L'ultimo canto della Rosetta e altri racconti di cronaca milanese

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A mia nonna Adriana A mia madre Anna Maria



L’ULTIMO CANTO DELLA

ROSETTA E ALTRI RACCONTI DI CRONACA MILANESE


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CRIMINALI

Collana diretta da Giacomo Battara

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Chiara Sellinger

L’ULTIMO CANTO DELLA

ROSETTA E ALTRI RACCONTI DI CRONACA MILANESE

MINERVA



L’ultimo canto della Rosetta

Chi non ricorda – mi rivolgo a coloro che oltrepassano almeno i cinquant’anni – il clamoroso interesse sollevato dal fattaccio che, nell’estate del 1913, ebbe a tragica protagonista “la Rosetta”, una splendida creatura la quale, con esile ma intonata vocetta, cantava arrischiate canzonette nello scomparso teatro di varietà San Martino che s’apriva fra le vie Pattari e Beccaria? Era un fiore di bellezza la povera Rosetta, sbocciato nel fango. Basti dire che era nata e viveva nella soppressa via Vetraschi – tanto nomini… – e quantunque ancora giovanissima, conduceva vita libera… Toccò a me richiamare, sulla misteriosa e pietosa fine di quella sciagurata, l’attenzione non solo dei milanesi, ma di tutta l’Italia con echi anche all’estero. In un pomeriggio afoso d’agosto ero al parco dietro il Castello Sforzesco a impartire lezioni di ciclismo al mio capocronista. Dal mezzogiorno alle quindici in Questura si riposava ed ero, quindi, libero. Passò un rivenditore di giornali e ne comprammo uno del pomeriggio per vedere se qualcosa in cronaca ci fosse sfuggito (in quegli anni si lavorava sul serio e il cronista che non avesse saputo acciuffare una notizia, anche minima, sapeva rimproverarsene da sé). Quel giorno la notizia c’era: nascosta sotto forma di un breve trafiletto di scarso rilievo, stampato in corpo sei e mezzo con titolino punto vistoso, ma c’era. Eccola: «Ribellione di malviventi contro la polizia. – La scorsa notte, verso il tocco, al largo Carrobbio, una pattuglia di agenti di Ps ha affrontato un gruppo di malviventi, tra i quali alcune donne, che cantava a squarciagola canzonacce 11


sguaiate disturbando la quiete pubblica. Invitati a smetterla e a ritirarsi, gli schiamazzatori si sono ribellati impegnando con gli agenti una furiosa colluttazione. Dopo dura lotta, alcuni dei ribelli vennero ridotti all’impotenza e tratti in arresto mentre altri si sono dati alla fuga.» Tutto qui. Penuria di notizie in quei giorni... e il capocronista mi suggerì di dare un’occhiata per sapere che cos’era effettivamente successo e per raccogliere possibilmente qualche nuovo particolare che ci permettesse di riprendere la notizia nell’edizione della sera. La cosa prometteva così poco – tafferugli fra indisciplinati e forza pubblica se ne lamentavano quasi ogni notte – che continuammo per qualche po’ ancora le nostre esercitazioni ciclistiche prima di lasciarci: il collega per andare al giornale, io per recarmi al largo Carrobbio. Là giunto, seppi che la fase più viva del conflitto era avvenuta, invece, nel vicino corso Ticinese all’angolo di via Vetraschi, la prima che si diparte a sinistra del corso stesso. Avevo compiuto pochi metri, quando un agente in borghese mi fermò per domandarmi chi fossi e dove andassi. La mia qualità di giornalista mi servì da lasciapassare e proseguii. Caspita! Che succedeva? Buona parte del corso fin oltre le colonne di San Lorenzo, piazza Vetra e tutte le vie adiacenti erano presidiate da guardie e carabinieri: i negozi chiusi, le porte delle case in massima parte sbarrate, il notevole normale movimento del popoloso rione paralizzato. Sotto il primo arco delle famose colonne, un gruppo di persone, che andava sempre più ingrossando, era guardato da un forte nucleo di poliziotti: tutta gente “fermata” in attesa di essere portati in Questura. Avvicinai il funzionario che dirigeva l’operazione, mio conoscente: «Che succede?». «Non posso parlare ora, non ho tempo! Passa più tardi nel mio ufficio!» 12


«Perché tutti questi arrestati?» «Ti dirò poi!» e corse a impartire disposizioni per il carico dei “fermati” su autopubbliche giunte dal centro. Norma costante, nell’esercizio della mia funzione di cronista, è sempre stata quella di non accettare a priori la versione di un fatto anche se comunicatami dalla polizia. Prendevo nota di tutto quello che mi si diceva per procedere, in seguito, a un lavoro di controllo e di accertamento. Ciò non tanto perché diffidassi della sincerità dei funzionari, costretti sovente a sottacere particolari importanti per “non compromettere l’esito delle indagini”, quanto perché ero convinto, e lo sono tuttora, che il modo più sicuro per formarsi un concetto esatto dei fatti è quello di raccogliere tutte le versioni, di sentire tutte le campane, di interrogare direttamente i testimoni. Non che vi fossero commissari capaci di falsare un fatto allo scopo di far credere riuscita un’operazione che invece non lo era – ne ho conosciuti pochi di tali funzionari e quasi tutti hanno percorso una carriera breve e punto gloriosa – ma con noi giornalisti i protagonisti, come i presenti al fattaccio, parlano con maggior confidenza non avendo paura di compromettersi. Con la stessa libertà e franchezza, cioè, con le quali si confidano al giudice. Parrà strano e forse un po’ presuntuoso questo avvicinamento del giornalismo alla Magistratura, ma tale è la mentalità del popolino. L’informatore che dice al giornalista di non pubblicare il suo nome ha la certezza di essere ascoltato, così come al magistrato può parlare sicuro del segreto, senza dover subire gli interrogatori preliminari, i confronti, le contestazioni con cui la polizia giunge o crede di giungere all’accertamento delle responsabilità. Anche nel fattaccio che sto revocando volli frugare direttamente e, poiché il commissario non poteva o non voleva parlare, cercai chi parlasse. Ma dove rivolgermi con quel po’ po’ di paura che c’era in giro? La “ribellione” della notte prima aveva 13


avuto il suo epicentro, fu detto, all’angolo di via Vetraschi e fu a quella via che volsi i miei passi. Andavo rasente il muro in attesa che qualcuno si mostrasse – notate che era il primo meriggio – allorché scorsi il battente socchiuso di un’osteria che, quando mi avvicinai, venne interamente chiuso. Bussai con le nocche delle dita. «Sono un giornalista, apritemi per favore! Non ci sono guardie qui!» Udii un sommesso confabulare di gente che si consigliava. Poi la porta si aprì e una faccia spaventata, quella dell’oste, si disegnò nello stretto spiraglio. «Svelto che chiudo!» Entrai e mi trovai di fronte a una diecina di persone, in maggior parte donne. Sui loro visi, illuminati di riflesso dalla fioca luce di una lampadina elettrica accesa nel retrobottega, si leggeva la trepidazione e il terrore. Ringraziai della fiducia accordatami e, mostrata la tessera di giornalista per fugare il sospetto che leggevo in più di uno sguardo, chiesi che cosa di grave era avvenuto. «Dalla scorsa notte la Questura arresta persone…» «Sì! Non vogliono si dica che la povera Rosetta l’hanno ammazzata loro!» sibilò la voce di una donna che singhiozzava. Diedi un balzo. «Una donna uccisa? Come? Quando? Perché?» Tolsi di tasca carta e matita. «Venga qui! Ci si vede meglio ed è meno facile che fuori ci sentano» intervenne l’ostessa conducendomi per un braccio nel retrobottega. Il difficile per me fu costringere quella gente a parlare per turno, con ordine. Tutti volevano dire la loro: anticipavano particolari, si smentivano a vicenda, si rimbeccavano poco garbatamente intercalando la narrazione con certe parolacce così triviali da farmi capire subito in mezzo a che razza di per14


sone ero capitato. Le donne erano infatti le… inquiline di una di quelle case che l’ipocrisia moralista definisce innominabili, per dare a esse un nome. Gli uomini ne erano i degni amici. «La Rosetta è stata a dormire con me l’altra sera... Una così brava e buona figliola!» diceva con voce sommessa una di quelle disgraziate. «È stato il brigadiere a vendicarsi perché, poverina, non lo poteva vedere. L’aveva minacciata tante volte!» «La Questura – per questa gente fuori dalla legge la parola “Questura” serve a indicare tutti coloro che rappresentano un’autorità – già da tempo cercava il modo di poter inveire contro di noi! Perché poi? Non siamo forse come gli altri? Se abbiamo sbagliato abbiamo anche pagato…» lamentò un ometto piccolo, mingherlino, patito, che tossiva mettendo pietà. «Che c’entrano quelle storie lì? Taci che è meglio!» interruppero in coro gli altri. Poi volgendosi a me: «Non gli dia retta!». «Abbiate pazienza – dissi io – ma ancora non mi avete raccontato niente! Parlate uno per volta per favore, perché io possa prendere nota di quel che mi narrate.» L’oste impose il silenzio e parlò per tutti. La sera prima, poco dopo la mezzanotte, la Rosetta uscita dal teatro San Martino si era accompagnata con due amiche per andare a casa. Per via si era imbattuta in un suo fratello e in alcuni suoi conoscenti e tutti in gruppo avevano continuato a camminare chiacchierando. Al largo Carrobbio, in fondo a via Torino, la comitiva s’imbatté in un pattuglione di agenti che impose il fermo e la Rosetta, credendo trattarsi della squadra del Buon Costume, aveva esibita la tessera di libera circolazione rilasciatale come artista del varietà. Le guardie invece afferrarono il fratello suo per trascinarlo via, insieme con gli altri uomini, accusandoli di fare schiamazzo e di disturbare la pubblica quiete. 15


«È mio fratello! Perché volete fargli del male?» protestò la ragazza. «Togliti di mezzo! Se no finisci in guardina anche tu!» inveì colui che pareva guidasse il pattuglione. E con uno spintone la gettò malamente contro il muro. La sciagurata reagì dando del vigliacco al graduato e incorrendo nel reato di oltraggio all’autorità. L’alterco era valso a richiamare l’attenzione di un commissario che, a capo di un altro pattuglione, perlustrava via Torino e fu lui ad afferrare la canzonettista la quale, in preda a esasperazione per ciò che riteneva una prepotenza e un arbitrio, tentò di liberarsi. Venne allora gettata a terra con una piattonata vibratale al petto da una guardia e per di più nel trambusto una ruota della carrozza chiamata per caricarvela la travolse, procurandole altre lesioni interne. Lesioni talmente gravi che la poveretta, ore dopo, morì all’ospedale dove era stata trasportata. Naturalmente la versione datami più tardi dalla polizia fu alquanto diversa. La comitiva cantava a squarciagola canzonacce sconce, sì da provocare l’intervento degli agenti che la invitarono a smettere. I malviventi avevano sollevato alte proteste miste a minacce, così da imporre la necessità di procedere al fermo degli uomini, che erano i più violenti. La Rosetta, vedendo il fratello trascinato dagli agenti, volle prenderne le difese, ma davanti all’irriducibilità della polizia, abbandonandosi al suo temperamento impulsivo e ribelle, proruppe in offese ed epiteti volgari, strillando, strappandosi di dosso le vesti e urlando fino a cadere a terra in preda a una crisi convulsiva. Era stato chiamato allora il brumista per trasportarla alla Guardia medica, ma mentre, sollevata di peso, stava per essere adagiata sulla vettura, aveva tolto dalla borsetta qualche cosa che risultò essere sublimato corrosivo, gettandoselo in bocca. Il funzionario, non potendo fare altrimenti ché ogni ritardo 16


avrebbe potuto riuscire fatale alla sciagurata, la strinse alla gola fino a obbligarla a spalancare la bocca, perché emettesse parte del veleno. Era convinto di averla salvata, invece alcune ore dopo la Rosetta, come ho detto, moriva! Le pastiglie di sublimato erano più di una e la quantità già scesa nello stomaco fu sufficiente a ucciderla? E il particolare della ruota passatale sul corpo? Ancora oggi non so se la Rosetta e coloro che l’accompagnavano schiamazzassero – essi lo negarono sempre e nessuna testimonianza, eccettuata quella punto attendibile degli agenti (“punto attendibile” perché proveniente da parte in causa), poté essere raccolta – né se proprio fu il gruppetto a provocare col suo insolente contegno la clamorosa scenata. Anche il particolare della vittima sotto le ruote della vettura diede motivo a contestazioni, affermazioni e denegazioni. Ricordo soltanto che quando vidi all’obitorio il corpo della disgraziata, la parte superiore del torace appariva attraversata da una non dubbia striscia bluastra che, partendo dalla spalla sinistra, le segnava diagonalmente il seno per andare a perdersi sul fianco destro. E ricordo inoltre che il commissario rispondendo a una mia domanda finì per ammettere che gli sembrava infatti di aver visto la ragazza stesa sul lastrico, mentre la carrozza le passava vicinissima e che poteva darsi benissimo l’avesse sfiorata una delle ruote. Accidempoli! Sfiorata? E smentiva energicamente che vi fossero state percosse e tanto meno piattonate. Ma quella striscia bluastra si era fatta da sé? Ritorniamo alle mie ricerche nell’osteria di via Vetraschi. «Queste cose che mi riferite sono assai gravi e vi prometto di interessarmi vivamente del tragico fatto» promisi alla fine del movimentato colloquio. «È indispensabile però che la relazione sul giornale porti qualche nome di chi era presente, per darle maggiore attendibilità.» 17


I miei informatori si raffreddarono alquanto. «Sì, lo comprendiamo, ma poi la polizia se la prende con noi e sono guai!» «La polizia? – osservai – Che può farvi la polizia? Usate di un vostro diritto per compiere un dovere, mettendo chi deve giudicare in condizione di conoscere la verità. E poi quando si hanno la fedina penale e la coscienza pulita…» La botta che avevo lanciata intenzionalmente, per conoscere a fondo con chi parlavo, colpì nel segno. Tacquero un momento imbarazzati, guardandosi in faccia. «Non ci crederebbero! – disse con accento di sconforto una di quelle sciagurate – Siamo forse donne come le altre noi?» E l’umiliazione, fors’anche un po’ la vergogna, il dispiacere di non potere essere di nessuna utilità all’amica morta, la fecero arrossire. «Eh – obiettai per confortarla – vi sarà ben qualcun altro che può parlare!» Invece non c’era nessuno e mi indirizzarono alla madre e a una sorella della Rosetta, che abitavano non lontano e che, attraversando due cortiletti interni allacciati da vicoli angusti, andai a trovare. La vista delle due donne mi confermò subito che la morta doveva essere attraente. La madre, quantunque avesse passata la quarantina e fosse affranta, era ancora quel che si dice una bella donna. Un po’ formosa ma, benché indossasse un modesto vestito di percalle grigio chiazzato di untume, lasciava indovinare un corpo magnificamente modellato, mentre due occhi scuri le donavano uno sguardo penetrante e dolce che illuminava il perfetto ovale del viso. La sorella, una brava sposina, come appresi dopo, allattava un bambinone che pareva impastato di burro e zucchero e che ripeteva, ringiovanito, le fattezze della madre. Che potevano dirmi le due sventurate? Confermarono la versione raccolta nell’osteria che avevo visitata. Le pregai di in18


dicarmi qualche testimonio oculare che fosse “solvibile” (eufemismo per dire incensurato), mi indirizzarono a un droghiere e a un fornaio – se ben ricordo – i quali confermarono, salvo lievi varianti, quanto già sapevo, deplorando l’ingiustificato procedere della polizia. In Questura trovai, verso sera, l’amico funzionario e, guardandomi dal parlargli dell’inchiesta fatta, presi nota del racconto che ebbi da lui del tragico fatto. Come coi colleghi degli altri giornali, egli non accennò alla morte della ragazza perché già comunicata alla stampa sotto forma di tentato suicidio e quindi staccata nettamente dalla pretesa ribellione. Così la mattina seguente il mio giornale uscì con la primizia sulla pietosa fine della canzonettista e con le varie versioni che correvano. Coricatomi quasi all’alba, tre ore dopo già ero in città, smanioso di constatare l’impressione e l’interesse che la notizia poteva avere suscitato e per cercare altri particolari. In via Vetraschi nessuno voleva avvicinarmi. «Vada via che ci compromette!» Più di uno mi guardava in malo modo. Perché? Eccolo il perché: nel pomeriggio precedente la polizia non mi aveva perduto d’occhio e, non appena mi fui allontanato, tutti coloro coi quali mi ero intrattenuto, droghiere e fornaio compresi anche se incensurati, erano stati arrestati e rinchiusi nelle guardine di San Fedele. Povera gente! Non aveva in tutto torto di guardarmi male! Mi precipitai in Questura chiedendo di parlare personalmente col questore, un gentiluomo e un galantuomo come se ne trovano pochi. Gli espressi la mia sorpresa per lo strano e arbitrario procedere dei suoi funzionari, chiedendogli spiegazioni a nome del giornale. Allora si poteva anche agire così. Il questore chiamò a rapporto i dipendenti interessati alla brutta faccenda, volle sapere come erano andate le cose e, am19


monendoli di non spingere lo zelo fino all’abuso e alla persecuzione, espose loro la mia protesta. Un breve scambio di accuse e di denegazioni fra me e i funzionari alla fine del quale il questore, comprendendo che avevo ragione e forse riflettendo sul fatto che una protesta pubblica del giornale gli avrebbe procurato grattacapi, dispose l’immediato rilascio di tutti gli arrestati sui quali non gravassero imputazioni o sospetti fondati, con diffida naturalmente di tenersi a disposizione per qualsiasi occorrenza. Avvenne così che prima di mezzogiorno, la grandissima maggioranza di quei disgraziati poté far ritorno a casa. Ciò mi collocò in una particolare luce di popolarità e di simpatia in quel mondo tenebroso e quando ritornai in piazza Vetra, le manifestazioni di rispetto e di riconoscenza furono tali e tante da impensierirmi. Una parentesi. Sul capo di questa gente bacata, avente al proprio attivo ripetute mancanze di rispetto al codice penale, pendeva la terribile spada di Damocle dell’“arresto per misure”. Fermata e inviata al cellulare in attesa delle informazioni che la polizia non aveva mai fretta di chiedere, quanto tempo passava prima che rivedesse la luce del sole non a scacchi? La libertà di coloro che avevano la disgrazia di essere segnati sul libro nero dei pregiudicati era insomma – lo è anche oggi? – in pieno e assoluto arbitrio degli agenti, troppi dei quali, o per un malinteso senso di zelo spinto fino alla crudeltà o per altro, inveiva senza pietà contro di essi gravandoli di accuse infondate, di colpe insussistenti. Trovatisi così, i miei informatori, da un’ora all’altra fuori dagli artigli tanto temuti, benedirono chi aveva operato il miracolo e da quel momento mi considerarono un protettore, un difensore. Ammetto che in tale errata convinzione era, inoltre, un sentimento di gratitudine per l’atteggiamento di aperta riprovazione delle violenze commesse a danno di una parte di 20


loro: riprovazione che implicava molta commiserazione per la sciagurata Rosetta, che essi sinceramente amavano e che consideravano innocente vittima delle persecuzioni delle quali essi stessi erano di continuo fatti segno. Sempre secondo il loro punto di vista, l’interessamento della stampa sul tragico fattaccio sarebbe valso a mettere in luce uno stato di cose che si era fatto per essi intollerabile. Una volta caduti, non v’era più nessuna via di scampo per gli sciagurati: sorvegliati, spiati, portati in guardina sotto ogni pretesto, non potevano occuparsi di un qualsiasi lavoro perché l’implacabile ricerca della polizia portava alla loro espulsione dai cantieri e dagli stabilimenti. A ogni ora del giorno e della notte – pur quelli non soggetti a sorveglianza speciale, intendiamoci – visite e sopralluoghi in casa li riducevano all’isolamento, alla miseria, alla disperazione. I propositi di redenzione, se mai ne avevano, sfumavano con conseguente ritorno nel fosco mondo della malavita. E in quel gorgo venivano sommersi. Il male fu finalmente avvertito e si cercò di porvi riparo introducendo negli articoli del codice penale la “condanna condizionale” e la “non iscrizione del primo errore nel casellario”. Sorsero istituzioni private – la Casa di redenzione sociale di Niguarda, L’Asilo Salvadori per i liberati dal carcere e le famiglie loro; la Cesare Beccaria per i minorenni traviati – e se non si ebbero risultati decisivi si riuscì tuttavia a salvare parte del salvabile. Ma occorreva altro. È stato fatto? Se no, si pensa di farlo? Dicevo, dunque, che l’essere considerato dai miei nuovi e strani amici un protettore mi preoccupava, in quanto tale posizione non era priva di incognite. Non avrebbero sperato essi più di quanto volevo o potevo mantenere? E quali le conseguenze di una delusione? A capo di tutti per autorità era un tipo di circa quarant’anni: aitante, intelligente, energico. L’ho visto sempre senza giac21


ca e con le maniche della camicia rimboccate, il che gli permetteva di mettere in mostra la strana decorazione che si era fatta tatuare sulle nerborute braccia: un lupo ringhiante, ornati capricciosi, l’immancabile cuore infilzato su un dardo come un uccellino sullo spiedo e altro ancora. Sono convinto che il tatuaggio continuasse sul petto e sulla schiena perché, quando il caldo l’obbligava a dar aria alla sua persona, in mezzo a un prepotente ciuffo di peli si intravvedevano altri ghirigori a colore. Andava sempre a testa scoperta: una testa guarnita di una foresta di capelli crespi, rigidi come setole, che gli scendevano sulla fronte riducendogliela a una stretta striscia su due sopracciglia ispide, prepotenti. Eppure, malgrado tutto quel pelame e la negligenza nel vestire, riusciva simpatico per il suo sorriso aperto e franco. Assennato nei giudizi, osservatore acuto, era evidente che prima di parlare pensava quel che voleva dire: vagliava – soppesava quasi – le domande che gli rivolgevo, frugando nelle mie parole se mai avessi scopi reconditi. Una sera in cui quella sua circospezione mi parve spinta all’eccesso, gli dissi in tono seccato: «Se dubitate di me, meglio dirmelo con franchezza! Ho sempre parlato chiaro anche quando qualche cosa poteva urtarvi. Sono qui per riprovare metodi di repressione poliziesca che sconfinano nella persecuzione e in qualcosa di peggio e ho quindi bisogno di sapere tutto, anche ciò che può tornare a danno della causa che ho intrapreso a difendere. Ma se non vi fidate, buona notte! Me ne vado per continuare altrove senza disturbarvi più oltre!». L’uomo scattò in piedi afferrandomi le mani: «Perché mi dice così?». «Eh diamine! Mi costringete a cavarvi di bocca le parole con le tenaglie!» «Se Lei vivesse nel nostro fosco mondo – disse proprio così – saprebbe a che cosa può portare una parola imprudente e parlerebbe anche Lei con la mia stessa cautela. Ho scontato 22


dieci anni di reclusione a Finalborgo per un reato che non avevo commesso e per la parola incauta di un amico. Innocente, ripeto, eppure non dissi quel che sapevo e perdonai all’involontario accusatore. La polizia sapeva che non ero stato io e, avendo intuito che conoscevo chi aveva fatto il colpo, usò tutti i mezzi possibili, dalla lusinga, alla minaccia, alla crudeltà, per farmi “cantare”. Imparai allora a parlare senza precipitazione e a riflettere per non dire alcunché di compromettente. Là, appunto, contrassi l’abitudine di rispondere a monosillabi. Diffidare di Lei! Questi miei amici – altre persone erano presenti al colloquio – possono testimoniarLe che La considero un gentiluomo, che siamo indegni di avvicinarLa e ripeterLe la devozione che abbiamo per Lei, perché difendendo quella disgraziata ragazza, difende un po’ anche noialtri che abbiamo moltissimi torti, che abbiamo fatto del male, sì, ma che poi, scontata la pena, non dovremmo essere considerati peggio delle bestie!» Era così accorato che mi affrettai ad assicurarlo. «Benissimo, chiarito l’equivoco ci si intende meglio!» Gli strinsi la mano sorridendo, mentre in cuor mio pensavo ai dieci anni di Finalborgo con un senso di compassione non scevro di una buona dose di apprensione. Volendo atteggiarmi ad animoso più di quel che realmente sono, potrei descrivere a fosche tinte i tipi e tipacci che avvicinai in quei giorni e coi quali vissi in dimestichezza. La paurosa parola “malavita” chiama all’immaginazione antri tenebrosi, individui truci, figure bieche, lame di coltello balenanti nell’ombra. Invece non c’era nulla di tutto questo in via Vetraschi e gli uomini che mi confessavano le loro magagne erano come tutti gli altri che si incontrano per la strada. Malgrado la scarsa educazione e l’animo corrotto si mostravano gentili e premurosi. D’altra parte avevo capito come l’ascendente che esercitavo su di essi poggiasse principalmente sulla mia condotta, perciò 23


nessuna confidenza! E, pur ascoltandoli con indulgente benevolenza, mi astenni dal giudicare certe loro teorie sul diritto di proprietà e sull’onestà urtanti coi miei sentimenti; così come nessuna libertà mi presi con le loro facilissime amiche. Tanto che quando una di quelle, per abitudine professionale, mi rivolse la parola usando il “tu” confidenziale, venne aspramente ripresa: «Con chi credi di trattare? Parla bene col signore!». La ragazza, sorpresa, mi guardò come fossi una bestia rara balbettandomi frasi di scusa. La polemica sul luttuoso caso durò un paio di settimane o forse più, concludendosi con una severa inchiesta dell’autorità giudiziaria e il rinvio a giudizio per “esagerato uso delle proprie funzioni” di graduati e agenti. Non vi so dire la gioia del tatuato e degli altri: non stavano più nella pelle! E siccome erano milanesi de Milan, per i quali ogni avvenimento favorevole deve necessariamente sboccare in una pacciada, organizzarono anch’essi un banchetto. Il ricordo della povera Rosetta risaliva ormai a due mesi, tempo bastante a portare la calma e un po’ di oblio in cuori anche più sensibili… Il suo sacrificio non era stato vano e per di più i colpevoli e l’aborrita Questura avrebbero avuto quel che si meritavano. Festeggiare la buona notizia non sarebbe stato quindi un modo come un altro per esaltare il sacrificio della ragazza? Gli organizzatori debbono avere ragionato così perché la pacciada venne preparata e, per di più, in mio onore. E a mia insaputa. Attraversavo una sera l’ottagono della Galleria, quando venni avvicinato da due signori che non conoscevo. «Lei è il signor Morselli?» Alla risposta affermativa mi fecero il nome del tatuato. «Ha notizie da comunicarLe e La prega di andarlo a trovare questa sera, nell’osteria tale, di via Vetraschi. L’attenderà fino alle ore venti.» 24


«Va bene, grazie.» Qualche fatto nuovo? Feci una corsa al giornale per informare della chiamata il capocronista e subito a casa a pranzo. Ad onta della mia buona volontà, giunsi in via Vetraschi con mezz’ora di ritardo su quella fissatami. Nell’osteria – uno dei tanti “scannatoi” che pullulavano nei paraggi – l’oste era solo al banco: un omone panciuto dal viso flaccido di apoplettico, che mi sbirciò con diffidenza. «Scusi, è qui il tale?» «No, non c’è» rispose asciutto, asciutto. «Dove potrei trovarlo? È già stato qui?» «No!» e con gesto annoiato si avviò nel retrobottega. «Se mi permettete mi trattengo per qualche minuto in attesa. Mi ha assicurato che l’avrei trovato in questa osteria…» L’omone non si voltò nemmeno. In piedi, ritto, davanti alla porta di entrata, riflettevo sullo strano contrattempo. Tutto a un tratto capii che avevo io torto per essermi presentato… senza presentarmi! Richiamai l’oste con un cenno. «Sono il giornalista della Rosetta…» La faccia temporalesca si rasserenò. Si voltò sorridente accennando a un goffo inchino: «Ah! Lei è… Perché non dirmelo subito? Scusi… non sapevo… Aspetti un momentino solo». Prese le chiavi da un cassetto del banco e chiuse il battente esterno. Poi precedendomi rispettosamente: «Venga con me». Seguendolo attraversai il retrobottega, sbucai in un angusto cortiletto, infilai la porta sgangherata di una cantina e, fra due ali di bottiglie schierate su scaffali, raggiunsi un secondo cortile tanto stretto da lasciare a stento scorgere un quadratino di cielo stellato lassù in alto. Un tanfo di muffa e di sporcizia minacciava di togliere il respiro. Non ci si vedeva e camminavo a tentoni. La guida accese un cerino per mostrarmi la strada incamminandosi per un corridoio ingombro di casse e di da25


migiane dove si passava a stento. Finalmente si arrestò davanti a una porta che, dalle connessure, lasciava trapelare lame di luce tagliantesi nette nell’oscurità. Dall’interno giungeva un vocio di gente allegra. Un calcio servì egregiamente da campanello e al vocio seguì un silenzio assoluto. S’udì lo scricchiolio di sedie smosse, il fruscio di passi, poi una voce: «Chi è là?». «C’è il giornalista!» La porta si spalancò quant’era larga, mostrandomi uno stanzone abbastanza bene arredato con al centro una tavola imbandita. Una quindicina di persone, maschi e femmine, banchettava allegramente. «Si accomodi! – pregò l’uomo tatuato afferrandomi la destra – L’abbiamo attesa fino a pochi momenti fa, disperavamo di vederla! Questo signore – aggiunse presentandomi ai commensali – ha difeso la nostra povera Rosetta ed è merito suo se un po’ di umanità e di giustizia vi sarà anche per noi!» Una salve di applausi accolse la presentazione. Sedetti a un posto appositamente lasciato vuoto in testa alla tavola accanto al mio… amico già ospite di Finalborgo. «Gina, servi il signore!» Da una porticina alle mie spalle uscì una graziosa ragazzina in cuffia e grembiule candidi che mi pose davanti un piatto di ravioli al sugo il cui profumo mi solleticò le nari tanto da farmi dimenticare che avevo pranzato. D’altra parte, perché menomare il piacere di quella gente dalle cui facce traspariva la soddisfazione per la “bella sorpresa” preparatami? Attaccai quindi il piatto dei ravioli, che trovai squisito, tessendone un caldo elogio; assaggiai la frittura piccata che lo seguì, spilluzzicai una coscia di pollo lessato, ma quando vidi portare un grosso cappone arrostito e quando, ancor peggio, me ne vidi scaraventare davanti una porzione gigantesca, mi detti per 26


vinto e, pretestando una sobrietà della quale avevo già dato cattivo saggio, mi limitai ad addentare una punta di ala e a mordere appena un fettone di torta che successivamente fece la sua comparsa. Fra un boccone e l’altro dovetti naturalmente ripetere la scena delle mie rimostranze al questore che erano valse a liberare tanta gente. Il racconto mise in fuga quel tanto di soggezione che ci teneva in reciproco rispetto e, fra chiacchiere, motti, domande e risposte potei a mio agio osservare con attenzione i miei anfitrioni. Alla mia destra c’era il tatuato, alla sinistra sedeva una magnifica creatura, di forse venticinque anni, indossante un attillato vestito di seta scura ricamato e con la gonna a entrave che allora era di moda. I capelli corvini rendevano ancor più nivea la vellutata pelle del viso, delle spalle, delle braccia nude fin sopra il gomito. Le folte sopracciglia nerissime erano due perfetti archi su due occhi luminosi, intelligenti, dardeggianti. Nulla di sguaiato nel suo linguaggio che la rivelasse per quello che era. Premurosa, attenta, corretta, non mancante di una certa signorilità nel tratto; sua particolare cura sembrava essere quella di servirmi per primo, di versarmi da bere, di farmi convinto che quanto mi veniva offerto, compresi gli elogi e i complimenti, erano sinceri, suggeriti da grande riconoscenza. Tra gli altri commensali notai due miei informatori, tre donne inorpellate di un’eleganza chiassosa e priva di buon gusto e di finezza, un giovanotto sempre col naso nel piatto intento a divorare la grazia di Dio che gli servivano, l’oste che per primo avevo avvicinato in via Vetraschi e altri sconosciuti insignificanti. Lo spumante che accompagnò la torta funzionò fin troppo bene da scioglilingua e, alla frutta, i discorsi si incrociavano in un vano tentativo di sovrapporsi. Gli uomini fecero cerchio 27


intorno a noi tre che eravamo a capotavola, commentando per l’ennesima volta il “caso Rosetta” e il rinvio a processo dei presunti colpevoli della sua morte. Tutto un imprecare contro la polizia “ignorante e brutale” che incrudeliva “stupidamente e barbaramente” contro chi aveva avuta la disgrazia di “sbagliare” mentre era così poco intelligente e furba da non riuscire nemmeno per errore a pescare gli autori dei furti più clamorosi. E qui giù a ricordare colpi ladreschi audacissimi e di grande risonanza: appartamenti saccheggiati, gioiellerie svaligiate, magazzini di merci vuotati senza che la Questura fosse riuscita a mettere le mani su uno solo dei ladri. «Le guardie arrestano a casaccio. Succede un furto clamoroso? Aprono il libro nero dei pregiudicati per furto e si precipitano a prenderne qualcuno che, poveretto, non ha nessuna colpa. Come il biondìn, un nostro ottimo amico, il quale da più di sei mesi è rinchiuso al cellulare per sospetta partecipazione alla rapina tale – e giù nome e cognome del rapinato – che invece è stata compiuta dai tali – altri nomi. Egli lo sa, ma è fidato e non parlerà avessero a tenerlo a San Vittore dieci anni. E per il furto della Villa…» Le citazioni minacciavano di farsi numerose e la cosa finì per spaventarmi. Va bene nutrire fiducia, ma spingerla fino a svelare misteri così poco puliti e compromettenti era un’imprudenza. Lo dissi: «Cari signori, vi prego di serbare per voi i vostri segreti – interruppi con accento risoluto e risentito – dalla mia bocca non uscirà mai nulla di quanto mi avete confidato, ma, voi lo sapete, vivo in Questura buona parte della giornata e conto fra i funzionari molti ottimi amici. Domani per una non impossibile coincidenza la polizia riesce a far luce su anche uno solo dei reati dei quali mi parlate con tanta franchezza, voi non potreste pensare che fossi stato io a commettere qualche imprudenza? E dal sospetto all’astio, dall’astio all’odio e dall’odio alla vendetta la strada è tutt’una. 28


Mi capite è vero? Cambiamo quindi discorso, diversamente mi costringete ad andarmene». Riconosco ora che, con quella razza di individui accesi per dippiù dal vino, ci voleva un certo coraggio a parlare così apertamente e in tono che teneva del rimprovero. Un coro di approvazioni accolse invece la protesta e la bruna procace fu la prima a dirmi che avevo ragione. «Nessuno di noi penserebbe mai di farLe torto pensando male.» E rivolgendosi agli altri: «Il signore ha ragione! Si tratta di cose nostre che non lo interessano ed è inutile raccontargliele. Fate venire piuttosto il caffè che poi ce ne andiamo!». Ringraziai con un’occhiata la bella peroratrice, le cui assicurazioni invogliarono tutti a ripetermele con quell’insistenza propria di chi ha alzato eccessivamente il gomito. Sorbito il caffè, mi congedai e tutti vollero stringermi la mano, rivolgermi una protesta di considerazione1, un ringraziamento per aver accolto l’invito. Il tatuato e la procace bruna che, l’avevo già capito, era la sua amica, vollero accompagnarmi per un tratto di strada. Lasciandomi a metà della via Torino, l’uomo, mostrando di gradire i miei ringraziamenti, disse testualmente: «Lei che è sempre fuori la notte può fare spiacevoli incontri: nel caso, non si rivolga alla polizia, ma venga da me che vedrò di mettere le cose a posto». Fino ad allora non avevo prestato fede all’esistenza di un’organizzazione della malavita, che attribuivo alla fantasia dei poliziotti per valorizzare la loro opera di repressione. Non sapevo cioè ammettere che questa infima classe di gente, ribelle per istinto a ogni legge e morale, si acconciasse a sottostare a una qualsiasi autorità occulta, arbitra di disporre della sua 1

Attestato di stima.

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criminosa attività; addirittura esercitando, insieme con quella autorità, azione di difesa e di offesa. Convinto di questo, giudicai la raccomandazione quale una “sparata” del tatuato per farsi credere persona influente e di maggior peso di quello che realmente fosse. Avevo torto e dovetti riconoscere in seguito che, effettivamente, c’era un’associazione con norme precise, le quali, per quanto non scritte, erano rispettate disciplinatamente da quanti esercitavano il brutto mestieraccio a Milano. Non solo, ma che essa aveva carattere regionale in quanto si irradiava fuori dalla città vivendo in stretti rapporti con organizzazioni consimili costituite in altri centri della penisola. Aggiungo che i poteri dei capi erano più vasti di quel che fosse dato da pensare e, se non mancavano gli affiliati segnalati per diligenza e audacia, numerose fioccavano le punizioni contro gli inetti, i deboli, i sospetti e i traditori. Un esempio: nell’autunno del 1912, sull’imbrunire, percorrevo corso Plebisciti, fuori porta Monforte, quando echeggiarono alle mie spalle due colpi di rivoltella. Voltandomi, scorsi due giovinastri allontanarsi di corsa mentre un terzo individuo, chino a terra e addossato al muro di un palazzo, si comprimeva il ventre gemendo dolorosamente. «Che cosa ho fatto di male? Non sono stato io!» piagnucolava il ferito all’indirizzo dei fuggiaschi. «Sei giudicato!» gli urlò uno di questi, sempre scappando. L’ometto – avrà avuto trent’anni, magro come un chiodo, malvestito – scoppiò in singhiozzi. Aiutato dai passanti, lo sorressi fino alla più vicina farmacia. Durante il tragitto gli scappò detto: «Vogliono uccidermi perché mi credono una spia!». A un funzionario di Ps giunto poco dopo, il ferito dovette spiegare la frase sibillina sfuggitagli. «È la “Società” che mi accusa di avere tradito e ha deciso di sopprimermi!» 30


«La Società?! Quale società?» Il disgraziato stette alquanto in forse poi, con accento disperato, confessò la sua appartenenza a una società per l’organizzazione dei furti il cui capo, persona incensurata e insospettata, era stato arrestato. Chi aveva fatto il nome alla polizia? Il sospetto era caduto sullo sciagurato e una specie di tribunale segreto aveva emesso contro di lui la sentenza capitale. Per sua fortuna la ferita al basso ventre non aveva leso alcun organo vitale e fu felice di sentirsi dichiarare in arresto e di venire ricoverato all’infermeria del carcere cellulare. «Prima d’ora giuro che non fui io a fare il nome del presidente, ma adesso non taccio più! Mi vogliono fare la pelle e io per salvarmi giuoco il tutto per tutto: li faccio mettere tutti in galera!» L’episodio prova che effettivamente una società della malavita esisteva e che i capi erano inflessibili e terribili nell’esercizio delle facoltà a loro demandate. Ricordandolo, mentre tornavo a casa dopo aver lasciato il tatuato, poco a poco mi convinsi che probabilmente non aveva parlato a vuoto. Tale convinzione non tardò in seguito a trasformarsi in persuasione. *** Incontri spiacevoli di notte ne ho fatti pochi, sebbene per anni e anni io abbia incominciato il lavoro alle ore ventuno di sera per smettere alle quattro della notte. Ma anche in quei pochi, una protezione mi ha sempre permesso di cavarmi di imbarazzo senza danno di sorta. Una notte di novembre del 1915, percorrevo a piedi la via Porpora nel tratto che dal piazzale Loreto portava fin quasi all’altezza del viale Lombardia dove era la mia casa. L’oscurità densa non lasciava vedere a un palmo dal naso e per orientarmi ero costretto a servirmi del tenue chiarore del cielo velato 31


da una leggera foschia. Camminavo nel mezzo della strada seguendo le rotaie tranviarie. All’altezza di via Ricordi, la prima che attraversava la via Porpora, udii voci bisbigliate. Una giovanile risata di donna rispondeva a motti di spirito grossolano e triviale che due uomini le rivolgevano. Gente perbene a quelle ore era allora, ed è ancora oggi, un po’ difficile incontrarle e perciò mi spostai sul margine del marciapiede opposto a quello dal quale mi giungevano le voci del terzetto. Paura non ne avevo, tanto più che nulla portavo da far gola ai malviventi, ma proprio tranquillo non ero: a quei tempi, tutt’intorno non c’erano che praterie e un brutto scherzo avrebbero potuto giocarmelo liberamente. Speravo di passare inosservato e camminavo in punta di piedi. Fatica inutile: uno dei due uomini attraversò a un dato momento la strada per avvicinarmi. «Ha un fiammifero? Vorrei accendere la sigaretta…» Senza neanche dirmi “per favore”. In preda a un certo orgasmo – sarebbe inutile voler far credere il contrario – frugai nelle tasche, levai la scatoletta dei cerini e ne accesi uno di scatto in faccia allo sconosciuto. «Gino, l’è el giornalista!» disse la donna, una ragazza ancor giovane e già sciupata dalla miserabile vita che trascinava nelle brutture del rione. Il giovinastro, che avevo visto qualche volta in compagnia di altri davanti a un caffeuccio di infimo ordine che era sul viale Monza, accese il mozzicone di sigaretta scottandosi le labbra. Poi brontolò: «Avevo voglia di fumare… Del resto non faccio nulla di male…». Il pericolo era per me passato e il sangue aveva ripreso il suo afflusso al cuore con regolarità. «Non c’è nulla di male nel chiedere un così piccolo favore – osservai in tono di rimprovero – non però alle quattro di una notte buia come questa!» 32


«Ch’el scusa!» rispose la ragazza trascinando il giovinastro per un braccio aiutata dall’altro degno amico. «Ha bevuto un bicchiere di più… Ch’el scusa!» Il terzetto si allontanò confabulando animatamente. Intesi allora chiaramente la frase «L’è quel de la Rosetta!», ripetuta dalla donna. I tre si perdettero nel buio. *** Alcuni anni dopo, nel 1919 credo, numerose squadre di ladri “lavoravano” di preferenza sui treni, dando l’assalto ai convogli carichi di merci in transito fra i vari scali di smistamento, dislocati alla periferia della città. Non passava notte senza che la cronaca avesse a registrare imprese del genere, con sparatorie fra ladri e personale di scorta ai treni. In tutta la cintura ferroviaria esistevano incroci e punti obbligatori che imponevano un rallentamento di velocità, quando non brevi soste. Tali punti erano conosciutissimi dai malviventi che in comitive numerose si appostavano nelle adiacenze e, approfittando della forzata sosta, balzavano sui convogli e con celerità inconcepibile spiombavano le portiere dei carri asportandone il contenuto, che gettavano sul binario o sulla scarpata ferroviaria, dove veniva raccolto da complici e trasportato al riparo dagli sguardi della polizia. L’assalto avveniva con tale rapidità che i militi e il personale di scorta se ne accorgevano sovente quando già era nella sua ultima fase e buona parte della refurtiva ormai lontana. Echeggiavano gli spari, si iniziavano inseguimenti, con il non disprezzabile risultato di rendere possibile il recupero di una parte delle merci che i ladri non avevano avuto il tempo di asportare. I danni ascendenti a milioni preoccuparono seriamente le autorità ferroviarie: i servizi di scorta dei treni venne33


ro intensificati e anche questa forma di abbordaggio terrestre poté dirsi infrenata. Durante una settimana in cui non prestavo servizio notturno, ne approfittai per recuperare in parte le tante ore di sonno perduto. Mi coricavo prestissimo la sera per alzarmi il più tardi possibile al mattino. Una sera dormivo saporitamente quando squillò il campanello del telefono. «Pronto!» «Hanno assaltato un treno nei pressi di Turro che è vicino a casa tua – mi disse il capocronista – non ho personale a disposizione: vuoi fare una corsa e telefonare prima dell’una?» «Caspita, ma è la mezzanotte! Farò tutto il possibile ma Turro dista da casa mia oltre un paio di chilometri!» «Prendi carrozza, tassì, quel diavolo che vuoi! Ma fai presto mi raccomando!» «Va bene!» Mi vestii in fretta e uscii. «Hanno preso d’assalto un treno vicino a Turro?» domandai a un vecchio brumista fermo al posteggio in piazzale Loreto. «Pare di sì! Ne ho sentito parlare lì dentro» e accennava a un bar osteria che notoriamente, nelle ore serali e notturne, era frequentato da etère di infimo grado e dai loro protettori. «Hanno detto che è quasi di fronte alla chiesa…» Turro era allora comune autonomo e venne aggregato alla grande Milano solo nel 1923 unitamente ad altri dieci comunelli situati nell’immediata periferia. «Volete portarmi sul posto?» Il brumista non nascose una smorfia significativa di uomo contrariato. Stette alquanto in forse, poi si aggiustò sulle spalle un logoro mantelletto che, quantunque fossimo in piena estate, aveva con sé per difendersi dall’umidità della notte, si calcò 34


in testa il cilindro di tela lucida che formava la sua divisa e, arrampicandosi a cassetta, mi invitò a salire. Percorremmo la via Padova a passo di lumaca fino all’altezza del ponte ferroviario. Quivi giunti, il vetturale si fermò. «Guardi, la coda del convoglio depredato è indicata da quel fanale rosso. La strada carrozzabile è più in su e passa sul piazzale della chiesa.» «Andiamo là!» «No, non ci vengo io! Mi fermo qui!» «Perché?» Scosse il capo e aspirò due boccate di fumo dalla pipa soffiandole fuori con impeto. «Perché? – disse dopo un po’ abbassando la voce – Perché sono paraggi dove si fanno brutti incontri! L’altra sera il mio collega è stato derubato di tutto l’incasso della giornata.» «E allora?» «Mah!» Stetti in dubbio alcuni minuti e quindi, confidando nella buona sorte, decisi di proseguire da solo a piedi. Il treno era fermo appena centocinquanta metri dal posto dove mi trovavo. «Si può costeggiare la scarpata della ferrovia?» «Altroché! C’è una scorciatoia che di giorno è molto frequentata. Eccola là.» La siepe metallica che divideva un prato dalla strada era strappata e, in prospicenza del foro, si dipartiva una viottola il cui primo tratto si disegnava chiaro sul verde cupo dell’erba. «Mi attendete qui?» «Neanche per idea! Ritorno al posteggio di Loreto!» Gli diedi qualche soldo che egli intascò senza nemmeno contare. «Buona notte e buona fortuna!» mi augurò dando una frustata al ronzino. 35


Infilai la viottola e raggiunsi l’altezza del fanale rosso. Quivi la strada si inoltrava in un fitto di robinie dietro le quali intravvedevo, a tratti, luci che si spostavano. Un brusio di voci giungeva fioco al mio orecchio… Dire che fossi del tutto calmo sarebbe falso, specialmente dopo il comportamento poco incoraggiante del brumista. Procedevo a passo sempre più serrato, quando nel folto del boschetto di robinie un’ombra si staccò parandomisi davanti. «Dove va Lei?» «Sono un giornalista – mi affrettai a dichiarare a modo di presentazione – e vado a vedere qui che cosa è successo…» «Un giornalista? Di che giornale?» e intanto lo sconosciuto spingeva il suo viso vicino al mio per vedermi bene. La paura era scomparsa, convinto come ero che si trattasse di un agente messo lì di guardia per impedire ai ladri di trafugare il bottino. Levai di tasca la tessera di libera circolazione e accesi un cerino per mostrargliela. «Ah sì! – scattò l’ombra sconosciuta – Lù l’è quel de la Rosetta, vera?» «Sì.» «Allora l’accompagno io fin là!» Mai in vita mia ebbi guida più premurosa e gentile. Mi descrisse come l’assalto era avvenuto, la rabbiosa sparatoria seguita, cinque carri spiombati e un diluvio di roba gettata sul pendio della scarpata ferroviaria. «Sono bastati pochi minuti, sa! È gente quella – alludeva ai ladri – che lavora con sveltezza.» Da certi particolari che egli nella foga della narrazione si lasciò sfuggire capii che era della partita. Come avrebbe potuto dirmi, se non l’avesse saputo con esattezza, il numero dei partecipanti all’assalto, dove questi si erano strategicamente appostati, che in quattro soli avevano spiombato i carri mentre altri, molti altri, erano stati opportunamente scaglionati in 36


basso nella scarpata, su buon tratto, pronti a raccogliere balle, pacchi e quanto più i primi avrebbero buttato? Il sospetto si tramutò in certezza quando, giunti a uno spiazzo verde che sfociava nel vasto cortile di una rustica osteria dove si muovevano le luci intraviste da lontano, la guida sussurrandomi un «Lei è arrivato» scomparve. Era evidente che la luce le dava noia. Sul piazzale, carabinieri, agenti e volonterosi agli ordini di un maresciallo e di un funzionario, avevano ammassata una quantità ingente di roba, la più eterogenea: pacchi di tessuti, balle di seta greggia, apparecchi radio, casse di sapone, utensili vari, profumerie, sacchi di zucchero, chincaglierie e altra roba chiusa in cassette, involti, scatole, sparsa tutta intorno in desolante promiscuità. Il commissario e il maresciallo mi fornirono con la consueta premura le informazioni, parte delle quali già conoscevo, comunicandomi inoltre le impressioni loro su come il furto era stato effettuato. Il tempestivo intervento dei militi di scorta aveva impedito, secondo quanto credevano i solerti investigatori, che gli assaltatori traessero dal “colpo” quell’utile che certamente si erano ripromessi accingendosi alla rischiosa impresa. Intanto l’una era passata di qualche minuto e correvo il rischio di non trasmettere in tempo al giornale i particolari raccolti. «C’è un telefono qui vicino?» domandai all’oste che curiosava sulla soglia del negozio. Mi rispose di no e io, disperato, stavo per avviarmi di corsa a Loreto quando mi sentii afferrare per un braccio. Era ancora l’uomo incontrato nel fitto delle robinie. «In quella casa là – e mi segnava un casolare rustico che le torce ad acetilene illuminavano di lontano – abita un signore che è abbonato, se vuole l’accompagno!» 37


«Grazie!» e lo seguii. Egli mi precedeva quasi di corsa, tanto provava il piacere di essermi utile e tanto era compreso dell’urgenza che avevo. Raggiungemmo il casolare. Non una porta aperta né una finestra. Sembrava disabitato. «Dormono tutti così della grossa?» L’uomo ammiccò guidandomi nella parte posteriore, dove non tardai a scorgere segni di vita. Alcune ombre uscivano infatti dal portone di una stalla cariche di involti e sparivano non appena percorso il breve tratto di una stradaccia tracciata verso il vicino campo per le corse al trotto. Un colpo di tosse sommessa fece cessare per incanto il misterioso traffico che però venne subito ripreso allorché la mia guida ebbe risposto con un lievissimo sibilo. Una donna, sbucando di sotto a un carro carico di stramaglie, si avvicinò cauta. «C’è qui un giornalista che deve telefonare d’urgenza. È un mio amico.» La donna si mosse senza proferire parola. Attraversò la stalla e un angusto andito ingombro di attrezzi agricoli, entrando infine in un’ampia cantina abbondantemente arredata di botti e di assiti carichi di bottiglie. Sull’impiantito centrale c’era un cumulo di pacchi, sacchi di oggetti, involti, valigie che un individuo tarchiato, tutto sudato, in maniche di camicia e coi calzoni che egli a ogni secondo tirava su perché non gli si sfilassero, caricava sulle spalle di altri individui, i quali, fuori nella semioscurità, divenivano le ombre che avevo intravviste nel mio giungere. La donna aprì con una chiavetta la sgangherata porticina di uno sgabuzzino seminterrato che si sprofondava in un angolo, pur esso parato di bottiglie munite di vistose e allettanti etichette e, rivolgendomi un «S’accomodi», mi fece passare nell’interno. Su una specie di scrivania ingombra di carte c’era l’apparecchio telefonico e, dieci minuti dopo, il giornale era informato dell’esito della mia spedizione. 38


Ritornato all’aperto volli ringraziare quello strano mio Virgilio, ma egli: «L’accompagno fino a Loreto, se me lo permette». Accettai e, per una strada tutta diversa da quella percorsa prima, raggiunsi il piazzale Loreto dove la premurosa guida volle a tutti i costi offrirmi un caffè corretto. Il giornale pubblicò che il valore del bottino asportato dai ladri superava il mezzo milione. Il commissario e il maresciallo il giorno dopo mi diedero la baia chiamandomi contafrottole. Però non risero più quando conobbero i risultati dell’inchiesta esperita dall’amministrazione ferroviaria, dalla quale risultò che il danno patito per merce mancante saliva a una cifra ben maggiore di quella da me comunicata.

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