L'ALLEGRO NAUFRAGIO

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l’allegro naufragio

Gennaro Malgieri

Giornalista e scrittore, Gennaro Malgieri è autore di una ventina di saggi e di quattro raccolte di poesie. Ha fondato nel 1997 la rivista di cultura politica Percorsi ed ha diretto i quotidiani Secolo d’Italia (1994-2004) e L’Indipendente (2005-2006). Parlamentare per tre legislature, ha fatto parte di diversi organismi rappresentativi internazionali. È stato Consigliere d’amministrazione della Rai. Scrive editoriali per giornali e periodici. Si è occupato del pensiero del Novecento con saggi su Costamagna, Rocco, Schmitt, Spengler, Evola, la Rivoluzione conservatrice. Ha ideato e curato le raccolte dei saggi Ideario italiano (Il Minotauro, 2001) e Conservatori (Il Minotauro, 2006). Tra gli ultimi volumi pubblicati, Una certa idea della destra (Editoriale Pantheon, 2004), Conversazioni sulla destra (Rubbettino, 2005), Le macerie della politica (Rubbettino, 2007), Lessico inattuale. Un conservatore davanti al pensiero unico (Minerva edizioni, 2013), Conservatori europei del Novecento. Un’antologia (Pagine-I libri del Borghese, 2014).

Gennaro Malgieri

l’allegro naufragio La scomposizione del centrodestra e la crisi del bipolarismo

Minerva Edizioni

In cinque anni, dal 2008 al 2013, il centrodestra è andato in frantumi ed il bipolarismo, nato da consapevoli ed irresponsabili “fusioni a freddo” dall’una e dall’alta parte dello schieramento politico, si è liquefatto per l’incapacità dei soggetti di costruire alternative politiche praticabili. In particolare, il Popolo della libertà, affrettatamente e superficialmente messo in piedi, prescindendo da una necessaria elaborazione culturale che avrebbe dovuto giustificarlo e sostenerlo, dopo aver trionfalmente vinto le elezioni politiche, si è perduto nella giungla dei conflitti interni fino a spaccarsi con la scissione del 2010. Di fronte alla crisi economica, poi, le incomprensioni in seno al governo sono esplose, mentre si sono fatti evidenti gli eccessivi personalismi che hanno paralizzato il partito privandolo di iniziativa. Nel novembre 2011, davanti al disfacimento della maggioranza e sotto l’incalzare degli eventi internazionali che provavano, tra l’altro, l’affievolimento della sovranità nazionale italiana, Silvio Berlusconi è stato praticamente costretto a dimettersi e a lasciare il posto ai tecnocrati guidati da Mario Monti. Il fallimento del partito unico del centrodestra e la connessa crisi del bipolarismo viene analizzata, puntualmente e con crudezza, da Gennaro Malgieri che, tra l’altro, ravvisa i limiti oggettivi di una operazione la cui fragilità era evidente fin dalle premesse dalle quali nasceva. Tra gli effetti collaterali devastanti prodotti dall’ambizione di dare una casa comune agli italiani “non di sinistra”, senza avere approntato gli strumenti affinché si concretizzasse, vi è stata la distruzione della destra politica che era uno dei pilastri di una costruzione che avrebbe dovuto avere basi più solide. Al contrario, allegramente, l’avventura, pur caldeggiata da tanti ben prima del cosiddetto “discorso del predellino”, si è trasformata in una tragedia politica della quale, ancora oggi, nessuno si assume la responsabilità. Ed è per questo che il centrodestra scomposto difficilmente tornerà ad essere un soggetto unitario.

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Gennaro Malgieri

l’allegro naufragio La scomposizione del centrodestra e la crisi del bipolarismo

Note introduttive ai capitoli e conversazione in appendice a cura di Lucia Bigozzi

Minerva Edizioni


clessidra Collana di saggistica storica

L’allegro naufragio

La scomposizione del centrodestra e la crisi del bipolarismo Gennaro Malgieri

Direzione editoriale: Roberto Mugavero Editor: Stefania Bigatti Impaginazione: Francesco Zanarini Progetto di copertina: www.morskipas.it

Immagine di copertina © Pino Procopio, “Naufragio”, olio su tela, 2005 © 2014 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Prima edizione aprile 2014 Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978-88-7381-579-2

Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com


Nessuno sa cosa vuole. Nessuno conosce quale anima possiede, Né cosa è male né cosa è bene. (Quale ansia distante piange vicino?) Tutto è incerto ed estremo, Tutto è disperso, nulla è intero. Fernando Pessoa, “Messaggio”



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PREMESSA

Quando ho cominciato a mettere ordine nelle note che per cinque anni ho scritto cercando di documentare in maniera analitica il percorso del “partito unico del centrodestra”, mi sono reso conto che quella esperienza è andata sfilacciandosi per insipienza, con l’allegra irresponsabilità di chi avrebbe dovuto invece con rigore portarla a compimento. Rileggendole in sequenza, quelle note, ho avuto l’impressione che qualcosa abbia trattenuto tutti coloro che all’avventura hanno preso parte dall’assumere qualche concreta iniziativa per evitare che una catastrofe politica si compisse. È evidente che la via della scissione dell’estate 2010 non poteva che andare in questo senso, ma se i malumori che l’hanno innescata fossero stati “governati” da chi l’ha promossa e recepiti come segnali di autentico pericolo da chi l’ha subita, la storia del centrodestra sarebbe stata un’altra. Ripercorrendo il quinquennio politico che si è concluso con lo scioglimento anticipato delle Camere il 22 dicembre 2012 e le elezioni svoltesi il 24 ed il 25 febbraio 2013, ho concluso che nulla è stato tentato per mantenere integra la coalizione perché non c’è stata la volontà da parte di nessuno di completare un progetto che avrebbe potuto cambiare la storia d’Italia se fosse stato realmente perseguito. Si è invece proceduto verso la dissoluzione del centrodestra come se i segni e le avvisaglie dell’affievolimento della coesione tra le componenti del Popolo della libertà non avessero alcun senso e si dovesse procedere verso un orizzonte confuso, trascinati da una misteriosa forza, senza prospettive e soprattutto incuranti dei pericoli, che pure si percepivano ma li si declassava ad “incidenti di percorso”. La fine prematura del Pdl, insomma, sarebbe stata evitabilissima se soltanto si fossero realizzate determinate condizioni e se chi ne era più responsabile degli altri, reggendone le sorti, avesse ope-


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rato una seria autocritica sulle modalità della sua nascita, sul suo effimero sviluppo, sulla crisi che lo ha connotato per buona parte del suo cammino fino alla dichiarazione di “fallimento”, solennemente pronunciata nell’autunno 2013 da Silvio Berlusconi che più d’ogni altro lo aveva voluto. Mi è sembrato doveroso, dal momento che nessuno sembrava interessato ad occuparsi delle ragioni della prematura fine, della quale non mi sono affatto stupito considerando le modalità della nascita e della composizione del Pdl, rimettere a posto le note pubblicate nei cinque anni che promettevano di essere ben diversi da come sono stati e riproporle in parte – quelle più significative, a mio giudizio – in un libro corredato da considerazioni ex-post, da un’introduzione di inquadramento, oltre che da valutazioni finali in forma di conversazione curata dalla collega giornalista Lucia Bigozzi, la quale, peraltro, molto del materiale rimesso insieme conosceva bene, per averlo letto in tempo reale quale redattrice del giornale on line l’Occidentale, al quale per oltre due anni ho collaborato con assiduità e continuità. Su Libero, Il Tempo, Liberal, Blitzquotidiano, Formiche ed altri organi di informazione, cartacei e non, che hanno ospitato senza mai censurare neppure una virgola tutte le mie analisi, molte delle quali riproduco nelle pagine che seguono, ho potuto documentare i regressi di una forza politica nata per innovare ed il contemporaneo degradarsi del bipolarismo italiano. Sicché, rileggendo il tutto, mi sono trovato tra le mani un diario che, al di là dei fatti, documenta una stagione politica tra le più scombinate della storia repubblicana. Non aver approfittato, tanto da parte del centrodestra che del centrosinistra, dell’ultima stagione disponibile, prima dell’avvento di forze estranee alla dialettica democratica come patologie della democrazia rappresentativa, per costruire quello “spazio riformista” del quale per quasi vent’anni si era discusso non la si può definire banalmente come un’occasione perduta. Di più: è stato un tradimento verso il popolo italiano che della delegittimazione reciproca dei due poli davvero ha mostrato di non poterne più e, di conseguenza, si è rifugiato o nel voto a forze antisistema o nell’astensione. Un


Premessa

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risultato che, oltre ad aver certificato l’ingovernabilità del Paese al culmine di una crisi economica e sociale dalle proporzioni devastanti, ha dimostrato anche il cinismo di una classe politica che pur di non riformare se stessa, come pure prometteva, si è arroccata a difesa di una legge elettorale che le ha consentito di espropriare i cittadini dalle loro prerogative e di conservare un potere che neppure i regimi oligarchici più ottusi e tetragoni al cambiamento hanno mai dimostrato in Europa nel secondo dopoguerra. Se il Pdl sostanzialmente non è mai nato, il Pd ha parimenti deluso bruciando uno dopo l’altro ben quattro segretari in pochissimi anni per combattere guerricciole interne di potere, salvo ricomporsi nella “guerra santa” (quanta pochezza e quanta ipocrisia) a Berlusconi e farci insieme un governo, quello delle “larghe intese”, a testimonianza dell’impotenza di chi si è sempre, del tutto irragionevolmente, sentito “superiore” a chiunque: la più irritante delle eredità del comunismo storico italiano cui si sono accodati democratico-cristiani convertiti, che in tal modo hanno realizzato compiutamente il disegno dossettiano. Che cosa resta di cinque anni sostanzialmente buttati via, sui quali ha apposto un sigillo scolorito l’anno di governo di Mario Monti e dei suoi tecnici, delle cui cure il Paese non si è giovato? Nulla di ciò che si sperava, molto di quanto si temeva: l’irruzione del grillismo, l’autorottamazione del Pd, che per tentare di rimettersi in sesto ha dovuto chiamare in servizio permanente effettivo Matteo Renzi gettando a mare tutta la vecchia nomenklatura, lo sfacelo del Parlamento ridotto ad un “bivacco” o, se si preferisce, ad una landa nella quale compiono demenziali scorribande parvenu della politica selezionati attraverso internet. E poi, la scomparsa della destra politica, la scomposizione del nucleo centrale del Pdl con la rinata Forza Italia da una parte ed il Nuovo Centrodestra dall’altro, la lenta agonia della Lega il cui progetto federalista è miseramente naufragato nonostante tutti, ma proprio tutti, si fossero adeguati alla ineluttabilità della fine dell’unità nazionale. Il quadro politico è cimiteriale. Mi vengono in mente, tante volte, leggendo le cronache parlamentari o guardando le immagini televisive che mostrano gli sconci che si ripetono con una puntualità


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deprimente nelle aule di Montecitorio e di Palazzo Madama, i versi di Thomas Stearns Eliot di The Waste Land (La terra desolata): «Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono/Da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo,/Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto/Un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole,/E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo,/L’arida pietra nessun suono d’acque». Sono versi che accendono comunque speranze e chi conosce lo spirito del grande poeta americano non se ne sorprenderà. Ma a noi oggi, che neppure ai poeti possiamo aggrapparci, non rimane altro che la desolazione incolmabile di una comunità nazionale che sta progressivamente scadendo nel tribalismo. Non sembra che il “dettaglio” interessi molto la politica che, da quanto ci sembra di capire, è totalmente inebetita davanti alla crisi morale, culturale e sociale del nostro Paese. È il solo terreno su cui centrodestra e centrosinistra si sono incontrati realizzando il bipolarismo perfetto.

Gennaro Malgieri Febbraio 2014


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INTRODUZIONE

La sera del 14 aprile 2008 gli italiani, indipendentemente da come avevano votato, ebbero la sensazione che finalmente si sarebbe aperta una stagione costituente. La coalizione di centrodestra, guidata da Silvio Berlusconi, formata da Popolo della libertà (nato dalla fusione tra Forza Italia e Alleanza nazionale), Lega Nord e Movimento per l’Autonomia, aveva stravinto le elezioni politiche celebrate a seguito dello scioglimento anticipato del Parlamento il 6 febbraio, ottenendo 17.403.145 voti, pari al 46,31%, con relativa maggioranza schiacciante di seggi – 344 alla Camera e 172 al Senato – che permetteva al Cavaliere di governare senza ambasce, finalmente libero dai condizionamenti che in precedenza ne avevano frenato le ambizioni riformatrici. Non aveva più alibi, insomma, a fronte dell’esigua rappresentanza delle opposizioni: il centrosinistra capeggiato da Walter Veltroni si era fermato al 37,52% guadagnando 247 seggi alla Camera e 134 al Senato, mentre l’Udc di Pier Ferdinando Casini, che si era sfilato dall’alleanza berlusconiana, con un modesto 5,9% aveva portato a Montecitorio 56 deputati e a Palazzo Madama 3 senatori. Con il Partito democratico entrarono in Parlamento anche i rappresentanti dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, i quali, venendo meno al patto elettorale con il Pd, costituirono gruppi autonomi. La navigazione del governo Berlusconi apparve a tutti tranquilla, ma covavano già risentimenti e dissapori per via della “forzata” unione dalla quale era nato elettoralmente il Pdl che un anno dopo sarebbe stato ufficialmente costituito. Le “anime” non si amalgamavano. L’opportunismo politico non sembrava promettere niente di buono. Tuttavia, al di là


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dei numerosi “distinguo” tra forzisti ed ex-An, le premesse per una legislatura produttiva c’erano tutte. Peraltro, la sinistra era sbandata dopo la batosta elettorale e, per quanto si desse da fare, soprattutto in Parlamento, per mettere in difficoltà il centrodestra, la sua crisi interna la logorava. Crisi che celava le difficoltà di decollo di Berlusconi che nei primi cento giorni ebbe vita relativamente tranquilla, ma realizzò poco, mentre le fibre del neonato assembramento si sfilacciavano inspiegabilmente. La stessa vita dei gruppi parlamentari risultava travagliata in molte occasioni e non mancavano dissensi profondi soprattutto per ciò che concerneva la politica economica saldamente nelle mani di Giulio Tremonti che aveva stabilito un rapporto di ferro con la Lega Nord, la quale, quasi sempre, otteneva quello che voleva a scapito del Mezzogiorno e con grande disappunto dei parlamentari di Alleanza nazionale che cominciavano a realizzare quanto difficile sarebbe stata la convivenza con i nordisti da un lato e con il ministro dell’Economia dall’altro, mentre premevano su Berlusconi perché si decidesse una volta per tutte a mettere in riga il riluttante Tremonti, non amato neppure dall’ala liberale del Pdl, autorevolmente rappresentata da Antonio Martino, tenuto inspiegabilmente fuori dai giochi governativi. Ma era soprattutto la mancanza di democrazia interna a far “soffrire” la componente (non tutta, a dire la verità) degli ex-An, che sentivano di contare ancor meno di quel trenta per cento di effettiva presenza nel partito, stabilito al momento della stipula del “patto” elettorale. Gianfranco Fini, per quanto apparentemente distaccato, svolgeva egregiamente le funzioni di presidente della Camera, ma non mancava di “sorvegliare” l’azionista di maggioranza, rendendosi conto peraltro di quel che già sapeva e cioè che Berlusconi, da “monarca assoluto”, difficilmente avrebbe consentito il dispiegarsi nel partito di un autentico dibattito politico al fine di rafforzare lo stesso Pdl e dargli una funzione al di là dell’effimero cartello elettorale che in realtà rappresentava.


Introduzione

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Se alla rottura non si arrivò subito, fu grazie alla crisi del Pd, davvero terremotato dall’esito elettorale, incapace di trovare una sua linea e di riprogettarsi in vista di nuovi traguardi. Di lì a poco, a riprova dell’ingovernabilità del partito, Walter Veltroni lasciò la segreteria. Che non si trattasse di una crisi passeggera, il Pd la prova la ebbe un anno dopo, nel 2009, alle elezioni europee, quando bissò l’insuccesso delle politiche, ma fu in buona compagnia poiché in tutta Europa venne avvertita una “sofferenza” da parte delle forze di sinistra, incapaci di reagire alla crisi economica che si andava manifestando e di dare risposte al disagio sociale crescente, oltre che ai problemi posti dall’immigrazione. A parte qualche esigua compagine, la sinistra radicale in particolare sparì addirittura dalla geografia politica del Vecchio Continente, mentre quella più moderata, riformista, non stava molto meglio. I segnali più evidenti furono le batoste rimediate da José Rodriguez Zapatero, da Martine Aubry, da Gordon Brown, da Franz Müntefering. Che la “gauche plurielle”, la Izquierda del Psoe, il New labour, i socialdemocratici tedeschi, formazioni che soltanto poco tempo prima aspiravano a dare il “tono” alla politica europea, non godessero di buona salute era noto. Ma che la loro caduta seguisse quella dei compagni separati, in maniera tanto rovinosa, nessun politologo l’aveva ipotizzato. La sinistra “legale”, insomma, pagava l’incapacità di fronteggiare la crisi economica e finanziaria, mentre quella “rivoluzionaria” ed antagonista era vittima di un anacronistico eccesso di ideologismo che la portava a frammentarsi, in Italia come altrove. Un suicidio collettivo, insomma, che non contagiò il Pasok greco, i socialisti danesi e svedesi più per incapacità degli avversari moderati che per loro bravura, mentre Daniel Cohn-Bendit, prevedendo la catastrofe, s’era inventato in Francia un partito ecologista intelligente e spregiudicato che sottrasse molti voti ai socialisti. Insomma, alle elezioni europee, che evidenziarono un malessere inimmaginabile, si concretizzò la disfatta delle for-


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ze di sinistra, connessa con l’altissima astensione a cui, chi l’avrebbe detto, mise una pezza proprio l’Italia, dimostrando un maggior senso di civismo politico rispetto ad altri Paesi generalmente additati come esempi da seguire: il 43% dei votanti su circa quattrocento milioni di aventi diritto non fu esaltante e le formazioni di sinistra, moderate o meno, che avevano dominato nell’ultimo decennio non furono capaci di infondere quel tanto di europeismo nell’elettorato in grado di creare i presupposti per un’integrazione non retorica, ma reale. Un “segnale” che non venne preso in considerazione o, perlomeno, fu sottovalutato, neppure immaginando che l’allontanamento dall’Europa sarebbe cresciuto negli anni successivi a dismisura. L’epidemia anti-socialista, insomma, si era diffusa con la rapidità di un contagio: virus “isolato” che rivelava la disaffezione da parte dei cittadini europei rispetto ad una costruzione politica continentale senz’anima, burocratica, lontana dai loro problemi a cui la sinistra non aveva saputo opporsi, anzi si era adeguata come e più dei liberali. In alcuni casi, il governo laburista e quello spagnolo avevano dimostrato, quantomeno nelle intenzioni, di essere più liberisti della Thatcher e di Reagan, e, in tempi di recessione, la circostanza non poteva essere apprezzata dagli elettori di riferimento. Ma anche sulle politiche dell’immigrazione e dell’ordine pubblico la debolezza dei socialisti si rivelava sconcertante, così come sconcertante appariva l’approccio alle tematiche climatiche ed ai problemi economici ad esse connessi. Cohn-Bendit ebbe successo perché era riuscito a guardare più avanti dei suoi ex compagni ed aveva provato a dare qualche risposta agli interrogativi della “decrescita”. Tutto questo, naturalmente, e con evidenza, risultava totalmente estraneo al Partito democratico preso dalle sue contraddizioni interne. Dario Franceschini, il giovane ferrarese che mai avrebbe immaginato di uscire da una sacrestia democristiana per infilarsi tra le rovine post-comuniste, succeduto a Veltroni si era illuso di aver vita facile, agevolato dai


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guai giudiziari di Berlusconi connessi alla sua vita privata e culminati nell’affaire Ruby. E l’Eldorado gli era sembrato a portata di mano poiché non considerava che il nostro Paese fortunatamente è ancora immune da certi pruriti utilizzati a fini politici. La conclusione fu drammatica: perse malamente, ma non gli mancò lo spirito per esultare a fronte del 2% perduto da Berlusconi, che pur mise nove punti di distanza tra il Pdl ed il Pd. La crisi dei democrat non era neppure paragonabile alle crisi citate degli altri partiti di sinistra o di centrosinistra europei. Queste erano “governabili”; la prima era strutturale e seguiva altre sconfitte a dimostrazione che la “fusione a freddo” non era riuscita. Purtroppo, di lì a poco, se ne sarebbe reso conto anche il Pdl le cui fortune, per lo stesso motivo, sarebbero presto precipitate nella polvere. Insomma, il malato bipolarismo italiano era andato aggravandosi di giorno in giorno. Come se non bastasse la sua gracile costituzione, su di esso si esercitavano con un accanimento sorprendente sempre nuove “malattie” che lo mettevano a dura prova. Ci si chiedeva quanto avrebbe potuto resistere. Per molti era già moribondo, in fin di vita. E non erano lontani dal vero quanti sostenevano che non si sarebbe più ripreso: tanto valeva, allora, pensare alla sua eredità. Problema complicato, come tutte le questioni di successione, posto che non era chiaro il quadro degli aventi titolo i quali, comunque, si preparavano, come potevano, all’inevitabile implosione del sistema partitico, che non era riuscito a darsi una struttura tale da reggere alla crisi della politica il cui acme si pensava fosse stato raggiunto con la distruzione delle vecchie formazioni travolte da Tangentopoli. In questi ultimi anni abbiamo assistito, paradossalmente, proprio mentre si verificava, o almeno si tentava, la semplificazione del sistema rappresentativo, al progressivo scadimento della qualità della politica. Ed i nuovi soggetti, il Partito democratico ed il Popolo della libertà, forse per l’impronta


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oligarchica che li ha caratterizzati fin dalla loro costituzione, non sono riusciti a colmare le lacune lamentate e a rispondere ai bisogni di partecipazione dei cittadini, tanto militanti che elettori. Mentre, sul versante del centrosinistra, il Pd dimostrava vistosamente i suoi limiti aggregativi evidenziati sia alle elezioni politiche che in quelle europee ed amministrative, sul versante opposto, nel composito centrodestra, si manifestarono inquietudini e i dirigenti commisero un colossale errore a sottovalutarle, per di più non presero in seria considerazione la nascita, da una sua costola, di un possibile Partito del Sud animato da parlamentari che, di lì a poco, avrebbero dato vita a diverse formazioni meridionaliste, prime avvisaglie della spaccatura del partito sia in funzione anti-Lega e sia come dimostrazione che la “questione meridionale” non era ancora riuscita a diventare questione nazionale. Da qui lo scoramento prima, la delusione poi, e infine la rabbia dei “portatori di voti” al Pdl sentitisi abbandonati. Le convulsioni politiche della sinistra e l’avanzare della crisi economica ebbero l’effetto di nascondere un po’ ciò che stava mettendo in serio pericolo la tenuta del centrodestra. Le frizioni del governo con il Vaticano, le scelte sulla bioetica, le questioni legate all’immigrazione, i rapporti con la Lega, le possibilità di aperture all’Udc creavano dissensi nel partito di maggioranza dove, oltretutto, si assisteva impotenti, alle personali “guerre” scatenate dal presidente del Consiglio, che finivano per concentrare tutte le risorse polemiche della maggioranza nella sua difesa o, come appariva, negli imbarazzati silenzi di molti dei suoi uomini di punta. Tra la fine del 2009 e gli inizi del 2010, nel Pdl c’era un’atmosfera di attesa, si aspettava qualcosa che doveva accadere: dopo soli sei mesi dalla nascita, il partito era già in affanno per il semplice fatto che non si era dotato, nella fase costituente e neppure dopo, di una strategia a lungo termine. Tutti si chiedevano, perfino i più fedeli berlusconiani, che fine avrebbe fatto il soggetto che sosteneva di vo-


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ler rafforzare il bipolarismo e, addirittura, aprire la strada al bipartitismo. Il partito del Cavaliere e di Fini avrebbe dovuto, se si fosse impegnato in una seria riflessione tutt’altro che teorica, legare in una nuova sintesi le culture in esso trasfuse e che per un lungo tempo si erano fronteggiate. E, opportunamente, si sarebbe dovuto qualificare come strumento di una nuova laicità “adulta” tale da comprendere le istanze religiose, come in altri Paesi europei, a cominciare dalla Francia dove Sarkozy aveva risolto prioritariamente questo problema. Ma erano anche i personalismi e le diffidenze, derivanti dalla rilevata debolezza programmatica, a “frenare” il Pdl nelle cui riunioni dei “vertici” la componente di Alleanza nazionale contava sempre meno. Fino a quando il Pdl avrebbe potuto resistere ai conflitti interni che si inasprivano con il passare del tempo? Incontravo dirigenti, deputati, senatori, simpatizzanti che non sapevano spiegarsi ciò che stava accadendo. I segni di decomposizione che si erano manifestati subito dopo la sua formale costituzione, alla fine di marzo, si erano paurosamente approfonditi. Ogni giorno si apriva con una polemica e si chiudeva con una finta ricomposizione. I giornali ci sguazzavano. Soprattutto quelli che dovevano fiancheggiare il centrodestra facevano di tutto per mettere zizzania. Il presidente del Consiglio, malamente consigliato, non sapeva se alzare il tiro, far volare le colombe o non fare nulla, mentre le sue preoccupazioni primarie si spostavano sulle sue questioni giudiziarie inducendolo a difendersi come poteva nei processi e curando meno il partito totalmente nelle mani dei coordinatori nazionali e regionali che, manco a dirlo, quotidianamente si esercitavano nell’arte della guerra, non certo finalizzata a stabilire una linea politica ma soltanto a difendere logiche di potere interno. Chi lo avrebbe detto soltanto un anno prima? Le cose si erano messe male fin da subito, da quando il Cavaliere, illudendosi di sottrarsi ai processi che lo riguar-


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davano, si era affidato ad una norma bislacca, scritta per di più male, che prevedeva l’immunità per le alte cariche dello Stato, definita “illegittima” dalla Corte costituzionale; aveva messo in piedi un partito che non era un partito, ingoiando Alleanza nazionale che non fece nulla per non farsi ingoiare, credendo così di poter disporre di una larga maggioranza di fronte alla quale anche la Lega si sarebbe dovuta piegare; aveva immaginato di rabbonire il Carroccio dandogli le briciole del potere, ma senza fare i conti con l’ingordigia di un partito locale che riteneva di avere nelle sue mani tutta l’Italia settentrionale; aveva fatto sperare i “sudisti” in una politica meridionalistica o, almeno, in una politica meno sbilanciata verso gli interessi nordisti e si era trovato alle prese con un partito del Sud che ce l’aveva praticamente con tutti; riteneva Tremonti, sotto la cui tutela aveva sostanzialmente messo il governo, più affidabile di tutti gli altri suoi ministri, salvo “scoprirlo” insidioso politicamente e petulante al punto di essersi inimicato quasi tutto il partito, spalleggiato però dalla Lega ed invincibile al punto che se avesse voluto andarsene, avrebbe trascinato nella sua rovina tutto l’esecutivo, tanto era il potere che aveva nelle mani. A tacer del resto, rimaneva il piccolo particolare che il giornale di famiglia del presidente del Consiglio non passava giorno senza esercitarsi al tiro al piccione contro Fini e Napolitano, le uniche due sponde che il Cavaliere avrebbe dovuto coltivare con dedizione e pazienza certosina poiché potevano garantirgli una “vicinanza” che lo avrebbe fatto sentire meno solo. In questo contesto avviene la rottura. Quando i due fondatori e leader di un partito politico sono ai ferri corti, buon senso vorrebbe che se ne prendesse atto, innanzitutto da parte degli stessi e poi da coloro che a vario titolo sono interessati, e se ne traessero le conseguenze. Nel caso dell’infinita disputa tra Berlusconi e Fini la conclusione non poteva che essere la separazione consensuale con relativa dichiarazione di incompatibilità a soggiornare sotto lo stesso tetto, senza per questo buttare a mare l’alleanza. Un conto, infatti, è restare forzata-


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mente in un partito unico nel quale l’aria sembra diventata irrespirabile, un altro è ribadire le ragioni dell’intesa e farle vivere in un contesto possibilmente più sereno, riassumendo in un modello federale (auspicabilmente) il rapporto tra la vecchia Forza Italia e la vecchia Alleanza nazionale. Non sarebbe stato assolutamente scandaloso ammettere che il matrimonio non aveva funzionato. Mentre era sempre più insopportabile, per gli elettori del centrodestra in primo luogo, continuare a far finta di niente e ad andare avanti (per modo di dire) “a strappi”, guardandosi in cagnesco, litigando pubblicamente e privatamente ora sulla giustizia, ora sul parlamentarismo, ora sulla concezione stessa del partito. Il bipolarismo coatto non funziona da nessuna parte; figuriamoci il bipartitismo malpancista messo in piedi per ragioni che ancora ci sfuggono, posto che nessuno ha spiegato perché mai Alleanza nazionale si è dovuta sciogliere in un indistinto contenitore rinunciando alla sua identità, alla sua storia, alla sua visione della politica in cambio sostanzialmente del nulla, dell’indistinto, dell’apparato dominato da una sola figura carismatica che non ammette competizioni al proprio interno. Le ragioni politiciste addotte per giustificare l’operazione non ci convinsero né ci convincono oggi, ma ci rafforzano nel ritenere profondamente sbagliato l’approccio alla costruzione di un partito unitario attraverso la scorciatoia della “fusione a freddo”. Intendiamoci, sarebbe stato magnifico, per la democrazia italiana, se An e Fi avessero superato le proprie identità creandone una diversa e più grande, frutto di culture politiche distinte affinatesi nel corso del tempo. Ma non è andata così. Purtroppo. E così non è andata neanche dalla parte opposta, nel centrosinistra logoro e cadente. Le dinamiche che si sono dispiegate nel Pdl, dall’annuncio del predellino al congresso di fondazione, sono sempre state caratterizzate da ambiguità, contraddizioni, diffidenze. Le incomprensioni sono diventate fratture insanabili, le frizioni interne si sono acuite fino a trasformarsi in inimicizie


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plateali, i solchi nel terreno dei problemi cruciali (immigrazione, testamento biologico, alleanze) si sono approfonditi. Sarebbe stato molto più salutare, approssimandosi la primavera del 2010, salutarsi e mettere fine ad un logoramento che, avremmo constatato, insuperabile. Il monolitismo politico, come abbiamo appurato, non paga. Alla lunga crea disagi. Non si è stati capaci, tanto a destra quanto a sinistra, di costruire in questi ultimi anni soggettività politiche autenticamente nuove in grado di attivare i presupposti di un bipolarismo non soltanto funzionale a far fuori i piccoli partiti dal Parlamento ma impegnato ad incanalare consensi diffusi attorno a idee e progetti alternativi. Dunque, meglio un taglio radicale. Certo, non era facile rinunciare ad un progetto, per quanto discutibile ma comunque indubbiamente suggestivo, come il Pdl. Tuttavia in presenza di una crisi dalla quale non si vedeva via d’uscita, probabilmente sarebbe stato meglio ripensare il tutto e risparmiare sia alla classe dirigente che agli elettori supplementi di angosce. Immaginare, infatti, di trascinare l’esperimento verso un incerto approdo per poi contemplarne l’impotenza propositiva si è rivelato senz’altro un danno recato al centrodestra stesso che, a differenza del Pdl, era ed è una realtà nell’Italia profonda, bisognosa di essere interpretata nelle sue istanze morali, culturali e politiche. La guerra divenne totale dopo il «Che fai, mi cacci?» rivolto da Fini a Berlusconi. Il presidente della Camera, oltretutto “costretto” all’uscita dal partito anche perché abbandonato da molti dei suoi che nell’ufficio di presidenza non lo difesero minimamente, diede vita ad un nuovo movimento e non ci furono più margini di ricomposizione. “Futuro e libertà” segnò l’implosione del Pdl. Contemporaneamente gli altri partiti, in particolare il Pd e l’Udc, cercarono di monetizzare la crisi del centrodestra, ma con ben scarsi risultati. Ad aggravare il quadro politico, ci si mise l’attivismo di Fini. E la rottura del Pdl innescò una crisi istituzionale gravis-


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sima. Poteva, infatti, il presidente della Camera dei deputati chiedere l’apertura di una crisi extraparlamentare o promuovere una mozione di sfiducia nei confronti del presidente del Consiglio? Poteva, occupando lo scranno più alto di Montecitorio, organizzare una scissione parlamentare dal partito in cui era stato eletto e del quale era stato addirittura cofondatore continuando a restare al suo posto, con tanti saluti a quel super partes a cui aveva improntato il suo discorso d’insediamento? Poteva il garante del corretto funzionamento della dialettica parlamentare dichiarare defunto il partito (e dunque il gruppo) più numeroso dell’assemblea che guidava, senza che ciò costituisse pregiudizio al buon funzionamento dei lavori d’Aula? Potevano ministri e sottosegretari che a lui facevano riferimento rimettere i loro mandati nelle sue mani di capo partito, ma anche di presidente della Camera, aprendo una ferita nei rapporti con il capo dello Stato che li aveva nominati su proposta del premier? Domande che rimasero senza risposte. E la sinistra, più disastrata che mai, sempre alla ricerca dell’antagonista giusto per abbattere Berlusconi, non esitò ad applaudire questo sfregio arrecato alla legalità repubblicana. Alla fine della breve parabola del Pdl, che ha pregiudicato anche gli esiti del bipolarismo italiano mai realmente “maturato”, si può concludere che questo simil-partito, nato male e finito peggio, non ha saputo assumere le connotazioni di una vera e propria formazione politica, perché minata dai personalismi esasperati, dal correntismo mascherato da fondazioni, associazioni e club di vario genere, incurante del necessario sviluppo culturale che avrebbe potuto precisarne l’identità intorno alla quale procedere all’elaborazione di idee ed al reclutamento di una classe dirigente diffusa e animata da spirito militante. Se è vero, come con chiarezza ha scritto Chiara Moroni in Genesi e storia del Popolo della Libertà (Rubbettino, 2012) – la migliore diagnosi di un progetto incompiuto – che il fallimento del partito è da attribuire «all’incapacità di realizzare procedure decisionali e deliberative


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interne effettivamente democratiche», è altrettanto vero che è mancato, tanto nella componente forzista quanto in quella aennina, lo slancio per pensare ad un’aggregazione votata ad una effettiva ed ambiziosa “rivoluzione conservatrice”. Perciò, come ha osservato sempre la Moroni: «Il Popolo della Libertà si è rivelato essere, quindi, una copia organizzativa di Forza Italia, guidata da una visione di brevissimo periodo, legata ad un leader che oggi subisce un deficit di legittimazione e di popolarità, incapace di attivare effettive procedure di cambiamento interno e sapendo prospettare – sempre sotto l’egida del leader Berlusconi – solo un ennesimo restyling organizzativo, nuovi ruoli dirigenziali ma con effettiva poca autonomia decisionale, e forse una futura rifondazione attraverso l’annuncio della Costituente popolare». Il ritorno a Forza Italia, peraltro monco, di una parte consistente del gruppo dirigente del Pdl e la scomparsa tra le nebbie della Costituente vagheggiata da Alfano all’atto del suo insediamento come segretario del partito, sono le prove evidenti della resa del “partito unico del centrodestra” di fronte alle difficoltà di evolvere verso una forma-partito che, abbandonato il politicismo asfissiante, puntasse ad aprire una stagione di effettivo rinnovamento culturale e civile in Italia. Le cose, come abbiamo visto, sono andate diversamente. La legislatura poteva considerarsi finita dopo l’insanabile dissidio tra Fini e Berlusconi. Vivacchiò ancora un anno, poi arrivò Monti. E Napolitano, con l’espediente del “governo tecnico”, la portò quasi alla fine, stancamente, sotto l’incalzare di una crisi economica che neppure i professori al governo riuscirono a domare. Poi le elezioni anticipate hanno evidenziato tutti i limiti non soltanto di una legge elettorale che non ha garantito la governabilità, ma anche la crisi del bipolarismo che ci si vuol far credere sia rinato grazie ad un’altra legge elettorale congegnata ad uso e consumo di Berlusconi e di Renzi. In realtà la politica italiana produce naufragi, più o meno allegri visto come affronta l’endemica crisi del sistema, rico-


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minciando sempre daccapo. Sono passati vent’anni da quando cominciammo a sperare in una nuova Italia. Ci ritroviamo alle prese con una ben peggiore. Il centrodestra, così come lo avevamo immaginato, è un’idea sbiadita; il centrosinistra non è migliore: si è suicidato. La scena è tutta dei saltimbanchi mandati in Parlamento da chi proprio non ce la fa ad astenersi. Riforme? E chi è in grado di promuoverle? Occorrerebbe un’Assemblea costituente, ma finora è sembrata un’idea troppo ardita per coltivarla. Tuttavia qualcosa bisogna pur fare perché dopo il naufragio si riprenda a costruire. Diceva Guglielmo d’Orange, detto il Taciturno: «Non c’è bisogno di sperare per intraprendere, né di riuscire per perseverare». Visti i tempi, il motto non è che una provocazione.



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PRIMO CAPITOLO La bizzarra nascita del Pdl tra incognite e speranze

Il partito nuovo nasce sul predellino di un’automobile, alle ore 18 del 18 novembre 2007 a Milano, in Piazza San Babila. Silvio Berlusconi lo annuncia alla folla che lo circonda. Annuncio a sorpresa, che determinò un’accelerazione nella confluenza in una stessa lista di Forza Italia e di Alleanza Nazionale in vista delle elezioni di aprile 2008. Un anno dopo, a fine marzo, i due partiti si sciolsero e diedero vita al Popolo della libertà, il partito unico del centrodestra al quale aderirono altri soggetti minori. Pier Ferdinando Casini non salì sul predellino e si incamminò lungo la via terzista che lo avrebbe portato tra il 2011 e il 2012 al tentativo – fallito – di costruire il Terzo polo, dopo la rottura di Fini con Berlusconi e l’avvento sulla scena politica di Mario Monti e del governo dei tecnici. Anche Umberto Bossi non ne volle sapere del Pdl, preferì tenersi libere le mani (politiche) cercando, da alleato, di conquistare la golden share nel quarto governo Berlusconi. Solo tre anni dopo, il 5 aprile 2012, il Senatur lascia il timone della Lega e si dimette dopo le inchieste della procura di Milano sulla gestione dei fondi del partito. Finisce un’era. Nella fase di avvio (27 febbraio 2008), il Pdl si costituì come aggregazione elettorale e raccolse il 37,4 per cento dei consensi risultando il partito più votato, per poi formarsi come partito vero e proprio. Vita breve e percorso accidentato per un progetto politico destinato, nelle intenzioni originarie, a modernizzare il Paese, dare finalmente consistenza alla “rivoluzione liberale del ‘94”, consolidare il modello bipolare e la democrazia dell’alternanza, secondo lo schema delle più avanzate democrazie occidentali. Molti di quegli annunci rimasero appesi al predellino di un’auto.


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Le anime compatibili del Pdl 19 aprile 2008

Il bipolarismo che i partiti non erano riusciti a costruire in quindici anni, affermatosi grazie al voto degli italiani, adesso va consolidato ed organizzato. Compito al quale dovranno necessariamente dedicarsi le forze politiche se non vorranno vedere vanificato il risultato scaturito dalle urne. Il Pd, indubbiamente, è più avanti della lista-coalizione del Pdl, ma è anche vero che rimettere insieme i cocci nel loft veltroniano sarà piuttosto faticoso e lungo. Il centrodestra, con il vento a favore, ha invece la possibilità di dedicarsi sia alla costruzione della squadra e del programma di governo che alle strutture del soggetto unitario il quale, a questo punto, dovrà necessariamente nascere sul presupposto che sono gli elettori a richiederlo: deluderli potrebbe innescare forme di disaffezione dalle conseguenze imprevedibili. A differenza del Pd, prodotto di una “fusione a freddo”, e freddo sembra essere rimasto nonostante la passione di qualche suo dirigente, il Pdl non ha bisogno di un laboratorio nel quale strutturarsi come un vero e proprio partito politico per il semplice fatto che la sua natura, la sua essenza, i suoi connotati sono quelli che i suoi elettori esprimono, richiamati tante volte quando si è parlato di partito unico del centrodestra. Si riassumono in un complesso valoriale e culturale proprio dei ceti più dinamici e produttivi del Paese, legati alla tradizione storico-culturale italiana, ma nello stesso tempo proiettati in una visione modernizzatrice delle istituzioni, dell’economia, della società nel suo complesso. Il soggetto nasce dal basso, dunque, e non dalla necessità degli oligarchi di mettere insieme spezzoni di partiti per tentare di sopravvivere. E, per di più, non è detto che non debba avere un’anima. A quest’ultimo riguardo, sarà interessante osservare come coloro i quali si riconoscono nel Pdl siano portatori di istanze diverse, ma non conflittuali tra di esse. Perciò sarebbe un errore continuare a considerare il nuovo soggetto chiama-


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to a guidare il Paese come un assemblaggio occasionale di identità costrette a convivere per pura convenienza. È vero esattamente l’opposto. Dalla fusione di identità, culture, esperienze è venuto fuori, e dovrebbe precisarsi, un amalgama tale da costituire una nuova identità. Dunque, sarà indispensabile (ma non difficile) abituarci a considerare il Pdl come un soggetto completamente diverso da una banale sommatoria di componenti. I risvolti immediatamente politici di tutto ciò sono evidenti fin nell’allestimento della compagine governativa. Sarebbe sbagliato, infatti, se si procedesse per quote, diciamo così, rappresentative a seconda della presunta (visto che non ci sono dati oggettivi di misurazione e comparazione) consistenza delle forze che si sono ritrovate nel Pdl. La “pesatura” e la rappresentatività dei soggetti della lista-coalizione non s’addice in questa fase alla costruzione di un governo efficiente, coeso, forte di competenze perfino eccentriche rispetto allo stesso Pdl: qualcuno ha evocato il metodo Sarkozy, niente di scandaloso poiché si tratta di un metodo universale, a condizione che le politiche che esprimerà siano coerenti con un progetto del quale il garante non può che essere il presidente del Consiglio. Un bipolarismo maturo è quello che fa convivere due grandi partiti in una concezione della democrazia dell’alternanza nella quale non sono previste fibrillazioni e neppure periodiche crisi di rigetto. Il presupposto del funzionamento di un tale sistema, come si sa, è la reciproca accettazione che si concretizza al più alto livello quando è necessario compiere scelte strategiche per il Paese o quando si devono riformare istituzioni importanti. Di fronte a prospettive del genere, maggioranza ed opposizione sono “costrette” a dialogare alla ricerca del “bene comune”, fondamento della politica dimenticato, purtroppo, nella nostra fragile e litigiosa democrazia. Tutto ciò non ha niente a che vedere con la “spartizione” delle cariche istituzionali evocata da Veltroni nei giorni scorsi. Il leader del Pd probabilmente ha dimenticato che, privo di una consistente


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maggioranza parlamentare ed addirittura minoritario elettoralmente, il centrosinistra al debutto della scorsa legislatura si prese tutto quello che si poteva prendere, senza tenere minimamente conto dello stato delle cose. Adesso cosa dovrebbe fare il Pdl, che ha maggioranze schiaccianti al Senato ed alla Camera, concedere ai terremotati del loft la seconda o la terza carica istituzionale perché così vorrebbe il bon ton? La Democrazia cristiana per decenni se l’è tenute entrambe e nessuno protestava poiché i numeri erano dalla sua parte e chiunque riconosceva il suo buon diritto ad esprimere quasi tutte le più alte cariche dello Stato. Veltroni dovrebbe sapere che non c’entra niente con il bipolarismo e con la democrazia compiuta quel che lui reclama per dimostrare la precaria esistenza in vita del suo partito, già alle prese con il trucco dell’Italia dei Valori che si rifiuta di riconoscere il patto che prevedeva il suo scioglimento nel Pd. In una democrazia bipolare non sono negoziabili né le conseguenze dei risultati elettorali acquisiti né le promesse fatte agli elettori. Nel loft, probabilmente, ristagna ancora l’odore di certe pratiche partitocratiche che dà il senso di un’operazione non ancora conclusa, quella del partito unico di centrosinistra appunto. Davanti a noi ci sono cinque anni di vita politica che dovrebbero essere utilizzati dai maggiori partiti per strutturarsi al meglio, radicarsi sul territorio, dialogare sulle riforme, far ripartire l’Italia. Il Pdl ha, naturalmente, qualche responsabilità in più, ma non commetta l’errore di esaurire la sua funzione nell’azione di governo. Il bipolarismo è irreversibile per tutti, figuriamoci per chi l’ha inventato e voluto resistendo al richiamo dolciastro del proporzionalismo nel quale ci sarebbe stata gloria per tutti, come è facile capire, ma non per l’Italia. Gli elettori l’hanno percepito benissimo, a destra come a sinistra. Ora, chi ritiene che non si può e non si deve tornare indietro si regoli coerentemente.


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L’obiettivo del Pdl non è la “fusione a freddo” 11 maggio 2008

Il processo costituente del partito unico del centrodestra comincia a tutti gli effetti oggi, con le dimissioni di Gianfranco Fini da presidente di Alleanza nazionale e l’avvio di una fase di transizione che dovrà culminare nella nascita, prevista per gli inizi del prossimo anno, del nuovo soggetto politico. Forma, strutture, programma ed idee sono da mettere a punto, non da inventare dal nulla, posto che da tempo ormai si ragiona sulla consistenza del partito che dovrà incarnare i valori dell’Italia profonda e renderli permanenti nel panorama politico del nostro Paese. Il Popolo della libertà non potrà essere una sommatoria di movimenti, ma lo strumento di una visione del mondo dotata di una sua organizzazione fortemente e capillarmente radicata sul territorio. Resta da definirne l’identità: lavoro non facile, ma tutt’altro che velleitario. Ed a questo dovranno volgersi le intelligenze dei leader e dei gregari, dei dirigenti e dei militanti e perfino dei semplici simpatizzanti. La fisionomia di un partito politico è affare tutt’altro che irrilevante quando l’ambizione di questo voglia misurarsi con le grandi sfide del nostro tempo. Perciò immaginare la preservazione delle vecchie identità, la cristallizzazione delle stesse o la gelosa custodia delle differenze potrebbe rivelarsi fatale alla riuscita del progetto al quale Berlusconi e Fini guardano da qualche anno. Le identità, insomma, per quanto certamente nobili, sono fatte per essere superate in una nuova più grande identità. La contaminazione tra esperienze politiche, derivazioni culturali, sensibilità sociali è il dato che definisce positivamente la modernizzazione politica dalla quale non si può e non si deve prescindere immaginando una formazione capace di interpretare il rinnovamento restando fedele a determinati principi e ad una tradizione storica e civile che ha i caratteri dell’italianità, dell’europeismo e del cristianesimo.


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Insomma, guardando a quanto è accaduto nel centrosinistra, vale a dire alla costruzione del Partito democratico, il centrodestra è obbligato a fare l’opposto, cioè mettere insieme le varie anime che lo popolano in una innovativa costruzione che sia federale per ciò che concerne l’organizzazione sul territorio, popolare per quanto attiene alle aspirazioni rappresentative, conservatrice per ciò che riguarda i valori a cui si ispira. È possibile immaginare un partito con queste caratteristiche? Francamente non vedo alternative. E soprattutto mi è chiara la dimensione della “scommessa” che con il soggetto unitario viene portata all’attenzione degli italiani: si riuscirà, finalmente, a dare, per questa via, stabilità al bipolarismo ed alla democrazia dell’alternanza. Tanto basta perché si rompano gli indugi e si proceda speditamente verso il rinnovamento del sistema politico. Alleanza nazionale ha cominciato. Gli altri si affrettino.

È l’ora del partito unico 7 giugno 2008

Do you remember Pdl? Il partito unico del centrodestra, intendo, non la lista che ha vinto le elezioni. È lecito supporre che qualcuno se ne sia dimenticato. Probabilmente proprio chi non avrebbe dovuto. Pur riconoscendogli le attenuanti generiche, tuttavia non possiamo non biasimare che il soggetto unitario sia finito tra le anticaglie della politica degli annunci. Ci si attendeva ben altra dinamicità che nessuna emergenza post-elettorale avrebbe potuto o dovuto frenare poiché la costituzione del Popolo della libertà in movimento organizzato dovrebbe marciare di pari passo con le molteplici e complicate vicende legate alla gestione della macchina governativa, alle incombenze parlamentari, alla formazione degli organigrammi dei gruppi. Sono passati mesi e più che una


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coalizione mascherata, come la situazione imponeva, altro non è stato fatto. C’è chi dice che non sarebbe più all’ordine del giorno il “sogno” del partito unico: dopotutto lo scopo, si aggiunge, è stato conseguito. E allora a che cosa servirebbe? I gruppi parlamentari si sono uniti. La macchina, per quanto in affanno, funziona. Qual è il motivo per cui ci si dovrebbe affrettare a dare vita ad un soggetto organico in grado di superare lo stesso schema del centrodestra? Si congettura di frenate, raffreddamenti, ostilità addirittura da parte di questo o quell’esponente del Pdl. Berlusconi non si pronuncia. Lo comprendiamo: ha ben altro a cui pensare. Ma anche noi, che pur non fummo entusiasti del “discorso del predellino” e non glielo mandammo a dire al Cavaliere che non era quello il modo in cui poteva nascere un partito dotato di grandi ambizioni, quando abbiamo preso contentezza della necessaria accelerazione impressa al cambiamento del sistema partitico dal Pd e dalla sua timida discesa in campo in solitaria, non ci siamo sottratti, dopo aver sostenuto con pochi altri, almeno dal 2003, l’indispensabile “fusionismo” (non certo a freddo) nell’ambito di quella che era la Casa delle libertà, conviti che non c’era più tempo da perdere. Gli elettori hanno apprezzato. Ma il partito unitario non basta farlo nelle urne. C’è bisogno di altro. O qualcuno pensa davvero che si possano riproporre vecchie divisioni o, nella migliore delle ipotesi, un altro listone in viste delle europee dell’anno prossimo senza aver definiti valori, progetto, schema organizzativo, organigramma e, quel che più conta, una politica nuova frutto di un’aggregazione ormai acquisita? S’illude chi ritiene di poter rimandare alle calende greche la costruzione di una formazione che innanzitutto sia il prodotto del superamento delle identità dei “soci” che ritengono di partecipare all’operazione in una più grande identità. C’è un oceano, per chi non lo avesse capito, da solcare prima di arrivare all’approdo immaginato.


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E nel frattempo, sia detto senza perifrasi, cresce il disagio in tanti dirigenti periferici di Forza Italia e di Alleanza nazionale, oltre che in tantissimi parlamentari i quali vedono marginalizzato il loro ruolo dopo aver sbandierato ai quattro venti che il processo costituente era alle porte. Se davvero si ritiene che il sistema partitico acquisti l’efficienza sperata, è indispensabile che il partito del Popolo della libertà lo si faccia davvero, s’individuino soggetti anche al di fuori delle nomenclature e delle oligarchie in grado di provvedere allo scopo, le si metta in condizione di elaborare un progetto coerente soprattutto sotto il profilo culturale e non si risparmi l’ambizione di volersi candidare alla guida dei processi socio-economici al cui confronto la politichetta nostrana è a dir poco patetica. Il partito unico è il solo evento “rivoluzionario” possibile. Non lo si annunci più, per favore. Lo si faccia.

Di fronte allo sfascio del Pd che fa il Pdl? 11 giugno 2008

Lo sfascio del Pd, la frammentazione e l’irrilevanza della sinistra radicale, il massimalismo impolitico e volgare del dipietrismo, in altre parole, l’inconsistenza dell’opposizione impongono al Pdl l’assunzione di maggiori responsabilità nella guida e nella ricostruzione del Paese. Insomma, il centrodestra è “condannato” ad una lunga corsa in solitaria, privo dello stimolo della coalizione avversaria e del suo corretto controllo sull’attività di governo. È un’anomalia, ma non ci si può far nulla a meno che il Pd non cambi radicalmente registro e rompa i ponti con l’universo giustizialista e girotondino. Se il partito di Veltroni rinuncia ad inseguire il miraggio di innescare nella disputa politica dosi massicce di radicalismo e riprende la via del riformismo possibile, magari cominciando con l’accettare lo statuto dell’opposizione propo-


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stogli dalla maggioranza, il bipolarismo può ancora avere un avvenire. Al contrario, nonostante le prese di distanza dal dipietrismo, se nei fatti continua ad assecondare le pulsioni più devastanti insinuatesi nelle istituzioni politiche, ancorché assolutamente minoritarie nella società civile, sceglierà la solitudine e, dunque, l’inevitabile, progressiva estinzione. Comunque vada, in attesa di sviluppi che possano essere minimamente confortanti nel centrosinistra, il Pdl ha il dovere di onorare due impegni assunti con l’elettorato. Primo: governare senza alcun complesso di inferiorità, rinunciando perfino al dialogo se le condizioni non muteranno. Secondo: costituirsi in tempi ragionevolmente brevi come una vera e propria forza unitaria. Sono piani distinti, ma connessi dall’obiettivo di modernizzare il sistema politico e, soprattutto, le strutture civili e socio-economiche del Paese. Tanto meglio sarebbe se questo scopo venisse perseguito anche con il concorso delle altre forze politiche, ma nella situazione data ci sembra francamente fantascientifico. Allora, il Pdl dovrà necessariamente coinvolgere, al di fuori del logoro schema destra/sinistra, tutte le componenti dinamiche e culturalmente avanzate le cui aspettative non coincidono con il reazionarismo del centrosinistra così com’è strutturato, e con esse avviare un confronto produttivo incrociando le loro istanze, interpretandole, trasformandole in provvedimenti coerenti con le esigenze generali. Senza dimenticare il contesto nel quale si opera. Il dato economico-sociale prevalente è quello della stagnazione, come si sa. È pertanto necessario dislocare risorse dove la povertà si sta trasformando in miseria ed in quelle aree del Paese maggiormente bisognose di cure e non di assistenzialismo clientelare. Ma, prioritariamente, bisogna ridare un’anima all’Italia che tutti gli indicatori ritengono ripiegata su se stessa, in declino. La cultura, la formazione, la ricerca non possono essere trattate come eventualità da tenere retoricamente all’attenzione sapendo che poi non se ne farà niente. Il partito unico,


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del quale com’è noto si favoleggia da tempo immemorabile, finora non s’è visto. E ancora nulla s’intravede anche se i dirigenti di Forza Italia e di Alleanza nazionale stanno preparando i rispettivi congressi di scioglimento per dar vita alla nuova formazione politica. La speranza è che il cammino sia spedito e che l’operazione non si risolva nella banale confluenza in un unico contenitore che assomigli molto ad un comitato elettorale e poco o niente ad un partito propriamente detto. Se ciò accadesse sarebbe una catastrofe. Milioni di elettori, simpatizzanti, militanti delle due principali formazioni del centrodestra si sentirebbero come apolidi, privi di una patria politica con tutte le conseguenze che si possono immaginare. Un partito realmente nuovo, e non una sua pur riuscita caricatura, deve puntare sull’elaborazione di un progetto di rinascita civile incentrato su valori irrinunciabili attorno ai quali far ruotare una politica avveniristica che si occupi delle grandi questioni mondiali alle quali, inevitabilmente, afferiscono anche quelle connesse al progressivo deterioramento del tessuto sociale ed identitario europeo. L’ambizione di creare un soggetto aperto alle contaminazioni culturali ed in grado di recepire le ansie di un mondo oscillante tra spinte innovatrici e pericolose regressioni morali, dovrebbe essere il connotato della nuova formazione politica. La quale dovrebbe anche essere rigorosa nel resistere alle tentazioni inevitabili delle piccole oligarchie di egemonizzarla e duttile, nello stesso tempo, ad aprirsi alle istanze più varie dell’Italia profonda. Ci sarà chi lo giudicherà un progetto conservatore: poco male. Sono stati i conservatori, in ogni tempo, ad innovare le strutture sociali e le culture dei popoli. Disraeli, Bismarck, Crispi lo hanno testimoniato abbondantemente, come, in tempi più recenti la Thatcher e Reagan, a dimostrazione che il riformismo è una straordinaria dottrina, oltre che prassi, “rivoluzionaria”, per paradossale che possa apparire. Il resto è giacobinismo d’accatto, macelleria politica buona per show dell’orrore.


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