Il sacrificio dell'ape

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Alla mia famiglia e a nonna Anna


Collana diretta da Giacomo Battara

il sacrificio dell’ape Giovanni Sinapi

Direttore editoriale: Roberto Mugavero Illustrazione di copertina: morskipas.it © 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978-88-7381-501-3 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com


GIOVANNI SINAPI

IL SACRIFICIO DELL’APE

MINERVA EDIZIONI



ROBERT

Il rumore della chiave che entra nella serratura è quanto di più familiare e rassicurante possa esserci. Almeno per Robert. Peter non la pensa così. Peter è un bravo ragazzo, forse con un po’ troppi pregiudizi e un’arbitraria concezione dell’amore (platonica fino a un certo punto). Odia le persone ordinarie e troppo sentimentali, e nutre un moderato risentimento per tutti coloro che si rifugiano nell’autocommiserazione. All’età di dieci anni venne ad abitare nella casa affianco ai Duncan, ad Hazard, East Los Angeles. Quando Robert lo vide la prima volta era emaciato, alto molto più di lui e con un berretto in testa delle dimensioni di una padella, una sorta di Holden Caufield meno appariscente ma più austero. Quell’immagine è rimasta radicata nella sua memoria e ogni tanto riaffiora suscitando in lui una risata indulgente. Ma torniamo al giorno in cui Peter Dover fece la sua prima apparizione ad Hazard. Nevicava. Fiocchi di neve corpuscolare volteggiavano nell’aria, compattandosi sui marciapiedi, sugli alberi, sui tetti delle case. Era tutto ammantato di un candore innocente. 7


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Robert aveva dodici anni e aveva da poco sperimentato la fugace ebbrezza di aver superato la soglia (virtuale) della fanciullezza, per approdare a quella fase burrascosa e significativa per ogni essere umano che chiamano “adolescenza”. Fu un passaggio irreversibile, le cui ripercussioni furono devastanti. Ma allora si sentiva vigoroso, inarrestabile, come un fiume in piena, persuaso dall’assoluta convinzione di essere una sorta di divinità greca, un Ares invincibile, un Apollo profondamente ispirato. Peter invece non aveva un carattere molto socievole. In occasione del loro primo incontro, infatti, non fu particolarmente loquace. Robert – convinto di essere dotato di un’innata abilità oratoria – lo aveva incalzato con domande sempre più indiscrete, ma Peter aveva risposto in modo piuttosto evasivo, e ancora oggi Robert si domanda se si trattasse di indifferenza o di semplice distacco. La risposta è probabilmente che Peter è sempre stato profondamente misantropo, nonostante non abbia mai voluto ammetterlo. La porta si apre. Helen entra e posa le buste trasparenti della spesa a terra, tradendo un’evidente stanchezza; a quarantuno anni subentra l’amara consapevolezza di aver varcato la soglia della vecchiaia e di essere costantemente, irreversibilmente stanchi. 8


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Ogni volta che pensa al nome di sua moglie, Robert lo associa quasi inconsciamente a quello di Elena di Troia (possibile abbia una tale considerazione di sua moglie da paragonarla ad un modello mitologico di tale immoralità?). A prima vista infatti conserva ancora un fascino mediterraneo, monumentale, vagamente erotico; ha appena subito un intervento alla guancia destra e la sua carnagione, in quel punto, ha assunto una sfumatura sorprendentemente eburnea. Quando la bacia, Robert ha come la sensazione di sfiorare qualcosa di estremamente vellutato, quasi impalpabile. Sono le quattro e quarantadue di un sabato pomeriggio di marzo e Helen è ancora in piedi davanti la porta di casa che respira in modo quasi preoccupante, ma Robert è là fermo sul divano, con il computer acceso sulle gambe, che finge di ignorare la sua presenza, che finge di non sapere che sua moglie è appena rientrata con una decina di sacchi della spesa e che adesso sta tacitamente invocando il suo aiuto. Robert sta lavorando; in realtà si affretta a dirigere la freccetta sulla croce lampeggiante in alto a destra del sito porno che ha appena visitato e a tornare, con mano ancora febbrile, sul documento con i dati della sua azienda farmaceutica, e questa gli sembra una motivazione più che sufficiente per non dover prestare soccorso alla moglie. Così aspetta che sia lei 9


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a chiamarlo, ma sa perfettamente che Helen poserà prima le buste in cucina e poi andrà alla ricerca di suo marito, convinta che sia al piano superiore. «Ehi, amore, che ci fai qui?» osserva lei con una punta di diffidenza nel tono di voce. Ha percorso due rampe di scale, ha perlustrato velocemente la loro stanza da letto, ha dato un’occhiata nello studio in fondo al corridoio e poi ha scoperto che suo marito è sdraiato sul divano del salone di fronte alla cucina. La sua diffidenza sembra legittima. «Sto lavorando. Qua la connessione è più rapida» mente Robert. Poi aggiunge con preventiva sollecitudine: «Non ti ho sentita entrare. Dove sei stata?» «A fare la spesa. Ti avevo avvertito che sarei uscita.» «Sì, ma non mi hai detto dove.» «Sì che te l’ho detto.» Robert torna a guardare lo schermo del computer portatile e vanifica il tentativo di un litigio imminente: a che pro litigare sapendo di aver torto? Helen non solo gli ha detto che sarebbe uscita, ma ha anche specificato in quale supermercato era diretta. Perché continuare a preoccuparsi quando si arriva a guadagnare, meritatamente, quindicimila dollari al mese come dirigente di un’azienda farmaceutica come la Antek Biopharma Inc? «Hai richiamato Brian?» gli chiede Helen. Nel suo tono di voce si avverte un’impazienza materna. 10


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«No. Non ancora. Stavo aspettando te per farlo.» «Robert! Oggi è il suo compleanno!» «Lo so, Helen, lo so» risponde lui con indulgenza. «Credi che me ne sia dimenticato?» Lo hanno provato a chiamare sei volte quella mattina ma ha risposto sempre la segreteria telefonica, puntuale, categorica, con quella voce metallica e velatamente ostile. Pazienza. Riproveranno a chiamare più tardi; Robert non lo biasimerà per non essersi preoccupato dei suoi genitori, almeno non nel giorno del suo diciannovesimo compleanno. Helen invece cercherà, anche se con scarso successo, di dissimulare la sua indignazione. Ormai Brian è diventato una presenza evanescente nella loro vita. Frequenta un college in Pennsylvania, torna a casa più o meno ogni trimestre e crede ormai di aver acquisito una certa legittima maturità che in qualche modo lo esoneri dal chiamarli. Il risultato è che loro si sentono quasi spogliati del loro ruolo istituzionale di genitori e, per quanto Robert cerchi disperatamente di biasimarsi per il fatto di aver raggiunto una certa stabilità borghese, è ormai innegabile che la sua sia diventata un’ordinaria famiglia americana, senza apparenti ambizioni per il futuro, piena di frustrazioni e per giunta minacciata dalla presenza tentacolare (inevitabile) della depressione. Come se non bastasse, per compensare l’assenza del loro unico figlio, Helen ha deciso, senza la sua approvazione, di fare un’adozio11


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ne a distanza. Chissà perché quando ci pensa, Robert prova una vertiginosa sensazione di colpevolezza, quasi fosse consapevole che adottare a distanza sia un puro controsenso, qualcosa di crudelmente contraddittorio. Eppure Helen è convinta che quell’atto filantropico e misericordioso sia qualcosa che l’aiuti a stare meglio, che l’aiuti ad eludere la lontananza da Brian. «Robert, il telefono...» «Sì, certo. Eccolo.» Compone il numero di Brian (ancora si chiede se il fatto che il figlio non abbia un cellulare sia un ammirevole rifiuto alla tecnologia o semplicemente un subdolo pretesto per evitare di essere rintracciato) e lascia squillare. «Parlaci prima tu.» Passa il telefono alla moglie. «Finisco un attimo di fare una cosa qui al computer.» In realtà sta prendendo tempo perché non sa cosa dire. La settimana scorsa si sono scambiati un paio di battute e poi Brian ha riattaccato; perciò il rischio che la loro telefonata si trasformi nuovamente in una sterile, primordiale forma di comunicazione, fatta di monosillabi e respiri eloquenti, è troppo elevato perché lui lo ignori. «...sì, tesoro, adesso ti passo tuo padre.» Helen gli allunga il telefono dopo una conversazione concitata; per poco non è scoppiata in lacrime dall’emozione. 12


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Robert afferra l’apparecchio elettronico con cautela, come se fosse un tizzone ardente, e se lo porta lentamente all’orecchio. Helen è lì che ascolta, nervosa. «Ehi, campione, come va?» Il fatto che lo chiami ancora con quegli appellativi infantili è da attribuire ad un timido tentativo di ribadire la sua paternità. In realtà Robert non è mai stato un padre molto affettuoso. «Tutto okay.» «Pesano questi diciannove anni?» «In effetti...» ammette. «Come vanno gli studi?» «Bene» dice laconico, telegrafico. «Che regali hai ricevuto?» «Per adesso una racchetta da tennis, un paio di scarpe, un libro e un videogame per il computer.» «Bene. Oggi ti invierò un assegno.» Silenzio. Forse se dicesse la cifra, riuscirebbe a strappargli un minimo di riconoscenza. «Okay. Allora salutami Jane, Kennedy e tutti gli altri.» «Sì, certo.» «Fai il bravo e non spendere tutti i soldi.» «Okay.» «Ci sentiamo.» «Ciao.» 13


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Robert mette giù. Sembra costernato; per cosa? Per il fatto che suo figlio sia riluttante a parlargli? O per l’innegabile convinzione di essere diventato del tutto estraneo alla sua vita? Sta sprofondando lentamente nell’autocommiserazione. Qualcosa gli fa pensare che forse è immorale da parte sua regalargli tutti quei soldi per un compleanno; ormai non si può più eludere la voce collettiva della società che invoca, di fronte a tanta povertà, un piccolo ma giudizioso esame di coscienza. Ricordati che ogni giorno in Africa muoiono migliaia di bambini, recita un cinico slogan pubblicitario. «Come ti è sembrato?» gli domanda Helen. «Molto entusiasta. Davvero.» Non è per nulla convincente. Lo sa. Anche Helen lo sa. L’atmosfera è permeata di una complicità reciproca. Nessuno dei due vuole ammettere che l’altro ha sbagliato, che il proprio potere decisionale è stato del tutto ininfluente, che il proprio affetto è stato insufficiente, eppure entrambi sanno di aver sbagliato, sanno quali colpe hanno commesso, e sanno anche che l’espiazione è un percorso troppo complicato, troppo lungo, troppo insidioso da intraprendere e che l’unica via di fuga è una momentanea, bruciante rassegnazione. «Ti ha detto quando tornerà?» «No.» 14


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«Nemmeno a me.» Helen sta implicitamente ammettendo la sua sconfitta; suo figlio non tornerà prima di giugno, forse luglio. Helen sta lentamente perdendo (forse, dopotutto, l’ha già persa) la sua autorità materna: una volta le sue decisioni erano irrevocabili. Adesso è sorprendentemente condiscendente. Robert non si è mai posto questo problema; lui agisce solo in base alla convenienza, spesso dimentica che ha una famiglia verso la quale ha dei doveri imprescindibili e lascia che il suo cinico individualismo prenda il sopravvento. È sposato da ventidue anni con Helen, eppure ha ancora una concezione del tutto arbitraria del matrimonio. Helen lo compatisce, sa perfettamente che biasimarlo sarebbe inutile: Robert non riesce, per quanto si sforzi, ad interpretare il ruolo di bravo marito e di padre, è semplicemente troppo distaccato, troppo assente dai problemi familiari, dalle questioni domestiche. La sua situazione familiare, per quanto sembri rimasta immutata dal primo giorno di matrimonio, è estremamente precaria. Helen lo ama, beninteso, i suoi sentimenti nei suoi confronti sono autentici, eppure la convivenza lavoro-famiglia si rivela giorno per giorno sempre più insostenibile. Robert avverte una sorta di oppressione matrimoniale, qualcosa di terribilmente soffocante che finisce per alimentare in lui il seme di una libertà trasgressiva, il desiderio 15


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disinibito di un’infrazione all’“ordinario”, la consapevole inosservanza di tutto ciò che riguarda la sfera familiare. Ed è significativo come, nel sorprendersi a pensare tutto ciò, Robert non si senta minimamente incoerente o colpevole, anzi è fermamente convinto che la sua tacita ribellione sia un atto “giuridicamente” legittimo (è confortante pensare che, in qualche modo, non sia l’unico, fragile essere vivente lì a Los Angeles a dover lottare contro la tragica constatazione di essere totalmente inadeguato a fare da padre e da marito). In realtà Helen non ha mai avuto da ridire sulla sua fedeltà e, in questo senso, la sua ammirazione nei suoi confronti è sempre stata sincera; da parte di Robert, c’è qualcosa di profondamente ammirevole, quasi cattolico, nel non voler tradurre il suo incontenibile desiderio di trasgressione in un prosaico, banale tradimento. Helen dopotutto è ancora attraente, e la sua radicata misoginia lo porta ad un’attenta analisi del genere femminile. «Domani sera i Martin ci hanno invitato a cena» dice Helen. È una notizia decisamente irrilevante, ma Robert si sforza di simulare quantomeno un minimo di interesse. «Intendono farsi perdonare?» «Probabilmente.» «Lo sai che sono soltanto degli ipocriti, vero? Spero che tu condivida il mio giudizio.» 16


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«Sei troppo severo con loro, Robby.» Odia quando lo chiama con quell’innocente diminutivo; lo fa sentire tremendamente vecchio. «È quello che si meritano.» «Le persone sbagliano, tesoro.» «Le loro accuse erano intenzionali» obietta energicamente. I Martin hanno minacciato di intentargli causa più di una volta. La loro versione dei fatti è che i Duncan si sono indebitamente appropriati di un pezzo di terra recintato di dimensioni irrisorie che confina con il loro giardino interno e che, sempre secondo la loro distorta versione dei fatti, impedisce il corretto funzionamento del sistema di irrigazione automatico. La verità è che quello è soltanto un cinico espediente per dare sfogo alla loro frustrazione. I Martin rappresentano quella comune razza di vicini terribilmente frustrati. «Hanno ammesso di aver sbagliato, Robert.» «Sei tu che sei troppo clemente.» «Oh, amore...» In realtà non aveva intenzione di farle un complimento, ma Helen a volte è inconsapevolmente troppo vanitosa. «Hai già confermato?» chiede Robert. «Sì, li ho chiamati stamattina.» «Domani sera hai detto?» 17


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«Esattamente. Domani sera. Alle otto e trenta.» Domenica sera. Non ha scusanti, non ha motivazioni valide per non andare, non può inventarsi virtuali impegni di lavoro. Helen, comunque, lo costringerà ad andare.

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PETER

è ancora troppo stanco per alzarsi dal letto. Ha fatto le tre del mattino e forse ha bevuto anche un po’ troppo, ma al di là dell’azione in sé per sé non c’è alcun rimorso o parziale compiacimento, ma soltanto un languido residuo di stanchezza. Sono le dieci e venti del mattino e Peter sta ancora transitando in quello stato di dormiveglia in cui le percezioni audio-visive sono distorte e surreali. Vorrebbe alzarsi ma il desiderio di permanere in quello stato di virtuale torpore glielo impedisce. Così, con un movimento che richiede uno sforzo immane, porta una gamba fuori dal letto e sfiora con un piede la moquette; meccanicamente tutto il corpo asseconda quel movimento innaturale e in breve tempo si ritrova in piedi davanti la finestra. Non ha ancora smaltito la sbornia. I postumi sono tangibili: un’emicrania lancinante, nausea e vuoto allo stomaco. Inoltre non è minimamente presentabile. La sua faccia è cadaverica, quasi spettrale, e ha due vistose occhiaie che difficilmente svaniranno con un lavaggio superficiale. Da fuori gli giungono delle voci ovattate (forse concitate, forse di bambini) e il rumore, incessante, intermittente, di un motore acceso. 19


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È domenica mattina, eppure c’è qualcosa che non lo convince. Non è l’ordinaria domenica mattina di un ordinario quartiere di Washington D.C. Non c’è il solito silenzio permeato di un esclusivo senso di pace, non c’è la solita quiete indisturbata, non c’è la solita immobilità che non prelude a nulla. Inevitabilmente c’è qualcosa che non va. Peter vorrebbe poter attribuire quella strana sensazione al suo precario stato di salute, ma purtroppo sa che non può farlo. Vive da diciassette anni a Lamond Riggs e può affermare con certezza di conoscere quel posto più di qualsiasi altra cosa al mondo. Quando acquistò quella casa era un sedicente attore di appena ventun’anni. Adesso sostanzialmente non è molto cambiato da allora: è uno sceneggiatore profondamente frustrato (la sua frustrazione dipende in gran parte dalla sua depressione), misantropo e con un chiaro, innegabile disturbo della personalità. Le voci si fanno più distinte, più preoccupanti. Peter indossa una felpa sportiva visibilmente troppo larga e scende a vedere cosa sta succedendo. C’è una certa inquietudine nell’aria. Una cerchia di persone, perlopiù bambini, è assiepata attorno a quello che sembra essere un cadavere. Il cadavere di un cervo. La carcassa dell’animale giace inerte sul manto stradale. È stato investito da un’au20


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to: una BMW bianca è colpevolmente ferma poche decine di metri più avanti con il motore ancora acceso. Una pozza di sangue omogenea si sta lentamente spandendo sul cemento; la vista di quel liquido scuro così viscoso, così terreno gli fa quasi salire un conato di vomito in gola. Tra la folla una madre copre premurosamente gli occhi del suo bambino, quasi non voglia renderlo partecipe di quella macabra manifestazione (si tratta pur sempre di morte). Peter si fa avanti con cautela. Nessuno dice una parola. Tutt’intorno regna un silenzio surreale, quasi religioso, che sembra sublimare quel momento. La debita distanza alla quale si tengono gli spettatori suggerisce un timore reverenziale. La carcassa del cervo assurge temporaneamente alla salma di un martire. Non c’è nessun riferimento all’incidente. Un cervo morto di domenica mattina a Lamond Riggs non ha niente di ordinario, è semplicemente, terribilmente sensazionale, un evento irripetibile. I bambini stanno guardando la scena con sorprendente partecipazione emotiva, in ascetica contemplazione, evidentemente estasiati per il fatto di assistere in prima persona a qualcosa di così apparentemente fugace, insignificante, eppure drammaticamente ineluttabile come la morte di un cervo; per loro è quasi eccitante guardare il sangue che scorre dal ventre dell’animale. 21


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Le sirene della polizia profanano quel momento di terrena sacralità. Qualcuno deve averla chiamata. Quello che sembra essere il proprietario dell’auto va subito a dare spiegazioni alle autorità. La gente comincia a disperdersi. L’attenzione è scemata. Il cervo viene lasciato solo al centro della strada (adesso è semplicemente un’inquietante carcassa di un animale sventrato. Niente di più). Lo spettacolo è finito. Peter rientra in casa. Va in cucina, apre il frigorifero e prende un kiwi dall’aria un po’ troppo stagionata. Lo riposa, si guarda intorno e poi chiude il frigorifero. Non ha fame. Si siede. Eppure è ancora scosso. Non tanto dal cervo, quanto dalla misteriosa, inebriante essenza della morte. Ha assistito più volte a dei funerali, ha anche visto personalmente dei cadaveri (era stato lui a trovare Andrew nel suo appartamento dopo l’overdose letale), eppure non è mai entrato così in contatto con la morte come in quell’occasione. Nonostante i suoi sforzi, Peter non riesce a non pensare alla morte come a qualcosa di inscindibile dalla vita. Non ha mai avuto una fede molto granitica (si reputa ateo, ma forse nemmeno lui sa cos’è), eppure crede che la sua concezione di vita e di morte sia profondamente religiosa. Esiste un legame indissolubile che unisce la vita alla morte e viceversa. Ma il difetto di Peter è che è dotato di 22


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una sensibilità ultraterrena: compenetrarsi nel cervo è stata quasi un’urgenza inevitabile, imprescindibile, come se la sua vita in quel momento dipendesse unicamente e necessariamente da quella dell’animale. Ma la domenica è appena iniziata. Perché doversi macerare tutto il giorno per qualcosa di ormai irrimediabile come la morte di un cervo? Lunedì la compagnia si riunirà e lui deve ancora mettere mano alla sua sceneggiatura, che fino ad adesso non è nient’altro che un’incongrua profusione di parole disperatamente beckettiane. L’originalità è una delle sue maggiori ossessioni. Così decide di alzarsi, prendere un potente tranquillante e poi andare in camera da letto. Si stende sul letto ancora disfatto, prende la sceneggiatura e comincia a leggerla.

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