Alla mia Pina che mi ha indotto a narrare questa storia da lei vissuta in silenziosa sofferenza ed affettuosa comprensione
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Achille Melchionda
“J’accuse” IL MIO
Gli anni della P2 e altre impudenze del Grande Oriente d’Italia
Prefazione del Gran Maestro Gustavo Raffi
Minerva Edizioni
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Il mio “J’accuse” Achille Melchionda Direzione editoriale: Roberto Mugavero Editor: Maria Irene Cimmino Impaginazione: Francesco Zanarini
La loro riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo, è vietata senza il consenso del detentore del copyright. © 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Prima edizione 2013 Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978-88-7381-510-5 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com
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INDICE Prefazione del Gran Maestro Gustavo Raffi 9 Presentazione di Natale Pesvelossi 13 I– 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.
Dall’iniziazione alla Gran Loggia del 24 marzo 1972 15 L’iniziazione Il primo curriculum 21 Metto a disposizione una carica 30 La collaborazione 33 Un... “peculato” per distrazione di somme 36 La quiete dopo la tempesta: quell’eccezionale 1971 39 Il Consiglio dell’Ordine “straordinario” 42 La “Volontà Rivelata”, i “fondi segreti” e la sconosciuta “Loggia P2” 46 51 9. La turbolenta Gran Loggia 24 marzo 1972 10. Prendo le distanze 61 11. Il dispotismo si rafforza 63
II – Le elezioni del marzo 1973 71 1. Una riunione preparatoria 2. La mia candidatura 77 3. In memoria di Lucio LUPI 79 4. La “campagna elettorale”, come ... l’isola che non c’è 83 5. Mea culpa? 91 94 6. Un Consigliere ... sconsigliato! 7. L’insolente, illegale, Gran Loggia 24 marzo 1973 93 III – Dalla “cacciata” al “suicidio” massonico 1. Una nuova Loggia di “nemici”? NO! 109 2. La revoca delle cariche, ovvero la “cacciata” 118 3. Dàgli al Fratello Umberto L. 121 4. La mia “auto-denuncia”... e le poche altre 125 5. Chi si difende è un nemico della giustizia 129
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IV – Il processo-beffa 1. Tento il contrattacco 135 138 2. Dico al Gran Maestro che non sono in vendita 3. Il processo può attendere, la “sospensione” no 140 4. Questo processo “non s’ha da fare”? 145 5. Una “Giustizia fraterna, dialogo di comprensione e di amore”? 149 6. L’interrogatorio 153 7. Come si prepara un processo-beffa 159 8. Il processo 165 9. La sentenza 171 VI – Massonicamente “scomunicato” Giudiziariamente “comunicato” 1. La “grazia”? 2. La “revisione” ed archiviazione della mia condanna 3. Una “rincasata” poco convinta 4. Dalla “comunicazione giudiziaria” al “sonno” 5. L’inquisito indignato e “il fatto non sussiste” 6. Breve storia dell’accusa e ... 7. ... breve storia della Loggia “Zamboni-De Rolandis”
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Sottovoce: “Grato m’è ‘l sonno” 213 Codicillo: Articoli di Natale Pesvelossi
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PREFAZIONE
Ci sono percorsi dolorosi che restano e che vanno indicati come esempio. Le pagine raccolte da Achille Melchionda raccontano, oggettivamente e soggettivamente, una serie di vicende, che, attraverso la prova di un solo uomo (a volte anche un uomo lasciato solo), permettono di mettere in luce senza infingimenti un tratto, non esaltante, di storia della Massoneria italiana. Scrivo a mia volta questa breve prefazione con la coscienza di chi può dire “C’ero anch’io” in quel lontano 1972; all’epoca massone, sessantottino e ribelle, Maestro Venerabile della Loggia “La Pigneta” n. 676, iniziato nel 1968. Io e Melchionda eravamo, comunque, destinati a batterci insieme. Melchionda l’ho sempre ritenuto un buon Maestro. Per lui, da tempo Fratello in sonno, ora il Tempio si è trasformato in un dialogo ininterrotto con il Gran Maestro e con i Fratelli che non hanno dimenticato coloro che si trovarono costretti a lottare e, in certi frangenti, anche a pagare affinché la Massoneria uscisse dalle catacombe e allontanasse i mercanti dal Tempio. Questi ricordi non devono pertanto servire come semplice sfogo o peggio come un’autocelebrazione lamentosa di un passato sgradevole, ma vanno interpretati nel senso progressivo e costruttivo di una sorta di Memoria indirizzata a far prendere coscienza del passato, con lo spirito sereno di chi sta guardando avanti, certo del fatto che indietro non si possa e debba più tornare. Mi preme rammentare ai lettori che nella Libera Muratoria, Melchionda, a sua volta, raccolse la straordinaria lezione di umanità impartita da un altro uomo vero: il suocero, docente di Clinica veterinaria a Parma. Tre giorni dopo la di lui morte, egli bussava alle porte del Tempio per proseguirne l’esempio. Al momento dell’Iniziazione, chiese e ottenne che gli fossero consegnati i guanti bianchi, che erano stati del padre della moglie. Anche il grembiule era appartenuto a quel testimone del libero pensiero massonico, un grembiule a sua volta ereditato dal Maestro che l’aveva guidato nel sentiero iniziatico. Ha quindi ragione l’autore a scrivere che «alla 9
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Famiglia massonica ho dato molto, senza mai nulla chiedere». Ma un tempo “chi voleva sapere, era additato come sovversivo”. Chi chiedeva verità sulla P2, era guardato con sospetto, fino a quando “si è frantumato il coperchio che la teneva celata e segreta”. E a scoperchiare il vaso di Pandora furono proprio i massoni. Appare triste dover constatare che vi furono troppi occhi, in quegli anni, che non avevano alcuna intenzione di vedere e altrettante orecchie che non erano disponibili a prestare alcun ascolto alle giuste e fondate proteste di chi denunciava comportamenti incompatibili con lo spirito e la prassi libero-muratoria. In molti preferirono scegliere di affidarsi al fato, confidando che il tempo avrebbe risolto ogni cosa, in nome di una fittizia armonia, ed esponendo invece l’Istituzione al rischio di una rovinosa catastrofe. Il Grande Oriente, che Melchionda chiama sempre “Famiglia massonica”, ha però saputo raccogliere le sue energie migliori per combattere e vincere quella devastante metastasi e denunciare storture e aberrazioni. In un clima da “regolamento di conti” nei confronti dei dissidenti, Melchionda, il 24 aprile 1974, come altri, venne espulso. Ma i suoi guanti restarono bianchi: «Io non li ho macchiati – dice l’autore di queste riflessioni in un passaggio della sua testimonianza alla Corte centrale – e non ho permesso a nessuno di macchiarli con la mia complicità o con la mia acquiescenza». E aggiungeva: «La Massoneria italiana potrà ritrovare il suo cammino soltanto quando dall’interno, dalle Colonne, dai più, si sarà formata una coscienza decisa e una precisa volontà di ritrovare se stessa». Gelli fu espulso qualche tempo dopo, nell’ottobre del 1981. A presiedere la Corte Centrale, Armando Corona che venne poi eletto Gran Maestro. Durante la sua Gran Maestranza, fino all’89, molte cose cambiarono e vennero allontanati o espulsi alcuni personaggi, anche di vertice, compreso un ex Gran Maestro, ritenuti conniventi con la degenerazione piduista. Dovranno trascorrere ancora parecchi anni, affinché il Grande Oriente possa aprirsi al mondo. È quello che è avvenuto nel 1999, con la “Primavera della Massoneria” e con l’avvento della Libera Muratoria di popolo. Oggi si riconosce che quei sognatori non avevano torto. Melchionda lo ricorda in un paragrafo di questo 10
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volume, trattando della ‘revisione’ della sua condanna, e citando “un giovane avvocato di Ravenna”. Io ero indignato per quel processo. Nell’86, da Consigliere relatore, denunciai davanti alla Corte l’inconsistenza delle motivazioni che avevano portato alla ‘cacciata’ dell’aprile 1974, sottolineando che l’iter processuale si era svolto con grave lesione del diritto di difesa. Testualmente: la vicenda «si colora di tinte fosche, sì da assurgere ad aspetti kafkiani. La certezza del diritto è, invero, del tutto disattesa, e l’imputato diviene una vittima da sacrificarsi [...]. Al Giudice non compete di certo un giudizio storico sulla condotta dei Fratelli che allora governavano l’Istituzione, ma attraverso le carte processuali emerge una visione distorta della giustizia, piegata al volere del ‘principe’, strumento per eliminare il dissenso nelle persone che lo incarnavano: con ciò violando il principio cardine della Tolleranza. Un atto di giustizia impone che questa colpa venga cancellata». La Corte, con la decisione del 13 dicembre 1986, annullò la sentenza precedente, così revocando le condanne. La legge morale che è in ogni Libero Muratore, è stata con noi. Quel fascicolo è stato riaperto. Qualcuno ci ha messo la faccia, ma quando i tempi sono bui, pochi hanno il coraggio di pronunciarsi contro il potere. Eppure solo il consenso di chi abbia saputo dissentire con onestà e trasparenza è vero consenso, l’altro resta solo il consenso del servo. L’esperienza di Melchionda merita rispetto, poiché essa conferma come la Massoneria sia agenzia etica, laboratorio di pensiero capace di formare coscienze libere. Il Vascello, sede del Grande Oriente d’Italia, ha da diversi anni aperto le sue porte e soprattutto i suoi archivi, consentendo così a giovani ricercatori e a studiosi affermati di valutare in piena libertà e autonomia intellettuale il contributo del Grande Oriente d’Italia alla costruzione del Paese e alla formazione dei valori di democrazia, nonché ai princìpi fondamentali di dignità e libertà dell’essere umano; tutto ciò quindi senza sottacere luci e ombre, nella pienezza della trasparenza e del rigore scientifico. In questo modo nuove generazioni hanno trovato dei Maestri che le potranno accompagnare con rinnovato entusiasmo nel viaggio tra le Colonne e nella vita. È la nuova Massoneria un tempo sognata dai ‘Fratelli in esilio’, come Achille Melchionda e Francesco Siniscalchi, senza rancori e animo di rivalsa. Una cordata di uomini liberi si è ritrovata. 11
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Il tempo lenisce le ferite, mette distanza, acquieta le tempeste passionali dell’animo umano, permette di far nascere una nuova visione degli eventi accaduti all’insegna di una pacata consapevolezza di quanto è avvenuto. È ciò che occorre fare adesso nei riguardo di un Uomo che ha vissuto la sua libertà di pensiero, mosso dalla fiamma della passione emotiva, a volte stridente, talora eccessiva, fuori dai limiti, come tutte le vere passioni che nutrono e inondano allo stesso tempo il terreno della conoscenza e della lotta in vista dell’affermazione di sempre più alti ideali di libertà. Nel riprendere in mano la questione di tali anni bui occorre altresì preservare una certa comprensione critica e mettere in campo una ragionevole dose di pacatezza obiettiva nel considerare ed analizzare le azioni di coloro che non sempre hanno avuto la forza ed il coraggio di guardare con gli occhi aperti sia nella vicenda di questo Uomo sia nel quadro storico che egli motivatamente contestava. Quanto ho appena scritto non deve essere inteso come un invito ad un revisionismo buonista o come il desiderio di edulcorare la gravità dello scenario, ma semplicemente come una considerazione costruttiva mirante a trarre una lezione fondamentale per il futuro; non si tratta di consumare vendette, di esaltare dolori e passioni, ma di rendere giustizia a chi ebbe meriti, di riconoscere le responsabilità di chi non seppe essere all’altezza, pur nella valutazione dello scenario dell’epoca e dei suoi limiti. Le passioni che nutrono l’animo umano, bagnate di atti emotivi e colorate da tinte istintive, adesso devono lasciare nuovamente il posto a una visione che comprenda, ridefinisca, ricollochi gli eventi umani accaduti nella loro giusta dimensione, aprendo le porte a una coscienza riflessiva che guardi con distacco emotivo e soprattutto che serva a rendere più fertile il terreno del contesto libero-muratorio, ove si incontrino uomini che amano mettersi in gioco nel cammino della ricerca. La ricerca della verità richiede una cura continua e un clima di serena costruzione, il più lontano possibile “dalle passioni del mondo profano”. Gustavo Raffi
Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani
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PRESENTAZIONE di Natale Pesvelossi
Chi sono io? Semplice: Nessuno. Posso spiegare, però, chi sono stato: se fossi vissuto in carne ed ossa sarei stato semplicemente un clone. In realtà non sono stato che un “alter ego letterario”, ossia un immaginario pseudonimo di fantasia dell’autore Achille Melchionda, nel ruolo di collaboratore della Rivista Massonica (come può vedersi nell’indice del “codicillo”) negli anni di sua appartenenza alla Massoneria italiana del Grande Oriente di Palazzo Giustiniani. L’allora Direttore della Rivista, Gran Maestro Giordano Gamberini, nel sollecitarlo a scrivere per la Rivista, gli manifestò l’opportunità di adottare uno pseudonimo, anche come segno di modestia, oltre che per evitare eventuali azioni di fastidio od ostilità dal “mondo profano”. È nato così lo pseudonimo: il nome, Natale, è autentico, in quanto secondo nome anagrafico nei suoi documenti ufficiali; il cognome, Pesvelossi, è una sorta di italianizzazione del soprannome del mitico Achille, pes velos, ovvero il “piè veloce”. Riprendere qui quello pseudonimo, attribuirmi la paternità di questi “ricordi”, è la coerente rigenerazione del fecondo collaboratore de “La Rivista Massonica”, degli anni ’70, corrispondenti alla mia esperienza massonica. Artificio misterico a scopo di nascondimento? No, semplice anti-esibizionismo. Si vedrà infatti quanto fosse noto che Natale Pesvelossi si identificava nell’Achille Melchionda di Bologna, il quale, d’altro canto, non ha mai nascosto la sua appartenenza all’associazione massonica: oltre ad essersi battuto, fino all’ultimo momento, per il superamento della stolta (e controproducente) “segretezza”, ha sempre ostentato all’occhiello delle giacche la spilla col ramo d’acacia, ed ha usato portachiavi ed altri gingilli con il distintivo di “squadra e compasso”. Perché questo racconto. Per tracciare e trasmettere un ricordo dell’impegno, della fermezza, della coerenza e (perché no?) del coraggio e del costo che un 13
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gruppo minoritario dei Fratelli italiani ha svolto e pagato negli anni ’60 e ’70 per riportare la Comunione Massonica nei binari dei valori ideali dai quali l’avevano fatta dirottare alcuni personaggi al timone della conduzione istituzionale, con l’apatica insensibilità della grande maggioranza di Fratelli miopi, o sordi. È stato un conflitto inizialmente tanto sofferto quanto difficile e, dapprima, inappagante, in quanto almeno momentaneamente perdente. Ma proprio il prezzo dell’iniziale insuccesso è servito alla successiva vincente riscossa. Una reazione i cui effetti centrifughi si sono poi proiettati ben oltre l’ambito dell’ associazione massonica, grazie alla responsabilità e accortezza dei pubblici reggitori nazionali. In poche parole: è stata quella minoranza di Fratelli “ribelli” che ha percepito e contrastato l’origine della devianza nota come Loggia P2, quando ancora il responsabile Licio Gelli tramava in sordina. Le cadenze storiche di quanto precede sono chiaramente eloquenti: le prime avvisaglie critiche e avverse, interne al Grande Oriente (come potrà verificare il lettore di questo resoconto), quando ancora quella strana, anomala P2 era sconosciuta anche agli stessi massoni “regolari”, sono avvenute tra la fine del 1971 e proseguite fino al 1974; l’attenzione degli organi di Stato sulle iniziative del reggente della P2, sostenuto e gradito ai vertici del Grande Oriente, è databile alla fine del 1974: “Il 1974 è infatti anche l’anno della prima relazione sul “gruppo Gelli”, inviata alla magistratura dall’allora direttore dell’Ispettorato per l’azione contro il terrorismo, Emilio Santillo; trasmessa nel dicembre 1974 al giudice Tamburino, titolare dell’inchiesta sulla “Rosa dei venti”; ne seguiranno altre due rispettivamente nel dicembre 1975 e nell’ottobre 1976.” Dossier Licio Gelli, Kaos edizioni, 2008, p.24.
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I DALL’INIZIAZIONE ALLA GRAN LOGGIA 24/3/1972 1.- L’iniziazione Bologna, 25 gennaio 1965, ore 21. Mi trovo in una specie di cabina, uno sgabuzzino assai angusto, non più di un metro e ottanta di lato, alto circa due metri, tutto foderato di nero, cosicché ancora più fioca è la luce che proviene da una lampadina di poche candele appesa al soffitto; l’ambiente è stato attrezzato nel fondo del vasto salone di un appartamento del centro-città. Sul campanello esterno compare la scritta “Centro studi storici”: nessuno deve sapere che in realtà è la sede delle Logge massoniche bolognesi del Grande Oriente d’Italia. L’unico, modesto, dimesso arredamento, è composto da un tavolinetto e da un seggiolino di legno. Per rendere ancora più tetro il luogo, sul tavolino è collocato un teschio umano (autentico, non di plastica) e vi è appoggiato un foglio di carta con tre domande scritte a macchina: “Quali sono i tuoi doveri verso te stesso? Quali verso lo Stato? Quali verso l’umanità?”; tutto attorno regna il silenzio più assoluto. Mi trovo, in poche parole, nel c.d. “Gabinetto di riflessione”, dove il “profano” rivaluta il passo che si accinge a compiere, libero di rinunciare e andarsene. Quel po’ di tetraggine del luogo, delle cose, dello stimolo meditativo, contribuisce alla percezione di una importante opzione di vita, nel mondo del simbolismo esoterico. È così cominciato il lungo, affascinante, coinvolgente cerimoniale della mia “iniziazione”. Già, perché in Massoneria non si accede con una semplice, banale presentazione ai nuovi amici e con una stretta di mano. Si entra con l’”iniziazione” che, come dice la parola, implica l’apertura spirituale verso nuove conoscenze, grazie anche ad una simbolica rottura col passato “profano” (non a caso è previsto anche il “testamento”, simbolo di un “addio” del quale riferirò tra breve). È così da millenni, da quando esistono uomini che si tramandano i simboli ed i valori della saggezza e spiritualità umana, ricorrendo al linguaggio criptico dell’esoterismo. 15
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Dove ora mi trovo tutto è simbolico, perché tutto è finalizzato a stimolare il metodo gnostico esoterico: simbolico l’avermi introdotto nel “gabinetto di riflessione” dopo avermi invitato a togliermi di dosso tutti gli oggetti di metallo (monete, chiavi, orpelli), testimoni e mezzi della vita materiale, nonché ad arrotolarmi di un paio di giri il bordo di un pantalone, forse segno di indifferenza verso estetiche banali. Simbolico il testamento, come pure quel teschio, il buio, l’angustia del locale, che evocano la prima delle quattro “prove” cui dovevano sottoporsi gli antichi aspiranti al sacerdozio pagano, quella del “sottoterra” (le altre tre erano, e sono, la prova del “fuoco, dell’acqua, dell’aria”).1 Ma da quando sono entrato nel “Gabinetto”, ancora non conoscendo il simbolismo rituale, il mio pensiero è fermo soltanto alle ragioni, alle occasioni, alle vicende e coincidenze che circa meno di tre mesi fa mi hanno determinato a questo passo. Ricordi, riflessioni, motivazioni, mi si affollano confusamente, ma non ho incertezze. La mia scelta è stata, se non lungamente, profondamente meditata, e già da tempo ho superato l’unica vera remora che avrebbe potuto dissuadermi: la salda religiosità dei miei, soprattutto di mia mamma, venutami a mancare già da anni ma sempre vividamente presente tutrice della mia anima e della mia coscienza. L’intreccio dei precedenti che mi hanno portato in questo “Gabinetto” merita comunque qualche accenno. ********** Il termine “massoneria” è stato più volte pronunciato in casa mia, quand’ero ancora un bambino o un ragazzetto, dai miei genitori, ma anche dai numerosi fratelli di mio padre e da qualche ospite o conoscente, sempre con accenti pesantemente negativi. Mio padre, ufficiale della Guardia di Finanza, ricordava come già all’Accademia Ufficiali aveva avuto le prime larvate proposte, da lui fermamente rifiutate perché, onest’uomo qual’era, non concepiva una 1 Vedasi la varietà, ideologica e fattuale, delle tante forme di “iniziazione”, dagli albori dell’umanità, in Giovanni Vignola “I riti di iniziazione” ed. De Vecchi, 1972.
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contestuale osservanza a giuramenti di fedeltà diversi, e probabilmente incompatibili, con quelli nel nome di Sua Maestà il Re. Le altre voci ostili erano in gran parte condizionate da motivi religiosi (l’appartenenza alla Massoneria era condannata con la “scomunica” e conseguente inibizione di tutti i riti cattolici) e dalle voci correnti che, senza ombra alcuna di dubbio, attribuivano alla consorteria diabolica i più efferati delitti ad opera di autori ignoti, dagli omicidi ai sequestri o sparizioni di persone. Nel nostro Paese, alimentata dagli ambienti cattolici, è stata veramente profonda, capillare, prolungata, la “bufala” della mistificazione montata dal famoso Leo Taxil, con la presunta complicità della non meno rinomata e misteriosa (in realtà, mai esistita) Lady Diana Vaughan, seguaci del diabolico Dottor Bataille. Enorme successo e credito ebbero le loro pubblicazioni, comprensibilmente divulgate dalla Chiesa, dense di turpitudini, sacrilegi, orrori, descritti come rituali all’ordine del giorno nelle logge massoniche.2 La mia laicità, peraltro rispettosissima di qualsiasi credenza religiosa, non è stata però alimentata dalle “fole” anticlericali, bensì il risultato di mie riflessioni, mie meditazioni, miei dubbi, non superati, anzi involontariamente confermati in occasione della mia ultima “confessione” o “confidenza” volutamente resa ad un Padre Domenicano, quando avevo 18 anni. Essendomi stato insegnato che tutto il creato proveniva da Dio, non mi spiegavo come avesse potuto generare, o non impedire, anche la fonte del male. Comprensiva, ma deludente, era stata la risposta del confessore: «Eh già, non è un problema risolubile, anche Sant’Agostino ne è rimasto dubbioso.» Leo Taxil, pseudonimo di Gabriel Antojne Jogand-Pagès, ha pubblicato a Parigi, nel 1885, il suo primo esplosivo libro “Les frères trois points” (tradotto nelle edizioni italiane col titolo “I fratelli tre puntini”); nel 1992 a La Spezia ha visto la luce una “Storia segreta della Massoneria”, di ben 931 pagine!, che espongono i tanti motivi di “condanna a morte” a carico di Fratelli disubbidienti o infedeli. Il Dottor Bataille ha pubblicato una serie di fascicoli mensili, a partire dal 1892, su la “Massoneria luciferina” e rituali osceni o criminali, vero “boom editoriale”; l’autore era un medico di bordo, di nome Charles Hacks. Diana Vaughan, parto di fantasia di Bataille e Taxil, non è mai esistita. Su codesti precedenti storici, che ebbero un incredibile seguito di notorietà e credenza, ved. per tutti: Roberto Gervaso, I fratelli maledetti, Milano, 1996 (in particolare il capitolo “La colossale mistificazione”, pp. 227 segg.) e Padre Rosario F. Esposito, Le grandi concordanze tra Chiesa e Massoneria, Firenze, 1987, pp. 109, 110, 118, 393.
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Alla mia accettazione in Massoneria ha fatto poi seguito una calorosa e gratificante scoperta della (come dire?) “religiosità-profana” dell’Istituzione, che non ammette l’ateismo, e chiama “Grande Architetto dell’Universo” il Dio Creatore, così come (per citare altro esempio di linguaggio iniziatico) definisce la morte come “passaggio all’Oriente Eterno”, felice sinonimo di fine della vita fisica, ma non di quella spirituale o dell’anima. Tutt’altra descrizione dell’istituzione massonica, tanto da aspirare ad accedervi, mi è venuta da parte di mio suocero, a sua volta massone e allievo di maestro universitario pure massone. Da qualche primo larvato cenno, potrei dire “sondaggio”, col crescere anche dell’empatia affettiva che ci univa (ero stato accolto come il figlio maschio non avuto fisicamente) era arrivato a darmene una più precisa e realistica immagine, tanto che un giorno (non l’ho mai dimenticato: eravamo seduti di fronte, in uno scompartimento ferroviario senza altri viaggiatori, diretti da Bologna a Parma, dove lui, con moglie e figlia unica, si era trasferito perché in quella Università aveva ottenuto la cattedra di Clinica veterinaria, ben presto assurgendone alla Presidenza), quel giorno gli manifestai il maturato mio desiderio di entrare anch’io in Massoneria. Neppure ho mai dimenticato la sua risposta che – caso mai ve ne fosse stata necessità – benché negativa aveva vieppiù rafforzato la mia decisione: «No, per ora no, aspetta. Vedi, tu ora sei assistente universitario, oltre che libero professionista. Un tuo attuale ingresso in Massoneria, potrebbe sembrare un espediente per “fare carriera”, il che potrebbe danneggiare la tua immagine. Anche io ho vi sono stato ammesso soltanto dopo avere ottenuto la Libera Docenza, perché il mio Maestro mi aveva dissuaso per lo stesso motivo di farne parte prima. Non avere fretta. Quando sarà il momento potrai poi rivolgerti, a Bologna, al colonnello medico Antonio S..., mio carissimo amico.» Se mai potevo sospettare che la Massoneria altro non fosse che una consorteria di reciproci aiuti, quelle parole me lo esclusero con certezza. Avrei atteso di più se avessi potuto seguire il suggerimento di mio suocero, ma diversamente, e talvolta anche crudelmente, decide il nostro imprevedibile destino, sadico nei giochi con le coincidenze: il 10 novembre 1964, mia moglie ed io eravamo appena rientrati a 18
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casa dalla visita al cimitero di Ferrara ove era sepolta mia madre, deceduta improvvisamente la sera del 10 novembre 1958, quando da Parma ci telefonarono che, lui pure improvvisamente, mio suocero ... era passato all’Oriente Eterno o, come lui amava dire, vagava sereno nelle azzurre valli dell’eternità... Ci precipitammo a Parma: lo trovammo ancora seduto nella sua poltrona preferita. Io scorsi sul tavolinetto sito ai suoi piedi un biglietto da visita, con affettuosi saluti da parte proprio del Col. S... di Bologna! Anche questo particolare io interpretai come segno del destino: sembrava un messaggio a me diretto, per ricordarmi a chi avrei potuto rivolgermi ove avessi desiderato entrare in Massoneria. E così feci. Tre giorni dopo mi presentavo al Col. S.... chiedendogli di fare quanto possibile per farmi accogliere in Massoneria, fermamente desideroso di proseguire l’esempio di mio suocero. E così fu. ********** Nessun dubbio, quindi, nessun tentennamento, mentre ero entrato e stavo ripensando a codeste mie vicende, isolato nel “Gabinetto di riflessione”. Mi dicevo che da Lassù neppure la mia mamma mi avrebbe censurato: poteva, oramai, leggere anche i miei pensieri, e vedere che la mia impulsiva opzione era stata dettata da affetto, non da calcoli materiali o polemiche ideologiche. Chi avrà la pazienza di proseguire la lettura di queste pagine potrà averne conferma. Rivissuti, in fulminea successione, i momenti, le pulsioni, i ricordi delle vicende che mi avevano condotto in quel singolare bugigattolo, non mi rimaneva che attendere alle risposte che dovevo vergare alle tre domande del foglio posto sul tavolino, ossia (per rispettare ancora il gergo simbolico) il Testamento dell’aspirante massone, “testamento” soprattutto perché la firma appostavi in calce attestava l’ultima conferma del desiderio di abdicare alla cecità, o buio, della vita “profana” ed iniziare il percorso psico-ideologico verso la luce della conoscenza. Neppure in siffatto incombente ho esitato: questo il mio laconico istintivo “testamento massonico”: «Quali sono i tuoi doveri verso te stesso?» = “Sapere” 19
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«Quali verso lo Stato?»3 = “Operare” «Quali verso l’umanità? = “Divulgare” Mi sono sovvenuto che Giuseppe Mazzini, nella sua celebre opera “Dei doveri dell’uomo”, aveva dedicato non poche pagine a trattare esattamente quei medesimi argomenti. All’indomani della cerimonia ho infatti verificato che Mazzini aveva discettato di tutti quei doveri, aggiungendovi però anche quello “verso la famiglia”. Coincidenze, certamente, Mazzini non essendo mai stato un massone: la sua profonda fede cattolica non glielo avrebbe consentito. Una decina di anni dopo, in conseguenza di quanto mi occorse – come confiderò al lettore – descrivevo così, nei miei appunti mnemonici, la cerimonia della mia “iniziazione”: «Quella sera, in un Tempio gremito di Fratelli, alla presenza del Gran Maestro (un raro onore, risultato di una fortunata coincidenza, che però non ho mai dimenticato; come neppure ho mai dimenticato che il primo volto che scorsi nel Tempio, allorché mi venne tolta la benda dagli occhi, fu proprio quello ieratico, ascetico, del Gran Maestro, Giordano Gamberini). Da allora, se talvolta gli sono stato vicino e fedele con un entusiasmo ed una operosità incondizionati, e se talaltra ho più di altri sofferto per sue scelte che mi sono apparse – e mi appaiono – ingiustificabili, si è proprio perché ero legato a lui da quella prima visione, dal ricordo di quel primo volto in un Tempio massonico, l’unico non coperto dal rituale cappuccio; quella sera, dicevo, dovevo commettere un “errore” che, visto da me oggi, “a posteriori”, ma soprattutto visto con gli occhi dei Fratelli che assistevano alla mia iniziazione, era destinato a dare un’impronta tutta particolare all’intera mia vita massonica. È accaduto che il Col. S.... (mio presentatore e mia guida) mi aveva preavvertito che alla cerimonia avrebbero assistito parecchi Fratelli, anche di altre città che sarebbe stato presente il Gran Maestro, e che insieme a me sarebbero stati iniziati altri due profani; era pertanto opportuno, doveroso, che io (proprio io, se non altro perché, data All’epoca la seconda domanda riguardava invece “la Patria” (così aveva preferito anche Mazzini):” suggerirne la sostituzione con una formula meno emotiva e comprendente anche tutte le istituzioni patrie, a cominciare dalla Costituzione, fu una delle “battaglie” di Natale Pesvelossi (vedi il suo “A proposito della Patria”, in Riv.Mass. n° 5, maggio 1971, p. 263.
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la mia professione, più aduso a parlare in pubblico) dicessi qualche parola di circostanza. Aggiungansi due particolari senza precedenti, tali pertanto da mettermi subito in una situazione di apparente privilegio: avevo chiesto, ed ottenuto, che al momento di ricevere i “guanti bianchi” che comunemente si indossano nel Tempio, ed il rituale “grembiule”, mi fossero consegnati i guanti che erano stati di mio suocero (da me rinvenuti e passati all’uopo al Col. S: ...) ed il grembiule che pure vera stato di mio suocero ma che lui aveva a sua volta ereditato del suo Maestro. Fu così che, avutane la facoltà, presi a parlare. Non ricordo cosa dissi, perché ero troppo emozionato per poterlo oggi ricordare. Certamente non dissi soltanto “grazie”; ero troppo sincero, e desideravo apparirlo, per non tentare di fare comprendere quanto fossi onorato e riconoscente; e vincendo l’emozione e il disagio, lasciai alla mia voce il compito di esprimere ciò che mi saliva dal cuore. Credo aver parlato per almeno 5 o 6 minuti. Non l’avessi mai fatto! Ancora molti anni dopo qualche affettuoso Fratello mi confidò che quella mia prima “esibizione”, anziché essere interpretata come uno spontaneo e sincero intento di commossa gratitudine (involontariamente abnorme, non potendo io sapere, allora, che una fondamentale regola vuole un Apprendista Muratore rigorosamente silente per almeno un anno, per–appunto “apprendere” prima di esprimersi) era stata invece percepita come dimostrazione di ambizione, di immodestia, di esibizionismo, e di non so quante altre gravissime “colpe”. Nascevano così un “marchio” ed una nomea che, nel bene e nel male, mi hanno perseguitato per tutti gli anni della mia permanenza: talvolta, e per taluno, come segno positivamente apprezzato; talaltra, e per non pochi altri, come ... indelebile peccato originale!»
2.- Il primo curriculum L’esperienza iniziale, e quella che è maturata negli anni successivi, è stata, e rimane nei miei ricordi, quanto mai interessante e gratificante. Anche, in verità, per merito mio, e cioè per come mi sono comportato, seguendo il consueto mio modus operandi quando una 21
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novità mi appassiona. È stata infatti una attività intensissima, in un crescendo di conoscenze ed apprendimenti (non era questo il compito di un “fratello apprendista”?). Tanto che mi è stato sufficiente un breve ma intenso percorso di pochi mesi per non avvertire più nessuna soggezione nei confronti di Fratelli massonicamente assai più anziani, avendo io – mi si perdoni questa vanità – dedicato più tempo ed energie ad imparare in poco tempo, che altri Fratelli in decine di anni. Grazie alla biblioteca che era stata di mio suocero (e del suo predecessore) ho letto tutto quello che mi capitava fra le mani, compresa una raccolta della Rivista Massonica di parecchi anni addietro. E quanto più leggevo e studiavo ed acquisivo, tanto più mi sentivo culturalmente arricchire, ma anche tanto più desideravo “apprendere”. Ancora Apprendista ho frequentato, in rispettoso silenzio, tutte le riunioni della mia Loggia (intitolata a Giosuè Carducci, e della quale era stato il Maestro Venerabile, cioè il responsabile, la guida, anni addietro, anche mio suocero): ma altresì quelle di tutte le altre Logge, anche non bolognesi, alle quali mi era consentito accedere. Ho poi assistito a tutti i convegni di studio ai quali mi è stato possibile o addirittura mi venne richiesto di intervenire. “Maestro” per motu proprio. Già l’anno successivo alla mia ammissione, con decorrenza 3/3/1966, sono stato “promosso”, o meglio, nominato Maestro (eccezionalmente sono stato Compagno per soli cinque mesi, anziché per il tradizionale intero secondo anno) grazie ad una delibera motu proprio del Gran Maestro Gamberini (cosa che, naturalmente, ha accentuato il mio attaccamento a lui e la mia, pur spiacevole, fermezza nel doverne criticare talune iniziative o prese di posizione e particolari comportamenti, secondo prioritari dettati della mia coscienza). “Maestro Venerabile”. Per una serie di circostanze che non sto ad elencare, mi sono trovato ben presto ad essere eletto, dopo unanime insistenza dei Fratelli della mia Loggia, alla carica di “Oratore” (una specie di probo-viro, alter-ego suggeritore e fiancheggiatore del Venerabile) e subito dopo, ancora giovanissimo di esperienza operativa, a partire dal 1° luglio 1967 (appena un anno e mezzo di appartenenza alla Comunione!) di Venerabile, fino al 30/6/1969, poi ancora dal 1°/7/1971 fino alla mie dimissioni, come riferirò. 22
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In questa veste, sentendo tutto il peso della responsabilità che mi ero assunto (senza dire della commozione al pensiero che anche mio suocero aveva, a suo tempo, ricoperto la medesima carica nella “nostra” stessa Loggia; quante volte la mia immaginazione ha creduto di vederlo lì presente, a compiacersi ed incoraggiarmi per la mia rapida ascesa!) mi sono attenuto al massimo delle mie capacità, con tutta serietà ed impegno. Ho pazientemente ricostruito tutto l’archivio della Loggia Carducci, ne ho riassestato l’economia, notevolmente ampliato il “piedilista” (cioè il numero degli iscritti), ma anche sfrondandolo di alcuni rami secchi (Fratelli da tempo non più assidui). Non meno gratificante e rapida anche la mia appartenenza al Rito Scozzese Antico ed Accettato (una sorta di ulteriore cursus iniziatico che, col tempo e con l’impegno, conduce fino al mitico Grado XXXIII, numero di intuibile valenza simbolica): 16/1/ 67 Grado IV° - “1/1/69 Grado IX° - 3/6/70 Grado XVIII° - 18/1/71 Presidente della Camera IV°. Non cito tutto ciò, e quanto ancora sto per dire, per tessere mie lodi. Intendo solo fare presente che alla Famiglia massonica ho dato, ho dato molto, senza mai nulla chiedere. Intensa attività. Ho tenuto conferenze, ho scritto decine di articoli per la Rivista4, ho studiato, dibattuto, edificato, proprio (per esprimermi in gergo rituale) come “pietra grezza che si sta sgrossando”. Non c’è stato, in quegli anni, parente o amico, da me ritenuto degno di appartenere all’Istituzione, che io non abbia invitato (e più volte ottenuto) a venire fra di noi: credo più di una ventina. Non inseguivo (come invece altri, ma per diversa opinione) una “politica dei numeri”, ché anzi ne sono stato sempre fermamente avverso, al punto che ho insistentemente dichiarato che in Italia eravamo complessivamente in troppi, impossibile fossero tutti degli autentici “iniziati”. Per me invitare un “profano” ad entrare nella Famiglia massonica non è mai stato dettato da un fine diverso da quello di condividere, con persone a me care o da me stimate per doti morali ed intellettuali, le soddisfazioni, le gratificazioni, il bello che nella nostra epoca materialistica o dogmatica o pigramente conformista, solo la Massoneria poteva offrire. 4
Vedi elenco completo in appendice.
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Non posso tacere un particolare episodio occorsomi, che da un lato mi ha sollecitamente imposto all’attenzione e alla riconoscenza dei Fratelli bolognesi, e dall’altro lato attesta come io non abbia mai concepito l’appartenenza alla Massoneria né come opzione pericolosa o comunque da tenere rigorosamente nascosta, né come vanteria da esibire o “sfruttare”. È accaduto che, mi pare pochi mesi dopo la mia affiliazione, la Questura di Bologna avesse deciso di fare chiarezza su una serie di associazioni cittadine che, benché regolarmente costituite e registrate, destavano tuttavia sospetti di intervenuta cessazione o addirittura di insufficiente trasparenza di struttura, composizione e finalità. Furono quindi convocate tutte per aggiornare o chiarire grandi o piccoli dubbi. Tra queste, una convocazione pervenne anche al Centro Studi Storici che, come regolare società di fatto, aveva in locazione l’appartamento sede del Tempio delle Logge bolognesi. Furono giorni di scomposto e sicuramente eccessivo allarme. L’idea di assumersi la responsabilità di dichiararsi legali rappresentanti di un ente che in realtà era la Massoneria bolognese, in una città nella quale le pubbliche istituzioni ed i vertici ecclesiastici avevano in profondo discredito, o addirittura in considerazione di antica ostilità, aveva creato un subbuglio indescrivibile e addirittura qualche precipitosa fuga. Lo “scaricabarile” aveva toccato oramai il fondo quando il più anziano ed autorevole dignitario cittadino, il Fratello Carlo Manelli, mi pregò di assumermi quella incombenza, grazie anche alla mia qualifica professionale che mi consentiva di essere bene in grado di calibrare notizie, precisazioni, dettagli. Ovviamente non ero l’unico avvocato felsineo appartenente al Grande Oriente d’Italia... Accettai, andai, riferii, chiarii, e mi attribuii la qualifica di legale rappresentante del Centro Studi. E la Questura mi ... inquadrò. Non mi sono sentito né un “capro espiatorio” né un “eroe”. Avevo cominciato molto presto a battere il tasto della “trasparenza”; non potevo non agire di conseguenza e coerenza. Non sono mai venuto meno alla certezza del “male non fare, paura non avere”. Fatto sta che i Fratelli bolognesi mi considerarono il loro “salvatore”! Il nuovo Tempio bolognese. Mi è occorso – già all’inizio del mio mandato di Venerabile, grazie ad una segnalazione del Fratello Col. 24
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S... – anche il piacere e la soddisfazione, che la sorte hanno voluto riservarmi, di compiere il gran passo della scelta di una nuova sede della Massoneria bolognese, decidendone addirittura l’acquisto, in luogo di quella precedente di semplice locazione. Cosa abbastanza complicata per il fatto che l’apparente acquirente (il solito “Centro Studi Storici”), che per fortuna aveva di recente chiarito la sua posizione reale e l’individuazione del legale rappresentante in persona ... del sottoscritto, non aveva però la struttura legale per dotarsi di beni immobili, e quindi anche questa operazione di adeguamento formale si era resa indispensabile. È stato un impegno lungo e difficile, non soltanto per persuadere poi tutti i Fratelli a compiere quel decisivo passo, ma anche per l’onere economico che si doveva assumere, e per le varie, serie difficoltà legali-burocratiche di intestazione. Come Dio (o il Grande Architetto) volle, i tre Venerabili in carica ed io ne venimmo a capo, certamente nel più soddisfacente dei risultati. Da allora la Massoneria bolognese possiede la più suggestiva e perfetta sede di Tempio massonico, almeno per quanto a me noto, rispetto a tutta l’Italia; non a caso era stata la sede della Massoneria napoleonica della fine ’800! Presidente della Sezione bolognese della L. I. D. (Lega Italiana per il divorzio). Tra il 1966 ed il 1967, alle prime iniziative istituzionali (Parlamento) e private (partiti politici e spontanei gruppi di pressione) per l’approvazione di una legge sul divorzio anche nel nostro Paese (come oramai già in quasi tutti gli Stati moderni), si è costituito soprattutto ad opera del Partito Radicale di Pannella, un apposito movimento popolare denominato Lega Italiana per l’approvazione del Divorzio, articolata su spontanee Sezioni cittadine composte da coniugi separati o separandi, desiderosi però di ricostituirsi in nuove famiglie, e volontari cittadini laici, sostenitori per principio e per adeguamento del nostro ordinamento civile alla realtà dei tanti Stati esteri che già se ne erano dotati. Per noi italiani – come prevedibile e assolutamente comprensibile e scontato – l’ostacolo più fermo e resistente era rappresentato dal Vaticano: se per lo Stato il problema era di semplice diritto familiare, per il Vaticano era irrinunciabile questione di rigoroso 25
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Sacramento: una contrapposizione che doveva fare i conti con l’art.7 della fresca Costituzione repubblicana del 1948 (“Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”) e con la avvenuta “costituzionalizzazione” dei Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1927, richiamati nel secondo comma dello stesso art.7. È stato, come non possono aver dimenticato gli italiani che ne furono testimoni o protagonisti in quegli anni, uno scontro durissimo, profondo, prolungato, conclusosi, contro ogni immaginazione, con la caduta dello slogan storico che ci attribuiva un attaccamento insuperabile alla nostra Religione di Stato: apertamente laica si è pronunciata la maggioranza della nazione italiana. Dai vertici del Grande Oriente d’Italia vennero cauti inviti a sostenere quel movimento, ma senza prese di posizione pubbliche: sarebbe stato decisamente autolesionistico abbinare alla richiesta popolare l’etichetta della malvista Massoneria. Il suggerimento, o la semplice indicazione, è stata dunque nel senso di affiancare, sostenere, contribuire all’impegno della Lega Divorzio, ma senza esibizione o accostamenti di “squadra e compasso”. A Bologna i Fratelli sono rimasti del tutto estranei: solo due di loro si incontrarono con un gruppetto di cittadini personalmente interessati alla novità istituzionale, dando vita ad una Sezione della L.I.D., entrambi della Loggia Carducci: Giulio N. (futuro Venerabile) ed il sottoscritto cui, tanto per cambiare, toccò l’impegno della Presidenza. E poiché la costituzione della Sezione L.I.D. venne effettuata con tutti in crismi della legalità e pubblicità, come società di fatto riconosciuta, il primo effetto fu che l’avv. Achille Melchionda fu inserito nell’elenco della Questura di Bologna contenente i personaggi potenzialmente pericolosi come rivoluzionari o nemici dell’ordine pubblico. L’attività di quella Sezione bolognese è stata quanto mai intensa e “divertente”: un gruppetto dei componenti (in genere, non più di cinque o sei alla volta) interveniva in tutte le occasioni, dibattiti, incontri, “tavole-rotonde” – anche in altre città emiliane – aventi ad oggetto l’argomento “divorzio”, con cartelli e manifesti esibiti in silenzio, ma spesso anche con richiesta di contraddittorio verbale. Eravamo in pochi, ma tanto attivi da passare per molti. Giornali e radio locali non mancavano di riportare le presenze dei “divorzisti”. 26
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La mia cultura storico-giuridica mi aiutava parecchio nelle polemiche verbali; ma soprattutto mi sorreggeva l’esperienza professionale di tante famiglie distrutte dal fallimento affettivo, i cui componenti, potendo sì “separarsi” ma non ricostruirsi una nuova famiglia, erano condannati all’ergastolo della “unione di fatto”, pari a convivenza peccaminosa; e impossibilità di avere figli legittimi. D’altro canto, quanto io fossi convinto della necessità di introdurre nel nostro ordinamento giuridico quell’istituto particolare, lo dimostra la serie di articoli scritti da Natale Pesvelossi per la Rivista Massonica, dal 1967 al 1971. Non ho mai più dimenticato questo episodio: invitato ad Imola a dibattito pubblico con un sacerdote, sono stato tanto equilibrato, particolareggiato, documentato, nel sostenere il “diritto” dei non cattolici osservanti di potersene avvalere (ovvio che non era né un dovere né una possibilità per le coppie veramente religiose, alle quali rimaneva pur sempre la soluzione dell’annullamento canonico), che alla fine del più che garbato e reciprocamente rispettoso scambio di posizioni, mi si è avvicinata la moglie (religiosissima, quasi una “bigotta”) di un magistrato religiosissimo (erano genitori di sei figli, fedeli all’insegnamento di Madre Chiesa), felicitandosi, complimentandosi, e dicendomi, con somma cordialità: “Sono entrata tranquilla e sicura della fondatezza del mio modo di vedere questo problema, ma lei mi ha convinta che sbagliavo: io non romperò mai la mia unione familiare, ma ora riconosco che è giusto consentire il divorzio ai non credenti”. Presidente della “Fratellanza giuridica”. Un solerte, emergente, Fratello di Firenze, Lino Salvini, aveva avuto l’idea, ed ha realizzato l’iniziativa col consenso del Gran Maestro, di costituire una lista (un semplice elenco) chiamata “Fratellanza Arti Mediche”, della quale assunse la Presidenza, composta da volontari Fratelli di tutta Italia esercenti le professioni medica (libera professione od ospedaliera), veterinaria, farmaceutica, per uno scambio di informazioni, per qualche riunione a base scientifica, per collaborazioni e consultazioni. Trovandomi un giorno (se male non ricordo, a Savona) per un convegno nazionale, ebbi un cordiale scambio di idee con Fratelli avvocati, la cui conclusione fu che sarebbe stato bene costituire anche una “Fratellanza Giuridica”, dato che in questa professio27
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ne sono frequentissime le occasioni e necessità di collaborazione “fuori sede”, e quanto mai importante è poterle intrattenere con colleghi di fidata serietà e capacità. Al termine di questi colloqui si decise di tentare l’iniziativa, la cui preparazione e coordinazione fu affidata proprio a me. Nel giro di poche settimane, con un vorticoso (e costoso; mi si perdoni la poco nobile ma molto sincera precisazione) scambio epistolare “dall’Alpi al Mediterraneo”, sia per avere nominativi e indirizzi, e sia per chiederne l’adesione, riuscii a dar vita alla “Fratellanza Giuridica”, comprendente avvocati, procuratori legali, cancellieri, segretari, notai, dottori commercialisti, e ancora una volta dovendone assumere per loro voto, non certo per mia scelta, la Presidenza. “Gran Rappresentante”. La colleganza fra Obbedienze massoniche regolari di varie nazioni è assicurata da una rete di reciproche rappresentanze “diplomatiche”, mercé la nomina di “Garanti di Amicizia”, ovvero “Gran Rappresentanti”. Il 14 febbraio 1968 il Gran Maestro Gamberini, avvalendosi dei poteri all’uopo attribuitigli, ebbe la compiacenza di farmi nominare, dalla Giunta Esecutiva da lui presieduta, “Gran Rappresentante della Gran Loggia di Paraiba (Brasil)”, nomina subito condivisa e ratificata da codesta Gran Loggia, con la quale intrattenni una cordiale corrispondenza di reciproca consultazione ed informazione. Prerogativa assai rilevante, connessa alla carica, era il diritto di far parte del Consiglio dell’Ordine, collaboratore ufficiale della Giunta (una specie di Senato). Mi sono trovato, così, ammesso a partecipare a riunioni di alto livello e ad assumermi sempre maggiori responsabilità. Anche in questa carica, e con le nuove prerogative delle quali mi sono trovato investito, ho svolto una decisa attività: ho fatto parte, anche in funzione di presidente, di particolari Commissioni del Consiglio dell’Ordine; ho partecipato, anche con numerosi interventi, alle Grandi Logge (assemblee deliberanti della Comunione); ho dato una efficace impronta alla legislazione massonica (Statuti); ho redatto il Regolamento delle Commissioni del Consiglio dell’Ordine; ho redatto lo Statuto ed il Regolamento della Circoscrizione Regionale emiliana (assemblea dei Venerabili delle Logge regionali). 28
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Ho avuto modo, così, di entrare in contatto con non pochi Fratelli stranieri, con alcuni dei quali ho intrattenuto una fitta e interessante corrispondenza epistolare, che tuttora conservo gelosamente. Nel frattempo, ovviamente, continuavo a svolgere con serietà, impegno, soddisfazione, la mia professione e le mansioni di Assistente Universitario. “Tempo libero”? “Svaghi”? “Settimana corta”? “Vacanze invernali o pasquali”? Che diavolo significano queste espressioni? Mai saputo. Se e quando avevo le domeniche libere o i “ponti” infrasettimanali, mi dedicavo alla famiglia, senza il rammarico di sacrificarla per colpa della mia iperattività. Ero convinto di adoprarmi per una società più giusta, più civile, più vivibile, in adempimento di ideali acquisiti con entusiasmo, e per i quali qualcuno doveva pur sacrificarsi un po’. Consideravo un mio ineludibile dovere fare qualche cosa, qualunque cosa, per tentare di lasciare ai miei figli una società civile più giusta, più accettabile, più matura, più libera di quella che la mia generazione aveva ereditato. Utopie? Molto probabile. Ma non dannose. Non ho tardato molto, però, a rendermi conto che una buona percentuale della mia soddisfazione, circa il passo compiuto con la toccante iniziazione, era figlia della mia ingenuità, a sua volta componente della mia buona fede. La sera del 21 marzo 1970 (anche la data, come si vede, dovuta al simbolismo imperante) l’assemblea del Grande Oriente d’Italia, ossia la Gran Loggia, faceva la sua scelta: con notevole (ed eloquente) scarto di voti eleggeva alla carica di Gran Maestro per il triennio 1970/73, il ... “candidato dell’Organizzazione sovrana”, Fratello Lino Salvini. Sembrava, con ciò, dovesse ripristinarsi nella Famiglia l’atmosfera tradizionale, dopo le inevitabili tensioni del periodo elettorale. Tutti i Fratelli, nessuno escluso, si erano immediatamente – uso il linguaggio simbolico – “messi all’ordine” del novello Gran Maestro. Ed io, con franca lealtà e massima onestà d’intenti, insieme agli altri, pur non pienamente convinto della bontà della scelta. Qualche mia riserva, tuttavia, non doveva impedirmi di accettare la volontà della quasi unanimità dei Fratelli elettori. 29
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3.- Metto a disposizione una carica Subito dopo l’insediamento del Gran Maestro Lino Salvini e della Giunta Esecutiva (equiparabile ad un Consiglio dei Ministri), composta da candidati di sua scelta e gradimento, mi sentii in obbligo di compiere un gesto di spontanea rettitudine. Non avevo il benché minimo dubbio che tutti gli altri Fratelli, nelle mie stesse condizioni, avrebbero fatto altrettanto; come potei poi accertare, fui invece l’unico; cosa che imbarazzò non poco, perché la mia isolata iniziativa poteva essere interpretata o come esibizionismo allo stato puro o, peggio, come espediente per camuffare una inconfessabile presa di distanza dal nuovo vertice della Famiglia italiana. Sta di fatto che, del tutto involontariamente, anticipavo ciò che mi attendeva... Orbene, ciò che impulsivamente feci – e non recrimino, conoscendomi abbastanza per sapere che in analoghe circostanze compirei la medesima mossa – fu la spedizione della seguente lettera, datata Bologna, 25 marzo 1970: «Alla Giunta Esecutiva del Grande Oriente d’Italia – Roma. Ritengo doveroso e corretto rimettere a codesta nuova Giunta Esecutiva il mandato di “Garante di Amicizia della Gran Loggia di Paraibe (Brasile)”, conferitomi dalla precedente Giunta nel febbraio 1968. Ad evitare spiacevoli malintesi desidero chiarire che questa decisione non è, e non deve apparire, un rifiuto a collaborare con codesta nuova Giunta, ma frutto delle seguenti semplici considerazioni. La nostra Costituzione non prevede cause specifiche di cessazione del mandato di Garante di Amicizia, quindi – salvo casi estremi, tipo indegnità, incapacità, inerzia, assonnamento, ecc. – esso rischia di essere un mandato “a vita”. Il che non mi sembra compatibile con l’elettività e la temporaneità di tutte le cariche della nostra istituzione. D’altro canto, essendo quel mandato espressione del gradimento della Giunta Esecutiva (oltre la necessaria ratifica da parte della Comunione estera interessata) ogni nuova Giunta potrebbe, a buon diritto, desiderare di attribuire tutti, o taluni incarichi, a Fratelli di propria fiducia; decisione impossibile se non previo ritiro d’autorità del mandato precedente onde conferirlo ad altro Fratello. 30
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Alla luce di tali considerazioni, a me sembra doveroso che ciascun Fratello investito di un mandato di Garante di Amicizia, e delle connesse prerogative, lo metta a disposizione di una nuova Giunta. Non so come ora riterranno di comportarsi gli altri Fratelli che si trovano nella mia condizione – né posso fare appello a mie esperienze, posto che rivesto tale carica da un solo mandato – ma non intendo omettere io di essere coerente con le mie convinzioni sopra enunciate. È ovvio che – fino a quando codesta Giunta non avrà deciso come meglio riterrà – mi asterrò da qualsiasi attività che comunque implichi espressione del mandato in oggetto (partecipazione ai lavori del Consiglio dell’Ordine o del Collegio Circoscrizionale, ecc.). Colgo l’occasione per porgere a tutti i componenti della nuova Giunta le più cordiali felicitazioni ed i migliori auspici per le prossime fatiche. (saluti rituali e firma) Trascorsi pochi giorni ricevevo la seguente comunicazione, in plico “espresso”. Datata Roma, 10 aprile 1970, su carta intestata del Grande Oriente d’Italia, firmata dal Gran Segretario pro-tempore: Al Fr. Achille Melchionda, Grande Rappresentante Il Gran Maestro Lino Salvini ha ricevuto la Vs. tavola (sta per lettera, documento, ecc. – n.d.a.) del 25 marzo scorso, con la quale, nella Vs. sensibilità, avete ritenuto di dover mettere a disposizione la carica di Garante di Amicizia in seguito alla nomina della nuova Giunta espressa dalla Gran Loggia del 21/22 marzo 1970. Il Gran Maestro, mentre ha rilevato con compiacimento la continua collaborazione da Voi prestata con la Vostra partecipazione alle sedute del Consiglio dell’Ordine e della Gran Loggia, è lieto di confermarVi il mandato a suo tempo conferitoVi, nella certezza che vorrete continuare a dare la Vs. preziosa fraterna cooperazione. (saluti e firma del Gr. Segretario) Letta e riletta questa missiva ho accantonato ogni perplessità ed imbarazzo e deciso di (semplicemente, rispettosamente) non farvi seguito. Di certo, tuttavia, le mie valutazioni furono poco rasserenanti: perché – mi sono chiesto – la mia scrupolosa iniziativa (seppi poi 31
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che era stata l’unica, cosa che aveva stuzzicato non poco il mio auto-compiacimento insieme a qualche, inevitabile, invidiosa critica), perché in luogo di ricevere risposta dal destinatario (la nuova Giunta), in base alla vigente nostra legislazione massonica, era stata riscontrata a personale nome del novello Gran Maestro? Prima ipotesi (la più generosa): per ignoranza del nostro Statuto? Troppo semplicistica: la motivata mia missiva era inequivocabilmente e necessariamente destinata alla Giunta e soltanto la Giunta poteva confermarmi un “mandato” di sua competenza. Seconda ipotesi (pur’essa forzatamene generosa): per involontaria e soltanto casuale confusione od omissione: in sostanza, si voleva fare apparire che il Gr. Maestro approvava una delibera espressa però dalla Giunta; ma perché non scrivermi, allora, che la Giunta, “sentito anche il parere favorevole del Gr. Maestro”, ecc; oppure che il Gr.Maestro, letta la favorevole delibera della Giunta, “si compiaceva condividere e fare propria quella delibera”?; ipotesi troppo sofisticata, quindi da accantonare. Terza ipotesi: la Giunta aveva espresso parere negativo, il Gr. Maestro, d’imperio, l’aveva ignorato, sostituendolo con la sua volontà favorevole a me. Perché, allora, una siffatta, formalmente arbitraria, interposizione di poteri? Per una personale benevolenza? Non meritavo tanto, non essendo stato un sostenitore del “candidato” Lino Salvini. Conclusione (omettendo altre superflue elucubrazioni): era da Lino Salvini, quale lo avevo valutato, considerarsi ed agire “ex legibus solutus”, ossia senza e/o contro vincoli legal-formali: “L’Etat c’est moi” (Lo Stato sono io), proclamava l’ultimo dei rappresentanti del sistema assolutista, il c.d. Re Sole, per abbattere il quale l’umanità si è dovuta sobbarcare il costo (ed il merito) della Rivoluzione Francese. Seguaci di quel decaduto Re, di quell’aborrito Sistema hanno continuato a riproporsi, qua e là, prima o poi, in qualsiasi ambiente, da una piccola azienda con a capo un dirigente prepotente, ad uno Stato anche di primaria rilevanza internazionale. E pensare che l’apporto della autentica “tolleranza”, intesa non come fastidiosa sopportazione, ma come rispettosa comprensione dell’ “altro” o del “diverso”, del “contrario”, così come acclamata 32
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e voluta dalla Rivoluzione Francese, fu l’effetto dell’insegnamento espresso dal Fratello Francois-Marie Arouet de Voltaire.5 Chi avrà la pazienza o la buona volontà di proseguire la lettura, comprenderà fra non molto per quali ragioni (e riflessi) ho voluto ricordare anche la presente pagina della mia vita massonica.
4.- La collaborazione Compiuto il mio gesto di spontanea (e doverosa) disponibilità, non soltanto ho considerato chiuso l’argomento – rimovendo le domande che mi ero rivolto a proposito della anomala risposta riferita nel capitolo precedente – ma neppure ho dato peso alla notizia, diffusasi dopo pochi mesi, di una singolare manovra del vertice della Famiglia: l’avvenuta revoca ed immediata conferma di tutte le cariche di Gran Rappresentante, tranne una. Non ritenni di andare a fondo della notizia, né dal punto di vista formale (operazione eseguita ad iniziativa della Giunta o del Gran Maestro?) né quanto al contenuto sostanziale, cioè motivazionale, della questione. Doveva peraltro trascorrere parecchio tempo prima che mi rendessi conto che si era trattato di un espediente per privare della carica un illustre Fratello (l’unico non riconfermato), noto anche per avere condotto una campagna elettorale a favore di un candidato diverso dal vincente Lino Salvini. Vendetta personale? Impossibile ipotizzare altro fine, neppure come manovra intesa ad assicurarsi la composizione di un Consiglio dell’Ordine omogeneo e tassativamente “salviniano”, giacché i tanti Maestri Venerabili, che ne erano i rappresentanti più numerosi, potevano essere indifferentemente di uno od altro orientamento personalistico. Riprendo dunque il filone della mia attività massonica. Irrimediabilmente rispettoso di regole formali, ma soprattutto di comportamenti etici, come sono sempre stato, una delle mie prime iniziative – ad avvenuta conferma del mandato di Gr. Rappresentante – è stata la sollecita convocazione del Consiglio Direttivo 5
“Trattato sulla tolleranza”, 1763. Vedi anche R.Gervaso, cit., pp. 186, s.
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della Fratellanza Giuridica, con un “ordine del giorno” la cui prima “voce” era “dimissioni del Presidente”. Mi era parso corretto, infatti, in vista di un nuovo triennio di governo dell’Ordine (nuovi sia il Gr. Maestro che la Giunta), consentire un ricambio anche al vertice della Fratellanza Giuridica. Unanime invece la votazione di riconferma del mio nome (anche per ... assenza di qualsiasi altro candidato): sia chiaro, non si trattava di un titolo di risonanza gratificante, bensì di un onere operativo ed economico. Non ho mai sopportato chi assume incarichi, onerosi o non, per non eseguirli. Così, anche per quell’incarico aggiunto, mi sono dato da fare al meglio delle mie capacità. Ricordo, in particolare, un impegnativo compito affidatomi direttamente dal Gr. Maestro: mettere a punto una organica proposta di riforma delle vigenti disposizioni relative alla Giustizia massonica. Mi sono rimboccato le maniche, ho costituito un’apposita Commissione, ho steso una prima bozza, sulla quale con altrettanta disponibilità si sono adoprati i Fratelli di quella Commissione, fino a quando sono stato in grado di fare avere alla Giunta Esecutiva ed al Consiglio dell’Ordine per l’approvazione definitiva, il completo testo finale. Ricordo che, avvalendomi delle mie conoscenze ed esperienze, speculativo-teoriche e di quotidiana pragmatica, di una giustizia penale “profana” ancora fortemente intrisa di influenze del regime e sistema inquisitorio, ne era uscito un testo all’avanguardia, improntato a cultura decisamente “accusatoria”, ossia di reale equità ed equilibrio dei poteri conferiti alle parti conflittuanti (accusa e difesa): in fondo, il regolamento di qualsiasi giustizia disciplinare non è che un simulacro del codice di procedura penale. Per motivi che non ho mai conosciuto, tutto quel lavoro è rimasto lettera morta. Mai più avrei potuto immaginare che sarebbe venuto il giorno in cui avrei dovuto personalmente rimpiangere la mancata innovazione della Giustizia dell’Ordine. Ma non anticipiamo i tempi del racconto ... Devo riconoscere che il mio impegno, il mio modo di tradurlo in risultati concreti, la mia corretta disponibilità, hanno ricevuto in 34
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quel periodo tali e tanti riconoscimenti, da costringermi anche a garbate e motivate rinunce. Eccone una breve sintesi. Nel volgere di pochi mesi dall’insediamento del nuovo Governo, il Consiglio dell’Ordine mi ha onorato della nomina a componente di numerose specifiche Commissioni: *** per la “Riorganizzazione delle varie Fratellanze” (Commissione della quale sono stato subito eletto Presidente, ma di mia iniziativa ho con pari sollecitudine rinunciato a questa presidenza, suggerendo ed ottenendo piuttosto l’allargamento del mandato ad un organo collettivo, del quale tuttavia ho fatto parte per la mia veste di presidente della Fratellanza Giuridica); *** per la “Diffusione del Pensiero Massonico”; qui, però, dopo le prime riunioni, resomi conto di non poter assolvere tanti impegni, ho chiesto ed ottenuto di essere sostituito da altro Fratello; *** per “Aggiornamento di Costituzione e Regolamento”: elettone Presidente ne ho fatto la più attiva e solerte Commissione, non soltanto per le numerosissime riunioni, ma proprio per la mole di lavoro, con stesura di nuovo Regolamento per l’attività delle Commissioni, e per averne fatto un organo di consultazione, con tutta una nutrita serie di pareri richiestoci da varie fonti (ne fanno fede i verbali dei Consigli dell’Ordine riunitisi nel 1970, 1971, 1972); *** infine, componente della Commissione per “La Rivista Massonica”, sulle cui vicende dovrò soffermarmi tra breve, in quanto emblematiche e significative di tutto un costume, una mentalità, una visione gestionale della Famiglia, che andavano lentamente, ma irreversibilmente imponendosi. Come si vede, non mi sono limitato ad assicurare la mia accettazione del nuovo Governo dell’Ordine, ma ho dedicato tutta la mia buona volontà, tutte le mie capacità, senza risparmiarmi fatiche e sacrifici, per il buon funzionamento di taluni organismi dell’Istituzione. Ho ritenuto tutto ciò un dovere, per coerenza con la mia convinta adesione ai sostanziali valori dell’Ordine, dovere che ho assolto con impegno, spostandomi circa due o tre volte al mese da Bologna a Roma (mi si perdoni la ripetizione che peraltro, secondo i latini, giova: sempre e soltanto a mie spese!). 35
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