Dedicato a tutti quei cinni che non si sono mai persi.
Claudio Bolognini
L’A lm a n a cco d e i c i n n i
Minerva Edizioni
Claudio Bolognini L’Almanacco dei cinni Da ambarabaccicicocò a zoppo galletto, passando dal fil di ferro al lapis, mentre la Mucca Carolina osservava stupita Traduzioni dei testi in dialetto bolognese a cura di Fausto Carpani e Luigi Lepri LA GRAFIA DIALETTALE La presente grafia del dialetto bolognese è la OLM (Ortografia Lessicografica Moderna) messa a punto dai professori Luciano Canepari e Daniele Vitali, ormai usata dalla quasi totalità degli autori che pubblicano in dialetto. La descrizione completa dei segni diacritici e dei suoni corrispondenti è reperibile nel sît bulgnais ai seguenti indirizzi: www.bulgnais.com; www.bulgnais.com/grafia.html Direzione editoriale Roberto Mugavero Grafica e impaginazione Francesco Zanarini Redazione testi Valentina Zaffagnini © Archivio Walter Breveglieri Tutti i diritti sulle fotografie sono riservati. Le immagini di questo volume sono protette dalle leggi sui diritti di copyright internazionale. La loro riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo, è vietata senza il consenso del detentore del copyright. © 2009 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, vietata. ISBN 978-88-7381-290-6
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Claudio Bolognini
L’A lm a n a cco d e i c i n n i Da ambarabaccicicoco a zoppo galletto, passando dal fil di ferro al lapis, mentre la Mucca Carolina osservava stupita
Traduzioni dei testi in dialetto bolognese a cura di
Fausto Carpani e Luigi Lepri Prefazione di
Antonio Faeti Immagini storiche di
Walter Breveglieri
Minerva Edizioni
Una storia segreta di Antonio Faeti
N
on tutti possiamo avere avuto una nonna che ci preparava preziose tisane, una mamma che ci parlava di madame de Lafayette, una straordinaria
domestica perfino capace di scrivere un bel libro su di noi e di procurarci squisiti biscottini alsaziani adatti a far fiorire i ricordi perfino nella testa dello smemorato di Collegno, non tutti, dunque, siamo simili al signor Proust, quello dei sette volumi pieni di memorie. Però, come Marcel poteva contare su due “parti”, ovvero due universi, due tipi di esistenze, anche io, nel mio piccolo, ho avuto due mondi, e li ho ancora perché, se ne ho voglia, io posso andare dalla parte di via San Felice oppure dalla parte di via Orfeo, ovvero ripercorrere la strada in cui sono nato oppure quella in cui ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza. Però d’ora in avanti, quando sarò indeciso tra la parte di Swann o quella di Guermantes, io avrò comunque sempre con me il libro di Bolognini. E’ un libro così delizioso, così sognante, così colto e gentile da rammentare non solo quanti hanno elogiato la memoria, come Marcel, ma anche quanti hanno ricordato le virtù della leggerezza, come Calvino. E, nel dire che è piacevole come ben pochi testi di oggi, nell’affermare che, leggendolo, si è presi da un incantesimo ben difficile da decifrare, non si deve però sottovalutare l’importanza oggettiva che il libro davvero possiede perché è un testo indispensabile a chi intenda davvero occuparsi di storia dell’infanzia. E allora si lascia Proust per accostarsi a Bertold Brecht, al poeta che, in una sua memorabile poesia si chiedeva non i nomi dei re e dei generali, ma quelli dei cuochi e dei muratori.
Anche oggi, dopo tanti libri belli e preziosi, la storia dell’infanzia è purtroppo ancora affidata al succedersi di mode, di tendenze, di velleità, di capricci. E’ sempre giusto usare, come benissimo fa Bolognini, un raffinato “metodo indiziario” che procede con cautela, con acuto senso della misura. Brandelli di gomma, onnipresenti reperti di fil di ferro, annunci rari di una plastica di là da venire, stoffe, sensazioni, microstoria dell’igiene, paure, fantasie, condizionamenti, vocazioni: tutto rivive nelle pagine del paziente ricercatore che, restando poeta, ha voluto però darsi anche un metodo. Si tratta, qui, sempre di cogliere un vero pretesto dilatandone sempre la presenza dell’immaginario. Così una piccola ferita spinge a rammentare come ci si potesse lavare saltuariamente, la descrizione dei presupposti di una confessione fa riflettere su una sessualità che è già post-freudiana anche se rammenta il concilio di Trento. Non solo per la stupenda sonorità del nostro dialetto, fatto poeticamente rivivere da due studiosi artisti, non solo per il reperimento di tracce e di allusioni, ma per una specie di sottaciuta storia segreta che si disvela a chi possiede le chiavi di decifrazione, è poi Bologna, la protagonista autentica di questi deliziosi frammenti. Lei, con il suo mistero di luci e ombre, di piazzette, chiese, portici, mura, negozi, osterie, ha abbracciato, motivato, accolto queste grida festose, queste astuzie bambine, queste ribalderie intrise di Rito e volte a guardare il Mito. Un libro, quindi, su Bologna, ma non come quelli da falsa coscienza di chi non sa e fa finta di sapere. Un libro degno del poeta Domenico Gnoli che interroga i sepolcri dei bambini nel Foro Romano, e chiede cosa sanno di Cesari e Imperatori, ma i morti rispondono: noi amavamo solo i nostri giochi.
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Prologo
U
na volta il tempo scorreva lentamente, mica come adesso che soffia sempre il vento della fretta e della furia.
Una volta non c’erano supermercati e tanti prodotti venivano venduti sfusi, i tortellini erano preparati in casa e si mangiavano solo a Natale o in qualche speciale ricorrenza. Le donne facevano la spesa con una sporta in simil pelle nera, mentre il bottegaio annotava il conto sul famigerato quaderno dei debiti, anch’esso nero. Non si gettava nulla e tutto veniva riciclato, ma quando qualcosa non serviva più tutti dicevano di darla a Gerri, un fantomatico raccattatore di zavagli. A quel tempo c’erano pochissime automobili e al Caffè Sport si trovavano tanti omarini. I calciatori avevano sulle maglie numeri che andavano dall’uno all’undici, e alla televisione trasmettevano il primo o il secondo tempo della partita più importante. Nondimeno era il tempo dei cinni: bambini birichini, moccoloni e selvatici come il diavolo. I cinni giocavano con armi che si costruivano da soli: fucili e pistole di legno, frecce con stecchetti d’ombrello e piccole bombe al carburo. Innalzavano capanne segrete, rubavano ciliegie dagli alberi e facevano merenda alle quattro in punto mangiando fette di pane con burro cosparso di zucchero. I cinni si dividevano in due categorie: i piccoli e quelli più grandicelli. I cinni grandi guerreggiavano con armi pericolose e tiravano cannonate con il pallone, quelli piccoli si trastullavano con mille giochi, le femmine conoscevano centinaia di filastrocche ed erano imbattibili a zoppo galletto.
Tutti i cinni, grandi, piccoli, maschi e femmine, parlavano una lingua particolare: un gergo a metà tra il dialetto bolognese di nonni e genitori e l’italiano ufficiale di maestri e maestre. Ma se qualcuno parlava con la lisca tutti dicevano che suzzizzava. Una volta si doveva sempre indossare la maglietta di lana e se un cinno starnutiva la nonna esclamava: “Bandèssa!”. Una volta si dovevano imparare le poesie a memoria, la scuola iniziava il primo giorno d’ ottobre e le vacanze duravano tutta l’estate, turbate soltanto dal libro dei compiti per le vacanze. Una volta i fiori sbocciavano al ritmo della primavera e la neve cadeva puntualmente a Natale. Le stagioni avevano giudizio e ogni cosa stava al proprio posto, con semplicità e naturalezza. Una volta era il tempo delle favole, che pullulavano di re, regine, fate, principi azzurri e principesse, ma anche di streghe, orchi e uomini selvatici. Però qualunque favola terminava sempre con: “..e vissero tutti felici e contenti.”.
Ma una volta, appunto, è l’inizio di questa fòla…
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A
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Ambarabaccicicocò... “Ambarabaccicicocò.. Tre civette sul comò, che facevano all’amore, con la figlia del dottore, il dottore si am-malò.. am- ba-ra- ba- ci- ci- co- cò!!!”. E al fatidico “cò”, la mano di chi faceva la conta andava a posarsi su chi doveva stare sotto. Svolazzavano tante filastrocche per scegliere chi doveva star sotto. Star sotto era la disgrazia più grande che potesse capitare. Non aveva molta importanza che il gioco fosse cucco, strega impalata o mosca cieca, la cosa più terribile era essere il prescelto mentre gli altri scappavano e ridevano. Si faceva anche la conta con i numeri. Il più grande, con gli occhi socchiusi, contava mentalmente ruotando i pugni serrati fino a quando qualcuno diceva basta. E allora si svelava il numero: “Ventiquattro..” “Trentasei..” “Quarantuno..”, poi i partecipanti venivano contati e ricontati fino a raggiungere il numero annunciato. E chi aveva la sfortuna di essere l’ultimo doveva star sotto. Si facevano mille imbrogli per non essere selezionati. C’era chi si spostava di posto durante la conta, chi contestava la filastrocca, chi il sistema di scelta e chi proponeva il sistema della pagliuzza più corta, per aver un’altra possibilità. E quando non c’era proprio verso di scegliere chi doveva star sotto, c’era la gallina zoppa. “Gallinella zoppa zoppa quante penne tieni in groppa? ne tengo ventiquattro uno due tre e…quattroooo…”.
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L’Almanacco dei cinni
Ambarabaccicicoccò Ambarabaccicicoccò.. tre civette sul comò, [OMISSIS: corsivo in italiano] E a cal “cò” che tótt i stèven d’asptèr, la man ed quall ch’fèva la cånta l’andèva a farmères cåntr al pèt ed quall ch’l avèva da stèr såtta. Par dlî<er a chi i tuchèva, ai êra un stracantån ed filastròc. Stèr såtta l’êra la d§grâzia pió granda ch’la pséss capitèr. Al vlèva dîr pôc che al <ûg al fóss cúcco, stréjja o måssca ôrba, al quèl pió terébbil l êra ch’a t tuchéss a té, mänter chi èter i tajèven la lâza e i ridèven. As fèva anc la cånta con i nómmer. Al pió grand, coi ûc’ mî< asrè, al cuntèva a mänt prilànd in tånnd i póggn asrè fén a quand quèlc d ón an gèva bâsta. E alåura ló al gèva al nómmer: “Ventquâter... Träntasî... Quarantón...”, pò quî ch’<ughèven i vgnèven cuntè paracci vôlt fén a arivèr a cal nómmer. E chi avèva la iatta d èser l ûltum l avèva da stèr såtta. Par môd d an stèr brî§a såtta, as fèva anc un móccia ed balutén. Ai êra chi canbièva sît durànt la cånta, chi reclamèva che la filastròca l’êra stè détta mèl, chi i n vlèva un’ètra, chi vlèva tirèr la pâja par psair scapèrla. E quand a n i êra pròpi vêrs ed psair dlî<er quall ch’avèva da stèr såtta, a i êra la galé@na zòpa. Gallinella zoppa zoppa [OMISSISS, corsivo in italiano]
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Arcobaleno Quando appariva l’arcobaleno tutti smettevano di giocare. Le femmine rimanevano affascinate dai colori e dalle impalpabili sfumature, mentre i maschi proponevano di cercare il punto dove andava a cadere. Dove cade l’arcobaleno brucia tutta l’erba attorno ed è molto pericoloso avvicinarsi, però leggenda vuole che in quel punto preciso si nasconda un favoloso tesoro. Nessuno sapeva dove fosse realmente quel posto, nessuno è mai riuscito a trovarlo. Forse era in qualche luogo fantastico, al di là della collina, oltre l’ultima casa abbandonata, di fianco a una vecchia quercia. Ma poi, così come era apparso, l’arcobaleno spariva in un battibaleno, senza lasciar traccia alcuna. Allora, come se niente fosse, tutti riprendevano le attività tralasciate: le femmine riempivano tegamini e trastullavano bambolotti e i maschi ritornavano a pistolare armi e munizioni.
Èrc in zîl Quand a i saltèva fòra l èrc in zîl, tótt i d§mitèven ed <ug-linèr. Äl fàmmen äli avanzèven incantè dai culûr e dal sinifîli ed sfumadûr, in st mänter che i mâsti i fèven la prupòsta d andèr a zarchèr al pónt dóvv l andèva a finîr. Dóvv finéss l èrc in zîl, ai brû§a tótta l’êrba d intåuren e av§inères l é dimónndi priglåu§, però una fôla la dî§ che in cal pónt prezî§ ai séppa arpiatè un gran te§ôr. Inción savèva duv al s fóss cal sît, inción é mâi riusé a catèrel. Fôrsi in un quèlc lûg dla fanta§î, par d là dala culé@na, d là dal’ûltma cà abandunè, ed banda a un vècia quêrza. Mo dåpp, acsé cum l êra saltè fòra, l èrc in zîl al scunparèva int un spéll, sänza lasèr inción saggn drî da ló. Alåura, cómm se gninta fóss, tótt i turnèven a fèr quall ch’i fèven prémma: äl fàmmen i rinpèvn i tegamén e äl fèven di dsnómm al pû e i mâsti i turnèven a pistulèr intåurn äli èrum e äl muniziån. 16
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Armi Le armi si dividevano in due ben distinte categorie: quelle giocattolo e quelle da battaglia. Alla prima appartenevano pistole a tamburo che sparavano capsulini, pistole con le strisce fulminanti e piccole carabine con il tappo di sughero legato con lo spago. Generalmente era la Befana che portava i doni ai bimbi buoni. Ma i cinni, pur apprezzando quei regali, preferivano fabbricarsi da soli le armi da battaglia. Le canne di alluminio dei lampadari erano la materia prima per le cerbottane. Una potenza di fuoco proporzionale alla lunghezza e al diametro della bacchetta: più lunga è la canna e più piccolo è il diametro maggiore diventa la gittata. Il proiettile: una striscia di carta arrotolata a forma di cono ed incollata con un po’ di sputo. La lunghezza della pallottola si determina infilando la punta del cono nella canna e spezzando l’estremità che fuoriesce. La forcella del ramo di un albero serviva per il tirino, poi si applicavano due robusti elastici, una piccola pezza ovale di cuoio e la fionda era pronta all’uso. Una robusta frasca era l’ideale per la spada da vero spadaccino come D’Artagnan, mentre con un asse di legno si fabbricava lo spadone dei gladiatori. Con un’asticella di legno sagomato si fabbricavano fucili a elastici. Era sufficiente inchiodarci un ciappetto da bucato come grilletto per sparare elastici a ripetizione. Più complicato era trovare il legno adatto per l’arco, perché doveva essere nello stesso tempo flessibile e resistente. Per le frecce si adoperavano dei rametti appuntiti, ma le più ricercate erano fabbricate con stecchetti di vecchi ombrelli. E poi c’era l’archibugio. Da un ramo di sambuco, spolpandolo dal midollo, si ricavava la canna dell’archibugio. Poi s’introducevano due palline di stoppa, arrotolate con la saliva, che venivano compresse con un sottile bastoncino. 17
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Quindi con un colpo secco si faceva partire il proiettile. E la pallottola di stoppa schizzava fuori, con uno schiocco.
Èrum Äli èrum äli êren clasifichè in categorî ed dåu fâta: qualli par fèr i <ug-lén e qualli pr äl batâli. Int la prémma a i êra äl rivultèl a tanbûr ch’äl sparèven di balén, pò qualli col stréssel fulminanti e äl carabén col stupâi lighè ala câna con na lâza. Par l urdinèri a purtèr i regâl ai cínno bón l’êra la Vciatta. Mo i cínno, anc s’i êren cuntént par chi regâl, i tulèvn a pât fères äli èrum da batâglia da par låur. Äl cân d aluménni di lanpadèri i êren quall ch’ai vlèva pr äl cerebotèn. Una putänza ed fûg in prupurziån dla lungazza e dal diâmeter dla bacatta: pió lónga e pió cén l é al diâmeter, e pió in là l’andrà la frazza. Al prujètil: una stréssla ed chèrta arudlinè a biatta e inculè con un pô ed spudâc’. Par la mi§ûra dla lungazza, b§ugnèva insfilzèrla int la câna tajànd la pèrt ch’l’avanzèva fòra. La furzèla dla bròca d un âlber l êra bôna pr al tirén, pò a s i mitèva dû elâstic rubósst, una pzôla ed pèl e al tirén l êra in åurden pr èser adruvè. Una frâsca rubóssta l’êra l ideèl par fèr una spèda da spadacén cme D’Artagnan, st mänter che con un’âsa ed laggn as psèva fèr un spadån cme quall di gladiatûr. Con un pèz ed laggn insagmè as fèva i fu§éll a elâstic. Bastèva inciudèri un ciapàtt da bughè cme grilàtt par sparèr di elâstic ón drî a cl èter. Par catèr al laggn adât par l èrc, invêzi, l êra pió cunplichè parché l avèva da èser int l istàss tänp re§istänt e §àvvel. Pr äl frazz a s adruvèva di sprûc a pónta, mo qualli pió adâti e priglåu§i äli êren fâti con däl stacc d un’unbrèla vècia. Pò a i êra l archibû§. Da una bròca ed sanbûc, cavändi la sô anbrålla, a s fèva la câna. Pò a s insfilzèva dänter dåu balté@ni ed ståppa arudlinè col spudâc’ e cunprèsi dänter con un bastunzén. Dåpp, con un cåulp sacc, a s fèva partîr la cartóccia. E la bâla ed ståppa la vgnèva spudè fòra con un bèl ciòc. 19
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Bacchetta Tra gli strumenti di castigo la bacchetta era il più temuto. Tutti i maestri e persino alcune maestre ne possedevano una. Di solito, con sadica cura, la fabbricava il bidello, che poi la consegnava furtivamente all’insegnante. La bacchetta più diffusa consisteva in un’asticella di legno lunga circa settanta centimetri e larga tre dita. La punizione era inflitta sentenziando all’istante entità della sanzione e modalità di prescrizione. Normalmente il supplizio consisteva in due o tre bacchettate, sferrate sul palmo della mano. La pena aumentava se lo scolaro ritirava istintivamente la mano nel tentativo di evitare il colpo. Quello più impavido, però, restava impassibile e non versava nemmeno una lacrima. Soltanto la bacchettata sui polpastrelli delle dita faceva versare qualche lacrimuccia. Ma non ci si poteva nemmeno lamentare, perché a casa i genitori avrebbero dato il resto.
Bacatta Stra i u§véi da castîg la bacatta l’êra qualla ch’mitèva pió scagâza. Tótt i mésster e parfén socuanti masstri i n avèven ónna. Par l urdinèri, con inpàggn da sâdic, al la fèva al bidèl, che pò al la cunsgnèva d arpiât al màsster. La bacatta pió cumó@na l’êra fâta con un righèl ed laggn lóng près a pôc stänta zentémmeter e lèrg trai dîda. Al castîg al vgnèva anunziè digànd al môd e la quantitè dla panna. Ed sòlit al suplézzi l êra fât ed dåu o trai §bactè, amulè in vatta al pèlum d una man. Al castîg al carsèva se al sculèr, pr istént, al tirèva indrî la man par schivèr la bòta. Al pió curagiåu§, però, an fèva gnanc una pîga e an fèva da vàdder gnanc una lègruma. Såul la §bactè in vatta ai pulpatsrî däl dîda la fèva nâser quèlca lózzla int i ûc’. Mo an s psèva gnanc lamintères, parché a cà a i êra i genitûr ch’i arénn dè al rèst. 21
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Brusca Una semplice spazzola di saggina poteva trasformarsi in uno spietato strumento di tortura. Normalmente la brusca veniva utilizzata per togliere lo sporco più ostinato da panni e lenzuola, che venivano strofinate energicamente con il sapone da bucato. E fin qui non c’era niente di male, i guai iniziavano quando le ginocchia dei cinni si sporcavano irrimediabilmente. Non ci si poteva nemmeno ribellare: si veniva catturati e costretti a lavarsi nudi dentro la catinella di alluminio. La giornata riservata al bagno era il sabato pomeriggio, mentre negli altri giorni della settimana ci si doveva lavare a pezzi. Mani, braccia, collo, orecchie, ascelle, per finire alle dita dei piedi. Per verificare se il bimbo si era davvero lavato oppure aveva fatto il furbino, c’era la famosa rivista. Iniziava dalle orecchie, per poi passare alle unghie delle mani e arrivare alle ginocchia, dove aleggiava la minaccia della brusca. E il povero bimbo veniva spietatamente avvertito: “Se non ti sei lavato per bene, ti do giù io con la brusca…”
Bróssca Una sänpliza <daré@na ed mèlga la psèva dvintèr un u§vai ed martîri sänza pietè. Secånnd al sòlit la bróssca l’êra adruvè par cavèr la crécca pió incapuné d’int i pâgn e dai linzû, ch’i vgnèven §gurè con fôrza col savån da bughè. E fén qué a n i êra gnint ed mèl, i guâi i cminzipièven quand i <nûc’ di cínno i s cruvèven ed tarlî§. A n s psèva gnanc arvultères: a s vgnèva aguantè e custrétt a lavères nûd dänter ala cadinèla d aluménni. Al dé risarvè a fèr al bâgn l êra al sâbet dåpp me<dé, invêzi int i èter dé dla stmèna b§ugnèva lavères a pîz e pcón. Man, brâza, còl, uràcc’, la§én, par 22
Lâ&#x20AC;&#x2122;Almanacco dei cinni
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finîr col dîda di pî. Par cuntrulèr se al ragazôl al s êra lavè o l avèva fât al furbén, a i êra la famåu§a rivéssta. La tachèva dali uràcc’, par pasèr pò ali ónng’ däl man e arivèr ai <nûc’, dóvv a i êra al prîguel dla bróssca. E al pôver tu§àtt al vgnèva avi§è sänza pietè: “S’t an t î brî§a §gurè pulîd, a t dâg <å mé con la bróssca...”.
Bussolotti Nessuno si sognava di chiamarli barattoli, tanto meno lattine. Si potevano chiamare così solo quando svolgevano la loro originaria funzione di recipienti. Si trasformavano in bussolotti quando venivano adoperati in giochi e battaglie: trampoli rudimentali, telefoni con il filo di spago, prigioni per lombrichi di terra o contenitori di ghiaia per le sassaiole. Ma l’uso più proibito, e quindi più diffuso, era quello con il carburo. Il carburo di calcio è un minerale che a contatto con l’acqua provoca un micidiale gas incendiario: l’acetilene. Il carburo si trovava in posti segreti perché serviva ad alimentare vecchi lumi. In queste lampade l’acqua era governata da un semplice ma efficace sistema, in cui si veniva a produrre una regolare fiammella. Ma se il contatto con l’acqua non è ben disciplinato il gas può dare in escandescenze, specie se viene compresso vicino ad una fiamma. Basta inumidire il minerale in una fossetta, coprirlo con un bussolotto forato, tappare il foro con un dito per comprimere l’acetilene e quando il gas riempe il bussolotto, accendere un fiammifero e scappare il più lontano possibile. Un’altra versione di bomba con i bussolotti era quella incendiaria: paglia secca ben pressata e imbevuta di alcool, nafta o benzina, indifferentemente. 24