Il rocchetto di Ruhmkorff

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Narrativa Minerva Collana diretta da Giacomo Battara

il rocchetto di ruhmkorff


IL ROCCHETTO DI RUHMKORFF Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Giacomo Battara © 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN: 978-88-7381-504-4 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com


Gian Pietro Testa

il rocchetto di ruhmkorff romanzo

Minerva Edizioni





«L’umanità rimbecillirà, la mediocrità sarà considerata genio e la civiltà perirà» Anton Cecov

«... Sapevano che parlare è bene, ma non paga. Il silenzio era per loro una particolare specie di voluttà» Sandor Marai



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1 Seduti uno accanto all’altra su una panca di legno lucido attendono che il magistrato li chiami, intimiditi e ansiosi di sapere come si svolgerà quella commedia legale, di cui nessuno dei due sa qualcosa; il mondo della legge è un grande buco nero, come un cesso alla turca, e quando ci si casca dentro non si può immaginare dove si andrà a finire: riti e controriti, parole, broccardi latini, norme sconosciute che il cittadino è obbligato a conoscere, non è ammessa l’ignoranza della legge, norme antiche mai abrogate da quelle più recenti, che si sovrappongono, s’impastano, sommergono ma non sostituiscono, sicché il groviglio diventa inestricabile e la figura dell’azzeccagarbugli manzoniano rimane tuttora attuale, che sia avvocato o giudice, la testa è sempre la stessa, ora la macchina dell’organizzazione sociale si è messa in moto lenta e inesorabile ed entrambi sanno, questo sanno, che la loro volontà, il loro dolore, i loro bisogni e tutto quello che era stato prima non avranno più valore, gli altri avrebbero deciso per loro e si sentono entrambi come privati dell’anima, tutto il bagaglio della loro esperienza e della loro conoscenza è in mani estranee, che avrebbero cavillosamente smembrato i loro pensieri, scarnificandoli, avrebbero considerato con attenzione seriosa i loro atti, giudicandoli secondo coscienza propria, giudicando ed emettendo sentenze. Una segretaria seduta dietro una scrivania coperta di pratiche – faldoni aveva chiamato il giudice quelle 9


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cartellone legate con una cordicella nera: «mi porti il faldone del commissario Bongiovanni», aveva ordinato quell’uomo giovane ma già impettito dal potere – e stava armeggiando – la segretaria – attorno a un computer, spazientita e indispettita ché lo strumento pareva voler fare i cavoli suoi, come un cavallo non domato, e non voleva saperne di obbedire agli ordini trasmessi attraverso tasti molto sordi. La donna, piccoletta, pittata come le madonne degli ex-voto, coi capelli ricciolini e cotonati, di quel colore, biondo opaco, che prendono i capelli dopo anni di tinture, ogni tanto guardava di sottecchi, evidentemente per capire chi fossero quei due personaggi silenziosi, un uomo maturo e una ragazza molto giovane, moglie no, fidanzata nemmeno, forse amante,o, perché no, figlia. Che cosa avevano fatto? Era molto arrabbiata, la segretaria, di non aver dato uno sguardo al faldone della polizia, era arrivata un po’ tardi in ufficio, poi era andata a far colazione, dopo aver depositato la borsetta ben in vista sulla scrivania e, quando era tornata, il capo, il giudice, l’aveva chiamata e, subito dopo, aveva cominciato ad armeggiare con quel coso, quel cazzo di coso si era sorpresa a pensare, a forza di sentire parole volgari spesso ormai dalla sua bocca uscivano termini che avrebbero fatto sobbalzare sua madre, santa donna, nella tomba, con quel computer, insomma, che viaggiava per conto suo, a dimostrazione che il corso d’informatica non l’aveva messa al corrente di tutti i segreti che il cervellone tiene malignamente nascosti nella sua pancia, macché cervello, pensa la segretaria, questo è un intestino intasato e non va, merda merda merda!, 10


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e così pensando dà un pugnino iroso alla tastiera, in conclusione non era riuscita a sapere di che cosa quei due erano stati accusati e un senso di vuoto vertiginoso, la curiosità inappagata, aveva sostituito la dolce gravezza della brioche. «Il vostro avvocato è già dentro dal signor giudice?» La domanda della segretaria sorprende l’uomo, pare svegliarlo da un inesplicabile sogno, e non ottiene risposta. La donna si rivolge allora al computer, nel furbo tentativo di coinvolgere quei due nel suo dramma informatico e intavolare un discorso che conduca a una chiarificazione: «Con te», dice, «faremo i conti dopo», poi sorride all’uomo, che continua a non dare segni di vita, encefalogramma piatto pensa la segretaria, e lo informa con la massima cortesia: «Il vostro avvocato è bravo, fidatevi, vedrà». L’uomo non cade nel trabocchetto e continua tacere, dentro di sé pensa “bravo, bravo, mah”, a lui, prima, era sembrato d’accordo col nemico, la polizia, ma tant’è. Se non ci fossero stati sole e vento quel mattino di giugno quando tutto era cominciato! Ma come fai a prevedere che il sole e il vento di una mattina possano mutare il corso della tua vita? Perché tutto era proprio cominciato una domenica mattina di giugno. Una mattina di sole e di vento teso da “coppa america”.

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2 Si svegliò che le gelosie delle finestre componevano già sul soffitto disegni geometrici come quadri astratti anni Quaranta dentro i quali si muovevano le ombre allungate e rovesciate dei rari passanti della domenica mattina accompagnata dal rumore dei passi, sì che il film del soffitto si completava. Era un cinema che lo aveva sempre divertito fin da quando era bambino. Allora i rumori e le ombre erano diversi, la strada era un grande mercato di voci, di richiami di gente che si riconosceva, di gridi multicolori di ambulanti (un grido può essere multicolore?, si era domandato spesso: ebbene, lui aveva sempre dato un colore a quelle grida) e poi c’erano i cigolii degli ultimi carretti non motorizzati e gli zoccolii di qualche cavallo, quindi, appena più tardi, la trombetta del pattumaio e, d’estate, il bercio rauco del venditore di ghiaccio, “ghiaccio!” si udiva ed era insieme una richiesta, un invito, una minaccia. Michelangelo se ne stava rannicchiato a letto, guardava stupito nella sua camera oscura le figure che passavano rovesciate sul soffitto e ascoltava – come adesso che quel mondo era morto, ed era morto lì dentro, tutti i rumori e tutte le voci racchiuse tra quattro pareti, come adesso che se ne stava nel silenzio quasi assoluto e i suoni erano così attutiti e struggenti e revocanti e stava disteso, le braccia dietro la nuca e guardava il cinema rovesciato sul soffitto e si perdeva nel silenzioso inizio di quella domenica mattina di prima estate. Pensava che si doveva alzare, aveva un programma 12


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e i programmi diventano facilmente, quasi automaticamente, dei doveri. Il programma era di andare al mare. Chissà se c’è il sole?, si chiese ansioso. Il mare. Era tanto tempo che non ci pensava e, soprattutto, che non ci andava. L’idea era maturata in pochi giorni e presto aveva preso corpo trasformandosi in meta che si era colorata di attese. Perché non andava mai al mare? La curiosità era anche per quella idea coraggiosa della gita. Girò lo sguardo torno torno le pareti di quel mondo che era morto lì dentro, una stanza che era una specie di archivio, di suoni e di voci. E di ombre. Di ombre: ne aveva dipinte molte, troppe nella sua vita di pittore della domenica, anzi – pensò – aveva dipinto soltanto ombre, chiuse nella sua casa, nel suo studio pieno di libri e di tele ammonticchiate in quel disastroso disordine che gli dava tanta sicurezza e una tregua nell’ansia di vivere tutti i giorni, alzarsi, lavorare, mangiare, dormire e poi? Amare?, andare a un cinema, giocare al pallone, amare?, leggere un libro, guardare la televisione, mangiare, dormire, alzarsi, ammalarsi, piangere, ridere, mangiare, guardare la televisione, dormire, alzarsi, amare? Amare? L’amore nella sua vita era entrato e, poi, lieve lieve, ne era uscito quasi furtivamente, in silenzio, forse di soppiatto, certamente in punta di piedi, un giorno Michelangelo, mentre gustava una sigaretta, vide il fumo azzurrognolo che saliva verso l’alto e si accorse che l’amore non ctera più, né dentro, né fuori di lui, era sparito, un attimo ed era scomparso, non era più una figura, un corpo, una presenza, nemmeno una proiezione fantastica. Nulla. La donna che era entrata come una vampata 13


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nella sua vita, un mattino aveva cominciato a preparare due grosse valige. Dove vai?, le aveva chiesto. Vado, aveva risposto. Dove? Torno a casa mia. Perché?, le aveva domandato ancora. Ma senza aggiungere altro se n’era andata, lui aveva acceso una sigaretta, si era seduto in poltrona e, guardando il fumo azzurro, si era accorto che l’amore era finito. Ebbe, una dietro l’altra, tre sensazioni: sorpresa e stupore, poi come un dolore alla bocca dello stomaco e, verso la fine della sigaretta, un senso di liberazione. Aveva prestato orecchio all’appagante silenzio che si era fatto nella casa e provò grande, pacato sollievo. Così era rimasto solo, la casa gli si era allargata, ma questo era un vantaggio non disprezzabile, non doveva far da mangiare per due, non inciampava nelle scarpe buttate in mezzo a una stanza, non doveva avvisare nessuno se per caso ritardava, in pochi giorni aveva cancellato involontariamente tutte le tracce del passaggio inopportuno, bello ma inopportuno, di quella donna che non era mai riuscita, o non aveva mai voluto, lasciare fuori dalla porta le sua estraneità. «Oggi che magnifica giornata» – aveva canticchiato – «la mia bella donna se n’è andata, m’ha lasciato alfine in libertà, vivere senza malinconia, vivere senza più gelosia...»La libertà riconquistata a così piccolo prezzo divenne assoluto arbitrio quando decise che del suo lavoro di impiegato in uno sportello di banca periferico poteva fare a meno e, approfittando di una delle tante leggi e riforme e regolamenti sulle pensioni sempre diversi e contrastanti con le precedenti, sì che la materia era diventata una selva oscura per 14


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chiunque, riuscì a farsi mettere in quiescenza con largo anticipo, le banche avevano bisogno di sfoltire, ridurre i costi, di snellire, di ammodernare, in una parola di licenziare e avevano favorito quegli impiegati che avessero voluto liberarsi del duro fardello del lavoro quotidiano, una buona liquidazione e fuori! Via dalle scatole e non ebbe paura, Michelangelo, di non sentirsi più produttivo lontano dal mondo vero, quello che conta, quello che fa, quello che decide, quello che inventa le occasioni per rubarti i soldi in tasca. Ma adesso che farai?, gli domandavano quasi indispettititi da quella decisione improvvisa i colleghi. Avrebbe voluto rispondere che non faceva nulla in banca, avrebbe continuato a far nulla a casa, ma non poteva essere scortese e, allora, preferì farsi compatire, finse un’aria afflitta e spaesata. Che fare? Rispondeva, diventerò vecchio, mi lascerò ingrassare, andrò a far la spesa al mattino, mi farò da mangiare, guarderò la televisione, così rispondeva ad alta voce, poi sussurrava, piano piano, lo metterò in culo a tutti voi. Non gli interessò nemmeno il patetico dispiacere mostrato da alcune sue colleghe, che, in quegli anni, invano, avevano atteso un segnale da lui, piacente, libero, simpatico, silenzioso, le tempie grigie, un amante perfetto si dicevano durante i loro pettegolezzi lavorativi, ma chissà se sarà passionale si domandavano morbose e incuriosite, interesse che mai Michelangelo volle soddisfare lasciando quelle donne stizzite a dirsi forse sarà un gay. Le baciò una a una quando, al termine di un brindisi con un frizzantino di Valdobiadene, avevano festeggiato l’ultimo 15


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suo giorno di lavoro tra cambiali, assegni, ricevute, bonifici, pagamenti di bollette dell’acqua, del telefono, della luce. Grazie Clara, grazie Ivana, grazie Anna, un bacio affettuoso sulle guance accaldate e arrossate sotto il fard a cui era stato affidato il compito di coprire le prime rughe. Gli avevano regalato un orologio di marca, così potrai contare le ore che ti separano da noi, avevano scritto in un bigliettino, sapendo, tuttavia, che, una volta uscito dall’ agenzia, Michelangelo avrebbe dimenticato tutte e tutti, era fatto così, era sempre vissuto per conto suo, non lasciando brecce agli estranei. Ora sarebbe andato a casa, ove nessuno era ad aspettarlo, si sarebbe accomodato in poltrona e avrebbe gustato quel suo lungo riposo tanto agognato, gli occhi perduti su un quadro di montagna, il prato verde in primo piano colmo di fiori e le cime sullo sfondo, bianche. C’era un gran silenzio in quelle tele comprate a poco prezzo in un negozio di antiquariato, un silenzio importante, come altri quadri trasmettevano, invece, brusii e suoni troppo spesso inarticolati e volgari. Michelangelo non capiva queste opere, non le amava, si aspettava sempre da un’opera d’arte un messaggio più intimo, meno clamoroso. Aveva la passione della pittura fin da bambino, la madre lo sorprendeva a disegnare e poi a riempire fogli e fogli di colori acquerellati, sbavati, tenui. Potrebbe fare il pittore, diceva la madre alle amiche, ma è meglio un buon posto in banca e Michelangelo non si era mai ribellato ai desideri dei genitori, li aveva rispettati dettagliatamente, aveva preso un diploma, studiando, con coscienza, con 16


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regolarità senza strafare, senza eccellere, la quieta applicazione era servita ad andare avanti quasi inosservato, mai una nota di demerito, mai un’ impennata rabbiosa, la sua vita di studente era un tranquillo fluire di piccole conoscenze giorno dopo giorno, anno dopo anno e, nonostante il suo aspetto piacevole, non un professore avrebbe potuto ricordarlo, dimenticavano perfino di interrogarlo. Non se ne lagnò mai, anzi si ritenne fortunato: era come fosse stato dalla madre cosparso di olio, sicché scivolava via senza sussulti verso la mediocrità, a cui era stato destinato. Gli rimase quella passione per la pittura, studiò la vita dei grandi artisti, convincendosi, se mai ci fosse stato bisogno, di non appartenere a quella stirpe di maledetti di cui è piena la storia dell’arte, non era trasgressivo, non era disperato, non era dannato. Il lungo tirocinio alla normalità a cui la madre l’aveva sottoposto lo consegnò senza drammi a un lavoro regolare, ben retribuito, l’esistenza gli era stata tracciata. Forse avrebbe potuto far carriera in banca, ma commise due errori, d’altra parte voluti, il primo iscriversi a un sindacato, il secondo non aderire a un partito politico di potere. Il sindacato si, il partito no, così si chiuse la porta dietro le spalle e un’altra davanti a lui. Non se ne rammaricò mai, l’idea della libertà era sempre stata una forte spinta, un’insopprimibile esigenza. Intanto, nelle ore libere, continuò a dipingere e quando i genitori morirono, il padre ancora giovane, e la madre più avanti nell’età, entrò in pieno possesso della piccola casa a due piani, con un giardinetto cinto da un muro che lo divide17


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va da altri cortili. C’era un solo grande albero, un ippocastano piantato quando lui era un bambino e cresciuto a dismisura, d’estate faceva un’ombra scura e fresca, dove Michelangelo soleva mettersi a dipingere, molto spesso il soggetto erano i fiori delle aiuole che egli stesso curava con amore, viole, margherite, ciclamini, asfodeli, rose. Li dipingeva con attenzione e disciplina maniacale, i colori sempre tenui, quasi accennati, delicatissimi. Aveva cominciato con gli acquerelli, poi era passato alle tempere e ai più impegnativi colori a olio, ma i suoi pennelli sempre puliti, sembravano disinfettati, non lasciavano tracce materiche, le sue erano lievi pennellate mai chiassose. Amava dipingere su piccole tele, su cartoncini telati, su tavolette di legno compensato che costavano meno e quel rapporto, quel colloquio intenso e appagante con le natura chiusa del suo giardinetto placava le ansie che, di quando in quando, venivano a turbare il suo animo, nulla c’era che lo calmasse di più che far uscire dalla tela ciò che sembrava già essere stato dipinto, un petalo bianco ombreggiato d’azzurro, uno rosa come il rampicante sul muro alla sua destra quando si riempiva di fiori, ognuno dei quali costituiva un labirinto a imbuto dentro il quale il pennello andava a cogliere il segreto, gli sembrava di essere un’ape o un calabrone intento a suggere il dolce, misterioso nettare, anzi, quando arrivava un insetto a penetrare lo stesso fiore che Michelangelo stava dipingendo, il pennello si bloccava, in rispettosa attesa che l’operazione si concludesse, quell’operazione – egli pensava – costituiva la verità che l’arte 18


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doveva onorare se si voleva che fosse riconsegnata integra agli occhi del mondo. Non c’è altra verità, a volte rifletteva, non esiste altra verità al mondo che quella dei fiori che osservava con sguardo tenero quando venivano accarezzati dalla brezza e si muovevano felici, ondeggianti e danzanti in the breeze, scrivevano i poeti romantici inglesi.

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3 Wanda aprì gli occhi spalancandoli per cercare nel chiarore misterioso del primo mattino gli oggetti che l’avrebbero ricondotta alla realtà, ma fu operazione complicata, lo sguardo della sua mente fisso sulle immagini del sogno che ancora stava vivendo, un aeroplanino di tela azionato dai pedali, come una di quelle carrozzelle che si affittano nelle località marine, attraversava il cielo sopra di lei di un azzurro intenso: lo pilotava la sua amica Nora e tutto pareva sereno, quando, d’improvviso, il piccolo velivolo perse le corte ali di tela, le due vele, poi restò privo di tettuccio, pur esso di tela, e cominciò a precipitare. Wanda vide l’amica staccarsi dall’aeroplano e il suo corpo cadere, dapprincipio pareva un falco che, individuata la preda, si lascia andare in picchiata fino quasi a terra per poi ghermire il bottino – un ratto, un pulcino implume,– e infine, riprendere il volo. Nora non riprese il volo. Nel sogno Wanda si chiese atterrita se dovesse chiudere gli occhi davanti alla realtà, alla tragedia che si compiva sopra di lei, oppure guardare in faccia l’evento e, inorridita, essere spettatrice impotente dell’inevitabile fine dell’amica nel momento del tremendo, orribile impatto con il suolo. L’inconscio, che a volte ragiona meglio de1 conscio, risolse salomonicamente il dubbio svegliandola e ora faticava a passare dal sogno alla veglia, la scena della ragazza che, come un fagotto, precipitava nel vuoto, continuava a ricrearsi nella sua mente, non se ne voleva assolutamente andare, cosicché si obbligò a pensare ad altro, 20


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e considerare oggetto per oggetto la stanza che era tutto il suo appartamento, di notte camera da letto, di giorno tinello, cucina, salotto. Aveva da poco affittato quel monolocale, a cui aveva affidato il compito di crearle, attorno al corpo e dentro l’ anima, una nuova vita. Perché volesse cambiare, tutto sommato, non sapeva nemmeno lei, aveva sentito il bisogno urgente di andarsene via dalla casa dei genitori, brava gente, che amava di tutto cuore, ma aveva capito d’improvviso che, se non fosse fuggita, non si sarebbe mai costruita una sua vita, un’esistenza a cui pensava e che agognava con tutte le sue forze, non una vita eccezionale per carità, ma un rifugio così, senza pretese, un golfino nuovo, giallo o blu, da pochi soldi è meglio, pensava, di un pretenzioso maglione dell’american stracci, dove, tuttavia, andava a pescare con inesausta curiosità al mercato del lunedì: c’era una bancarella di un toscanaccio, alto e grosso, capelli lunghi, fare sfrontato di chi ha confidenza con le donne e dalle donne riceve confidenza, sulla quale, a mucchio, erano gettate alla rinfusa decine, centinaia di maglie, l’orgoglio delle grandi firme finiva in questo enorme, spietato cumulo in cui l’aristocrazia veniva inesorabilmente cancellata e doveva misurarsi, confondersi, immiserendosi, con la couture di bassa lega. Chissà che cosa dice Missoni quando le sue maglie finiscono qui, pensava Wanda, mentre si avvicinava alla bancarella, attorno alla quale, come le galline quando si gettano sul mangime, o i colombi in piazza se un bambino butta una manciata di granoturco, le donne si azzuffavano, infilando voraci le mani nella morbida catasta, litigandosi un golf, un gilet, un girocollo, un dolcevita. Che 21


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cos’è di bello per gli occhi, ragionava Wanda mentre si avvicinava alla bancarella, che cos’è di bello e di fantastico questo ammasso colorato! Che cosa nasconderà nelle sue viscere, quale segreto, quale tesoro mai scoperto si terrà dentro il suo ventre panciuto? E così si faceva largo a forza di gomiti tra le donne zampettanti, tra quel groviglio di braccia e di mani in cui un pover’uomo che avesse tentato l’intrusione sarebbe stato scacciato con violenta noncuranza, e conquistava un posto in prima fila, luogo privilegiato da non abbandonare a nessun costo, da difendere con i denti, e da quella posizione cominciava finalmente la grande pesca e, davvero, quell’ammasso tumultuoso ondeggiante di lana colorata sembrava un mare burrascoso nel quale il marinaio getta con speranza la rete, la speranza che la rete imbrigli pesci favolosi e non sardelle, pasto dei poveri. E così Wanda tuffa le mani per raggiungere le viscere del mare di tessuto, al tatto tentando di capire di che cosa si tratti e poi decisa tira fuori la preda e quale delusione quando il bottino è una maglia piccola, troppo piccola per lei, o troppo grande, o di un colore maledetto. Allora butta via il frutto della sua razzìa, proprio come i1 pescatore quando pensa di aver catturato un bel rombo e nella trappola trova invece, una medusa, la getta via insultando dio, il dio stupido e maledetto delle bancarelle. Ma è qui che avviene il miracolo, l’insulto diventa magicamente il richiamo per un’altra pescatrice, la quale trova meraviglioso l’oggetto scartato e su quello si catapulta a capofitto, lo artiglia prima che un’altra mano lo possa ghermire per sempre, e lo tasta, ne constata la morbidezza e poi con voce commossa esclama “che bel22


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lo!”, attirando l’attenzione di Wanda, la quale, come colpita da un fulmine, come attraversata da una scossa, si accorge d’improvviso di aver sprecato la grande occasione e quella maglia che poco prima le era apparsa orribile, ora si mostra in tutto il suo splendore e che cosa importa se c’è un piccolo fallo, quello si può aggiustare in cinque minuti, oppure proprio davanti sul petto, ci sono alcune macchioline, che ci mette la lavanderia a toglierle? Delusa, Wanda getta di nuovo le reti nel mare, nella certezza che la prossima volta il dio delle maglie sarà buono con lei, basta usare prudenza nella cerca, così pensa, bisogna avere pazienza. Quella del mercato del lunedì era una sosta, una boccata d’ossigeno necessaria come, dopo una gran corsa, riprendere fiato: una volta la settimana Wanda cacciava indietro tutti i fantasmi maligni e grigi che infestavano la sua vita, nella quale perfino il lavoro era diventato soltanto il mezzo di sopravvivenza e non era più come all’inizio, quando, entrata nella casa per anziani “La Speranza”, era piena d’entusiasmo e pensava, e sperava che il suo impegno umanitario, la sua fatica quotidiana mirata a cercare di alleviare la sofferenza altrui, le dessero la possibilità di redimersi dall’indifferenza in cui era caduta. Aveva scelto questo lavoro dopo aver abbandonato – per ragioni economiche della famiglia, raccontava agli amici, ma non era vero – gli studi di medicina; era arrivata al terz’anno, pochi esami dati. In principio, dopo essere entrata a “La Speranza”, quei vecchi che doveva curare, consolare e amare le avevano comunicato la pienezza rasserenante di cui aveva bisogno da quando era successo il “Fatto” ed essere diventata per quei povericristi 23


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senza futuro un’àncora per vivere un giorno di più, aveva scoperto la pienezza della solidarietà, che l’aveva consolata, addirittura era riuscita per un po’ di tempo a confinare in un angolo remoto del cervello il “Fatto”. Succede che una novità ti dia degli stimoli sconosciuti e ti apra improvvisamente spazi che non credevi esistessero in te stesso: le era capitato esattamente questo e per diversi mesi, forse anche per un anno, era vissuta sotto l’effetto di una droga, sempre sopra le righe, ma non durò. Un giorno stava comprando un pacchetto di sigarette, quando d’improvviso, con la crudele truculenza della realtà, il “Fatto” rifece irruzione prima nelle viscere, poi nella testa, sentì una mano stringerle ferrea lo stomaco e il “Fatto”, o la “Cosa”, come lei la chiamava, venne prepotentemente alla ribalta, soffocando gli altri suoi pensieri, sostituendoli, depredando i desideri. Era stato Franco il principio e la fine di tutto, il ragazzo gentile che aveva conosciuto giovanissima e di cui si era innamorata come non credeva fosse possibile, il primo uomo della sua vita. Allora al sesso non aveva ancora pensato se non come a una eventualità futura, al desiderio aveva concesso vaghe soddisfazioni notturne, oppure quando faceva il bagno, ma era tutto confuso, sentiva una specie di vertigine in fondo al ventre che doveva soddisfare stringendo le gambe, toccandosi voracemente, strofinandosi contro le coperte, ma mai aveva applicato questa fame a un uomo. Quel pomeriggio, a casa di Franco, si era finalmente abbandonata, si era spogliata, si era offerta come in un sogno e per la prima volta conobbe il maschio. Fu un affare di poco, successivamente imparò a dosare le aspettative, 24


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a dare e non soltanto a ricevere. Sono portata per l’amore, confessava a se stessa, quando la sera andava a letto e continuava a vivere l’orgasmo proseguendo il giuoco e, sotto le lenzuola, si accarezzava immaginando che non fossero sue le mani, anche perché Franco era sbrigativo, frettoloso, spesso distratto e tutto quello che non metteva lui doveva inventarlo lei: voglia, fantasia, allegria. Lui era serio, pratico, preferiva parlarle dei suoi progetti di lavoro, forse di successo, aveva in mente una solida carriera professionale e la “Cosa”, quando avvenne, non faceva parte dei suoi piani. Wanda era rimasta incinta. Un figlio era proprio l’ultimo problema. Improvvisamente diventava il primo, sfumando tutti gli altri, rendendoli impietosamente secondari. Lei ne fu eccitata, lui terrorizzato. «Non lo voglio un figlio», le disse a muso duro, «non sono pronto e sconvolgerebbe la mia vita e la tua». La guardò con severità: «Come hai potuto farlo?», le domandò brutalmente facendola sentire in colpa. Sentirmi in colpa?, si chiese Wanda, è mai possibile che oggi, terzo millennio, esista ancora la categoria sociale dei figli della colpa come in un romanzo di Liala? Wanda seppe rispondere soltanto: «L’abbiamo fatto in due, non ero sola». Poi, improvvisamente dura: «Tu dov’eri?», gli chiese con sarcasmo. Franco girò il viso, come imbarazzato: «Deve pensarci la donna, in queste cose che può fare un uomo?» «Che può fare?», gridò lei e divenne tutta rossa in volto. «Che può fare?», ripeté. Erano seduti in macchina, Franco guardava davanti a sé la stradina di campagna dove s’era fermato. «Le cose da fare sono due» affermò con piglio professionale, «o abortisci e un figlio lo faremo 25


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più avanti quando sarà possibile, oppure ci dovremo sposare, con tutto quello che segue».«Che cosa vuol dire con tutto quello che segue?» «lo sai anche tu». «Io non so niente. Io so che ho la pancia piena e sarei felice di averla piena se gli altri non mi violentassero!» «E allora, tieniti la tua pancia piena, porca troia di una miseria». «Il porca troia è per me?» «Ma no, mi riferivo alla miseria. È un’esclamazione, non far la punta ai chiodi com’è tua abitudine!» «Non faccio la punta ai chiodi», si spazientì ancor più Wanda, «il fatto è che mi trovo a parlare.... a parlare… con un cretino». Franco taceva e lei proseguì sommessamente: «sei molto diverso da come ti avevo giudicato, sei molto diverso dall’uomo di cui mi sono innamorata. E va bene, doveva andare così, adesso riportami a casa, sono molto stanca e non ho più voglia di parlare». «Non fare la stupida, Wanda, ragioniamo un po’». «Non c’è proprio più nulla da ragionare, tu adesso mi porti a casa e finiamola qui».Wanda guardò il cielo, il grigio del mattino si stava aprendo e squarci di azzurro rompevano le nubi. Era quella stagione di mezzo quando l’inverno non è del tutto passato e la primavera non è ancora arrivata e, durante la giornata, ci sono momenti di inverno e momenti di primavera e l’umore va su e giù con il mutare del tempo. Wanda aprì il finestrino dell’auto: dalla campagna giungeva una brezza fresca, un’aria nuova già quasi profumata. «Portami a casa!», ripeté.

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4 Emerse finalmente dalla semioscurità della stanza con un lungo, liberatorio sbadiglio e lasciò che un ultimo passante attraversasse da destra a sinistra il soffitto con le sue gambe smisuratamente lunghe, ancora più lunghe se il pedone era vicino al muro e proiettava l’ombra dritta in verticale verso la finestra, udì i passi svelti attutirsi sempre più lontani, poi scese dal letto dove avevano dormito per anni i genitori e forse l’avevano concepito proprio lì (ma non ci voleva pensare), un letto grande di ferro smaltato rosso bordeaux. Strinse gli occhi e andò alla finestra. Vediamo che tempo fa, disse a voce alta, ormai era abituato a parlare con Michelangelo Due, così lo chiamava, il suo fedele fantasma. E sempre rivolto al fantasma, lo mise al corrente del programma domenicale. Facciamo così – propose – adesso sono le sette, se è bel tempo andiamo a fare una corsa, poi una rapida doccia, prendiamo la macchina e andiamo al mare. Hai capito, Michelangelo? Andiamo al mare. Quanto tempo è che non lo vedi? Saranno, vediamo un po’, saranno sette anni. Perché non vai più al mare, Michelangelo? Sai quante cose ci sono da vedere? Quanti profumi nell’aria? Quanti colori? Stai proprio diventando pigro e vecchio. Intanto, apre la finestra lentamente – come quando a poker si spizzano le carte per scoprire il giuoco e ci si attende con ansia sospesa un full, una scala, un colore – guarda di fuori e si accorge che il cielo sopra la sua testa è azzurro intenso, non ci sono nuvole, spazzate via da 27


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un bel vento teso, ma non fastidioso. Bene, Michelangelo, andiamo al mare, prima però una corsa sulle Mura, così ci presentiamo belli come il sole, belli e nudi, chi ci resiste, o Michelangelo? Pensò che le persone sole finiscono sempre per dialogare con se stesse, “ forse si diventa matti”, chissà poi che è questa faccenda di aver bisogno di parlare con qualcuno, dire qualsiasi cosa, anche la più scema, soltanto per la necessità di esprimere suoni articolati, perché potrei anche fare urlacci, dire parole senza senso, invece no, alle parole bisogna sempre dare significato, pensa e intanto parla con Michelangelo Due, è proprio una bella giornata ci vorrebbe una barchetta a vela, quei vecchi beccaccini di quand’eri ragazzo, di legno pesante, ma tenevano bene il mare, oggi è davvero giornata per la barca e se ce la comprassimo? Una bella barchina di plastica bianca con una sola vela in modo da non dover far fatica e poter bordeggiare senza l’aiuto di nessuno? Ricordi, quand’eravamo al largo e si sentiva soltanto il lieve fruscio della prua che tagliava leggera il mare e poi il sommesso gorgoglìo dell’acqua attorno al timone? Ma oggi no, caro mio, dobbiamo fare altre cose… il quadro, ti ricordi del quadro? Lasciò la camera da letto e raggiunse il salone, che, da quando era rimasto solo, aveva trasformato in studio. Tanto chi ci viene qui? Non debbo mica far pranzi, si giustificava davanti a se stesso per questo modo disordinato di tenere la casa, che una volta era una casa borghese e adesso è un casino. Un bel casino. Mi piace questo disordine, questa semplice, amabilissima confusione. C’è un po’ di sporco, ma insomma, anche la signora delle 28


il rocchetto di ruhmkorff

pulizie si lamenta sempre, ma io non so che cosa farci. «Dottore, mi metta un po’ a posto la casa, altrimenti come faccio io a pulire?» La signora Irma lo sgrida sempre con la bonarietà di una madre, chissà perché le donne, quando un uomo è solo, subito si sentono loro madre. E, poi, mille volte le avrà detto «Mi chiamo Michelangelo non dottore» e lei, conciliante «Sì, dottore». Niente da fare, la signora Irma è una donna di vecchio stampo, inutile dirle che oggi tanti hanno la laurea e poi vanno a fare i commessi, o comunque lavori dove gli studi sono superflui, soprattutto i pezzi di carta e i diplomi, lei, la signora Irma, è più che mai convinta: «Il mio medico è il dottore, lei ha lavorato in banca e deve essere chiamato dottore» e aggiunge furbescamente «è l’importanza del lavoro che fa il dottore». A questo ragionamento semplice e rigoroso, Michelangelo non aveva mai saputo contrapporre ragioni. Che lo chiamasse dottore, la signora Irma non poteva capire che lui di quell’impiego in banca nemmeno più si ricordava. «Sai che cos’è la banca?» – diceva sempre Michelangelo Due – «È un’associazione per delinquere, è una spa per la grassazione di massa, ecco che cos’è la banca. Guarda qui, Michelangelo, guarda qui…» E buttava per aria tutta la carta che il suo istituto di credito gli mandava in funzione di un conto corrente che era un osso spolpato. «Guarda qui… tutte spese, tutte spese». E, d’altra parte – pensava– come si fa? Non si può fare senza, era il discorso che faceva sempre ai clienti i quali si lamentavano al suo sportello: «Avete ragione» – gli diceva convinto – «Avete perfettamente ragione, ma le banche oggi sono così, 29


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sono tutte strette a filo doppio con i governi, con i potenti e i potentini, si mettono d’accordo fra di loro, poi fanno speculazioni in borsa. Volete perdere dei soldi? Affidateli alle banche…» «Mi dia retta» – sussurrò un giorno a un pensionato – «porti via i soldi di qua e li faccia cucire dentro una tasca di una giacca come facevano gli ebrei costretti alla fuga durante la guerra, ma non li lasci qui, glieli ru-ba-no, ha capito?» Il vecchio cliente lo aveva guardato con sospetto, poi aveva sorriso e se n’era andato. Il lungo tirocinio allo sportello e il rapporto continuo con il pubblico gli avevano insegnato che la gente di solito sbraita con governanti, amministratori e, in genere, contro le istituzioni che controllano, gestiscono, a volte determinano la sua vita, ma quando è il momento di prendere decisioni e di capire in profondità l’ambiguo, spesso canagliesco comportamento del potere ampiamente inteso, si rifiuta come un cavallo impaurito dall’ostacolo: accetta gli avvenimenti prodotti dalla storia, le colpevoli e sordide azioni compiute dagli uomini per accrescere o mantenere la propria autorità e la propria forza, ma non ammette che le stesse operazioni possano essere commesse nel suo tempo, sotto i suoi occhi. È la ragione per la quale chi comanda può dormire sonni quasi tranquilli, se non si verifica un fatto abbastanza sconvolgente pochi avranno la possibilità di insidiare la poltrona. Chi ha potere, diceva sempre Michelangelo al suo fantasma, è quasi sempre impunibile. Un povero che ruba va in prigione, un presidente di un istituto di credito ruba e lo mandano in pensione con liquidazione astronomica. Quel tirocinio, comunque, gli 30


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aveva insegnato molto e aveva contemporaneamente accresciuto il suo cinismo sociale, che tanto contrastava con la sua più profonda natura, ingenua e accomodante, sicché si era venuta creando in lui una doppia personalità, teoricamente era lucido, tagliente, sicuro, ma nella pratica, a contatto con gli altri, era facilmente conciliante, non riusciva mai a capacitarsi che qualcuno, quel qualcuno che gli stava davanti, potesse essere armato di cattiveria. Quando si era accorto di questa sua bivalente anima era ormai troppo tardi per correggersi, per diffidare degli altri, quindi, per fare carriera. No, non voglio fare carriera, sosteneva con il suo Michelangelo Due eppure se ne rammaricava. Che è poi la carriera? Si domandava. Entrato in bagno, si guardò per prima cosa allo specchio, considerò gravemente i non molti capelli biondastri, gli occhi appesantiti e non ancora del tutto svegli, il grigio della barba. Via la barba. Prese il rasoio elettrico, doveva far presto, doveva fare ogni cosa di fretta, era come se qualcuno o qualcosa gli corresse sempre dietro, doveva far presto per finire quello che stava facendo e poi cominciare a essere mangiato da una noia terrificante, lo sapeva che, dopo, la bestia che era dentro di lui avrebbe preso a roderlo, finiti i sogni era cominciato il lungo tedio. Ma questa mattina si rase con estrema cura, non un pelo deve rimanere e alla fine dell’operazione, sempre la stessa ogni giorno, il viso ha preso un aspetto decente. Michelangelo, dice allo specchio, oh che tu fai Michelangelo? Si lava i denti, si spalma una crema dopobarba, quindi si mette la tuta, le scarpe da ginnastica e esce. La città è deserta, splendida, guar31


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da l’orologio, un quarto d’ora per fare il giro di un chilometro e mezzo cercando di molleggiarsi sulle ginocchia, le braccia ben aderenti ai fianchi, così correva una volta, ascolta il respiro, un respiro per ogni passo, anche correre è estremamente noioso, ma un quarto d’ora finisce presto, il suo rifugio, la casa è lì paziente, fedele ad attenderlo.

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