IL SIGNOR OLE di Luca Berretta (Narrativa Minerva)

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Narrativa Minerva Collana diretta da Giacomo Battara


Il signor Ole Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Elisa Azzimondi Grafica: Ufficio grafico Minerva Edizioni © 2017 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN: 978-88-7381-917-2

edizioni MINERVA Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 info@minervaedizioni.com www.minervaedizioni.com


LUCA BERRETTA

IL SIGNOR

OLE romanzo

MINERVA


La vita e i sogni sono fogli dello stesso libro: leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare. A. Schopenhauer



A mia moglie Patrizia, mia prima attenta e paziente lettrice al suo essermi stata accanto in questo difficile viaggio tra le parole, a questa gioia nascosta per aver condiviso con lei ogni pagina dei nostri giorni. A mio figlio Tommaso



I La città delle buone terre

I profili lontani di una città interruppero l’interminabile paesaggio che da ore scorreva tra i finestrini della carrozza. Edifici con sagome irregolari, depositi e tozzi cilindri in ferro arrugginito si alzavano come rocce scolpite, fermando le pianure dei campi coltivati e le macchie di verdi boschi. Il treno rallentò la corsa, lanciò il suo grido, scivolando con la sua sbuffante voce tra case in mattoni rossi e grigi ed edifici industriali. A Ole era sempre piaciuto viaggiare in treno, guardare lo scorrere del mondo attraverso le strette finestre di uno scompartimento, ritrovarsi tra dimensioni e forme di città sempre diverse e sconosciute. L’idea di tornare in quel luogo – pensò – non gli dispiaceva. L’ultima volta, diciotto anni prima, si fermò lì con la famiglia, venivano da New York, ma ricordava ben poco. Era il 1900. Aveva compiuto ventitré anni. La stazione – notò – aveva l’abituale confusione di quei luoghi, treni caldi in attesa e gente frettolosa che si muoveva in ogni direzione. La sua luce polverosa, l’odore di carbone bruciato dalle locomotive, le pensiline in ghisa annerite dalla fuliggine di caldaie sempre accese e quel sordo stridore di freni tra i binari. Una piccola porzione di umanità, un miscuglio di bianchi, neri e orientali che andavano o venivano. Facce smarrite che da anni cercavano sui marciapiedi di una fermata le speranze e l’entusiasmo di una nuova 9


vita. Avventurieri senza scrupoli, contadini o minatori, uno sciame di persone in gran parte esuli, che si riversava lungo i territori del Nordovest alla conquista di terre ancora vergini e solitarie. In città, molti edifici, una volta in legno, erano stati abbattuti e ricostruiti più alti in solida muratura. Fu la forza di volontà a riportare Ole sui gradini di quella stazione. Qualcosa che istintivamente sentiva di dover fare, un desiderio che presto, avrebbe cambiato il volto al suo destino. Era stata la sete di un sogno nascosto, l’effetto di quell’energia che anima la vita, ad avvicinarlo al mondo delle fabbriche, tra operai e macchine industriali. Una decisione che lo aveva spinto a una scelta coraggiosa, non priva di incertezze e dubbi ma alla quale non aveva saputo rinunciare. Ogni luogo d’arrivo era la porta di un passato che si chiudeva, una corsa in avanti priva di esitazioni. Era determinato, malgrado la sua giovane età, a inseguire il suo obiettivo e mai, pensò, sarebbe tornato indietro. La città gli apparve subito interessante. Possedeva una giusta dimensione urbana, piena di negozi e di gente in movimento, con i suoi solidi edifici e i segni visibili di una rapida crescita economica. Percepiva tra quelle strade e palazzi energie e risposte che da tempo andava cercando. Era come ascoltare la voce silenziosa propria di quei luoghi che nascondono molto di più di quanto, a prima vista, mostrano. Milwaukee, la città delle buone terre, sorgeva sulle sponde del lago Michigan ed era presto diventata la meta di coloni provenienti dalle lontane regioni d’Europa. Le sue case, allineate e compatte in blocchi regolari, erano state costruite su un territorio compreso tra due fiumi 10


che, lenti e silenziosi, si tuffavano nelle acque maestose del lago. Come nell’antica tradizione anglosassone, molti degli edifici avevano le facciate in rossi mattoni di terracotta e alcune vie centrali della città erano già dotate dei primi lampioni a gas. Al tramonto, una luce calda e radente si diffondeva per le strade avvolgendole di un riflesso color rubino che il lento calare della sera smorzava lentamente. Lungo le rive dei fiumi sorgevano magazzini e grandi fabbriche sormontate da esili ciminiere che rigavano il cielo con sottili pennacchi di fumo bianco. Ponti di grigio ferro, come corde tese, univano gli argini scomposti dei fiumi collegando le vecchie strade del centro ai nuovi quartieri da poco costruiti. Con lo sguardo fisso in avanti e la stazione alle spalle, Ole decise che il suo primo obiettivo sarebbe stato trovare una comoda sistemazione per la notte. Si guardava intorno con il tipico sguardo del turista smarrito, quindi prese una direzione e s’incamminò lungo la strada che aveva di fronte, pensando che si sarebbe fermato in città solo il tempo necessario al suo nuovo lavoro. Proseguì per alcune vie del centro per poi spostarsi verso le strade meno affollate dei quartieri periferici. Gli ci vollero alcune ore per comprendere quale fosse il posto più giusto dove trovare alloggio. Si sentiva disorientato, distratto da edifici così squadrati e alti, simili tra loro, con finestre tutte uguali che sembravano stessero lì ad osservarlo in quel suo lento girovagare. Non ricordava, né aveva mai vissuto, in strade così lunghe e piene di negozi d’ogni tipo: ciabattini, cartolai, vecchi empori, locande e banche si alternavano sui marciapiedi della città in una perfetta combinazione. Incrociava sguardi di gente silenziosa, persone che non sembravano accorgersi della sua presenza, una dimen11


sione sconosciuta che lasciava ancora più lontano il ricordo dei luoghi dove era cresciuto. Aveva individuato la fabbrica dove l’indomani si sarebbe dovuto presentare e fu così che, per motivi di comodità, decise di cercare in quella zona della città una sistemazione per la notte. Il desiderio di apprendere era stata la principale spinta del suo viaggiare; aveva scelto di cambiare un destino segnato, una tradizione che non gli avrebbe permesso di vivere fuori dalle regole di un mondo che suo padre aveva scritto per lui. Era stata una insoddisfazione profonda a spingerlo ad andare via, la ricerca continua di interessi che lo obbligavano a spostarsi continuamente. Cercava risposte in campi specifici, una preparazione che solo una o più città erano in grado di offrirgli. A ogni nuova destinazione, Ole si sentiva sereno, consapevole delle scelte fatte. Non aveva sensazioni di stanchezza, rancori o ripensamenti per un passato che apparteneva a un’altra età della sua vita. Cercava nuovi stimoli, nuove esperienze in fabbrica, mettere alla prova il suo coraggio toccando con mano lavori e responsabilità diverse. Era convinto, dopo anni di spostamenti, che la vita non andava vissuta nell’attesa: era necessario percorrerla, andarle incontro, verso nuovi traguardi e questo pensiero lo aveva portato fino a quel punto di non ritorno. Il viaggio – pensava – è una strana entità che ognuno di noi ha dentro di sé, qualcosa che può portare alla salvezza o alla morte, nessuno sa quanto può durare. Milwaukee fu una tappa decisiva. Era preoccupato e, al tempo stesso, contento di aver accettato il nuovo incarico. 12


La città era lì: il solenne Municipio, le banche e il commercio, con il porto pieno di battelli a vapore e marinai di ogni razza, un luogo che assorbiva la vita senza fermarsi mai. Ole si guardava attorno, osservava ogni cosa. Aveva conosciuto realtà più contenute, cittadine agricole e piccoli mercati di paese dove la gente era abituata a incontrarsi, a conoscersi scambiando poche parole o qualche breve sorriso. Questa dimensione urbana non lo spaventava, la credeva indispensabile per approfondire la sua conoscenza, un luogo più dinamico, una realtà più ricca dove poter realizzare le sue idee, i suoi progetti, i suoi disegni rubati al sonno delle notti. La luce calante del tramonto gli ricordò che doveva affrettarsi a trovare una sistemazione per la notte. Dopo avere camminato in varie direzioni, fu incuriosito da un’insegna metallica nera che ciondolava, cigolando, sulla strada. Una lastra metallica in grigio ferro che raffigurava il disegno di un boccale di birra sullo sfondo di una bandiera che non era sicuramente americana. Colpito da quell’immagine aveva deciso di fermarsi nella locanda per riordinare un po’ le idee e ottenere qualche informazione. Il locale, scoprì dopo, era famoso nella zona per la qualità delle sue birre. Lo gestiva il signor Kaspar, un esule tedesco di grossa corporatura, con una barba folta e scura e una voce dal tono basso, un po’ rauca, ma gentile. Anche Milwaukee, come altri luoghi di quel territorio, negli ultimi due decenni, si era popolata di immigrati arrivati dal nord Europa. Persone con destini, mestieri o razze diverse, che avevano finito per stabilirsi definitivamente in città. La birra era nata lì, grazie al lavoro e alle antiche tradizioni che il signor Kaspar aveva portato con sé. Era stato uno dei primi a fermarsi in città. Aveva aperto la 13


sua birreria e, ogni tanto, visto che di ubriaconi non ne mancavano, grazie alla sua determinata forza di “persuasione”, si preoccupava di buttare fuori dal locale, tra gli applausi dei clienti, frequentatori troppo rumorosi e spesso alticci. Davano alla birreria una brutta immagine e questo non lo sopportava. Si avvicinava ai loro tavoli con modi cortesi, “invitandoli” ad alzarsi e, senza alcuna esitazione, li accompagnava alla porta salutandoli dall’ingresso della locanda con un educato “Auf Wiedersehen!”. Ole capì di essere arrivato nel posto giusto. Lungo le strade appena percorse aveva notato l’esistenza di un ufficio postale, la sede di una banca, un grosso emporio e in una piazza poco distante, il Municipio. Il quartiere andava bene e fu così che decise di rivolgersi al signor Kaspar per ottenere alcune informazioni sul posto. Si avvicinò con molta discrezione e in modo educato gli chiese dove potesse affittare, nella zona, una camera senza troppe pretese. Il signor Kaspar non mancò di guardarlo con la stessa attenzione di un poliziotto di quartiere. Aveva capito che si trattava di un forestiero appena arrivato. Lo osservò scrupolosamente, dall’alto in basso e, fissandolo con i suoi occhi scuri diffidenti: «Quando esce, giri alla prima a sinistra, c’è una grossa porta verde con due gradini, accanto alla pasticceria, lì abita una brava e anziana signora che, ho sentito dire, affitta un alloggio» rispose il barista continuando a versare birra nei boccali. «Grazie, proverò lì» e, dopo aver pagato la sua breve consumazione, Ole uscì dal locale dirigendosi all’indirizzo indicato. Era il mese di novembre, fuori il buio della sera stava già calando sulla città e alcuni uomini con strane divise 14


grigie si accingevano ad accendere i lampioni a gas posti agli incroci e lungo i marciapiedi dei viali. Non faceva ancora freddo, ma un cielo color grigio piombo non lasciava intendere nulla di buono. Si ritrovò ben presto in prossimità della porta indicata dal barista. L’indicazione ricevuta era corretta. Trovò prima la pasticceria con l’insegna accesa e, subito dopo, vide il portone di un ingresso con due gradini in pietra. La sua attenzione ricadde sulla ghiotta esposizione della vetrina, ricca di raffinate torte e scatole di biscotti di vario tipo. La scritta sul negozio faceva subito capire le origini di quell’attività: “Le dolcezze di Madame Fleury”. Era sicuramente una pasticceria francese, pensò, sorridendo tra sé e sé. Poi, proseguendo di qualche metro, si ritrovò davanti al portone, alzò lo sguardo e notò che era un edificio di quattro piani come la maggior parte dei palazzi che si affacciavano su quella strada, con grandi finestre quadrate. Bussò alla porta e attese. Lo schioccare di una frusta seguito da un rumore di scalpitio di zoccoli alle sue spalle, lo distrassero. Si girò e vide passare un grosso carro coperto con due cavalli che correva in direzione del ponte. Proprio in quell’istante una testa si affacciò dalla finestra di un primo piano dell’edificio. «Chi è?» chiese una signora dai capelli bianchi sporgendosi dal parapetto. «Buongiorno, sono il signor Evinrude. Il barista qui vicino mi ha detto che lei ha una camera in affitto e io sarei interessato a prenderla se è libera» disse Ole. «È solo?» «Sì, ho solo una valigia con me…» «Va bene, salga pure al secondo piano, il portone dovrebbe essere aperto, così le faccio vedere la stanza» rispose la donna, ritirandosi dalla finestra. 15


Stentava a crederci ancora, ma forse aveva già risolto la sua sistemazione. Come un gatto, Ole salì le scale rapidamente e si mise ad aspettare sul pianerottolo, davanti alla porta dell’appartamento. All’arrivo la signora Doyle, con le chiavi ancora in mano, lo salutò con seria cortesia squadrandolo dall’alto in basso. Sembrava una donna diffidente, ma Ole, in quell’istante, comprese quel tipo d’atteggiamento. Era una camera abbastanza grande, con una piccola rientranza a elle dove erano sistemati un vecchio letto in ferro cigolante e un armadio con due ante a specchio. Appoggiata alla parete opposta c’era una piccola cucina, molto essenziale, con accanto una stufa a gas di ghisa, l’unica in casa. Al centro un tavolo in legno, con due sedie impagliate e una poltroncina imbottita color cuoio, un po’ consumata e traballante. Il pavimento con nude tavole di legno non veniva pulito da molto tempo e scricchiolava a ogni passaggio. Ole pensò che avrebbe dovuto fare molta attenzione, specie la notte, quando si alzava improvvisamente non riuscendo più a prendere sonno. Gli accadeva spesso negli ultimi tempi. «Mi raccomando, al piano di sotto si sente ogni cosa, perciò la sera tardi non faccia troppo rumore» disse con tono severo la signora. «Va benissimo…» rispose subito Ole, a conferma di ciò che aveva pensato pochi istanti prima. «E si ricordi che, oltre ai rumori, non voglio donnacce in casa», replicò la signora Doyle. Infine, gli ricordò che l’affitto andava pagato puntualmente alla fine di ogni mese. Ole le diede le massime garanzie. Le spiegò che era in città da poco e, per rassicurarla, le fece vedere la lettera d’assunzione con la quale si sarebbe dovuto presentare, il giorno dopo, presso la società E.P. Allis, 16


una fabbrica oltre il fiume, poco distante da quell’indirizzo. Prima che la signora Doyle se ne andasse, Ole la invitò a restare ancora un momento. Desiderava tranquillizzarla. Le raccontò da dove veniva, del suo recente passato e del perché si trovasse in quel posto. La donna ora lo guardava con più gentilezza e lo aiutò a sistemare nell’armadio la sua piccola valigia raccomandandogli, qualora ne avesse avuto bisogno, di bussare senza alcuna esitazione alla sua porta. Lei restava spesso a casa durante tutto il pomeriggio. Era una donna anziana ma ancora forte, rimasta vedova cinque anni prima, con un carattere apparentemente duro che in realtà nascondeva una persona sensibile ed educata. Gli confessò di un figlio, partito due anni prima per il Sud, del quale non aveva più notizie. Lo raccontò abbassando gli occhi, inumiditi da una velata tristezza mista a un senso di malinconia, con le parole amare di chi aveva smarrito una parte del proprio mondo. Si sentiva sconfitta da eventi ai quali non aveva saputo dare risposta, ma che aveva dovuto accettare con sconsolato silenzio. Ole comprese subito il profondo senso di solitudine in cui la donna viveva da anni. Si rese conto quanto era stato importante, per lei, quell’incontro, quella improvvisa e profonda confessione. Fu svegliato da uno strillo proveniente dalla strada. Dalla finestra vide due ragazzi che, giocando, si rincorrevano da un marciapiede all’altro. Li osservò qualche istante con gli occhi chiusi dal sonno, e alzando lo sguardo soffermò lo sguardo sulle alte ciminiere al di là del ponte, dove il fiume si stringeva. Sottili camini che sembravano infilzare alcune nuvole basse all’orizzonte e un cielo di un azzurro denso come non ne aveva mai visti. Un istante dopo si ricordò che doveva presentarsi, alle otto, presso gli uffici di una nuova società di motori. 17


Era un mattino diverso. O almeno così lo aveva percepito. Al risveglio aveva avvertito uno strano nervosismo attraversagli il corpo. Una strana sensazione che altre volte non aveva mai provato. Continuò a guardare giù nella strada mentre si preparava una tazza di caffè osservando le vie ancora quasi deserte e le poche persone in giro ancora intorpidite dal sonno. Ascoltò il grido dei gabbiani, il fischio in lontananza dei battelli, il rumore dei carri che scendevano verso il Martin St.Bridge. Si presentò all’indirizzo all’ora precisa, qualche minuto prima delle otto. Il signor Allis, fondatore dell’omonima società, un uomo alto, baffi arricciati, non molto elegante, dallo sguardo penetrante, aspettava Ole in piedi accanto alla finestra del suo ufficio. Era una stanza luminosa, con una libreria in noce piena di libri e fascicoli. Sulle pareti alcuni ritratti, che Ole pensò appartenessero alla sua famiglia, e due poltrone di pelle rosso scuro davanti a una pesante scrivania nera occupata da carte e da un vecchio calamaio. Ole, dopo una breve presentazione, raccontò al signor Allis delle esperienze avute negli ultimi anni e delle ditte dove aveva lavorato. Non contento, gli riferì anche di un progetto che avrebbe voluto portare avanti con quella società, ma il signor Allis lo interruppe immediatamente. «Non si preoccupi, avremo modo e tempo di riparlarne» tagliò corto, con un tono secco ma educato. Ole rimase interdetto dalla pronta risposta che non lasciava ben sperare, ma capì subito che non era quello il momento per approfondire il discorso. Doveva avere pazienza, aspettare un’occasione più giusta per dimostrare le sue capacità nel lavoro. 18


Dopo quella breve conversazione, gli venne mostrato il suo ufficio e gli altri impiegati dell’azienda, con i quali avrebbe collaborato tutti i giorni. «Le presento il signor Roth, nostro contabile, la signorina Carter, nostra amministratrice, la signora Carolyn che si occupa degli ordini e infine il signor Paul, addetto al controllo delle merci». La ditta era stata da poco rinnovata, a Ole avevano affidato la responsabilità del settore meccanico per le vendite a privati e società. Fu assai contento. Aveva un nuovo lavoro. Poteva continuare le sue ricerche e gli studi per la costruzione di un motore, il suo vero interesse. Sapeva quanto fosse ambizioso il progetto; aveva bisogno di tempo e nuove conoscenze per raggiungere il suo obiettivo. Un’idea che aveva avuto improvvisamente durante i lavori alla fattoria del padre, riparando macchine agricole nel magazzino. Un lavoro che fu, inconsapevolmente, l’origine di un distacco da una storia che lo aveva cresciuto e preparato alla vita. Ma, ora che era lì, era certo che ogni decisione presa, ogni viaggio affrontato apparteneva a un cammino giusto, a quel senso di libertà che il suo pensiero chiedeva. Non era raro che, alla sera, tra le pareti silenziose del suo appartamento, venisse circondato da momenti di solitudine, da malinconiche parentesi di un tempo che non poteva condividere con nessuno. Riflessioni, dubbi o incertezze che lo lasciavano solo con se stesso, in uno spazio privo di risposte. Era una storia senza ritorno. Forse il triste prezzo da pagare, l’intensità di una libertà in nome di un sogno al quale mancavano ancora i contorni. Le acque del Milwaukee river scendevano lente, grasse delle piogge dei giorni passati e, sulle rive sommerse dal19


lo straripare del fiume, apparivano specchiati i due volti della città, quella costruita e quella riflessa, capovolta, dai contorni poco definiti, un’immagine speculare che tremava al passaggio dei battelli che scendevano al porto. Ole, tornando dal lavoro, attraversava i suoi ponti che assomigliavano a grandi stampelle in ferro appese agli argini, con i suoi parapetti traforati e le sue figure silenziose. Non lo capì mai, ma notò che la gente non parlava mai mentre attraversava quei tratti sospesi della strada, come incantata da quel vuoto che li avvolgeva. Rientrava a casa tardi, con il suo cappello sempre un po’ acciaccato e scomposto in testa e il bavero alzato del soprabito. Tra le mani cartelle e rotoli di disegni che gli conferivano un aspetto da inventore folle, un artista. La signora Doyle non lo avrebbe mai ammesso pubblicamente, ma il ragazzo le risultava simpatico e lo riteneva una persona onesta e a modo. Quando lo sentiva rientrare a casa, provava a sbirciare dalla porta socchiusa dell’appartamento cercando una scusa per rivolgergli una parola. Era la tipica curiosità di una donna che viveva sola, la ricerca di un contatto, del racconto di una storia che non conosceva. «Come è andata oggi? La vedo sempre pieno di carte, si porta anche del lavoro a casa?» chiedeva affacciandosi quasi d’improvviso sul pianerottolo delle scale. «No, sono miei disegni... studi... mi è sempre piaciuto disegnare…» rispose vago, il ragazzo. Era evidente che quel tipo di approccio, quel timido tentativo di dialogo fosse un modo per dare alla sua vita un nuovo interesse. Non era una donna di grande cultura, né aveva curiosità particolari; era stata madre ed era in grado di riconoscere l’animo di una persona, leggere negli occhi l’entusiasmo o la tristezza, ascoltare un’emozione profonda. 20


Nel corso dei mesi successivi il rapporto d’amicizia e di rispetto tra Ole e la signora Doyle si consolidò. Non era raro che, a fine giornata, si ritrovassero a casa, davanti a una tazza di tè e si raccontassero storie passate. Era un modo per conoscersi, per sentirsi più vicini. Ole le aveva raccontato della sua ribellione al padre, di quella sera drammatica nel fienile, del desiderio che lo aveva portato a viaggiare e a lavorare lontano, anche in condizioni difficili, senza esitazioni, confrontandosi con una dura realtà a volte cosparsa di un silenzio che spesso si posava sui ricordi d’infanzia. Fu al termine di uno dei loro incontri che l’anziana donna, fissandolo negli occhi, gli disse: «Non devi aver fretta. Le cose nelle quali tu credi devono avere il tempo di maturare, hai molti anni davanti a te per costruire i tuoi sogni – e aggiunse – gli uomini comprendono il mondo un po’ alla volta, non è importante vivere in fretta, ma inseguire le scelte essenziali. Sono il solo modo per giustificare tutta un’esistenza…». Sentiva, da vecchia madre, di dover sostenere ogni iniziativa del ragazzo, di dare sicurezza a quelle idee così radicate nei suoi pensieri. In lui trovava il carattere di un uomo fuori dal comune. Aveva deciso di seguirlo, di ascoltarlo più spesso, standogli vicino senza oltrepassare i margini della sua vita privata. Aveva percepito la convinzione e l’impegno delle sue idee, il suo modo d’essere, il suo entusiasmo, quelle scintille di genialità che lentamente sarebbero affiorate ogni giorno che passava. Lo avrebbe sempre assecondato, ne era certa. Quella sera, seduto al tavolo nella sua modesta abitazione, Ole si sentiva particolarmente stanco. Era stata una giornata più difficile delle altre. In quel momento, avrebbe desiderato rompere il silenzio che lo circondava. Si alzò distendendosi sul letto e si 21


mise a fissare l’ondeggiare della tenda alla finestra mossa da un leggero vento fresco della sera. Una pallida luce di strada dissolveva l’oscurità della stanza. Riaffioravano in lui lontani ricordi con i fratelli nella fattoria, l’odore dei campi bagnati al mattino, i colori della campagna alle prime luci dell’alba. Si sentiva solo tra quelle strade così costruite e anonime. Era uno di quei momenti dove i sentimenti erano più forti di qualsiasi lucida razionalità. Avvertiva la stanchezza di quegli anni passati, credeva di aver percorso un tempo infinito di vita, di anni interminabili. Si addormentò esausto fissando quel lieve chiarore obliquo che dalla finestra cadeva sulle pareti consumate della stanza. La signora Prince, proprietaria dell’alimentari sulla strada, aveva conosciuto il ragazzo durante quelle prime settimane di soggiorno in città. Lo aveva ben inquadrato dal basso della sua piccola statura, con i suoi due grossi occhioni tondi, un po’ fuori delle orbite e incorniciati da una ciocca di capelli un po’ unti, fissata lateralmente da un grosso spillone. La sua indiscrezione era nota a tutti nel quartiere. Anche in quell’occasione, non aveva trattenuto la sua curiosità e, al primo incontro, aveva subito chiesto a Ole i particolari della sua vita e del suo lavoro in città. «È davvero norvegese?» gli chiese da dietro il bancone dei formaggi. «Mi dica, ma è vero che lì, tra quelle terre, ci sono alci giganti alti fino a due metri e che non vedete mai la luce del giorno?» continuò la donna, preda di risposte che non arrivavano. «Sa, in questa città ci sono anche molti immigrati tedeschi e polacchi che coltivano le nostre» disse con 22


una punta d’orgoglio americano. Ole sorrideva, non voleva deluderla e le confermò quel sentito dire per educazione. Non ancora soddisfatta, senza alcun pudore, la signora Prince continuò la sua raffica di domande. «La vedo sempre con una cartella di cuoio in mano e rotoli sotto il braccio: è forse un professore o uno scienziato?» insistette non badando alla presenza di una cliente entrata da poco nel negozio. «No, sono un semplice dipendente in una piccola industria di motori» rispose, sperando di aver messo a tacere ogni ulteriore curiosità. «La credevo un artista…» disse con una smorfia, delusa per quelle parole che le avevano cancellato all’istante ogni immaginazione. Oltre ai quattro impiegati che aveva subito conosciuto, nell’azienda lavorava una giovane ragazza di sedici anni che si presentava nell’orario d’ufficio soltanto due volte la settimana. Non svolgeva ancora un incarico a tempo pieno. Stava terminando un corso di stenografia presso un istituto specializzato. Il signor Allis, alla morte del padre della ragazza, aveva deciso di aiutarla e di assumerla in ufficio a tempo pieno non appena avesse concluso l’apprendimento al corso di specializzazione. Era un vecchio amico di famiglia e aveva deciso di prendersi cura della giovane donna. Ole l’aveva notata una mattina, mentre era in attesa, nella stanza del direttore. Un corpo sottile, capelli castani scuro con morbidi riccioli che incorniciavano un volto chiaro, dai lineamenti gentili. Era rimasto colpito da quella sua espressione semplice ma al tempo stesso priva di timidezza. 23


La morte del padre, aveva lasciato lei e altri cinque figli senza alcun sostegno economico. La giovane donna, essendo la più grande della famiglia, si era data da fare per arrotondare le entrate di casa con lavori saltuari. Sperava, in futuro, di trovare una occupazione sicura e stabile. Il signor Allis, forse perché senza figli, aveva deciso di aiutarla, prendendola in fabbrica, come responsabile amministrativo. C’era in lei l’espressione di una donna serena, posata, malgrado le tante incombenze che tra casa e ufficio le piovevano addosso tutti i giorni. Allis, aveva subito notato l’impegno e l’intelligenza della ragazza nell’affrontare il lavoro assegnatole e aveva deciso di darle il compito di responsabile amministrativo dell’azienda. «Si accomodi, signor Ole, le presento la signorina Bess Cary che presto lavorerà con noi in azienda» gli disse un giorno il direttore, mentre passava davanti alla porta del suo ufficio. «Buongiorno direttore – rispose Ole – piacere di conoscerla, signorina» disse, guardandola educatamente negli occhi. Aveva rivisto quello sguardo riservato e nascosto, un velato pudore misto a disinvolta franchezza. Le piacque, pensò, mentre ritirava la mano appoggiandola sul fianco del pantalone. «Spero che si trovi bene con noi» aggiunse, sorridendole. «Se ha bisogno di qualcosa o di un’informazione mi chieda, senza alcuna esitazione». «Grazie, non lo scorderò» gli rispose lei con tono sicuro ed educato. Ole rimase un attimo fermo, continuando a fissarla in volto. Poi la presenza del direttore lo distolse da quello sguardo e, abbassando la testa, uscì dalla stanza. Il signor Allis era un uomo preciso e riservato ma ci tenne a sottolineare alla ragazza che, per avere buoni 24


risultati nel lavoro, era necessario un impegno costante e la partecipazione di tutti. «Desidero ricordarle, signorina, che un lavoro ben fatto è frutto di intesa e collaborazione con i suoi stessi colleghi. È indispensabile mettere da parte interessi ed egoismi personali» ribadì con voce ferma, mentre le voltava le spalle guardando distrattamente fuori dalla finestra. «Ci sono domande?» chiese girandosi improvvisamente. «No, credo di aver compreso, farò del mio meglio» rispose in breve Bess e, salutando, andò via. Quelle parole le erano sembrate eccessive, non le era piaciuto quel tono quasi intimidatorio ma ora, non avendo altre alternative, non poteva rispondere come il suo carattere le suggeriva. Un giorno, se fosse stato necessario, lo avrebbe fatto, di questo ne era certa. Una domenica mattina, Ole si fece coraggio. Si avvicinò alla porta della signora Doyle e bussò. Erano le dieci del mattino. «Mi scusi se la disturbo, ma dovrei chiederle una cortesia» Il tono di voce basso e le parole esitanti sembravano nascondere qualcosa. «Mi dica, coraggio, altrimenti mi spaventa. Che desidera?» rispose lei. «Avrei bisogno di un piccolo spazio, se possibile, nel seminterrato per…» «No, no, non mi dica nulla, non voglio sapere altro, le posso dare una vecchia cantina qui sotto» disse lei, interrompendolo, con tono fermo ma incoraggiante. «Va benissimo, grazie. È perfetta» rispose Ole, con sorriso quasi sorpreso. Non si aspettava dalla signora tanta disponibilità e cortesia. 25


Senza esitare, fece un passo avanti avanzando verso di lei e, con un gesto improvviso, l’abbracciò stringendola a sé. L’anziana donna rimase impietrita davanti a quel gesto così affettuoso e sincero. «Ma che fa, su via, non sia eccessivo!» disse allontanandolo, con un certo imbarazzo. «Credo che, presto, mi pentirò…» mormorò mentre chiudeva la porta di casa. Ole, non ci credeva ancora: aveva ottenuto ciò che sperava. Entrando nel suo alloggio sorrideva, pensando alla smorfia sul viso della donna mentre l’abbracciava per ringraziarla. Raccolse ogni cosa che gli poteva essere utile e la portò in cantina. Era un locale asciutto, con una piccola finestra rettangolare in alto, a livello della strada. I vetri smerigliati lasciavano intravedere le ombre delle scarpe che tra passi continui, si incrociavano sul marciapiede all’esterno. Gli venne un sorriso truffaldino quando si accorse che lo spazio dove avrebbe realizzato i suoi esperimenti era proprio sotto il soggiorno della signora Doyle. Il giorno dopo riuscì a ottenere un prestito dalla banca, una piccola somma di denaro che gli occorreva per preparare il suo laboratorio. Nel pomeriggio cominciò subito a montare un piccolo tavolo da disegno, alcuni scaffali a muro in legno dove appoggiare libri e una ricca collezione di riviste scientifiche. Alle pareti sistemò una lavagna e una sottile tavola di compensato dove avrebbe appeso disegni o illustrazioni di riviste acquistate e conservate negli anni precedenti. Nella parte centrale del locale sistemò un cavalletto da lavoro con un piccolo morsetto. Aveva anche dato un’imbiancata ai muri e al soffitto, tolto le mille ragnatele che da tempo popolavano il locale e pulito con acqua e sapone, senza eccessiva attenzio26


ne, il ruvido pavimento di cemento. Il laboratorio era pronto per essere utilizzato. Ora non aveva più scuse. Si era calato nel mondo della meccanica e dell’elettronica per andare incontro a un desiderio che da sempre lo aveva interessato; quello spazio sarebbe stato il primo luogo della prova più difficile. La signora Doyle, quando lo incontrava all’ingresso di casa o sul pianerottolo delle scale, gli sorrideva abbassando lo sguardo, quasi per allontanare ogni possibile spiegazione di cosa, il giovane Ole, stesse facendo nella cantina dello stabile. Non osava chiedergli nulla e non era curiosa di sapere. Si aspettava da un momento all’altro qualcosa che sicuramente non le avrebbe fatto piacere, di questo ne era certa. A volte lo incontrava per le scale mentre lei stava entrando in casa. Accelerava il passo sui gradini per chiudersi rapidamente la porta alle spalle, meravigliandosi dell’agilità delle sue malconce gambe che, negli ultimi giorni, erano stanche o doloranti. Temeva di essere informata di quanto il ragazzo stesse facendo, era una verità che non desiderava conoscere. A ottobre, fronde d’alberi ingiallite dall’autunno tinteggiavano le strade e le piazze della città di un colore ambra pastello. Era stata una giornata grigia di pioggia, frustata da lampi che tagliavano rigonfie nubi all’orizzonte. Quel pomeriggio, di rientro dal lavoro, sotto un ombrello maltrattato dal tempo, Ole era alla ricerca di una farmacia per un raffreddore insistente che stentava ad andare via. Sopraggiunto nelle vicinanze della sua abitazione, attraverso le vetrate bagnate di un bar, gli parve di riconoscere all’interno del locale qualcuno di sua vecchia conoscenza. Decise di entrare. Era rimasto incuriosito da una 27


figura che non distingueva bene ma che, nell’opacità del vetro, gli ricordava un viso conosciuto. In fondo, pensò, era anche l’occasione per ripararsi dal brutto tempo, nell’attesa che la pioggia rallentasse un po’ o smettesse del tutto. Entrò scrollandosi di dosso l’acqua dall’impermeabile e, avanzando nel bar, si avvicinò a un tavolo dove tre persone stavano allegramente conversando bevendo della birra fredda. Lo riconobbe subito, si fermò un istante e, con il soprabito sul braccio, si rivolse a uno degli uomini seduti, con tono sorpreso e contento al tempo stesso: «Ma sei proprio tu…?». L’uomo alzò lo sguardo e, con il bicchiere ancora in mano, rimase un attimo in silenzio. Quindi esclamò: «Ma guarda chi si vede!» rispose sorridendo, alzandosi dalla sedia. «Quando sei arrivato?» chiese subito Ole, abbracciandolo con grande affetto. Era Jansen, un ragazzo di origini norvegesi che, come lui, stufo della vita nei campi, non appena compiuti i sedici anni aveva preferito stabilirsi in città alla ricerca di un nuovo lavoro, di un futuro che non fosse tra secche zolle e campi arati. Non si vedevano da almeno cinque anni. Jansen era un ragazzo alto e robusto, cresciuto sotto il sole della pianura, arando terreni e raccogliendo grano. Un giorno, quando i piccoli paesi divennero città, anche lui disse basta, andò via, solo, come molti ragazzi della sua età, portando con sé poche cose e tante speranze. «Abito a cinque isolati da qui, sono tre anni che lavoro presso i grandi magazzini, vicino al porto. Mi occupo di un reparto di attrezzature per la pesca» precisò Jansen non appena Ole fu invitato a sedersi al loro tavolo. 28


«Ho una ragazza americana, studia qui in città, ma presto ci sposeremo. Una domenica voglio fartela conoscere» aggiunse sorridendo. «Fantastico!» esclamò Ole, «Io sono da A.P. Allis e mi occupo della vendita di motori, sono lì da sei mesi». Era contento di quell’incontro, aveva ritrovato un piccolo tassello della sua infanzia, ebbe subito la sensazione di non essere più solo in quel mondo dove il lavoro era tutto ciò che gli restava. Poi Jansen, a un tratto, ebbe sul volto un’espressione più seria, appoggiò sul tavolo il grosso calice e continuò la conversazione con un tono di voce più profondo. «Dopo la tua partenza, molti di noi capirono il tuo gesto, anche a me piacque l’idea di cambiare ogni cosa» disse, abbassando lo sguardo sul tavolo. Ricordò anche lui, con un pizzico d’amarezza, quel distacco da casa, la voce del padre che cercava di trattenerlo dall’andare via, la sua determinazione a partire, l’abbandono di una vita più semplice e forse più serena. Non provava alcun rimorso per la decisione presa, ma sentiva di essere in un mondo che stava ora nascendo, con mille domande e incertezze per un futuro per il quale aveva sacrificato ogni cosa. «Sono contento di essere qui, posso sentire il profumo dei boschi come era lì tra le nostre terre o bagnarmi tra nuove acque. Ho sempre creduto che il nostro tempo sarebbe stato diverso da quello dei nostri padri e penso che, anche per te, sia stato così» disse Jansen guardandolo nel volto con affetto. «Hai ragione, le stesse cose che hai provato tu, anche per me hanno avuto un significato importante, quello di ritrovarmi. Tutto ciò che ora sono, è frutto di un percorso durato anni. Credo che a volte, ci si perda non sapendo chi siamo, e ora che ho trovato una mia dimensione, l’incertezza 29


degli anni passati rappresenti per me il vero inizio…» gli rispose sorridendo e posando la mano alla spalla. Erano entrambi contenti, soddisfatti di aver seguito il loro istinto. Parlarono ancora di quella città, poi, Ole, non volendo più disturbare oltre, decise di andare via. Promise, che si sarebbero rivisti presto per trascorrere insieme una domenica al lago. La mattina seguente, in azienda, Ole rivide Bess, l’esile ragazza dai capelli ricci. Il signor Allis l’aveva da poco inserita definitivamente nell’organico della società. Si erano visti e salutati da lontano, nel corridoio, con l’accenno di un breve sorriso. Lei, quel giorno, presa da mille compiti, si aggirava senza sosta da una stanza all’altra consegnando o ritirando sulle varie scrivanie cartelle e lettere in partenza o in arrivo. «Se corre così, non potrò avvicinarmi per salutarla» disse Ole, vedendola uscire da una delle porte del corridoio per poi sparire nuovamente in quella di fronte. Notò il suo vestito blu con un colletto di pizzo bianco, semplice ed elegante, che risaltava la naturale bellezza del suo viso. «Ah, è lei» disse Bess sporgendosi con il viso nel corridoio. «Un attimo e sono da lei» continuò, posando un grosso pacco sulla scrivania e affacciandosi alla porta. «Mi faceva piacere sapere come si trova o se ha qualche problema per l’organizzazione del lavoro» fece Ole avanzando timidamente verso Bess. La ragazza aveva uno sguardo dolcissimo, un viso dalla pelle chiara, magro, ma dai lineamenti marcati, i fianchi appena rotondi e morbidi, un sorriso spontaneo, gentile, tipico di una ragazza ben educata. «No, grazie, va tutto bene per essere un inizio, sto imparando a conoscere l’archivio e a organizzare il 30


mio tempo, ancora qualche giorno e sarò anche un po’ più tranquilla» rispose, rivolgendosi a Ole con tono di voce disinvolto come una persona che si conosce da tempo. Lui la guardava come incantato. Era una donna esile, ma i suoi movimenti erano attenti e sicuri. L’ultima volta che l’aveva incontrata con il signor Allis sembrava una persona diversa, forse nervosa o intimidita da quel luogo che per lei aveva un significato importante, la possibilità di uno stipendio sicuro dopo anni incerti. «Molto bene, se avesse bisogno non esiti a chiamarmi, l’aiuterò con grande piacere» e, stringendole delicatamente la mano, Ole le sorrise fissandola con estrema dolcezza negli occhi per poi tornare al suo reparto dove, nel frattempo, era atteso da alcuni clienti. Bess rimase colpita dalle sue parole, quelle particolari attenzioni, il modo di avvicinarsi a lei, le avevano ricordato la sicurezza che le dava la figura del padre. Non era un fatto di differenza d’età, pensò, quanto il timbro sicuro e premuroso e un’espressione sincera che da molto tempo le mancavano. Il viso un po’ tondo di Ole le esprimeva tenerezza e fiducia. Non possedeva certamente un corpo atletico, ma i suoi occhi azzurri e profondi li aveva sentiti addosso, posarsi delicatamente sul collo, sul viso, tra le mani e in quell’attimo per la prima volta, dopo anni, si era sentita bene, quasi protetta. Bess sorrise tra sé e sé, lo guardò ancora allontanarsi con quei movimenti un po’ buffi ma simpatici. Le piacque quella sensazione, sentì che sul suo palmo era rimasto il calore di quel contatto. La notte, nel buio della sua stanza, il ricordo bussava alla sua mente come un piacere innocente.

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La cantina si rivelò ben presto il luogo ideale per portare avanti gli studi e le prove nelle quali Ole, alla sera, si dedicava senza sosta. Il progetto del suo motore, dopo alcuni mesi di lavoro, era a buon punto. Ogni dettaglio era stato definito, aveva speso tutto il suo tempo libero ad annotare ogni cosa, soluzioni, particolari o modelli. Ora era giunto il momento della verifica, di mettere in pratica quelle idee. Di tanto in tanto, subito dopo l’ora di cena, c’era un ragazzo, William, pantaloni corti e capelli rossi spettinati, che si affacciava nella cantina per aiutarlo nel lavoro di preparazione. Era il nipote della signora Doyle. Viveva con la madre al terzo piano dell’edificio e spesso si era confidato con Ole raccontandogli di non avere un eccessivo interesse per gli studi a scuola. Preferiva, quando si presentava l’occasione, impegnarsi in lavori manuali. Lo spazio del locale non consentiva grandi movimenti ma Ole riusciva a muoversi ordinatamente e con precisione. I metodi di lavoro osservati e acquisiti negli anni precedenti in fabbrica risultarono assai utili e importanti. Doveva solo stare attento ai rumori: la signora Doyle era a tre metri sopra la sua testa. Il solaio in legno che divideva la cantina dall’appartamento del piano di sopra era senza intercapedine; cosa sarebbe accaduto al primo rumore? Era un pensiero che spesso gli tornava alla mente e lo faceva sorridere. Ole sapeva che prima o poi si sarebbe fatto “sentire”. L’idea lo divertiva. Sapeva che non era il modo per ricambiare la fiducia ricevuta dalla signora Doyle, ma il suo lavoro non poteva fermarsi. Ogni giorno l’oggetto misterioso, cresceva tra le sue mani. Amava costruire con le proprie mani ogni cosa, una caratteristica che fin da ragazzo lo aveva contrad32


distinto. Era capace di dare forma a un’intuizione, ne era fiero ma avrebbe voluto condividere quel traguardo con suo padre, dimostrargli che il suo lavoro non era qualcosa di stupido o infantile come spesso gli ripeteva. Lavorava con ostinazione, con brevi intervalli di sosta, un modo per non cadere in quella rete di ricordi che non lo abbandonavano mai. C’era una sola immagine che era in grado di restituirgli un momento di luce chiara, di risollevarlo da fatiche e dubbi. Era il volto di quella donna, il suo sorriso, il taglio sottile degli occhi, il contatto della mano tra le sue dita, la sua voce, erano istantanee che si sovrapponevano durante le ore del giorno e della notte, che martellavano con insistenza le emozioni di un mondo ancora inesplorato. Era la prima volta, da quando aveva lasciato la fattoria, che sentiva dentro di sé un sussulto di gioia diverso, un piacere intenso che pulsando nelle sue vene lo agitava. La rivedeva tra rapide istantanee dei giorni passati, nei brevi gesti di tutti i giorni; fissava i suoi lineamenti morbidi sullo sfondo buio del soffitto della camera, gli sembrava di non dover dormire per rivedere ogni suo particolare, ogni parola. Di questo pensiero così insistente non se ne dava una ragione. Aveva visto Bess pochi attimi, brevi istanti che erano stati però sufficienti a stordire i suoi pensieri. La signora Doyle, una sera, incontrandolo sul pianerottolo di casa gli chiese, in modo quasi distratto, come procedeva la sua attività. «Bene!» esclamò dal pianerottolo, «ma se desidera può venire lei stessa, a vedere di persona» continuò Ole, sorridendole. «No, no... grazie, non si preoccupi, mi farà vedere ogni cosa quando avrà finito… arrivederci» e velocemente chiuse la porta quasi fuggendo dall’invito inaspettato. 33


Ole sorrise tra sé e sé. Pensò che la prova che avrebbe fatto nei prossimi giorni avrebbe dissipato ogni curiosità della donna. Molte notti, Ole le passava lì, in cantina. Raramente aveva dubbi e incertezze sul lavoro che portava avanti, ma decidere ogni cosa senza mai confrontarsi con qualcuno lo trovava stancante e triste. Aveva anche scritto al padre, mettendolo al corrente dell’andamento della propria vita, del lavoro e del progetto nel piccolo laboratorio ma otteneva puntualmente una breve e formale risposta priva di qualsiasi parola di conforto o d’incoraggiamento. La cosa gli dispiaceva sempre. Se lo aspettava, era un uomo che il mondo lo vedeva in bianco o nero, ed era lui a decidere cosa fosse bianco e cosa nero. Ormai, se ne era fatto una ragione. Sarebbe comunque andato fino in fondo, per la sua strada. «L’alba dissolve le paure… ricordalo sempre» una frase che il nonno qualche volta gli sussurrava alla sera prima di andare a dormire, parole che non aveva mai dimenticato. Il mattino seguente, prese una decisione. Aveva pensato per tutta la notte con chi avrebbe potuto condividere i suoi esperimenti. Tra le persone conosciute, una sola, secondo lui, meritava la sua attenzione o quantomeno gli avrebbe fatto piacere coinvolgere: Bess. Aveva notato la sua meticolosa attenzione nelle cose che non conosceva, la sua intelligenza nell’osservare e riflettere, sarebbe stato interessante ascoltare una sua opinione su ciò che stava realizzando. Ma al di là di ogni considerazione, pensò gli avrebbe fatto piacere avere accanto una donna come lei. Nelle ultime due settimane aveva avuto modo di rivederla e riparlarle ancora. 34


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