L'altra metà di me (di Giacomo Battara - Minerva)

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GIACOMO BATTARA

«Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore: fecemi la divina podestate, la somma sapienza e ‘l primo amore. Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io etterno duro. Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate»

Un uomo mite lotta contro la sua metà: un lupo errante che caccia di nascosto e sbrana le sue vittime urlando «pape Sàtan, pape Sàtan aleppe».

Sono i versi più emblematici dell’Inferno di Dante ed al contempo quelli che maggiormente contraddistinguono il nostro personaggio. Signore e signori ho il piacere di introdurvi Marco Tudini, grande appassionato di Dante, fin da tenera età e oltremodo ossessionato dalla sua commedia più divina: l’Inferno. Abbracciamo gli anni 60. Marco è un rappresentante di indumenti intimi per donna e per lavoro è costretto a far giù e su per l’Italia. Tutt’a un tratto fatti sconvolgenti scuotono la regolare quotidianità di Marco. La morte sembra inseguirlo inesorabile. A questo punto si srotola la trama d’un romanzo dal carattere incomparabilmente noir, dai toni intensi pieni di inquietudine, atti ad inchiodare l’avventore alla pagina, senza possibilità di distrazione alcuna. Il lettore si imbatterà in personaggi surreali, magnetici, irresistibili e troverà dialoghi colmi di sentimento, di dolcezza. Parole di burro si alterneranno a stilettate d’acciaio, cattive, destinate a far male... a rimanere. È un romanzo che crea una ineguagliabile cicatrice nel cuore.

L’ALTRA MEtà DI ME

Giacomo Battara con Minerva edizioni ha pubblicato: Fuori scena (romanzo, 2005). Scritto in blu (romanzo, 2006). Pusher (romanzo, 2009). L’ultima notte (romanzo, 2011). Il Ventennio e l’estetizzazione del potere in “Mussolini ritrovato” a cura di A. Petacco, 2012. Viaggio nel vortice (romanzo, 2013). Amico mio carissimo in “Amori dAmare”, antologia di racconti a cura di C. Demi, 2014. La follia di Gregorio (romanzo, 2014).

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MINERVA

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Roberta de Santis

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CRIMINALI



Siamo noi i creatori del vento. Agganciati al cielo da un filo di tenerezza, arpionati al cuore, penzoloni. Una spinta avanti, due dietro. É questo dondolio incessante il costruttore del vento e delle tempeste. Roberta de Santis


profili

CRIMINALI

Collana diretta da Giacomo Battara

L’ALTRA METÀ DI ME Giacomo Battara Direttore editoriale: Roberto Mugavero Editor: Francesco Altan © 2015 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Tutti i diritti letterari di quest’opera sono di esclusiva proprietà dell’autore. I fatti e i personaggi descritti nella seguente opera e i nomi e i dialoghi ivi contenuti sono unicamente frutto dell’immaginazione, dell’ingegno e della libera espressione artistica dell’autore. Ogni altro riferimento, identificazione o similitudine a fatti, luoghi reali, cose, nomi e persone è da considerarsi puramente casuale. ISBN 978-88-7381-755-0

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EDIZIONI

Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 info@minervaedizioni.com www.minervaedizioni.com


Giacomo Battara

L’ALTRA MEtà

DI ME

MINERVA



PREFAZIONE

Una serie di crimini efferati che scuotono la società perbenista e bigotta italiana degli anni Sessanta; un rappresentante di lingerie, perennemente in viaggio per lavoro, che tra un amplesso occasionale e l’altro cerca affetto e comprensione; il suo alter ego dominante che recita come un mantra l’Inferno di Dante Alighieri; un commissario di Polizia che, precorrendo i tempi, indaga applicando i metodi criminologici e vittimologici dell’epoca; una delle prime donne magistrato italiane, preparata, giovane e carina; un valente psichiatra vocato alla criminologia; un maresciallo dei carabinieri allibito e incuriosito dai nuovi metodi investigativi; un plot narrativo di alto profilo che cattura il lettore con uno stile scorrevole, l’accuratezza delle ambientazioni, le innumerevoli espressioni evocative e l’analisi introspettiva dei personaggi. Questi sono gli ingredienti di L’altra metà di me, dello scrittore e giornalista scientifico Giacomo Battara, il quale, per certi aspetti, ripropone in chiave moderna le atmosfere noir dei grandi autori di romanzi polizieschi che vissero a cavallo tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Vi è poi una significativa impronta criminalistica-criminologica di quel periodo storico che l’autore dimostra di padroneggiare con dimestichezza; non solo rispetto alle tecniche investigative ma anche sotto l’aspetto vittimologico, riservando alle vittime un ruolo di primo piano, attraverso il loro studio bio-psico-sociale, ribaltando il vecchio schema “Chi-Quando-Come-Dove e Perché” un crimine è stato commesso in “Cosa-Come-Dove-Quando-Chi (vittima)-Perché e Chi (carnefice), sottolineando l’importanza del legame tra il luogo del delitto, la vittima e l’assassino, come postulato dal criminologo francese Edmond Locard con il suo principio d’interscambio. In pratica la scena del crimine è come un’aula scolastica dove l’autore ignoto insegna agli investigatori qualcosa 7


di sé, mentre la vittima è una preziosa fonte d’informazioni che rispecchia i modelli comportamentali di quello stesso autore. Oggi si parla sempre più spesso di “autopsia psicologica” della vittima di un omicidio; questa perizia post mortem, nota fin dal 1961 (Shneidmann & Farberow), richiede la conoscenza di età, sesso, stato civile, indirizzo, religione, occupazione, anamnesi medica, anamnesi psicologica e psicopatologica, gusti sessuali, storia familiare, stile di vita, abitudini quotidiane, carattere, reputazione, eventuale relazione interpersonale con l’offender, amicizie e inimicizie. Inoltre è estremamente importante valutare come e con quali mezzi lesivi sia stata uccisa, il tipo di lesioni, le eventuali ferite da difesa, i mezzi di contenzione, eventuali segni di tortura, gli atti sessuali pre e post mortem, la posizione e lo stato del cadavere (nudo o vestito che fosse), e molto altro ancora. Riassumendo, l’analisi della scena del crimine e l’analisi vittimologica rivelano il profilo psicologico e comportamentale dell’omicida: età anagrafica, psicologica, quoziente intellettivo, eventuali disturbi mentali o della sfera sessuale, personalità criminale e altro ancora.

Francesco Altan Scrittore e criminalista


Profili Criminali / L’altra metà di me

Di fronte allo specchio, urlo penose parole sconnesse, dure. Ogni tanto fisso la parte di vetro che riflette la porta della spoglia camera in cui trascorrerò la notte prima di una nuova partenza. Stringo gli occhi per focalizzare il rimbalzo di quello spazio striminzito, addirittura capace di penetrare il mio dentro, come se, da un momento all’altro, dalla porta dovesse entrare un inafferrabile individuo deciso a infierire su di me con inaudita crudeltà. Sono un vaso incrinato, rotto, una spaccatura nel perfetto strato di ceramica che mi ricopre, come la sbavatura in un dipinto eccelso. È lo specchio che riflette beffardo il me medesimo con l’indice puntato come chi, investito da un potere ultraterreno, nell’atto di sentenziare definitivamente decreta la vita o la morte. Poi, finalmente, taccio; tace il mio di dentro scombussolato, non penso e sento delle voci. Una in particolare. É colta quando si manifesta, molto più di quanto lo sia io. Recita i versi della Divina Commedia, sempre, incessantemente, con i toni giusti, le pause giuste. Non so perché, so soltanto che i versi sono sempre quelli dell’Inferno. Sembra un’introduzione terrificante al seguito che non è in terzine a rime incatenate di endecasillabi, ma una raffica di parole senza toni e pause giuste, parole appena sussurrate ma che penetrano nel cervello, nel cuore, nella carne. Parole come lame. É una voce assillante, interminabile, assordante, insistente, a tratti anche dolce, capace di svettare su tutte le altre in qualsiasi momento imponendo loro una dura sudditanza, silenziosa, gobba, fino a ricacciarle lontano, laggiù nella loro tana scura e puzzolente. M’accorgo che è una voce parallela alla mia, l’affianca con costanza. Prendo una decisione ed è già là, prima di lei, prima di me. Mi sfida a volte, altre mi consola. Più spesso ho paura di lei, chiede, poi comanda e a me non resta che ubbidire. Ma questa non-possibilità-di-scelta qualche volta mi piace perché fa male e mi piace fare male, a volte m’appare addirittura benefico fare male. E il male m’appartiene, è lì, robusto, saldo nel seguire la sua strada dispensatrice di sofferenza e ingiustizia. 9


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Vorrei solo essere cullato, come un bimbo molto piccolo. Tutto qui. Ho chiesto troppo? Chiedo troppo? Vorrei che a tempo debito mia madre l’avesse fatto. Lei dice che l’ha fatto con costanza, io non ricordo quell’infinita tenerezza che deve essere... Penso spesso a Dio e non so che cosa pensi lui di me, se anche lui mi vede come mezzo figlio o figlio doppio o sua creatura malata irrimediabilmente. Io ancora non capisco se qualcosa in me manca o se ho di più. So soltanto che ho due parti, una chiara come l’acqua trasparente e lucente di sorgente, l’altra stagnante, melmosa, nera, putrida. Quale mi piace di più? Entrambe. E odio entrambe. Come mi vedo? E lo specchio gelido risponde: come un salvatore e talvolta come uno che vuole essere salvato. Ecco perché questanon-possibilità-di-scelta mi sembra benefica. Sono obbligato da un destino malefico. La mia è una malattia nata con me o è cresciuta insieme a me per poi manifestarsi in tutta la sua enormità? Oppure no, nulla è vero perché sto soltanto delirando...

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ANCORA QUALCHE PASSO

Ancora qualche passo, ancora uno sforzo e finalmente avrei lasciato alle spalle un impetuoso vento di tramontana accompagnato da un maligno turbinio di fiocchi di neve che mi colpivano come schegge di vetro sottili e gelide spiaccicandosi sul mio viso così violentemente da provocarmi bruciori impensabili. Sembrava che fossi sottoposto a una punizione divina, implacabile. Contrappasso alle mie malefatte, aveva suggerito la voce sghignazzante. Può essere, mi ero detto, può essere che sia davvero una punizione. Le valigie che trasportavo faticosamente, oltre a piegarmi le spalle, impedivano che potessi proteggermi in qualche modo il volto con le mani o con le braccia; tuttavia quei fardelli valevano il prezzo che stavo pagando alla natura e a quella maledetta voglia d’andare che da sempre m’accompagnava. Perché valevano il prezzo di tanta fatica? Perché in quelle valigie c’erano la speranza, il lavoro e quindi il companatico, qualche volta, raramente in realtà, l’amore intenso, voglio dire quello tessuto da sentimenti veri anche se non duraturi come avrei voluto. Più spesso invece avevo incontrato il sesso svelto, quello fatto di contrabbando, anch’esso attraversato da improvvisi brividi magari per colpa d’una porta che una folata di vento aveva fatto sbattere, ma, in fondo, assai meno rischioso dell’altro e meno problematico. La lucina innanzi a me era davvero non troppo lontana a patto che fossi capitato in una situazione atmosferica normale, ma in quel contesto, così buio, tempestoso e tanto freddo da sentire dentro di me la morsa del ghiaccio premere il cuore e i polmoni fino a togliermi il respiro, mi sembrava invece terribilmente distante. Non avevo idea di che cosa illuminasse e francamente non me ne importava un gran che, nel senso che nessuno, e di questo ne ero certo avendo sempre avuto una grande fiducia nel genere umano, mi avrebbe negato, vista la bufera in cui ero avvolto, un caffè bol11


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lente; anche se l’ oscurità incombeva, era soltanto un pomeriggio inoltrato di dicembre, voglio dire che non m’aggiravo per le vie nel cuore della notte e questo pensavo dovesse essere rassicurante per chi, gentile di cuore e fiducioso nel prossimo, avesse voluto darmi ospitalità, giusto il tempo di riscaldarmi, di bere, per l’appunto, un caffè, anche se molto annacquato, e di darmi qualche informazione. Immaginavo che gli uomini fossero appena rincasati dal lavoro e si stessero apprestando a condividere il pasto serale. Buon per loro, avevo pensato deglutendo non so che cosa, forse il pensiero di una zuppa calda. Beh, giunto alla meta avevo potuto constatare, sbirciando da una delle finestre che si aprivano sulla strada, che quella luce non illuminava una scena di vita domestica bensì il salone di un’osteria che mi era sembrata deserta, forse sul punto d’essere abbandonata a un destino di imminente dismissione, tanto nuda da rasentare lo squallore. Ecco, mi era apparsa come una misera e gretta testimone di solenni ubriacature e niente di più. Non dovevo avere un bell’aspetto perché l’oste, un tizio con un cranio enorme e lucido come una palla da biliardo su spalle all’apparenza enormi e cadenti, sormontate da uno spesso scialle di lana, forse nero o forse blu, mi fissava quasi incredulo, come se avesse visto comparire a sproposito nel suo locale un fantasma, o un essere ultra terreno, forse, addirittura, una visione orrida, non saprei dire con certezza, di sicuro non s’aspettava che qualcuno potesse sfidare quella bufera, tantomeno per recarsi nella sua osteria così triste e parecchio puzzolente dato che stazionava, ad altezza umana, una sorta di coltre quasi palpabile di fumo di sigarette, toscani e pipate di trinciato forte consumate, presumo, con un certo accanimento da avventori che lì, probabilmente, avevano giocato a carte la paga della giornata o, forse, della settimana mentre tracannavano fiumi di vino. Quel fumo sospeso a mezz’aria sembrava fosse lì da sempre, come un oggetto d’arredamento scelto con cura, oltretutto ina12


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movibile perché, oltre a me, l’altro straniero in quel locale era il ricambio dell’aria. Per questo avevo passato mentalmente in rassegna ogni parte della mia, oserei dire, poco modesta persona, in particolare ogni centimetro del viso, come se la mia mente fosse un grande specchio e devo ammettere che, tutto sommato, non mi era sembrato d’essere messo in condizioni peggiori di tanti poveri cristi che incontravo quotidianamente per le strade o sui treni. Di certo ero meglio dell’oste che, a un primo sguardo, doveva avere qualche problema irrisolto con l’acqua e con l’alimentazione considerando la sua corporatura bovina e quell’odorino per nulla gradevole che avevo subito colto appena varcata la soglia di quel luogo che pareva abbandonato dagli umani oltre che da Dio. Il rumore delle valigie lasciate di botto sull’assito scuro e macchiato aveva destato l’oste da quel singolare imbambolamento, una specie di scossa che lo aveva indotto a osservarmi con più scrupolo, dalla testa ai piedi e viceversa un paio di volte e, infine, a chiedermi che cosa volessi consumare. «Un vino rosso», gli avevo risposto quasi in automatico senza pensare che, invece, avevo voglia di bere qualcosa di caldo. Lo immaginavo in piedi, invece era seduto su uno sgabello e quando si era alzato, per poi tornare, dopo qualche istante, al suo posto d’osservazione, avevo davanti a me un quartino di rosso scuro, quasi nero, apparentemente denso, un bicchiere opaco assai poco invitante e un orco vero, in carne e ossa. «Dove posso trovare una stanza per la notte a basso prezzo?», gli avevo domandato mentre con una certa titubanza mi ero sforzato di bere un po’ di quel vino. «Qui, alla locanda dell’“Abisso” ci sono un paio di camere con un cesso in comune e il prezzo è buono. Sono al piano di sopra, se vuole può scegliere a piacimento, sono entrambe libere, decenti e abbastanza tiepide». Mentre l’oste mi scortava lentamente al piano superiore, potevo distintamente ascoltare i sibili del vento e pensando che mi trovavo lì, in quel luogo, chiamato “Abisso”, per giunta accompagnato da 13


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un tizio con un corpaccio mastodontico e dall’aria assai poco rassicurante, un brivido mi era corso veloce lungo la schiena. La stanza era un buco con una finestrella che guardava la stazione. Sì e no quaranta, cinquanta metri di distanza mi separavano dal trenino da cui ero sceso poco prima e che ancora stazionava sbuffando sui binari; probabilmente non si sarebbe mosso da lì sino al giorno dopo, ma allora perché farlo sbuffare? Potevo ancora notare le impronte che avevo lasciato sulla coltre candida che segnavano il mio passaggio affaticato; avevo deciso, non so per quale ragione, di contare i minuti che sarebbero occorsi alla neve per cancellare le tracce. Dieci. Dieci minuti e le orme erano scomparse e con loro le prove che io, proprio io in carne e ossa, ero transitato con i miei pesi da quella strada per infilarsi in una stanza dell’“Abisso”. Se mi avessero ucciso in quel preciso momento, a parte l’oste, nessuno si sarebbe accorto di me. Nessuna traccia, nessun segno del mio passaggio... “Abisso”: mi metteva ansia quel nome, come se potessi veramente finirci dentro e perdermi dentro tutta quell’oscurità sbattendo contro altri corpi anch’essi in caduta libera e disperata. Oltre al letto che cigolava a ogni movimento, nella stanza c’erano a disposizione un tavolino con sopra un catino, una brocca piena d’acqua, uno specchio abbastanza grande da riflettere spalle e testa, una sedia e nient’altro. Anzi, sopra al letto, nel mezzo, c’era un Cristo in croce che mi fissava insistentemente come per dirmi: «ehi tu, in che razza di posto ti sei infilato?!» Natale era alle porte e ancora una volta l’avrei trascorso da solo. Non che la cosa mi facesse dannatamente male ma un po’ di tristezza, al solo pensarci, si era infilata in qualche piega dell’anima e giurerei che avesse provocato un po’ di bruciore agli occhi. Un fastidio passeggero, cosa da niente, s’intende. Le valigie le avevo depositate accanto al letto sul quale mi ero gettato vestito; nemmeno il vecchio cappotto pesante e bagnato avevo avuto la forza di togliermi, certo che il sonno m’avrebbe sopraffatto e stretto forte a 14


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sé. Invece ero stato scaraventato in una notte senza sogni dato che gli occhi erano rimasti spalancati a fissare quella finestra illuminata da una strana luce bianco-grigio e il passaggio svelto e vorticoso della neve che di certo aveva coperto ogni cosa. I documenti che avrebbero dovuto attestare formalmente la mia permanenza all’“Abisso” tramite la loro registrazione, li avrei consegnati la mattina successiva. L’oste era stato compassionevole, non aveva voluto tediarmi con la burocrazia e se n’era andato per i fatti suoi quasi subito, non senza avermi augurato la buona notte con un mugugno quasi incomprensibile. Bisognava essere molto intuitivi per comprendere che aveva detto una parola cortese. Avrei voluto chiedergli se c’era qualcosa da mettere sotto i denti, invece l’avevo mentalmente spedito a quel paese: lui, l’“Abisso” e soprattutto me che mi ero infilato in quel buco. Aveva ragione Cristo a compatirmi da lassù. Come dicevo, la notte l’avevo trascorsa quasi tutta a occhi aperti, un tempo sottratto al riposo e dedicato a riflettere sulla giornata appena finita e su quella che m’attendeva. Il mio capitale stava accanto a me, ben chiuso nelle due valigie. Contenevano roba fine, roba francese, anzi, stile francese che faceva impazzire signore e signorine, soprattutto le signore di una certa età irretite dalle tante promesse dei propri amanti o mariti quasi mai mantenute. Donne disilluse, pronte a cimentarsi in amorazzi da strapazzo da cancellare dopo qualche incontro non senza aver gustato in silenzio l’effetto che fa lanciare schegge di vendetta sulla schiena dei propri uomini considerati, forse non a torto, mentitori e vili; schegge che lì, sulla schiena, si erano prontamente conficcate. Poi, alla fine di tutto, erano rientrate nuovamente nei ranghi così come si conviene, ma con un completino tutto pizzi e trasparenze. Ovviamente quei preziosi acquisti, per essere giustificati, richiedevano la capacità di mentire spudoratamente. Raccontavano imperturbabili che tutto era successo, come si può intuire, per un colpo di fortuna dato che avevano colto al volo l’occasione offerta da un mercan15


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te di passaggio a corto di danaro e dunque in evidenti difficoltà. Erano gli anni Sessanta e indossare pizzi e mutandine osé era come spiccare un salto nella modernità, una tentazione a cui alcune femmine difficilmente potevano resistere. Nessun biasimo, si capisce, perché mi sentivo uomo di mondo e certe cose le comprendevo. Allora, in quel silenzio quasi innaturale, mi erano passate per la testa le confessioni e i numerosi sfoghi che avevo ascoltato, le parole di sincero conforto che avevo detto, le mani che avevo stretto forte. Beh, avevo passato in rassegna non soltanto la giornata che da poco si era conclusa, ma anche un discreto tratto della mia vita. Questo ripercorrere gli avvenimenti non era una novità. Spesso mi ritrovavo a scartabellare nel tempo andato senza nostalgia e senza un motivo preciso, semplicemente perché mi piaceva. D’altra parte mi era decisamente più agevole fare un salto nel passato piuttosto che nel futuro che vedevo come un lungo rettilineo che si snodava in un deserto piano e spoglio e finiva per piantarsi nell’orizzonte. Giulio Manfredo, il titolare della ditta import-export che in realtà non esportava un bel nulla, mi aveva affidato un campionario di indumenti intimi per donne d’ogni età davvero di prim’ordine. «Roba bella, elegante», ripeteva lui soddisfatto, orgoglioso del fatto che riusciva ad avere, in un momento nel quale ancora c’era poca mercanzia in giro, tutto quel bendiddio; tuttavia, se qualcuno m’avesse chiesto, non avrei saputo dire in che modo riuscisse a procurarsela nonostante lavorassi per lui da molti anni anche se l’impressione che avevo di lui è che fosse da sempre un simpatico trafficante di prim’ordine. «È tutto a gambe all’aria, dobbiamo ricostruire con determinazione e pazienza, intanto c’è quel che c’è...», amava ripetere guardandomi diritto negli occhi cercando il mio consenso almeno in un sorriso. Sta di fatto che mi aveva affidato tutta quella bella roba accuratamente scelta insieme a una mazzetta di contratti precompilati 16


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e a una pacca sulla spalla che doveva essere ben augurante, per lui prima di tutto. Abruzzo, Veneto, Friuli e Trentino, se ce la facevo, erano i territori che dovevo battere. Altri venditori, con i quali non c’era verso di scambiare nemmeno una parola e non so se per colpa mia o loro, anche se spesso li vedevo confabulare quasi amabilmente il che mi faceva supporre che fossi io l’intruso, avevano territori e presumo anche destini diversi. Con quei contratti in mano mi sentivo come un cacciatore che s’avventura nel bosco in cerca di una preda, oppure una prostituta sulla strada in attesa del cliente occasionale, dunque più prede catturavo o più occasionali clienti soddisfacevo, più si irrobustiva il mio compenso. E di chilometri ne facevo tanti prendendo il treno il più delle volte o la corriera, qualche volta l’auto se ne valeva la pena, ossia soltanto se ero certo che la vendita sarebbe andata a buon fine e il guadagno soddisfacente. L’“Abisso”, all’improvviso, non mi era apparso affatto silenzioso perché qualche passo ero sicuro d’averlo udito a notte fonda. Lo scricchiolio del pavimento in legno aveva rivelato una presenza che s’aggirava precisamente di fronte la porta della mia camera; intuivo un avanti-indietro, come se si trattasse di una persona indecisa sul da farsi. Indecisa a fare che cosa?, mi ero domandato con un po’ d’ansia cercando nelle tasche del cappotto, come costretto da un gesto meccanico, qualcosa che avrebbe dovuto servirmi per difendermi da un’eventuale aggressione, un qualcosa che, ovviamente, non avevo trovato. Chi poteva essere a quell’ora della notte e con il freddo che si era incuneato e aveva invaso così risoluto ogni angolo dell’“Abisso”? Quell’avanti-indietro aveva dell’inspiegabile a meno che presumessi l’intenzione di un brutto ceffo di rapinarmi dopo avermi stordito con un colpo ben messo sulla testa. Spinto da una forza interiore che ero assolutamente incerto di possedere, avevo deciso di controllare la situazione e quindi, in punta di piedi, mi ero diretto verso la porta della camera imprecando ad ogni cigolio dell’assito che calpestavo e poi, come se fossi stato su un palcosce17


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nico, avevo spalancato la porta che dava sul ballatoio con grande impeto e di sicuro anche con un gesto teatrale, mentre il cuore mi batteva forte in gola e tenevo i pugni saldamente chiusi, come per dire: «ehi, sono qui, fatti sotto!» Fortunatamente non c’era nessuno, neppure un’ombra, un’ipotesi di presenza umana. Dall’alto del ballatoio, sporgendomi appena un po’, potevo vedere il bancone dell’oste, i fiaschi di vino, sei, sette in tutto, il singolare luccichio dei bicchieri depositati sopra al legno bruno, infine i sette tavoli sistemati senza un minimo d’ordine con le sedie riposte di sopra, una per lato. La luce filtrava dalle finestre e se non ci fosse stata la neve che si riverberava dentro, là sotto ci sarebbe stato il buio più profondo. Comunque qui è passato qualcuno, mi ero detto mentre faticosamente mi toglievo il paltò e lo gettavo sulla sedia. Rimaneva fissa in testa l’idea che qualche brutta faccia, vedendomi con quelle valigie grandi, avesse deciso, in combutta con l’oste, di rubarmele a qualunque costo. Non sarebbe stata la prima volta dato che in altre circostanze ero stato depredato della merce durante il sonno, peraltro senza subire aggressioni fisiche, ma quella notte chiunque si fosse avventurato nella mia stanza avrebbe avuto del filo da torcere tanta era la determinazione che avevo in corpo, perché un campionario così non l’avevo mai avuto e non potevo perderlo dato che non sarei mai riuscito a risarcire il mio datore di lavoro e sarebbe stata la mia fine. Invece, buon per me, non era successo niente, non avevo più udito i passi che mi avevano allarmato e, contando le ore scandite dai tocchi delle campane che non dovevano essere troppo distanti, avevo visto sorgere una nuova alba, grigia, anch’essa piena di neve. Non era la prima volta che mi sentivo come seguito, o pedinato, tanto che in quegli ultimi tempi ne avevo parlato anche con mia madre, la quale candidamente mi aveva risposto che stavo sfiorando il paranoico. E detto da lei la frase aveva del paradossale. Sarà, 18


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mi dicevo e lo ripetevo in continuazione dentro di me, fino a convincermene, ma i passi dietro la porta li avevo sentiti per davvero. Forse avevo dormito un poco perché, a un certo momento, mi ero ritrovato con gli occhi spalancati e minacciato da una strana ansia, come se avessi fatto un brutto sogno in cui ero stato sicuramente il protagonista, ma non riuscivo a ricordare l’accaduto. Non vedevo l’ora di tornare a casa, nonostante un’assenza non prolungata. Mia madre mi avrebbe accolto con un pranzo eccezionale, come faceva sempre quando ero di ritorno dai miei viaggi, più o meno lunghi. Di scatto mi ero girato verso le valigie... tutto a posto, erano là. Mancava un’ora circa alla partenza del treno che finalmente, dopo innumerevoli cambi di convoglio e un sacco d’ore spese volentieri a guardarmi intorno e a pensare, m’avrebbe riportato al mio paese. A che cosa avrei pensato? Come sempre alla mia vita, agli affetti, non saprei come altro definirli, che venivano e andavano e alla fatica che mi spremeva tanto per mettere insieme un pasto caldo e poco altro. Avevo sistemato grossolanamente il letto dando una stirata alle coperte ripetendo un gesto antico, divenuto nel tempo meccanico, col palmo della mano e mi ero diretto verso il cesso che stava sul ballatoio. Sulla porta di legno scuro, posta tra le due camere, era appiccicata una etichetta con sopra scritto «privato». Una potente zaffata di fogna mi aveva agguantato alla gola. Ero entrato guardingo, come un gattino nel posto sbagliato. Le righe nere di sporco vecchio intorno al rubinetto mi avevano persuaso che era meglio fare alla svelta e senza toccare troppo. Avevo agguantato un bel po’ di carta igienica per asciugare il viso dato che non avevo alcuna intenzione di utilizzare l’asciugamano a disposizione che un tempo doveva essere stato di un bel colore rosa, tenue, delicato. L’acqua era gelata, tanto quanto il cesso. L’oste era al suo posto, esattamente dove l’avevo visto la sera precedente, e discuteva animatamente con un avventore. La mia comparsa aveva avuto il potere di tacitarli all’istante. Avevo disceso piano piano le scale trasportando le valigie con la solita fatica e, 19


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giunto a ridosso del bancone, guardando diritto negli occhi l’oste, gli avevo ordinato un bicchiere di latte bollente e qualcosa da mettere sotto i denti, qualsiasi cosa, avevo precisato con fare inspiegabilmente e vagamente intimidatorio. L’avventore aveva salutato l’oste dicendogli che avrebbero finito nel pomeriggio la discussione perché non gli andava giù che lui e i suoi amici lo reputassero un bugiardo perché, aveva aggiunto, quel fagiano pesava più di otto chili e se l’era mangiato tutto alla faccia sua e dei suoi leccapiedi ignoranti e fottuti! A chi si riferisse non l’avevo inteso. Due fette di polenta bianca abbrustolita, una fetta di formaggio e il latte fumante era tutto ciò che serviva per rimettermi in sesto, pagare il conto e dirigermi, con ritrovata energia, nonostante la tormenta non si fosse quietata, verso la sala d’attesa della stazioncina di San Vito al Tagliamento che avevo frettolosamente attraversato la sera precedente. Prima destinazione Portogruaro e da là, dopo un primo cambio, finalmente verso casa, in Abruzzo. M’attendeva un viaggio lungo, reso parecchio faticoso a causa di altri due cambi di treno che dovevo fare con l’aggiunta che, quasi mai, le coincidenze erano veramente tali. Se tutto fosse filato liscio sarei arrivato a casa in poco meno di tredici, quattordici ore. Dunque avevo tempo per riflettere e per ascoltare, obbligato da una forza misteriosa, l’altra metà di me che mi faceva sempre incazzare e che a malapena riuscivo a tenere a bada, mentre, qualche volta, riusciva perfino a travolgermi. L’altra metà di me si faceva sentire immancabilmente durante i miei trasferimenti in treno, in macchina, in corriera – il mezzo evidentemente non era rilevante – inducendomi a ritenere che il movimento la stimolasse in modo particolare. Era il mio pensiero fisso che si aggiungeva agli altri, quelli che ognuno ha, almeno credo, durante la giornata, nel corso della vita. Ecco, non è che la voce si facesse sentire soltanto in quelle circostanze, qualche volta faceva rapide incursioni anche durante la notte trasformando i miei sogni, se c’erano, in incubi orrendi. 20


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Il male dentro di me ce l’aveva con mezzo mondo, soprattutto, anzi, precisamente con quello femminile che considerava, come spesso mi aveva sussurrato durante le sue frequenti scorribande, putrido. Chissà perché? E poi la mattina seguente, dopo che era stata saccheggiata l’altra parte del mio dentro propenso alla tenerezza, mi sentivo uno straccio, come se avessi macinato chilometri su chilometri a piedi trascinando un carretto colmo di corpi maciullati mentre fissavo sconvolto il viso di mia madre che, come al solito, mi portava un caffè bollente e qualche biscotto, una maschera dura in cui brillavano i suoi occhi d’acciaio e il sorriso sprezzante. Il mio doppio godeva nel ficcarmi nel caos, nel senso che scompaginava i progetti e i buoni propositi che tendevo a costruire con puntiglio al punto che non mi ci ritrovavo più in tutta quella confusione che m’abbracciava senza che me ne rendessi conto, perché si trattava di imboscate, vere trappole sul cammino della mia esistenza. Devo anche ammettere che la paura spesso mi annichiliva; voglio dire l’angoscia che provavo per l’altra metà di me mi annientava e mi sentivo come un prigioniero, ostaggio indifeso nelle mani di un gruppo di manigoldi sanguinari. Il conflitto tambureggiava dentro la mia povera testa con così tanta insistenza che quasi mi ero scordato di pagare il conto e se l’oste non mi avesse sorpreso con un doppio colpo di tosse potente quasi come due spari di fucile in rapida successione, forse me ne sarei andato così, senza pagare, senza salutare, di certo con lo sguardo inebetito dal caos in cui era precipitata la povera zucca. Fortunatamente quella specie di boato disumano mi aveva destato e ricondotto alla realtà e dunque avevo saldato il mio debito e salutato l’oste con un cenno lento del capo, cui aveva risposto con il solito incomprensibile borbottio. Uscendo avevo pensato che mi ero comportato come si conviene. L’uscita dall’“Abisso” era stata una specie di liberazione, come se fossi scampato miracolosamente da una trappola mortale. L’aria gelida mi aveva agguantato per il bavero del cappotto e strattonato 21


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a sufficienza per rimettere in carreggiata testa e gambe. La mia uscita aveva coinciso con l’arrivo di un treno e con esso quello di molte donne che lasciavano la stazione dopo aver attraversato svelte i binari per oltrepassare il cancello di una fabbrica che, seriosa, osservava la stazioncina e il via vai modesto dei convogli locali che si alternavano pigri sui due binari in direzioni opposte. Altre donne, che a me parevano stracci sbattuti dal vento, erano spuntate comparendo da strade che sembravano inesistenti, celate dall’abbondante nevicata che ancora non dava tregua. Quanta stanchezza, quanta solitudine avevo potuto osservare in quell’incedere muto! Sono così anch’io? Appaio così agli occhi degli altri? Non avevo voglia di darmi una risposta, mi ero limitato ad abbassare il capo e a proseguire i cammino. Gli scompartimenti del treno erano uguali ovunque, sia che partissi dal sud o dal nord: scomodi, puzzolenti, qualche volta addirittura lerci. Il più delle volte faticavo a trascinare le valigie lungo il corridoio perché reperti umani, silenziosamente diretti ad affrontare il loro destino, bloccavano il passaggio e restavano lì, incerti sul da farsi, quasi a sfidarmi. A che cosa?, mi dicevo. Proprio a niente, non c’era nessuna competizione in corso, soltanto una stanchezza di fondo magari rissosa che impietosiva. Anch’io ero così? Alla fine riuscivo sempre a trovare un posto dove infilarmi e tenere sotto controllo i miei beni, a non litigare, a comprendere. A volte, soprattutto quando m’avvicinavo alle grandi città, potevo intuire una sorta di eccitazione, una straordinaria voglia di rimettere le cose in ordine. Anche in quella mattina fredda la fortuna mi aveva assistito. Avevo trovato posto alla fine della carrozza, in uno scompartimento occupato da tre suore. Si erano industriate per stringersi e lasciarmi posto forse impietosite dal mio arrancare. Quella che doveva essere la responsabile del gruppo mi aveva fatto ricavare un posticino accanto al finestrino. Era bastato uno sguardo alla sorella di fronte perché questa si spostasse rapidamente e subito 22


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dopo a me perché comprendessi che quel posto mi era stato offerto caritatevolmente. Roba da brividi! Le valigie erano rimaste in corridoio, ma le potevo controllare agevolmente dalla mia postazione che consideravo strategica per tenere sotto osservazione i miei beni e per il fatto che potevo guardare il panorama e distrarmi, oppure, appoggiando la testa alla parete, tentare di dormire, nonostante gli scossoni, nel caso mi fossero venuti a noia i compagni di viaggio. Insomma potevo scegliere tra varie opzioni. Di fronte a me un’altra suora dall’età indefinibile mi osservava insistentemente mettendomi in forte imbarazzo al punto che avevo iniziato a muovermi nervosamente e a sudare in abbondanza. Mi avevano sempre incuriosito le suore, anche i preti, ma le suore soprattutto. Che tipo strano di donne dovevano essere! Venivano regolarmente elevate a “superiori” dopo non so quale percorso ed alcune raggiungevano il tanto ambito titolo di “madri superiori” avendo fatto, penso, un doppio percorso, magari oltremodo accidentato. Madri di chi? Non erano madri. Non erano mai state madri eppure... A un certo momento la suora dall’età indefinibile aveva preso a fissarmi ancora con maggiore intensità. Qualcosa in me l’attraeva o la schifava. E allora, come a voler replicare, me l’ero immaginata nuda; ma non doveva essere un gran che visto che la mia parte per nulla morigerata di Dio e delle sue figlie non si era minimamente scomposta, voglio dire eccitata. Tutti gli uomini immaginano le donne nude, mi ero detto, spingendosi perfino oltre, a volte. Molto era dovuto alla severa austerità, alla clausura di quegli anni che stavano concludendo un periodo che avevo vissuto con una certa angoscia e che tacciavano come una poco di buono la donna che osava scoprire il ginocchio. Beh allora, memore di tutto questo, le avevo regalato uno dei miei sorrisi di circostanza, un sorriso dolce, da uomo comprensivo. Chissà se ne aveva mai ricevuto uno. Forse sì e magari proprio quello e una forte delusione le avevano fatto scegliere la strada della rinuncia. O forse no, nessuno l’aveva mai guardata con gli occhi di chi desidera fortemente un corpo e da 23


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quello aveva dedotto che sarebbe stato meglio dedicare la sua vita a Dio, cercando di assomigliare alla Madonna. Ma la Madonna un bambino l’aveva avuto... La suora non si era degnata di ricambiare il sorriso, anzi aveva sgranato per un attimo gli occhi in uno sguardo cattivo e scandalizzato lanciato con tutta forza verso di me con un arco di rimprovero, per dirmi con tutta se stessa screanzato, maleducato, gretto e volgare, come ti sei permesso! In un attimo ero diventato un peccatore. Mi aveva giudicato la stronza! E questa volta era toccato a me spalancare gli occhi e tirarmi indietro di getto quasi schifato. Schifato, sì schifato, da quell’altare di menzogne e pregiudizi impilati uno sull’altro a farne montagna di preconcetti infimi, gratuiti, e paraocchi di cemento. Quella donna magra e dall’età indefinibile pesava per me senza dubbio quintali di colpa. Stavo per perdere il lume della ragione. Mi succedeva tutte le volte che qualcuno mi prendeva di mira con lo sguardo, in quel modo, e a me sembrava d’impazzire perché mi sentivo come appiccicato al muro, indifeso, bersaglio delle pietre che stavano per colpirmi in ogni parte del corpo, soprattutto la testa. E sentivo quei colpi e sentivo il sangue che colava copioso. La reazione poteva essere cattiva, quasi furibonda, certo insensata. Invece, per fortuna, non era accaduto nulla e dopo avere respirato profondamente, avevo deciso di affrontare lo sguardo della suora puntando il mio sul suo finché, finalmente, mi aveva liberato da quella morsa indagatrice, prepotente, cattiva. Per tutto il tragitto avevo pensato a come poter sopprimere quell’essere inutile che si celava dietro un’armatura di stoffa e che, consapevole della sua presunta superiorità morale, da lì sentenziava, dura, inflessibile. Con lo sguardo penetrava chissà dove e decretava il suo gradimento o l’orrore per il peccatore che si trovava al suo cospetto. Impressioni, sensazioni, tic che si moltiplicavano. L’avevo immaginata volare fuori dal finestrino e penzolare sbattuta dal vento, oppure, meglio, precipitare dalla porta in fondo alla carrozza che si era aperta inavvertitamente, così avrei giurato a chiunque m’avesse domandato, e la terra che 24


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correva veloce se l’era risucchiata in un attimo infilandola nel suo enorme e scuro ventre pieno d’ossa e melma. Ero incerto... non riuscivo a definire il suo cerchio di appartenenza all’Inferno. Tutti ne abbiamo uno preciso. È che non lo sappiamo. Ma sulla suora titubavo. Forse era il settimo, quello dei violenti contro il prossimo, forse il nono, i fraudolenti verso chi si fida. Quel suo modo di aggredire condannando a priori, certo era tipico dei violenti. Ma di lei chissà in quanti si fidavano. E quindi nono... e il contrappasso sarebbe stato così giusto, così efficace, la miglior cura per lei finta fin nelle mutande. Una cura senza guarigione. Una cura eterna senza salvamento. In entrambi i casi la pena sarebbe stata esemplare. I violenti, qui, sono immersi nel Flegetonte, un fiume di sangue bollente. Cazzo!, mi stavo eccitando, a vederla così, tutta nuda e scorticata dal calore incessante. E mi sarebbe piaciuto avvicinarmi a lei, tenderle la mano, come per aiutarla ad uscire da quel mare rosso e poi, una volta sfiorate le sue dita scarnificate... ops!, ritrarre la mano e lasciarla di nuovo affogare in quella poltiglia bruciante e puzzolente. Bene, ora sì con la mia verga ben diritta sotto i pantaloni, ora sì che aveva un buon motivo per scandalizzarsi e giudicare. Il treno aveva fischiato un paio di volte e rallentato la sua corsa. Il gruppetto delle suore era giunto a destinazione e io anche. Avevo atteso pazientemente che sgombrassero lo scompartimento e senza fretta mi ero accodato alla contenuta marea umana, un poco maleodorante e poco propensa a regalare uno straccio di sorriso, che abbandonava il convoglio per dirigersi verso un destino, presumo, di fatiche e bestemmie. Delle suore nessuna traccia, inghiottite non so dove e da che cosa, eppure non era stata una visione. Comunque sia erano scomparse dalla mia vista e questo mi aveva ficcato in uno stato di immotivata incertezza che faceva a pezzi la mia già traballante stabilità mentale. Eppure, continuavo a ripetere, nella speranza di convincermi, che non era stata una visione, che non poteva essere una visione, perché quella suora mi 25


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fissava veramente, con tenacia. Era uno scandaglio umano conficcato nella mia anima con il compito preciso di spogliarla per poi annientarmi con la sua sentenza punitiva, livorosa. Mi dicevo che avevo dei buchi nella testa, dei vuoti enormi in cui precipitavano, mescolandosi, cose che erano state accatastate con un ordine preciso, tutto in una baraonda impressionante nella quale si perdevano, insieme alle cose, le date, i giorni, i contesti, il tempo vissuto, i visi, i corpi, le espressioni, i suoni, i silenzi, i sentimenti, ecco tutto era nulla, inesistente, mai vissuto. Io mai vissuto veramente. Dovevo aspettare almeno un paio d’ore e forse sarebbe giunta sbuffando la coincidenza per Mestre. Certo, ancora una volta, non mi mancava il tempo per riflettere sulla mia condizione. E dopo l’incontro con quella suora, di carne al fuoco ne avevo. D’altra parte, come ho detto, non era una novità il fatto che tentassi di pensare seriamente a me durante i miei viaggi e nemmeno che lo facessi anche durante l’attesa di una coincidenza nella sala d’aspetto d’una stazione qualsiasi che è parte del viaggio, ed è senz’altro anche come un porto, la centrale di smistamento di destini umani, un via vai spesso senz’anima dove l’incomunicabilità mette sovente le persone di fronte al proprio strazio interiore. Non so se questo valga davvero per tutte le persone che ho incrociato sul mio cammino, anche se giurerei d’aver colto sguardi disperati come il mio, quasi sempre. Disperazione da incomunicabilità, avevo pensato, ma non solo verso l’esterno perché, poveri noi, avevo l’impressione che cuore e cervello non si parlassero mai tra di loro. Erano come freddi aggeggi buoni solo per fare sopravvivere il corpo. Qualche volta però ho avuto il dono di assistere a forti abbracci, intensi assai più delle parole che se ne stavano inceppate in gola. Avevo uno sguardo disperato io? Suppongo di sì se devo dare ascolto al male che sentivo dentro con continuità ogni volta che mi ascoltavo, un male che diventava strazio quando prendeva il sopravvento ormai senza troppa fatica perché sul terreno della battaglia non incontrava nemmeno una minima resistenza. Invadeva 26


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tutto senza difficoltà e allora diventavo suo schiavo mentre una cantilena, quasi fosse una ninna, m’abbracciava e non avevo più via di scampo perché sentivo che poteva accadere di tutto. Tutta la malvagità del mondo pesava sulle mie spalle in attesa d’essere scaricata addosso a un’incolpevole vittima. Accasciato me ne stavo rannicchiato sulla panca nel deserto della sala d’attesa, le valigie di fronte a me erano come gendarmi pronti a infilzarmi se non avessi dato loro la giusta attenzione. I miei pesi e i miei carnefici. Dopo tutto il mio compito era anche quello di garantirne la salvaguardia. Una follia, certo, a ben pensare. C’era un po’ di tepore nella sala d’attesa e questo mi aveva indotto al sonno. Un gruppetto di giovani donne m’aveva tolto dall’intorpidimento proprio pochi minuti prima dell’arrivo del treno. Avevo trascorso le ore di viaggio fissando l’orizzonte, inebetito dallo scorrere rapido dei campanili, delle campagne, degli alberi, incapace di distogliere lo sguardo da quel niente che fuggiva rapido e sul volto gelido di quella suora. Una volta giunto a destinazione, mi ero recato da Gino, il barbiere del paese, e leggendo un quotidiano locale che avevo trovato sopra una poltroncina con il sedile di legno sormontato da un cuscino di colore verde, avevo appreso della barbara morte di Laura Fari. Il corpo, diceva l’articolo in prima pagina, sormontato da un titolo che occupava tre colonne, era stato ritrovato in una vicina boscaglia del Parco Nazionale da una guardia forestale. Alla donna erano stati brutalmente strappati gli occhi e poi era stata abbandonata là, nella sua oscurità, da sola. Era sembrato che la poverina avesse tentato di cercare aiuto vagando disperatamente tra i pini e i rovi, ma che fosse finita in mezzo a un branco di lupi. Brandelli del suo corpo dilaniato erano stati recuperati fino a valle. Uno strazio. Forse anche una esagerazione del giornalista appositamente architettata per aumentare il clamore, avevo pensato. 27


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Sentivo la voce di Gino chiamarmi ripetutamente, era come se provenisse da lontano, come se fosse stata trasportata dal vento. Era il mio turno, certo. Completamente inebetito, mi ero alzato con gli occhi fissi sul giornale e i ricordi che mi tormentavano la mente, accatastati e confusi. Avevo seguito la voce grave, un po’ roca del barbiere che mi aspettava accanto a una poltroncina bianca, forse di finta pelle, tutta segnata, screpolata dalle rughe del tempo e da centinaia di clienti che lì avevano sistemato il loro fondo schiena nel corso di quindici e più anni di ininterrotta attività. Magro, simpatico e con un’abilità eccezionale nell’affilare il rasoio, Gino mi guardava ansioso di cancellare dal mio viso la trascuratezza dei soliti dieci giorni di viaggi e di lavoro, praticamente svolto porta a porta, negozio a negozio. Quel suo modo di essere aveva avuto il potere di distrarmi per qualche secondo da Laura... Chissà come, la gran parte dei barbieri manteneva inalterato un fisico longilineo, invidiabile, come fosse una particolare caratteristica della categoria. Mi ero lasciato guidare dai saputi modi di Gino e quasi mi ero abbandonato sulla nemmeno troppo comoda poltroncina, mentre lui col piede veloce e sicuro insisteva sulla leva alto/basso portandomi all’altezza delle sue braccia piegate e del suo indiscutibile talento. Il barbiere era un omino tutto scatti sia che si allontanasse dalla nuca e piegasse di quel tanto che serviva le ginocchia per verificare la precisione della sfumatura, sia che si accostasse per togliere i peluzzi dalle orecchie. Ma quando doveva radere la barba no, era un pilastro, inamovibile, sicuro, muto a ogni sollecitazione e dunque ci si poteva ben fidare. Col giornale stretto tra le mani, avevo offerto gli occhi e il viso alla maestria di quel vivace barbiere. In quel momento mi era tornata di nuovo alla mente, tremenda, l’immagine di Laura, col viso coperto di sangue, che avanzava a tentoni tra la boscaglia fitta. Avevo riaperto gli occhi di soprassalto. Poverina, doveva aver sofferto tantissimo. La cosa che mi sconvolgeva maggiormente era l’immensa crudeltà di quell’omicidio. 28


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Strappare gli occhi a una persona, Dio mio, era uno dei modi più efferati di vendicarsi o forse chissà, aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto. I suoi occhi... erano così belli! Di un verde speciale, smeraldo nell’immediato impatto, poi più scuro, quasi a intraprendere un viaggio nell’intima profondità di un oceano sconfinato e misterioso. Dal ritaglio squadrato dello specchio osservavo Gino immergere il pennello nella ciotola di metallo ed agitarlo velocemente per montare a crema il sapone e mentre con delicatezza mi carezzava il viso con le setole del pennello coperto di spuma, la tristezza per l’improvvisa assenza di lei aveva preso a sovrastarmi. Capita d’amare una persona per sempre, di sapere che è il tuo amore ma di non poter condividere la tua vita con lei per una serie infinita di motivi; di non vederla mai ma di accontentarsi di sapere che c’è, che esiste e che almeno una volta nella vita l’hai conosciuto sul serio, l’amore. Beh, io quella donna l’avevo amata. L’avevo amata davvero. Sicuramente non avevo amato più così, con quell’ardore, con tutto me stesso, incurante del poi. Purtroppo il giorno del poi era arrivato con folate di vento gelido e crudele che aveva avvolto interamente il nostro sentimento, ibernandolo. Lei ed io ci eravamo infine ritrovati l’uno di fronte all’altra smarriti e freddi, già disuniti e silenziosi. Forse non era vero amore... Pescasseroli in quel periodo era fantastica. Ciascun negoziante del paese aveva addobbato, come meglio aveva potuto, la porta d’entrata del proprio negozio e le vetrine con piccole luci bianche e rami di pino intrecciati, decorati con nastri a fiocco rossi. Era stato un buon anno un po’ per tutti. Ma il timore dei giorni di magra impediva la tranquillità e una spesa maggiore per decorazioni ricercate. In fondo era un paese che viveva principalmente di turismo e bastava un inverno parco di neve e di conseguenza poco visitato dagli abituali facoltosi amanti dello sci, per creare problemi a tutti. 29


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A Natale non mancavano molti giorni e io dovevo prepararmi per un altro viaggio che, come ogni volta, m’avrebbe portato al nord. Mi ero carezzato il viso. Gino era stato come al solito bravissimo. Mi sentivo la pelle delicata e tesa, come quella di una bella donna. Avevo accennato a un sorriso mentre pensavo al mondo femminile e a quanto ne fossi irrimediabilmente attratto. In una nottata singolarmente poetica avevo scritto sul mio blocchetto di appunti che loro, le donne, «erano come pennellate d’oro su tele monocromatiche, vento dolce in giorni afosi, e poi stavamo lì a scambiarci passione e abbracci, sudore e lacrime...», e altro ancora che non rammento. Con chi scambiavo passione e abbracci? Non c’era scritto niente e, in quel momento, proprio non mi passava per la testa il volto di una donna che mi avesse indotto a dedicarle tutto quell’amore. Probabilmente avevo vissuto un momento d’estasi così forte che avevo sentito il bisogno di dargli sostanza scrivendo quelle poche righe, nell’illusione di possedere anch’io una pur modesta vena poetica e la capacità d’amare intensamente. Trascorrere una notte con una donna è sempre stato molto più che una distrazione. Molte di loro si persuadevano che fosse solo sesso. Io non l’ho mai pensato. Indipendentemente dalla durata del rapporto, che si trattasse di molte ore o pochi minuti, tra me e quella persona sbocciava magia. L’amplesso diventava unione, fusione, una simbiosi che legava sottilmente, impercettibilmente oltre ogni logica e struttura, generava intimità. E alla fine di tutto a me rimaneva tantissimo. Rimaneva l’essenza, il mistero, il punto da cui tutto comincia, il fulcro della vita intera. Inconsapevolmente lei, una qualunque lei, mi aveva regalato il principio di tutte le cose. Per quella sensazione avrei dato qualsiasi cosa. La cercavo, la ricercavo, la trovavo e la possedevo. Possedere è il termine perfetto. Al mattino andavo via con la sensazione, anzi la certezza di essere padrone di quella donna da lì all’eternità. E dunque era mia soltanto, sì, da lì all’eternità. Una follia! Senza dubbio una follia. 30


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A casa avevo salutato mia madre che cuciva, cuciva sempre. Dopo la morte di mio padre, mamma passava le sue intere giornate a cucire. E costruiva abiti per uomo, per un uomo che non aveva più, ma che forse immaginava di avere ancora. Avevo fame e così mi ero avvicinato al piccolo frigorifero che era quasi un prezioso oggetto d’arredo tanto era curato. C’era yogurt, come sempre. Quando dico c’era yogurt è perché ce n’era una quantità impressionante. Ma in fondo perché meravigliarsi? Non siamo tutti un po‘ fissati? Non abbiamo tutti le nostre piccole manie e ossessioni? Gli stessi nostri rituali del mattino, per lavarci, o la sera per metterci a letto e attirare bei sogni, non sono forse manie? La mia fissazione consisteva nell’amare le donne, quella di mia madre era quella di acquistare yogurt in quantità per poi gettarlo alla scadenza precisa e acquistarne dell’altro. Avevo preso un vasetto, un cucchiaino e mi ero stravaccato sul divano della cucina, proprio accanto alla macchina per cucire di mia madre, la quale si agitava tenendo il piede destro sulla pedaliera della sua adorata macchinetta. La guardavo, concentrata sulla piega di quel pantalone scuro. Settantanove anni e aveva ancora lo sguardo limpido di una piccola canaglia. Parole buone per un copione teatrale. Lavorava da una vita, china su quella macchina, sempre la stessa, appartenuta alla madre che l’aveva acquistata con tanta fatica oppure ricevuta in regalo e poi l’aveva consegnata a lei senza troppe parole per sbrigare al meglio lavori che si tramandano di generazione in generazione, come il carattere, come il diabete, come la cattiveria. Probabilmente se fossi nata femmina avrei ereditato quel fardello. A dir la verità non sapevo come mia madre considerasse il suo lavoro, non glielo avevo mai chiesto. Forse quella poteva essere una buona occasione per parlare un po’, magari anche di noi due. Mi stavo apprestando ad approfittare del momento, quando lei aveva esclamato estasiata «oh! Guarda!», alzando con tutte e due le mani il pantalone appena cucito. «Che ti pare? Non è perfetto? Te lo misuri per favore?» E come avrei potuto risponderle 31


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no? Quella vocetta, che usava solo quando doveva chiedermi qualcosa, mi struggeva il cuore, mi inteneriva come solo lei sapeva fare. A volte ci sono parole e voci che rimangono, a discapito del tempo, del luogo e dello spazio. Restano intrecciati a un ricordo come due innamorati indivisibili, come gancio e uncino saldati insieme a formare una catena. Avevo provato il pantalone e mi stava largo, come sempre. Ma a lei serviva la lunghezza. Mio padre, che mai ho conosciuto bene perché a me parlava poco e spesso era fuori casa tanto che avevo l’impressione che di fatto avesse abbandonato la famiglia, probabilmente era alto quanto me. Lei continuava a fargli vestiti anche dopo la sua dipartita che era stata devastante per noi tutti, credo. Avevo l’impressione che mia madre pensasse che da un momento all’altro quell’uomo sarebbe ricomparso, al punto che ancora l’aspettava. Continuava a sognare il giorno in cui sarebbe tornato. Lo immaginava come il giorno più bello della sua vita: dalla finestra lo avrebbe visto scendere dalla bicicletta il suo amore codardo ma pur sempre principe della sua piccola vita e allora le sarebbe corsa incontro, come nei romanzi di Liala che allora facevano furore. Per questa ragione mai avevo veramente creduto al gesto di mia madre come intenzionale. Uno sbaglio, una disattenzione, uno scatto d’ira, ecco. Questo sì. Può accadere che si faccia del male in modo fortuito, inconsapevole. Del resto siamo esseri complessi noi e sbrogliare la matassa di sentimenti è piuttosto complicato, forse impossibile. Però quello sguardo, mio Dio, riusciva ancora ad annientarmi. Avevo poco più di dodici anni allorché avevo iniziato a prendermi cura di lei, della sua fragilità, della sua tenerezza. Non ce l’avevo con mio padre, ho sempre pensato che avesse avuto le sue buone ragioni per smettere di volerci bene, anche se non riuscivo a comprendere perché non amasse più nemmeno me. Mi chiedevo come potesse un uomo trasformare la nostra vita sentimentale in un deserto. Voglio dire la mia e la sua. Così, col tempo, mia madre era diventata la mia piccola bimba, mia figlia, la compagna di scuola 32


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e di giochi, la mia imperturbabile, fanatica torturatrice. L’amavo e mi terrorizzava. Sì, proprio così, ma ce l’avevo con papà. «Capisce che la cosa è innaturale», mi aveva detto preoccupato un pomeriggio d’autunno don Carlo che si curava dei suoi parrocchiani con una devozione davvero commovente. Non gli avevo risposto, non sapevo che cosa dirgli se non ripetere dentro di me che mi sembrava naturale fare ciò che facevo, tanto più che tutte le mie azioni, i miei abbracci, il canticchiare le ninne erano spontanee. Inginocchiata ai miei piedi, ripiegava i pantaloni di quell’uomo tanto amato, sognato, tenacemente agognato. E tutte le volte qualcosa in me moriva, ma non so spiegare esattamente che cosa, ma era come se ogni suo sospiro togliesse a me un respiro. Dopo aver stampato a mia madre un bacio sulla fronte, mi ero diretto pensieroso in camera. Mi ero fermato dinanzi la valigia vuota come la mia vita e la tristezza mi aveva invaso. Capita di aver bisogno di qualcosa di più, di inaspettato. Avevo fame di novità, di dolcezza, di freschezza, di petali trovati nella vasca, di un dolce a forma di cuore, di un campanello che suonasse all’improvviso e una porta spalancata a consegnarmi un viso che non speravo più di vedere, del trillo del telefono e una voce gentile, dolce, sempre più dolce, che mi chiedesse quasi supplicando di restare, di una persona che mi guardasse intensamente fino a spogliarmi completamente l’anima. Io nudo davanti a lei, nella mia pochezza. Lei estasiata da quel poco. Oh Dio, che pensieri! Tutta colpa dei miei cinquant’anni!, mi dicevo. O forse ero solo stanco, stanco di viaggiare sempre mentre saliva inarrestabile il bisogno di fermarmi per capire quale direzione stava prendendo la mia vita e se in quella vita c’era abbastanza per non sentirmi un fallito. Avevo preso a piegare le mie camicie bianche, lentamente, in modo preciso, stirando per bene le maniche, sovrapponendo bottone ad asola per non sgualcirla; quattro camicie per nove giorni di viaggio mi sarebbero bastate. Avevo l’abitudine di toglierla alla 33


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sera, di sistemarla sulla gruccia di legno e appenderla alla maniglia della finestra, così da assorbire l’aria buona della notte e rilasciare l’odore della mia pelle. In questo modo le mie camicie erano sempre fresche, profumate e ordinate. Beh, insomma, quasi sempre. Avevo sistemato attentamente nella valigia anche due vestiti, mutande e maglie di lana per via del freddo pungente del nord, un pigiama, le pantofole e la mia sacchetta da viaggio per l’igiene personale, sapone di marsiglia, sapone da barba con rasoio e lamette, dentifricio, spazzolino, pettine... Tutto in ordine, tutto controllato. Infine avevo predisposto l’abbigliamento per la partenza dell’indomani mattina, pantalone di lana, giacca blu pesante e camicia rigorosamente bianca. Adoravo il bianco ma anche il rosso. Avevo sistemato la preziosa valigia contenente la possibilità di guadagno, un futuro migliore e chissà che altro, proprio accanto a quella dei miei cambi ed ero tornato da mamma per la cena. Era un po’ giù poveretta, lo sguardo sommesso, i movimenti lenti, il volto tirato con il segno della tristezza inciso, suppongo a causa della mia partenza. Io costernato di crearle quell’apprensione, mi ero seduto silenzioso a tavola. Avrei voluto vederla solo felice mia madre. Aveva sofferto fin troppo da sempre, come me, come mio padre. L’infelicità era il filo spinato che ci teneva legati. Allora avevo pensato di farle un bel regalo per Natale, al mio ritorno, per scaldarle il cuore. Mamma aveva preparato il mio piatto preferito, fettine panate e patatine fritte. Di notte avrei avuto senz’altro gli incubi per quella cena poco leggera, ma ne sarebbe valsa la pena. Seduta affianco a me, spiluccava. Mangiava poco mia madre e così, un po’ spettinata per la stanchezza e un po’ perché non amava curarsi, sembrava proprio il pasto di un uccellino infreddolito, con le piume tutte arruffate, madide a causa dell’umidità della sera. Tenera e piccola... l’avrei abbracciata in quel momento. Era davvero così o immaginavo che potesse essere così? E pensare che l’avrei rivista solo dopo molti giorni. 34


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