L'ultima notte

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ISBN 978-88-7381-370-5

Illustrazione di copertina: Alessandro Battara

9 788873 813705

Minerva Edizioni

L’ultima notte

Giacomo Battara

Giacomo Battara vive a Ferrara. Con la Minerva Edizioni ha pubblicato: Fuori scena (2005), Scritto in blu (2006), Pusher (2009). Cura progetti editoriali per alcune Case Editrici e collabora con il museo MAGI’900.

Romanzo

Giacomo Battara

L’ultima notte Minerva Edizioni

In una New York in progressiva dispersione orizzontale, Martin ha scelto una vita verticale: ascensorista di mestiere, scorre le sue notti traghettando da un piano all’altro gli ospiti dell’Empire Hotel. Un continuo salire e scendere, accompagnato dal carillon di suoni di quella “scatola di metallo”, culla Martin e il suo ciclico quotidiano, fino alla notte in cui l’eco di due spari spezza il silenzio dell’Empire addormentato. Un evento che porterà Martin ad implacabili indagini sul suo vissuto e alla presa di coscienza di realtà mai ammesse a se stesso. Una storia lineare e poliedrica al tempo stesso, eventi semplici su fondamenta intricate. Un susseguirsi di ascese e discese, dalla cima al fondo, un incessabile su e giù, metafora del pensiero e dell’animo umano, in equilibrio tra ciò che è tangibile e ciò che si intuisce, tra ciò che si prova e ciò che non si riesce ad esprimere.

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Eu , 17 00



Narrativa Minerva Collana diretta da Giacomo Battara

l’Ultima Notte


Ultima Notte Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Giacomo Battara Redazione: Giulia Scabbia © 2011 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN: 978-88-7381-370-5 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com


Giacomo Battara

l’Ultima Notte

Minerva Edizioni



Faceva un freddo polare Faceva un freddo polare quella notte di venerdì a ridosso del Natale dell’Ottantadue. Nonostante il riscaldamento girasse a pieno ritmo non riuscivo a governare le improvvise scariche di brividi che mi facevano battere i denti per dieci, quindici secondi o forse più, e che mi tenevano bloccato come se fossi stato inchiodato al pavimento, reso morbido da una spessa moquette di colore tabacco chiaro in tinta con quella stesa sugli ampi corridoi dell’Empire, in attesa di un’altra scarica che arrivava sempre, maligna, dopo poco. Trascorsi alcuni minuti avvolto da un incomprensibile immobilismo fisico ma con la mente che disperatamente tentava di placare i tremori, poi improvvisamente tutto cessava e allora sentivo forte la voglia di sgranchirmi le gambe e sbattere i piedi per terra. Mi era già successo di tremare in quel modo anche in estate, però quasi sempre alla fine del turno di lavoro, per cui ho sempre pensato si trattasse solo di stanchezza. Quella sera, invece, tutto accadde poco dopo l’inizio del turno e quindi avevo di fronte a me ancora molte ore da consumare dentro a quella specie di bunker mobile di metallo e luci colorate. Se le cose fossero continuate allo stesso modo, voglio dire battendo violentemente i denti e sconquassato da quei tremori, avrei trascorso una nottataccia senza neppure uno straccio di idea per evitare quella situazione di precarietà che un po’ mi spaventava. 5


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Per un istante ebbi addirittura paura di rimanerci secco, che il cuore si spaccasse a metà e che tutto il mondo attorno svanisse in pochi secondi lanciandomi nel buio senza fine da solo nel mio bunker, senza che nessuno potesse vedermi e forse aiutarmi. L’idea di crepare non mi era mai passata per la testa, tanto più che mi sentivo bene, ero ancora giovane e avevo ridotto il numero delle sigarette alla menta. E per quanto riguardava il bere, beh, nemmeno in quel caso si poneva la questione dato che ero quasi astemio. Dunque, fino a quel momento, mi sentivo immortale, o giù di lì. Nonostante pensassi alla morte (devo dire che ci pensai con molta angoscia essendo la prima volta che la testa s’attardava su quel macabro evento) come un qualcosa per nulla improbabile, vista la situazione in quel momento, e sebbene fossi concentrato con ogni risorsa disponibile sugli sforzi che reputavo fondamentali per allontanare quell’accadimento, mi resi conto che tutte le difese attivate erano sostanzialmente vane, perché, mi dissi, quando ti tocca ti tocca, e hai voglia a dire che fumi poco, non bevi niente o quasi ed altre balle del genere. Insomma mi ero rassegnato a lasciare il mondo delle cose, nonostante tutti i miei blablabla scaramantici e di resistenza. Tuttavia nel mio delirio m’imbattei in uno scampolo di lucidità ed ebbi la certezza che c’era qualcosa che non andava, a parte la visione ingombrante della morte senza volto. Era come se sentissi l’approssimarsi di eventi drammatici che mi avrebbero coinvolto e stravolto. Una specie di premonizione che fino a quell’istante non avevo mai sperimentato. Di solito mi capitava di intuire qualcosa, ma il più 6


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delle volte le mie intuizioni rimanevano tali, senza mai darmi riscontri soddisfacenti. Tentai di calmarmi, di respirare profondamente e di pensare che era colpa della mia fervida immaginazione che, essendosi stancata di starsene buona al suo posto, e credo pure annoiata, aveva deciso una sortita, tanto per divertirsi un poco, con l’intento preciso di prendermi in mezzo e di ficcarmi in quella disarmante situazione. Ogni resistenza si rivelò inutile perché lei, mi riferisco alla mia immaginazione, aveva raggiunto il suo obiettivo agevolmente, dato che di nuovo avevo sentito le forze venire meno tanto che a un certo punto ebbi l’impressione di cadere in un abisso cupo e profondo. Allora pensai che non ci fosse più nulla da fare, che toccava a me, che davvero stavo per finire e che quell’abisso scuro e profondo non fosse altro che il ventre stesso della morte. Mentre mi figuravo prigioniero del nulla eterno che aveva finalmente deciso, con un ultimo strattone, di portarmi lontano dalle poche cose terrene che possedevo (un orologio neppure di marca che indossavo quasi sempre, indumenti di vario genere e quattro mobili, proprio quattro di numero) nonostante si fosse imbattuto in una resistenza che a me parve vigorosa e quasi eroica, udii l’eco terrificante di due colpi di pistola esplosi in rapida successione. E quella volta non fu la mia immaginazione ad attirarmi in una trappola, erano veramente colpi di pistola perché quei boati sinistri mi risultavano non proprio familiari ma quasi. Chi ha vissuto nel Bronx a quei tempi sa di che cosa parlo. 7


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Guardai istintivamente l’orologio e mi stupii di constatare che era già notte fonda, mi restavano dunque poco più di tre ore di possibili tremori e spaventi prima di concludere il turno di lavoro. Tuttavia quei colpi di pistola spazzarono via in un attimo l’ombra della morte insieme al senso del tempo consumato e alla conta di quello che restava, e il cuore, paradossalmente, prese a battere con più regolarità e vigore, al punto che dimenticai il fatto che stavo per morire e cercai subito di capire da dove fossero provenuti quei due colpi e chi fosse morto al posto mio, ammesso vi fosse stato un morto o più di un morto. Ma sì che c’è stato un morto, mi dissi. E mentre mi palpavo energicamente il petto e le spalle per sincerarmi che esistessi ancora, pensai che la morte aveva bisogno di portare via ogni giorno un tot di cristiani o musulmani o ispanici o irlandesi o quelli che erano e che, in fondo, a lei non importava molto di sapere chi erano, ma quanti erano. Insomma, una semplice questione di numeri: un tot nascevano, un tot dovevano morire e punto. In sostanza le erano indifferenti le modalità della dipartita, l’età, il sesso, il colore delle pelle, se il predestinato era bello o brutto e altre stronzate del genere. In un eccesso di stupidità giunsi perfino a chiedermi se quella scelta casuale fosse accettabile. No, che non lo era, mi risposi con una serie di argomenti sconclusionati che confondevano la trama della vita con il destino e la casualità, in un insieme che non aveva né capo né coda. I colpi provenivano dall’alto, dal dodicesimo piano o forse dal tredicesimo. Io, in quel momento, ero parcheggiato al secondo. 8


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Avevo già visto corpi maciullati sotto i colpi di armi da fuoco ma soltanto in alcuni filmati (sempre attentamente depurati da tutte le visioni ritenute insopportabili per uno stomaco normale e per un’altrettanto normale sensibilità), video girati da inviati di guerra con le palle d’acciaio che se ne stavano nelle trincee a scansare pallottole, pregando il loro Dio di non rimanerci secchi mentre riprendevano scene di battaglia e inimmaginabili follie umane, in terre che uomini come me non sapevano neppure esistessero. Ne avevo visti anche per strada di morti ammazzati, dove qualche poveraccio ci aveva lasciato le penne offrendo di sé solo l’immagine di un corpo scomposto, pietosamente coperto, ma non sempre e non subito, soltanto dopo una interminabile serie di fotografie, con un telo che si sporcava progressivamente di polvere scura, mescolandosi alla macchia di sangue in rapida espansione. Erano morti ammazzati osservati a distanza di sicurezza, istantanee presto dimenticate con una semplice scrollata di spalle. Ma quello che vidi quella notte, così da vicino al punto di sentire il puzzo della carne bruciata, non l’avevo mai visto. La visione di quel cadavere di donna mi sconvolse, perché sembrava aver assunto su di sé, su quel poco che restava del suo volto, tutto il dolore disperato del genere umano quando sta per morire di morte violenta. Quegli occhi fuori delle orbite, così tragicamente inespressivi nella loro forzata stabilità, quelle mani rattrappite non so bene se dal terrore, o dal dolore, o da entrambi, erano le stesse che in qualche modo avevo più intuito che visto nei filmati 9


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di guerra, e tuttavia ogni cosa mi sembrò differente, perché tra me e la visione di quei cadaveri ripresi c’era uno spazio, una lontananza fisica che ci separava e in qualche modo mi proteggeva. Ma quella notte no, non c’era uno spazio a difendermi, c’era quasi un contatto, e c’era puzza di polvere da sparo, c’era sangue che colava e tingeva il pavimento e nell’aria maleodorante si intuiva la presenza dell’ultimo respiro di quell’essere, di quella persona, che forse aveva chiesto disperatamente di vivere ancora. Allora, all’improvviso, quella visione mi produsse un colpo al cuore, una cannonata nello stomaco e le mie notti, sempre geometricamente occupate, da quel momento non furono più le stesse, come se la mente, così predisposta alla presunta razionalità del mio tempo, mi fosse stata strappata dal cranio e gettata sulla strada dove si può trovare di tutto tranne razionalità, specialmente follia come nelle guerre in cui la dignità umana si perde, in cui odio e brutalità diventano compagne di vita. E dunque pensai che il freddo, i tremori irrefrenabili che avevo addosso poco prima, non fossero altro che segnali premonitori di un evento che mi avrebbe segnato. Pensai a mia madre che per ogni contrarietà possibile snocciolava una serie di avvertenze per un uso corretto e sicuro della vita. Un pensiero fugace che non c’entrava nulla con ciò che avevo visto.

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Lo puoi vedere anche tu? Lo puoi vedere anche tu?, gli ho chiesto senza guardarlo. Lui, invece, si è girato verso di me perché ho intuito il suo sguardo addosso e credo che mi abbia fissato per alcuni secondi. Ho addirittura immaginato la sua espressione piena di stupore per la domanda un poco bizzarra che gli avevo rivolto, ma non saprei dire se si fosse stizzito o meno per il fatto che gli avevo attaccato bottone. Lo puoi vedere anche tu?, gli ho chiesto per la seconda volta e in un tono più deciso, come se fosse obbligatorio dare una risposta. Che cosa? Che cosa dovrei vedere?, mi ha risposto con una voce fredda come una stecca di ghiaccio. Là, davanti a noi. È uno spettacolo Lo vedi? Questa è una posizione ideale per poterlo ammirare in tutta la sua enormità. Basta puntare gli occhi verso l’alto, oltre la cima degli alberi… Laggiù davanti a noi, si vede bene, si vede soltanto lui. È ancora stupendo, veramente. Evidentemente dovevo averlo convinto a fare quel semplice movimento del capo verso l’alto perché dopo poco mi ha risposto. Beh, mi ha detto, vedo una torre grande e grigia e mi sembra anche malconcia, ma è troppo distante per dire con certezza che è davvero malconcia. Comunque sì, vedo una torre. È questo che volevi sapere? Constatai che la voce non era più fredda come prima e questo mi rasserenò. 11


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No! Sappi che quella non è una semplice torre come la chiami tu. Quello è l’Empire Hotel, una cassaforte piena di storie di tradimenti e d’amore, di delitti, di intrighi, di disperazione Insomma il meglio ed il peggio del genere umano che là, in quel mondo tutto in verticale, ha vissuto magari soltanto per una sola notte o frammenti di una notte. E là, sono certo, tutti hanno lasciato di sé una traccia profonda ed impalpabile allo stesso tempo. Hai una vaga idea di che cosa ti sto parlando?, gli ho chiesto un po’ seccato. Già, perché proprio non avevo digerito la definizione che aveva dato dell’Empire. Una torre! Accidenti, le torri sono tutt’altra cosa. Quasi mi sentii offeso. Lui mi guardò perplesso e mi rispose che non aveva assolutamente idea di che cosa gli volessi dire e neppure sapeva se avrebbe provato un qualche interesse. Dopotutto non mi conosceva nemmeno. Non sapeva nulla di me, neppure il nome. E questo che c’entra?, gli ho detto. Spero non vorrai dirmi che per scambiarsi due parole bisogna prima presentarsi per bene e raccontarsi un po’… Ah, sì, così uno si sente più tranquillo vero? Già, capisco. Comunque, se questo ti può rassicurare in qualche modo, mi chiamo Martin… Io Larry. Allora Larry, gli ho detto incalzandolo, che cosa mi dici di quella meraviglia che hai di fronte, là in fondo? Scusa Larry se ti parlo in modo così confidenziale, spero che la cosa non ti innervosisca. Dopotutto siamo coetanei, più o meno. Io ho all’incirca settant’anni. Lo so, sono portati così così perché faccio fatica a vivere. È incredibile, faccio più fatica a 12


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vivere adesso di prima. Prima di quando?, stai pensando. Prima di adesso. Adesso la vita è più dura. Sarà perché ho poche cose da fare. Però ho molto tempo per pensare e questo, davvero, mi sembra una gran cosa, capisci? In pochi hanno il tempo per farlo, per pensare dico, e se ce l’hanno magari manca loro la voglia o, peggio, il coraggio. Sono tutti troppo indaffarati. Il lavoro, i figli se ci sono, le donne, gli amici. A volte sono riempitivi per non pensare. È brutto a dirsi ma è così. Però intanto bruciano il tempo. E tu Larry, hai tempo per pensare? No, non rispondere, voglio indovinare. A volte sì, a volte no, quando capita. Ma di certo non ti metti seduto a pensare con metodo tutti i giorni. Non puoi, tutto qui. Ma dovresti. Se guardi bene dentro di te ti accorgerai che dovresti farlo. Oppure non sei sufficientemente ricco da disporre a piacimento del tempo che ti serve per pensare? Se fosse così sarebbe una iattura, ma non è responsabilità tutta tua e dunque non te ne devi fare una grande colpa. È questa maledetta vita che ci succhia le energie e anche il tempo. Capisco bene come ci si sente quando lo sguardo si perde in quell’immenso contenitore delle nostre immaginazioni che è il cielo, e poco importa se si tengono gli occhi aperti o chiusi quando non si è in grado di elaborare nemmeno un pensiero o avere una visione, un frammento di immagine che quasi può dare un senso alla vita. È vero? È così? Accidenti Larry, hai cambiato espressione. Spero non sia a causa delle mie parole. Se è così ti chiedo 13


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scusa, credimi, non avevo alcuna intenzione di rattristarti né d’essere presuntuoso. Forza Larry, dimmi qualcosa, non startene lì muto e con il muso lungo. E poi siamo qui, seduti su questa panchina a rimestare tra i nostri ricordi nella speranza di cavarne fuori almeno uno dolce. Dimmi Larry, è così? Per me sì, gli ho detto. A me una cosa del genere non è mai capitata. Voglio dire di incontrare uno che mi rimbambisce di parole, che vuole sapere di me, magari se sono ricco o un morto di fame e mi racconta tutte quelle puttanate sull’immaginazione. Comunque Martin, mi ha detto, non mi sono offeso, ma ora devo andare perché mi è venuto tanto freddo… vedi?, mi fa battere i denti e alla nostra età ci vuole un niente per beccarsi qualcosa e quando una persona vive sola come me, se si ammala, sono dolori, in ogni senso. Lo guardai attento e non mi sembrò che battesse i denti. Avrei voluto che rimanesse ancora, avevo molte cose da dirgli e penso che anche lui, prima o poi, si sarebbe deciso a raccontare qualcosa. Per questo gli domandai di farsi vedere il giorno dopo, alla stessa ora e nello stesso posto, così, tanto per stare insieme e parlare di noi, delle nostre vite forse disordinate, di certo solitarie, eccetera. Può essere che ci rivediamo Martin, può essere, mi ha detto senza troppa convinzione mentre lentamente si alzava aggiustandosi l’impermeabile nero. Subito dopo l’ho visto dirigersi verso la torre, come la chiamava lui, che svettava sulla sessantatreesima strada. Lo seguii con lo sguardo fin dove potei ma poi lo confusi in mezzo alla folla oscillante. Presto diventò 14


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un punto scuro inghiottito da una macchia nera. Pensai che forse avrebbe preso la metropolitana al Lincoln Center o giù di lì. Ricordo che prima che sparisse in mezzo al caos umano notai il suo passo che m’apparve incerto, quasi volesse cedere con insistenza sulla gamba destra forse perché colpita dalle artriti o da qualche altro accidente che condizionava la sua marcia. Teneva il capo abbassato come se si vergognasse o cercasse qualcosa, per questo, ogni tanto, rischiava di sbattere contro altre persone, tuttavia sembrava non curarsene e continuava a procedere senza distogliere lo sguardo dal suolo. La giornata era fresca, non fredda, anche se eravamo a metà ottobre. Dunque mi aveva mentito inventandosi la storia del freddo che gli faceva battere i denti. È più probabile che ciò che gli avevo detto l’avesse seccato, oppure, volli pensare, che avesse un appuntamento con qualcuno, il cui nome doveva essere taciuto perché erano affari suoi e non miei, che lo stava aspettando da qualche parte. Giusto. Beh, però, se veramente aveva un appuntamento bastava dirlo, non mi sarei offeso né avrei indagato. Il dubbio mi rimase e mi rimbalzò dentro per qualche minuto senza che alla fine potessi risolverlo. Comunque che fosse un solitario ne ero sicuro. Dopotutto, me lo aveva anche detto.

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A proposito di solitudine A proposito di solitudine devo dire che anch’io ero solo, a casa mia non c’era anima viva che mi attendesse oramai da tanto tempo. Aveva ragione mia madre quando mi diceva che sarei rimasto solo come un cane perché ero troppo ingenuo e troppo buono. Pensavo che bontà e ingenuità fossero virtù e per un sacco di tempo mi sono detto con una ostinazione quasi maniacale che preferivo essere come ero piuttosto che il contrario. Chissà perché questa litania me la ripetevo sempre guardandomi allo specchio, come se fossi alla ricerca di una esplicita conferma riflessa che, ovviamente, non arrivava mai. Successivamente non ci ho più pensato, ho rimosso la questione. Però, sì, devo ammettere, mio malgrado, che aveva ragione mia madre che di vita se ne intendeva. Piazzai di nuovo lo sguardo in direzione dell’Empire e, esattamente come un tempo, mi sembrò il dominatore assoluto di Manhattan. Sollevai i piedi dalla terra umida, raccolsi le gambe al petto con un certo sforzo e piazzai i piedi sul bordo della panchina senza distogliere lo sguardo da quella lama che a me pareva ancora scintillante, conficcata nel cielo quasi blu. E in quella nuova posizione, guadagnata con fatica e non senza sinistri scricchiolii delle ginocchia, immaginai quel cielo ferito come se fosse l’oceano solcato da una stretta, luminosa e lunga onda bianca, schiumosa, e quella trasfigurazione mi 16


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commosse profondamente senza che potessi dare né in quell’istante, né in seguito una spiegazione plausibile a quello che pensai fosse un singolare sussulto dell’anima. Mi fece male la sola idea che il cuore dell’Empire non avrebbe battuto più come un tempo se davvero fosse diventato una banale torre. Ma di certo, da quando non lo vivevo più, ed erano trascorsi molti anni, qualcosa doveva essere mutato per forza, anche se non avrei saputo dire in che cosa se si escludono i compagni di lavoro. La tenue luminosità del pomeriggio stava cedendo all’avanzare delle prime ombre e presto il buio avrebbe avvolto la città lasciando spazio ad un mondo notturno pieno di insidie, un mondo duro e cruento. Mi diressi verso Columbus Circle, una buona camminata prima di prendere la metropolitana che in poco più di mezzora mi avrebbe condotto sino all’uscita sulla centossantunesima strada e poi, a piedi, a casa in circa quaranta minuti, in un quartiere abitato prevalentemente da persone piegate dal peso di una vita violenta e colma di stenti, per lo più insulsa e di certo senza futuro. Mentre camminavo pensavo al fatto che non si può diventare ascensoristi per vocazione. E poi, mi chiedevo, che mestiere è quello dell’ascensorista? Mah, mi rispondevo.

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