arrivavano più da terzi che dai soci. Uno sbilanciamento che a fine 2001 ha portato la società al collasso. Facchini ha cercato di rilanciare senza riuscirvi alcuni marchi storici della moda italiana: in un evento, l’emissione del bond Cerruti, la principale causa del tracollo finanziario del gruppo. Un’emissione obbligazionaria mastodontica per le possibilità di rimborso della Finpart, che si è sommata a una crisi del settore tessile acuita dal crollo delle Torri Gemelle. Per l’acquisto del 49% di Cerruti le banche convinsero la Finpart ad emettere un prestito obbligazionario per comprare anticipatamente tutta la società. Servono solo 80 milioni, ma gli advisor, Ubm (gruppo Unicredit) e Abax Bank (gruppo Credem) spingono per emettere titoli di debito per 200 milioni di euro. Un’operazione «asservita scrive il curatore fallimentare all’interesse di Unicredit», perché la banca usò l’eccesso di liquidità raccolta per rientrare della propria esposizione nei confronti di Finpart, nata con l’acquisto del primo 51% della Cerruti…”.
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parte della Magistratura; quasi un riesso condizionato alle prime serie difcoltà del mercato. Dirigenti molto spesso assecondati da compiacenti istituti di credito che non si fanno tanto scrupolo a nanziare investimenti privati sotto forma di giganteschi prestiti obbligazionari ad imprese insolventi, quanto a sollecitare l’acquisto di titoli spazzatura presso la moltitudine degli inconsapevoli clienti eccitati dal gioco virtuale del “più capitalismo per tutti”. Tutto ovviamente sotto lo sguardo colpevolmente distratto degli appositi istituti pubblici di vigilanza, manco a dirlo, allo scopo costituiti. Mentre cerco nervosamente la posizione più comoda in previsione di una lunga seduta con la stessa tensione di un esaminando di fronte alla commissione, non posso fare a meno di pensare che c’erano proprio tutti gli elementi nella storia degli epigoni in miniatura del disastro di Collecchio, afnché anche la nostra vicenda trovasse spazio tra i grandi scandali del capitalismo straccione nazionale: prestiti obbligazionari non più rimborsabili, investimenti discutibili nel mondo del lusso in attività collaterali alla missione dell’impresa, arresti di manager che, oltre alle aste dei titoli, avranno certamente turbato i sonni di migliaia di obbligazionisti, banchieri dalla delibera facile e dall’etica compromessa che nisce per compromettere l’intero Istituto di credito, come accaduto nel caso di specie per la Banca Popolare di Intra11, tra i principali nanziatori del gruppo. Certo il settore della moda aiuta, non obbliga certo, ma aiuta. Abbaglia con i suoi effetti speciali riessi sulla carta patinata e le paillettes
La Banca Popolare di Intra, primo creditore del gruppo, viene travolta dal fallimento Fin.Part a seguito dell’enorme esposizione finanziaria generata da crediti concessi ad una molteplicità di soggetti riconducibili all’impresa di Facchini per c.ca 300 milioni di euro. Anche il titolo in Borsa dell’Istituto di credito subisce un tracollo a seguito della richiesta di fallimento del gruppo della moda. Le vicende della Banca e la gestione allegra di alcuni tra i suoi più importanti manager, entreranno a pieno titolo nelle inchieste dei giudici di Milano.
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del fashion system: con l’immaterialità del prodotto e quindi con la uttuazione incontrollata del suo valore, con la losoa spicciola del si vende ciò che si comunica prima ancora di ciò che si produce, salvo poi lasciarsi andare a massive comunicazioni su ciò che non si produce affatto, preferendo da tempo ben altri lidi low cost rispetto ai nostri proverbiali distretti rurali. Con il mito del creativo al di sopra di ogni sospetto, mentre più spesso solo al di sotto dell’imponibile scale. Con il mantra della qualità, quasi antropologica, del popolo del made in Italy quale risorsa naturale disponibile quanto nemmeno il petrolio per gli arabi, nuovo surrogato di una nuova identità collettiva per un paese smarrito chiaramente alla deriva. Vere e proprie allucinazioni che troppo spesso hanno consentito di considerare ordinaria amministrazione, cioè di giusticare senza troppo zelo, i umi di denaro scorsi per alimentare un sistema che ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Però qui c’è stato anche dell’altro. Altre macroscopiche variabili impazzite e non certo prevedibili: la partecipazione fantasma del Rais di Tripoli Muhammar Ghedda, uno tra i tanti approcci di business nel nostro paese insieme alla più blasonata quota nella Juventus, per il dittatore a sproposito denito il “Che Guevara” del nord Africa; le lettere anonime ed un po’ scurrili che indugiavano e ci invitavano ad approfondire la pista di presunti torbidi affari svizzeri; i tanti faccendieri o millantatori che a turno si sono palesati come avvoltoi intorno al cadavere di un’impresa in putrefazione e molto altro ancora. Tutte immagini che come la pellicola di un lm in riavvolgimento alla ne della proiezione, si affollano nella mente, non consentendo di rasserenarmi neppure ai generosi sguardi di approvazione che mi rivolgono le due giornaliste che mi siedono a anco. Sguardi complici ben oltre il dovere deontologico di un’opportuna neutralità professionale forse utile a raccontare la cronaca dei fatti senza necessaria30
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mente sposare tesi preconcette. Un segno di approvazione quale modesto risarcimento del nostro percorso che giungeva dopo sette anni, almeno in ipotesi, a conclusione questa sera. Sguardi che tradiscono come il nostro rapporto nel corso degli anni si sia evidentemente ben rodato, tale da potersi permettere qualche innocente violazione al protocollo. Così mi paiono gli sguardi di Francesca Santolini e Maria Ficara: entrambe giornaliste freelance, un elegante neologismo che signica semplicemente scandalosamente sottopagate, avevano seguito con accanimento quasi da giornalismo d’inchiesta l’intera vicenda. Francesca reporter de “Il Giorno”, ex giornale progressista (da qualche anno anche a seguito di una serie di passaggi proprietari, più incline a sposare le tesi governative della destra italiana), aveva prodotto un numero incredibile di pezzi, quasi un romanzo epistolare. Maria, redattrice del più modesto notiziario locale, meno assidua ma più analitica, mi aveva sempre colpito per la ricerca ostinata delle ragioni di un’operazione che, soprattutto dopo il fallimento, appariva come una missione impossibile, una sda improba contro la forza di gravità di un’azienda in caduta libera. Non nascondo che la sua domanda ricorrente su quale fosse la forza che muoveva la scelta del cavaliere bianco, ultimo intervenuto in una fase a dir poco disperata, ancora mi tormentava. Ora i nuovi accordi sindacali sottoscritti nell’ottobre scorso che avevano consentito in extremis, a pochi giorni dal licenziamento di tutti i dipendenti, l’acquisto della vecchia fabbrica e di buona parte dei suoi addetti per la modica cifra di sette milioni di euro in comode rate da parte di un caparbio quanto spericolato imprenditore romano, avevano determinato le condizioni per la denizione di un nuovo piano industriale necessario per il riavvio della produzione nei tre anni successivi. Un’ipotesi che in questa fredda serata d’inverno ci appare come un miracolo. Una nuova chance consegnata alle 31
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lavoratrici della fabbrica dei natali di Giorgio Armani12, che hanno contribuito alle fortune del suo storico marchio, nel frattempo passato di mano al potente fondo d’investimento statunitense Matleen & Partners che, dopo il mancato acquisto di Alitalia, aveva evidentemente considerato il marchio della moda un discreto affare di ripiego nel ricco mercato dei fallimenti dell’impresa italiana, ultimamente affollato di proposte vantaggiose. Le risorse economiche inne, a completamento dell’intera operazione, come contenuto nella medesima delibera, dovranno essere reperite anche attraverso la conversione urbanistica del vecchio stabilimento in qualcosa di remunerativo per il nuovo imprenditore. La tradizione delle operazioni immobiliari vorrebbe appartamenti, l’andamento del mercato più concretamente lo sconsiglia. Agli occhi dei puristi entrambe le questioni, nuova fabbrica e conversione d’uso della vecchia area, introducono la categoria della potenziale speculazione. Il dibattito rischia così di trasformarsi, come spesso accade, da pragmatico in ideologico e questo non ci fa stare particolarmente tranquilli nonostante le assicurazioni del Sindaco dei giorni precedenti. L’accordo in realtà sembra cosa fatta: le tensioni che hanno attraversato la politica locale nei mesi scorsi, per ragioni che meriterebbero di essere approfondite anche in virtù della scarsa linearità con il quale si è sviluppato il dibattito politico, sembrano essere superate e maggioranza ed opposizione, dopo le numerose conferenze dei servizi e la discussione sulle molteplici osservazioni al piano d’intervento, sembrano aver trovato la necessaria quadratura del cerchio. L’assemblea
12 Il Re dello stile italiano muove i primi passi nel mondo della moda proprio alla Hitman quando nel 1964, un Giorgio Armani trentenne, viene incaricato dal Designer Nino Cerruti della creazione di abiti da uomo nell’azienda di confezioni. Durante i sette anni passati da Cerruti, Armani scopre i meccanismi del mercato dell’abbigliamento ed approfondisce la conoscenza del tessuto e della progettazione dell’abito. Nel 1973 lascia la Hitman per aprire un piccolo atelier stilistico in Corso Venezia a Milano.
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pubblica quindi dovrebbe questa sera limitarsi ad espletare la procedura formale, approvando la delibera che concluderebbe sette anni di innite traversie. Ma la notte è ancora lunga: il dibattito con le sue spigolosità, i suoi colpi bassi, la sua irrinunciabile teatralità, la sovrabbondante retorica come da prassi consolidata, nulla di tutto ciò neppure questa sera ci sarà risparmiato. Come da copione la traversata nel mare aperto dell’incertezza, con il suo carico d’angoscia, deve essere percorsa no in fondo per approdare alla riva tranquilla del suo epilogo; questo è il prezzo del biglietto per lo spettacolo offerto e sono certo non saremo delusi. Un dibattito che oltre alle asperità dei contenuti, deve superare le tante insidie di una politica fatta più spesso di risentimenti che di sentimenti e con lo sguardo sempre rivolto all’imminente piuttosto che al futuro. Come non condividere quell’aforisma di Alcide De Gasperi secondo cui un politico guarda alle prossime elezioni mentre uno statista alle prossime generazioni. Ora, senza avere l’ambizione di scorgere statisti per ogni dove nel variegato mondo della classe dirigente politica italiana, in un paese dove c’è sempre una scadenza elettorale dietro l’angolo, è davvero troppo pretendere che ogni occasione non sia utilizzata per trasformare cinicamente una qualsivoglia strategia di lungo respiro in una tattica di piccolo cabotaggio, costi quel che costi; la dimensione dell’agnello sacricale è solo una questione secondaria. Per dirla con Mc Ewan: «l’arte di un buon governo consiste nel rendere netta la linea di demarcazione che separa la condotta pubblica dal sentimento privato, dalla percezione istintiva di ciò che è giusto». Ovviamente questo accade nel migliore dei mondi possibili, non sempre coincidenti con la prassi consolidata di molti governi locali che, salvo lodevoli eccezioni, sembra prediligere la mediocrità come modello di riferimento. Presidente: «La parola al relatore». L’Assessore competente che, a dispetto della sua apparente giovane età, si 33
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dimostra piuttosto scafato nell’orientare la discussione, illustra da par suo i termini delle osservazioni, presentate tutte o quasi dal Partito Democratico e tutte ugualmente accolte, segno evidente di un’intesa interna alla maggioranza già raggiunta nelle estenuanti riunioni delle scorse settimane. Quello di oggi è l’ultimo atto di un’Amministrazione in via di conclusione della consiliatura, già rivolta con lo sguardo ai quaranta giorni mancanti allo scioglimento del Consiglio che ovviamente, c’è da giurarci, saranno stati determinanti nel denire le intese su questa grossa partita in funzione del posizionamento delle varie correnti interne al partito di maggioranza relativa, con buona pace del merito. Un’intesa quindi che si limita a consegnare al dibattito odierno, come spesso accade nella rappresentazione delle pubbliche assemblee, la platea in cui esercitare il gioco delle parti. Consentire a ciascuno dei contendenti di piantare la bandierina del successo personale spendibile a futura memoria. Poco più di una pantomima che ha quindi solo la parvenza di una discussione di merito. Fanno tuttavia parte della rappresentazione teatrale nel dibattito che ne segue questioni apparentemente di sostanza: le obiezioni sulla legittimità delle procedure formali adottate: «tali da rappresentare un motivo di non validità di questa procedura che evidentemente è semplicativa», affermazione che fa scorrere più di qualche brivido sulla schiena. Le ipotesi di speculazioni edilizie evocate con capacità retoriche fuori dal comune: «… io non voglio parlare di speculazione, anche se probabilmente sotto traccia esiste. Quindi non è che questi qua ci stanno facendo chissà quale favore per garantire il posto di lavoro per tre anni a settantacinque lavoratrici, questi hanno in cambio un tesoro, hanno in cambio milioni e milioni di euro». A cui far seguire l’immancabile spettro dell’invasione cinese: «… in un’intervista che veniva fatta al sindacalista, lui sosteneva che il marchio Cerruti non c’era più e che non si dovesse 34
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prendere sempre per negativa un’eventualità di imprenditori cinesi, perché ci sono quelli buoni e quelli cattivi». Mentre mi schiano le orecchie non ricordo francamente di aver di aver rilasciato dichiarazioni del genere, neppure il linguaggio mi pare possa riprodurre fedelmente il virgolettato della presunta dichiarazione, non è infatti mia abitudine dividere i buoni ed i cattivi in relazione all’etnia. Ciò che invece mi pare chiaro è che siamo di fronte ad una delle tante manovre dilatorie volte a parlar d’altro, alzando il prezzo del possibile accordo nale. Non mancano ovviamente neppure i deliri ideologici, ed un po’ di sana coda di paglia, intorno a presunte incursioni di multinazionali e comunque rapaci da parte del comunista dissidente: «… io parlo con la coscienza e non perché si è oramai alla scadenza e vicini ad una imminente nuova campagna elettorale. Io sono per il lavoro, sono per la classe operaia, però questa operazione non l’ho condivisa, da parte mia nessuna abiura, anche al di là del mio cambiamento di sigla di appartenenza perché la mia coscienza è unica. I miglioramenti raggiunti sono stati irrilevanti perché nel complesso dell’operazione, la proprietà, questa multinazionale, ha tutto l’interesse proprio a farlo». Ovviamente non ci sono né multinazionali, invasioni cinesi o delle cavallette, né cataclismi di varia natura e penso tuttavia, con un lo di tristezza, che la democrazia in fondo forse sia anche questo, poter dire sempre ciò che passa per la testa, non preoccupandosi mai di vericare i fatti. Sono perciò rincuorato quando il gruppo della federazione comunista, subito dopo seguito dal gruppo di maggioranza relativa dei democratici, nel corso delle dichiarazioni di voto, corregge il tiro del transfugo con la posizione ufciale: «ribadiamo quanto sostenuto dalla nostra forza politica nel precedente dibattito sul discorso Hitman. Crediamo che la possibilità di rilancio occupazionale in una fase come questa, dove gli operai per difendere il posto di lavoro sono costretti a stare 35
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al freddo sui tetti delle fabbriche, debba essere prioritario. Siamo convinti che questo piano sia in primo luogo il risultato delle lotte coraggiose portate avanti dalle operaie in questi anni, dall’amministrazione e anche dalla politica, per questo motivo esprimiamo il voto convinto a questo piano». Il rappresentante progressista ha ben sintetizzato il senso di questa esperienza: si era realizzato forse un inedito clima di collaborazione tra parti sociali e politica nelle sue articolazioni Comune e Provincia, un buon risultato di cui forse solo ora cominciamo a coglierne la portata. Ma esattamente come avviene in una competizione sportiva non amichevole, il clima da nale che si respira, quando la posta in gioco è molto alta non ammette un pubblico disponibile a tollerare il gioco delle parti. Gli interventi vengono di volta in volta accompagnati da accorati applausi e sonori schi a seconda che prendano la direzione a favore o contro la realizzazione del progetto, tanto da indurre qualche relatore ad opportune correzioni in corsa in cambio di un po’ di ingenua di captatio benvolentiae. La percezione che la partita sia davvero giunta ai minuti conclusivi arriva quando prende la parola il rappresentante dei democratici. Ci sono persone che inducono al silenzio e quindi predispongono all’ascolto, per il loro aspetto, la loro postura, il loro ruolo pubblicamente riconosciuto, prima ancora che per gli argomenti dell’eloquio che si rivela poi non sempre necessariamente all’altezza delle aspettative, il capo gruppo dei Democratici sembra rispondere a questo prototipo: sguardo vitreo, capo canuto, corporatura robusta, parole lente e pesate avvolte nella studiata retorica da vecchio militante di partito, forse portato della tradizione comunista, oggi approdato al lido indecifrabile del partito post ideologico. Il suo intervento insolitamente breve è però il segnale che noi tutti attendevamo: «mi fa piacere che nelle osservazioni accolte abbiamo ribadito i punti signicativi. 36
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Mentre esprimo soddisfazione per queste questioni formulo però una richiesta di attenzione a chi verrà successivamente ad avere la responsabilità del Comune sul rispetto di quanto andiamo ora a stipulare, perché alcuni fatti non lasciano del tutto tranquilli. Tuttavia se tutto questo è stato messo in piedi credo che sia per la volontà di rilancio dell’attività produttiva, perché se ciò non fosse, avremmo mancato il nostro compito». Il dibattito arriva alla sua conclusione ed è la volta del Sindaco a tirare le la: Sergio Graffeo, Sindaco da due legislature, è personaggio certamente carismatico, mattatore di assemblee pubbliche, sembra uscito da un lm di Guareschi con il suo baffo d’altri tempi ed il suo incedere sempre eccessivamente eretto, proiezione visiva di una personalità con la quale sembra riempire le sale riunioni all’interno delle quali la sua presenza non passa mai inosservata. Le sue conclusioni non tradiscono infatti le attese: «penso che tutti si siano espressi nell’interesse dei lavoratori, del lavoro in senso lato e della possibilità che la nostra città abbia ancora l’opportunità di riaffermare una fabbrica storica. Non dobbiamo dimenticarci che la Hitman non nasce oggi, essa ha accompagnato famiglie di lavoratori ed ha quindi contribuito anche alla ricchezza locale, nel senso che è da considerarsi un patrimonio. Quello che possiamo affermare è di aver portato a termine un’operazione che dà certezze alle lavoratrici e che ha la presunzione, nel medio periodo, di incrementare ulteriormente quell’occupazione». Ed ancora concludendo in un silenzio fattosi improvvisamente irreale: «io sono sinceramente contento e voglio ringraziarvi tutti. Penso che ciascuno di noi, pur rimanendo nelle proprie convinzioni, può comunque considerare di avere svolto un ottimo lavoro nell’interesse della città, dei cittadini e dei lavoratori che presto, lì nella nuova fabbrica, torneranno a lavorare». 37
Giuseppe Augurusa
L’applauso liberatorio e la bagarre immediatamente successiva scoppiata in aula indicano cha la partita è nita ed il schio nale ha decretato la nostra vittoria. Non vi è neppure bisogno di attendere la dichiarazione di uscita dall’aula dei gruppi del cosiddetto Popolo delle Libertà e dei Padani che quindi non parteciperanno al voto (un elegante stratagemma per tenere i piedi in due scarpe), ed il successivo voto che approva il provvedimento a larghissima maggioranza, afnché molti dei volti presenti non comincino a rigarsi con lacrime, questa volta nalmente di gioia. I ash dei fotogra impazzano e le telecamere delle emittenti televisive, i cui reporter tentano pervicacemente di strappare qualche dichiarazione a caldo ai protagonisti, faticano a passare nella confusione generale che si è nel frattempo determinata. Gli sguardi, i sorrisi, gli abbracci, c’è tutto il campionario dell’inusuale per una sede istituzionale nel frattempo trasformatasi in un grande salone delle feste. Ubriaco di soddisfazione, dopo i saluti di rito, guadagno l’uscita appagato e solo voltandomi indietro un’ultima volta, come a raccogliere un ultimo fotogramma da conservare nella memoria, incrocio lo sguardo, ancora una volta vitreo, del capo dei democratici che mi osserva. Non sembra volermi salutare, bensì mi trasmette una sensazione sgradevole, sembra volermi dire di non illudermi, che a dispetto di ciò che appare non è proprio nita qui. Una sensazione che mi accompagna nel lungo tratto verso casa, intrappolato nell’impenetrabile tto muro di nebbia che, come ogni sera d’inverno, torna a seppellire la tangenziale obbligandomi a rientrare a passo d’uomo ma, al tempo stesso, avvolto nella forma di una solitudine indolore, regalandomi più tempo per riettere. Una sensazione che non mi molla neppure nei giorni successivi e che mi richiama alla mente un’espressione come: vittoria dimezzata, vago ricordo di storia contemporanea, a 38
Il canto delle cicale
proposito delle sorti del nostro popolo alla ne della grande guerra, quell’amaro in bocca che devono aver sentito i nostri connazionali marginalizzati al tavolo delle grandi potenze nelle mancate ricompense del conitto. Ma più ancora, quella sensazione, mi evoca Pirro, il Re dell’Epiro in guerra con i romani nel 280 a.C., a cui viene attribuita, forse erroneamente, la frase “un’altra vittoria così e sarò perduto”, a sottolineare il prezzo troppo alto delle vittorie conseguite. Basteranno i nostri esigui mezzi, certo inferiori agli elefanti scagliati con successo contro le falangi romane, per superare le meno arcigne, ma non per questo meno temibili, pastoie burocratiche che d’ora in avanti si sarebbero certamente frapposte tra l’approvazione dell’iter formale e la sua sostanziale traduzione nella costruzione della nuova fabbrica? Quali sarebbero state le conseguenze dell’inevitabile passaggio di governo che di lì a poche settimane si sarebbe realizzato con le imminenti elezioni Amministrative? Avremmo avuto il tempo necessario per realizzare quanto ottenuto in considerazione dei mesi, non inniti, di protezione sociale disponibili per salvaguardare davvero i posti di lavoro? Domande che questa sera si affollano attenuando l’eccitazione di una vittoria insperata solo no a poche settimane prima. Dubbi che rimarranno solo sotto traccia nei giorni successivi alla lettura dei positivi commenti dei giornali i quali esaltano il successo delle lavoratrici, sottolineando una vicenda in netta controtendenza con lo stillicidio di licenziamenti che nel contempo afiggono il mondo del lavoro in piena crisi. Ombre che niscono per scomparire più avanti, nei mesi successivi quando, per una singolare coincidenza, arrivano le notizie sulla conclusione di uno degli ultimi loni di indagine sul crack Fin.Part. da parte della Procura milanese, che contesterà a sei noti banchieri, all’epoca dei fatti operanti in importanti Istituti di credito come Abax Bank e Ubm Unicredit, il presunto coinvolgimento nel dissesto nanziario. Ma soprattutto più signicativa ci apparirà la condanna 39
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all’ex direttore generale della banca popolare di Intra13, così confermando il disegno criminoso ordito tra l’impresa ed una delle banche nanziatrici che aveva contribuito a polverizzare una delle più importanti realtà produttive del Paese. Improvvisamente, come se i pezzi di un puzzle avessero deciso di andare tutti al loro posto, anche questo nisce per convincerci, e per convincere anche i più scettici tra noi che, forse, ce l’avevamo davvero fatta.
Nell’estate del 2010 tra gli indagati colpiti da avviso di garanzia i banchieri Pietro Modiano e Fabio Arpe per il bond Cerruti Finance, emesso nel 2001. L’accusa è di aver concorso nella bancarotta del gruppo Fin.Part., titolare del marchio Cerruti, perché col bond le loro banche, Ubm e Abax Bank, avrebbero indebitato la società senza che questa avesse il patrimonio per rimborsare i prestiti. Per la prima volta in Italia il concorso nella bancarotta di questa società viene contestato ai dirigenti delle banche che avevano fatto da capofila per l’emissione dell’eurobond. Nei loro confronti la Procura muove l’accusa di concorso nella bancarotta nel 2006 della controllata lussemburghese Cerruti Finance Sa, costituita da Facchini nel giugno 2001 appositamente come veicolo societario per emettere un bond da 200 milioni di euro poi non rimborsato agli obbligazionisti che lo avevano sottoscritto. Il rapporto perverso tra l’impresa in decozione ed uno degli Istituti che facevano ricorso a credito abusivo, è sancita dalla condanna inflitta a Giovanni Brumana ex direttore generale della Banca Popolare di Intra a cui viene contestata l’ostacolo all’autorità di vigilanza, nello specifico la Banca D’Italia.
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