La Cesarina ha le armi. Storia di giornalismo negli anni di piombo

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€ 12,00 i.i.

Gianni Giacinto Mazzoleni

la cesarina ha le armi

Gianni Giacinto Mazzoleni, giornalista professionista, già redattore capo dei servizi economici e finanziari, inviato e editorialista del vecchio Resto del Carlino. All’inizio degli anni Ottanta ha previsto in una serie di articoli il crollo dell’Urss. Una sua inchiesta giornalistica su illecite operazioni della politica, a fine anni Ottanta, ha provocato severe condanne penali (tribunale di Ancona) preannuncio di Mani Pulite. Con Giovanni Sartori ha pubblicato La Terra scoppia - Sovrappopolazione e sviluppo (Rizzoli, 2003). Il suo primo romanzo, Come fosse ora, (Foschi editore) è del 2009.

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Un viaggio nel tempo che ci riporta al ’68 e alle lotte studentesche, agli anni di piombo, alle tensioni di un’Italia in divenire, con tanti sogni e altrettante divisioni. Ambientato in un periodo di grandi avvenimenti internazionali, in una città che ricorda tanto la Bologna del tempo, La Cesarina ha le armi è la storia romanzata di una redazione giornalistica in fermento, scossa da lotte interne e da intrecci complessi, in un’epoca profondamente segnata dal terrorismo e condizionata dalla politica e dai poteri forti. Il libro prende il titolo dal fatto che i due protagonisti, allarmati dalle voci insistenti su un imminente colpo di Stato della destra fascista, vengono a conoscenza che anche i comunisti hanno le armi, da utilizzare in caso di golpe. Ai depositi si accede solo in gran segreto, attraverso una misteriosa Cesarina… Un romanzo appassionante, che evidenzia le ferite ancora aperte della nostra Italia, protagonista di una storia recente molto discussa e travagliata.

Gianni Giacinto Mazzoleni

LA CESARINA HA LE ARMI

Storia di giornalismo negli anni di piombo. Romanzo

Minerva Edizioni


Gianni Giacinto Mazzoleni

LA CESARINA HA LE ARMI

Storia di giornalismo negli anni di piombo Romanzo

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Narrativa Minerva Collana diretta da Giacomo Battara

La Cesarina ha le armi

Storia di giornalismo negli anni di piombo

Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Grafica e impaginazione: Paolo Tassoni © 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN: 978-88-7381-530-3

Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com

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PREFAZIONE

Il romanzo La Cesarina ha le armi è ambientato in un giornale, anni Settanta del Novecento e seguenti, gli “anni di piombo”, del terrorismo. Il libro prende il titolo dal fatto che i due protagonisti, preoccupati da voci insistenti su un imminente colpo di Stato della destra fascista, pur essendo anticomunisti consultano un noto comunista il quale rivela loro che il suo partito ha depositi di armi – cui si accede attraverso una misteriosa Cesarina – che potrebbero essere eventualmente usate contro i golpisti. Finora il tema degli anni di piombo è stato affrontato più di una volta dalla narrativa e dal cinema che tuttavia lo hanno utilizzato ignorando i grandi eventi mondiali che, in parallelo, accaddero in quegli anni e che dovettero pur rappresentare uno sfondo percepito e influente: crisi petrolifere; inflazione galoppante; guerra civile evitata in Italia grazie alla spesa pubblica; rivoluzione tecnologica; crollo dell’Urss e del comunismo i cui sintomi precedettero, con tutta evidenza, di molti anni il 1989-91, quelli della caduta ufficiale; e poi naufragio del terrorismo italiano di estrema sinistra, Brigate Rosse e analoghe sette, distrutte da una intrinseca stupidità, mentre i presunti eredi politici del terrorismo stragista di destra pochi decenni dopo sono andati al governo. Stupidità e potere: è profondamente italiano tutto questo? Quando letteratura e cinema si sono occupati degli anni di piombo lo hanno fatto rifugiandosi nei perché, nei segreti degli opposti estremismi, nei sentimenti dei giovani ribelli, nell’intimo, o traendo spunto dalle memorie di ex terroristi che cercano di giustificarsi o di farsi perdonare i loro misfatti. Ma c’è da chiedersi se sia possibile che i grandi eventi del mondo restino, in Italia, separati ed estranei, in una sorta di altrove, dalle esperienze della 3

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vita, dalla letteratura, dal cinema, che pure sono tanta parte della memoria collettiva? Nelle rievocazioni letterarie o cinematografiche degli anni di piombo è prevalsa insomma, attraverso intimo, sentimento, psicologia personale, una presenza tutt’altro che episodica, la tendenza all’assoluzione, alla misericordia di natura religiosa che noi italiani ci portiamo dentro, legata alla bi-millenaria presenza nel nostro paese della cattedra di Pietro. Oppure è prevalsa l’indignazione per i misteri e le stragi di quel periodo, da Piazza Fontana alla stazione di Bologna, senza riflessioni che vadano oltre le mura di casa. In Cesarina la prospettiva è un’altra: i grandi avvenimenti rappresentano lo sfondo narrativo, nel presupposto che abbiano messo in moto nella società italiana fenomeni ancora vivi di natura politica e sociale. Ed è logico che, nell’economia del romanzo, la narrazione segua il filo conduttore di quell’osservatorio naturale di avvenimenti che è la redazione di un giornale. Se all’autore si perdona il paragone, anche Manzoni non può limitarsi alle vicende di Renzo e Lucia, deve pur parlare dell’Italia spagnolesca, della peste nera, delle sue origini e dei suoi perché, in cui inserire e proporci le vicende dei promessi sposi, che non si svolgono in un altro mondo. Cesarina non è dunque un romanzo che si fondi su psicologie e sentimenti dei personaggi, che pure non mancano ma che rischiano di rinchiuderli in problemi personali. È una narrazione parallela a una coralità di avvenimenti che più volte hanno cambiato il mondo. Non si pretende di rifare la storia, ma non si capisce perché mutamenti mondiali non debbano avere una eco anche in chiave letteraria. Il protagonista del romanzo, giornalista di prima linea, rievoca nella narrazione personaggi reali, noti sia per la loro opera sia per la personalità, in alcuni casi per le influenze politiche che si iscrivono nella vicenda e nel4

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la realtà. Ma l’intento dell’autore è un altro: noi italiani preferiamo ignorare che, negli anni di piombo, non mancarono preparativi di colpi di Stato di destra. Perché ignorarlo? Nella nostra storia ne abbiamo avuti precedenti non remoti, andati a segno, negli anni Venti del Novecento, con una incredibile facilità di esecuzione. E ancora: noi italiani non desideriamo sapere per quale motivo sia crollato il comunismo, non ce lo siamo chiesto, continuiamo a non chiedercelo, anche se l’Italia è stato il paese col più forte partito comunista dell’Europa occidentale. Quando si dice che lo ignoriamo, non è un riferimento agli storici, agli esperti, ma agli italiani della porta accanto, agli uomini della strada. È certo che in Italia le influenze del crollo e le conseguenze non sono mancate, come non sono mancate a suo tempo quelle del comunismo in auge. Noi ignoriamo pure le ragioni che hanno condotto alla dissoluzione il terrorismo brigatista negli anni Ottanta. Non ci chiediamo – è un altro esempio – perché il nostro maggior problema economico sia il debito pubblico. Molti paesi oggi sono indebitati, ma il nostro debito è dei più grandi e viene da molto lontano, dal Sessantotto, dal successivo autunno caldo sindacale, dagli anni di piombo, quando si pensò che tutto fosse facile e a portata di mano. Di quel problema diamo talvolta la colpa ai politici, ma così, non sapendo cosa dirne. Non sospettiamo che i maggiori responsabili del debito pubblico, di una delle più basse produttività del mondo, siamo proprio noi. In questa versione – quella di “bottino” cui, dopo lungo studio, giunge il protagonista di Cesarina – non ne hanno mai parlato né i giornali, né le tv, né i pochi libri che leggiamo. E si può presumere che ne esistano altre versioni, poiché il concetto di “bottino” può identificarsi con varie fattispecie, anche con l’antico, plurisecolare detto: “o Franza o Spagna purché se magna”. Ne abbiamo avuto la con5

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ferma nel fatto che le conseguenze del Sessantotto e degli anni di piombo siano ancora tutte lÏ, piÚ di quarant’anni dopo, nella tormentosa, contrastata serie di situazioni che abbiamo affrontato per ridurre deficit e debito pubblico, con la bancarotta sempre incombente. g.g.m. Bologna, settembre-ottobre 2013

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Capitolo primo SULLA COSTA Il direttore Logo era stato assente per due giorni ed era tornato al giornale piuttosto seccato, anzi decisamente contrariato e si potrebbe dire fuori dai gangheri. Non spiegò a nessuno né cosa gli fosse accaduto né dove fosse andato. Si chiuse nel suo ufficio e, secondo ciò che si poteva percepire origliando attraverso quelle pareti moderne che sembravano fatte apposta per non tutelare alcun segreto, cominciò a telefonare a mari e monti, in tutta Italia. Ma pur col favore di quelle pareti indiscrete, non si riusciva a capire con chi parlasse e soprattutto di cosa, anche perché ad un certo punto e sul più bello, anziché parlare normalmente sussurrava. Si pensò dunque che il segreto dovesse essere importante, indubbiamente un segreto di politica, vista l’aria che tirava e visti gli interessi professionali del direttore, noto commentatore di fatti e situazioni politiche. A Numa tuttavia, sul momento, non importava sapere cosa fosse capitato al direttore. Egli stava organizzando i servizi per coprire una serie di attentati, non gravi ma numerosi, avvenuti durante la notte, cui sarebbero seguiti gli immancabili disordini, scioperi, cortei di protesta, occupazioni di scuole e di aule universitarie con qualche altro inevitabile scontro tra fascisti, studenti e poliziotti che ormai era pane quotidiano. Quello di organizzare servizi giornalistici non era compito che spettasse proprio a Numa, era anzi tipico del redattore capo, del quale tuttavia il direttore – per dirla papale-papale – non si fidava affatto. Non che il redattore capo fosse solo un peso e basta, aveva i suoi pregi. Era un genio nella grafica e nell’organizzare il lavoro in funzione della tipografia ove, a quei tempi, c’era ancora la lavorazione cosiddetta “a caldo”, sul piombo, e lui col piombo, che non è comprimibile, aveva la magia delle mani e della 7

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mente, sapeva aggirare il problema come se il piombo fosse diventato docile e malleabile, sapeva guadagnarsi l’ammirazione e la stima dei tipografi. Quella stima non era di poco conto poiché i tipografi, da sempre, erano l’élite della classe operaia. Già due secoli fa, ai tempi della rivoluzione industriale in Inghilterra, sapevano leggere ed erano dunque a un livello culturale superiore rispetto agli operai degli altri settori, sapevano guidarli poiché, attraverso la lettura, intendevano meglio le cose del mondo. Non era casuale che il moderno sindacalismo fosse stato fondato, a quei tempi, proprio dai tipografi inglesi. Ma al di fuori delle sue materie (per le quali in effetti era stato assunto, poi si sa… talvolta le cose cambiano) il redattore capo era una frana, del tutto inaffidabile, disposto comunque a farsi consigliare e anche a mettersi da parte per un po’. Perciò il direttore Logo, ogni qualvolta doveva assentarsi, affidava a Numa il compito di supervisore: tenere sotto sorveglianza il redattore capo ed evitare che combinasse malestri, ricorrendo se necessario anche a una sorta di temporaneo commissariamento. Numa trovava quel compito molto imbarazzante. Egli era un semplice redattore, non aveva i “gradi” per imporsi sul redattore capo, svolgeva l’incarico ricorrendo a forme di gentile persuasione nei confronti del suo controllato per distoglierlo da certe idee. Lo faceva sia per l’affetto e la stima che lo legava al direttore Logo sia perché consapevole che quella era pur sempre una forma del far carriera, anche se piuttosto trasversale. Non poteva certo fregarsene dei propri interessi. Ma non perdeva occasione di ricordare al direttore che doveva decidersi a risolvere il problema. Chessò, nominando un secondo redattore capo, se proprio necessario, e glielo diceva con tanta maggiore convinzione poiché sapeva che, se quella carica fosse stata offerta a lui, l’avrebbe rifiutata. Infatti non intendeva legarsi alla “cucina” del giornale, a costruirne la fattura giorno per giorno, anche se quella era indubbiamente una forma di 8

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potere interno: lui voleva scrivere e la “cucina” lo avrebbe troppo assorbito per consentirlo. Due redattori, capo? Vallo a dire agli amministratori e ai proprietari del giornale, erano altri tempi, quelli erano considerati sprechi, non siamo mica alla Rai avrebbero detto. E anche il direttore titubava, tergiversava, ma a un certo punto seppe finalmente risolvere il problema (anche se qui non mette in conto spiegare come). Torniamo alla misteriosa assenza di Logo. Numa era certo che prima o poi il direttore sarebbe venuto giù dal pero, l’avrebbe chiamato nel suo ufficio, avrebbe cominciato facendo finta di niente, parlando di chissà chi o di chissà cosa. Avrebbe chiesto ad esempio: Numa, è successo qualcosa di grave oggi? Risposta probabile: la solita rumba, direttore. Quelli di destra per ora sono calmi, quelli di sinistra hanno fatto un corteo di protesta per la guerra nel Vietnam, hanno lanciato bottiglie Molotov contro la polizia. Feriti? Nooo, né feriti né ustionati, ormai i poliziotti sanno come evitare questi proiettili. Poi il direttore sarebbe arrivato al dunque, avrebbe svelato il mistero. Numa gli era molto affezionato. Quando aveva fatto uno degli esami di inglese a scienze politiche, il professore – mai visto prima – avendo notato che si trattava di uno studente non più giovanissimo, di certo almeno trentenne, e venendo a sapere che gli stava davanti un giornalista, era entrato lui in argomento, aveva parlato del recente cambio di direttore in quel giornale, aveva chiesto quale dei due – il vecchio o il nuovo – fosse il direttore preferito da Numa e questi non aveva avuto alcun dubbio, aveva indicato Logo. Il professore ne sembrò addirittura felice, come se fosse stata pubblicamente riconosciuta l’esattezza di un suo non facile giudizio. Vede – disse a Numa – quello precedente era un grande studioso, tanto di cappello, ma Logo è un vero giornalista, lo seguo, leggo i suoi articoli. E l’esame praticamente finì lì, con un buon voto per Numa che, a dire il vero, tanto ferrato in inglese non era, 9

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preferiva di gran lunga il francese. E su questo argomento, sulle lingue, Numa spesso ci ragionava sopra con se stesso. Sì perché l’inglese – pensava Numa – non è una lingua logica, razionale, è di una scarna semplicità, non ha praticamente né congiuntivi né condizionali, la sintassi c’è e non c’è, è fra color che son sospesi, i tempi dei verbi sono ridotti all’osso, sono solo il presente, il passato, il participio, l’inglese non ti impegna con la vecchia consecutio temporum, difficile ma quintessenza della logica, che il latino ha trasmesso a italiano e francese; l’inglese si adatta a tutti gli arrangiamenti e ai “tiramenti” di popoli e nazioni che lo usano, gli americani lo strapazzano da tutte le parti, lo riducono ai minimi termini, ha un unico articolo determinato e un unico indeterminato che escludono in sostanza – come fa la radicale semplificazione dei tempi dei verbi – tante distinzioni, le sfumature, le pluralità, persino le diversità di genere, maschile o femminile, tutto si può comprendere ma rifacendosi al contesto del discorso. Dell’inglese basta conoscere a memoria le parole, i sostantivi, ricordare i verbi irregolari, per poi mettere in fila parole e verbi, arrangiare un discorso e farsi capire. Il vantaggio e il successo dell’inglese stanno proprio nella semplicità e facilità, nell’essere alla portata di tutti, al prezzo di un po’ di memoria, anche degli intelletti deboli, poco brillanti, dei poco colti. Il francese invece conserva del latino la stringente costruzione logica, razionale, è la lingua cartesiana dei matematici e dei logici ma anche dei grandi scrittori, dei narratori ottocenteschi che nel francese trovarono una enorme capacità espressiva e inventarono il romanzo moderno. L’italiano è molto simile al francese, quasi una fotocopia, ma adesso viene fatto a pezzi dal suo popolo che, provinciale com’è, per apparire à la page, per darsi il tono di una cultura che invece non ha, per puro snobismo, per debolezza di intelletto, lo infarcisce di termini anglo-americanoidi disperdendo la razionalità delle origini latine. Gli 10

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italiani hanno anzi eliminato il latino nelle scuole, con l’eccezione di un latino dimezzato nei licei classici, affinché il peso dello studio non stanchi i ragazzi (poverini) sicché la logica del discorso si sta perdendo, come testimonia il fatto che adesso nemmeno i laureati sanno scrivere decentemente e correttamente, come mette in luce il progressivo distacco del paese dalle discipline scientifiche: i ricercatori se ne vanno all’estero. Ci sono università americane – che sono le migliori del mondo – ove si consiglia il latino come preparazione allo studio della matematica, per la formazione che assicura, aperta alla logica, il che smentisce che il latino sia congeniale solo alle discipline umanistiche. Il grande filosofo Karl Popper, di origine viennese, che insegnò filosofia della scienza alla London School of Economics, l’università fondata dai coniugi Sidney e Beatrice Webb, socialisti fabiani, diceva che lui non insegnava una scienza o una qualche verità, ma metodo e il metodo sa condurre – diciamo noi – all’apprendimento di ogni tipo di sapere e di conoscenza. Se la scuola smette di insegnare metodo – e lo studio del latino è metodo – ma pretende di insegnare qualche scienza oppure “ciò che serve”, trionfa l’ignoranza. È il metodo ben assimilato che consente di affrontare in modo proficuo ogni tipo di scienza e di conoscenza. Si dovrebbe salvare il latino per la logica su cui si fonda e perché testimonia della nostra origine culturale di italiani: chi siamo e da dove veniamo. L’italiano televisivo, poi, è ridotto a una serie di strafalcioni, a cominciare dall’uso dei verbi ausiliari essere e avere, cioè dall’abc, senza alcuna distinzione fra valore transitivo e intransitivo. Ne vuoi di trasmissioni tv come “Non è mai troppo tardi”, che hanno riscattato l’italiano dai dialetti, sono trasmissioni morte e sepolte anche in spirito. La stessa letteratura contemporanea italiana – già povera a causa della vecchia frantumazione politica della penisola, dura a morire, che rende la lingua preda dei dialetti – si impove11

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risce ancor più. La lingua creata da Dante e dagli stilnovisti con un inconsapevole ma formidabile atto politico che unificava popoli italiani diversi, oltre duecento anni prima di Lutero – che tradusse la Bibbia nel cosiddetto volgare tedesco, dando una lingua moderna alla Germania – la lingua che Manzoni rigenerò sentendo il bisogno di andarne a “sciacquare i panni” – un altro, potente atto politico creativo – adesso sembra in pre-agonia. *** Restava un po’ di mistero sul perché Logo avesse preso a benvolere Numa. Il quale cercava di spiegarselo essendo certo che di lui avesse parlato bene, a Logo, il professor Aldini che gli aveva dato trenta all’esame di storia del pensiero politico e che era molto amico di Logo (i trenta non sono rari nel mio libretto, si vantava Numa). Il direttore precedente, sapendo dei suoi studi a scienze politiche, lo aveva convocato e lo aveva incaricato di seguire gli avvenimenti economici. Allora le vicende del mondo degli affari e della produzione erano un po’ trascurate dai giornali non di primissimo piano. Spesso si pubblicava unicamente il listino dei prezzi di Borsa con un breve commento, tanto per dare un barlume di significato a tutti quei numeri. Poi Numa aveva saputo che il vecchio direttore – il grande studioso, tanto di cappello – si era informato dei suoi studi economici e il professor Older, massimo “sacerdote” dell’economia politica e dei suoi annessi e connessi all’università, gli aveva dato lusinghiere referenze. Da qui l’incarico economico a Numa. Sì, aveva ragione quel professore col quale aveva fatto l’esame di inglese: la vera differenza fra Logo e il direttore grande studioso era che quest’ultimo appariva troppo accademico in ogni suo aspetto e modo di manifestarsi, di esprimersi, aveva un che di assiomatico, era impossibile dargli del tu, gli si dava del lei 12

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come se fosse un dovere, essendovi portati come da una forza superiore, mentre i giornalisti si danno del tu, anche ai direttori, perché il giornalismo non ha nulla di arcano, anzi, degli arcani è la negazione senza eccezioni. Arrivato Logo come nuovo direttore, non ebbe bisogno di aspettare tanto. Dopo un paio di mesi di rodaggio gli disse: caro Numa, c’è la Borsa di Milano che più passa il tempo, più sembra sul punto di tirare le cuoia. Ogni giorno sembra un vero de profundis per cui avremmo un fatto senza precedenti: un paese occidentale, l’Italia, con la Borsa più morta che viva, che non serve proprio a nulla. Allora, tu andrai a Milano e mi farai una inchiesta su questa faccenda, non più di tre articoli, anche meno, che le robe a puntate poi non si seguono e mi raccomando: la Borsa è il vertice della finanza ma tu non devi usare paroloni, i lettori devono capire, soprattutto le casalinghe, che noi scriviamo per loro. E dopo questa breve ramanzina, marciare. Lui, Numa, a Milano, la capitale morale? Lui che in Romagna era andato al massimo a Cesenatico o a Rimini in bicicletta, l’estate, a fare il bagno con gli amici? Andare a Milano per una inchiesta sulla Borsa della quale sapeva poco o nulla? Non c’era neanche il tempo di studiarci sopra. Partì chiedendo a Gianna uno scongiuro, anzi, una cabala, lei che ci sapeva fare e ci si dilettava. A Milano, per fortuna, lo scongiuro funzionò. Anzi, fu come se lo avessero proditoriamente buttato in mare perché imparasse a nuotare e a nuotare imparò. Un giornalista deve sapersi arrangiare e lui non era del tutto un pivello, aveva alcuni anni di gavetta come cronista. Gli venne dunque in mente di Bertoni, un vecchio amico romagnolo che si era trasferito lì e di Borsa sapeva tutto. Lo chiamò al telefono, si videro, ebbe una infarinata aggiornatissima nei fatti, nei problemi e nei personaggi. Bertoni era un tipo tutto sui generis, viveva con la vecchia mamma cui era affezionatissimo e con una anziana 13

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domestica-infermiera che accudiva la madre. Era scapolo e Gianna ricordava che le aveva fatto un po’ la corte e che lei non lo aveva mai preso in considerazione, nemmeno per i suoi quattrini. Era ricco sfondato, possedeva alberghi in riviera, palazzi in città, era azionista di un sacco di società. Numa ricordava il Bertoni che aveva conosciuto prima che se ne andasse a Milano: l’estate portava sempre lo stesso vestito, quello chiaro e leggerino, poi l’inverno metteva l’altro, più scuro e pesante. Passava il tempo spaparanzato al caffè dei signori, a leggere giornali e, con la buona stagione, a godersi il fresco, a chiacchierare di sport, di donne e di economia, nella quale era ferratissimo. Era liberale e una volta, sotto elezioni, improvvisò una propria campagna elettorale. Parlò con centinaia di persone, le convinse a votare liberale, poi se ne stette ad aspettare l’esito, gongolando di soddisfazione, immaginandosi la faccia che avrebbero fatto in tanti di sinistra nel conoscere i risultati elettorali. Successe però che in città i liberali ebbero due soli voti, il suo e quello del segretario politico cittadino. Mancò poco che schiattasse e abbandonò quella città di mentitori e traditori. Con quella bella infarinata che gli aveva fatto Bertoni, Numa sapeva già tutto, ma aveva bisogno di cogliere l’atmosfera. Per un giorno intero girellò intorno alla Borsa, quel palazzo detto di Mezzanotte che egli trovò poco salubre, interrogò gente che vi bazzicava, tanto per dare la sensazione, negli articoli, di stare sul vivo. Alla fine intervistò anche il presidente della Borsa senza accennargli nulla dell’incarico avuto dal direttore, quello di adombrare un imminente trapasso del mercato azionario (chi presiede qualunque cosa, in genere non ammetterà mai che la cosa da lui presieduta stia per trapassare a miglior vita). Poi prese il treno e se ne tornò con molti dubbi, dubitando di aver fatto un lavoro passabile. Quello che ne uscì, un paio di articoli, sorprese lui stesso: erano vivaci e interessanti. Il direttore Logo li fece pubblicare in terza pagina 14

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(la vecchia, gloriosa terza pagina) col titolo di esordio “La mafia arriva in Borsa”. Sì perché, nonostante da tempo il mercato delle azioni fosse soggetto alle girandole speculative di Michele Sindona – dopo avere fatto il callo a quelle di vecchia data di qualche altro noto personaggio – nessuno aveva chiamato le cose col loro vero nome: mafia e mafiosi. *** C’era stata, in un piccolo paese della costa, in Liguria, di sera tardi e diciamo pure a notte fonda, una riunione che sembrava importante. C’erano ex ufficiali in pensione, fra loro molti monarchici, c’erano imprenditori e uomini d’affari un po’ attempati, noti professionisti, qualche riccone. Tutti liberali ma niente affatto fottuti conservatori. Anzi, non pochi di loro avevano fatto il partigiano proprio da quelle parti o sui monti piemontesi, aderendo in molti – salvo i monarchici – alle schiere di Giustizia e Libertà, formazione politica da cui derivò poi il partito d’azione nella sua successiva breve vita. In quel piccolo paese sulla costa ligure era stato invitato anche il direttore Logo che aveva partecipato alla Resistenza non come combattente, ma come ufficiale di collegamento fra gruppi partigiani, ed era anche stato una specie di intelligence, che se tedeschi o fascisti ti prendevano ti facevano a pezzi come tutti gli altri con la tortura. Logo si era portato dietro, in quel paesino ligure, il professor Aldini. Gli avevano parlato di una rimpatriata liberale, niente di meglio dunque della presenza di un luminare del liberalismo, massimo interprete e studioso italiano di Tocqueville. Unica nota stonata, la riunione notturna. Mah, ci sarà qualche motivo. Eccome se c’era. In quella casetta parlò il comandante Passaro e tutti ad ascoltarlo in gran silenzio. Era un tipo deciso, sbrigativo, coraggioso, si diceva che da partigiano 15

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avesse fatto fuori non so quanti tedeschi. Lui era monarchico, aveva fatto la Resistenza come appartenente alla destra liberale, un po’ sparuta a dir la verità da quelle parti, era ufficiale dell’esercito e come tale aveva giurato fedeltà al re, perciò Mussolini, i fascisti, quelli di Salò e i tedeschi – diceva lui – dovevano andarselo a prendere in quel posto. Passaro esordì quella notte affermando che il disordine in Italia era ormai intollerabile. Tutti i giorni scioperi, occupazioni, scuole chiuse, fabbriche funzionanti a singhiozzo. E poi tanti più attentati di quanti ce ne fossero in Germania, dove c’era la banda Baader-Meinhof, tutti considerati fior di delinquenti sanguinari, con manie di sinistra. Passaro se la prese con quegli stronzi (disse proprio così: quegli stronzi) di studenti sbarbatelli della contestazione universitaria e con gli operai di estrema sinistra, maoisti, guevaristi e non so cos’altro, che ce l’avevano con la vecchia Repubblica, addirittura con i comunisti e col vecchio partito comunista che ormai non riusciva più a sopportarli. Avanti di questo passo, quegli stronzi – disse – che vogliono la rivoluzione, faranno il gioco non certo delle Brigate Rosse ma proprio del partito comunista che già sta guadagnando voti fra i moderati. I quali infatti stavano un po’ perdendo la fiducia nei partiti democratici e si riducevano a sperare addirittura nei comunisti, ritenendoli capaci di ripristinare legge e ordine in un paese della Nato, antisovietico, dove però il disordine era diventato intollerabile. Ma siamo diventati matti? sbottò Passaro. Come può l’America tollerare un successo del Pci in piena guerra fredda? si chiese con un interrogativo puramente retorico. I vecchi fascisti, poi, sono ancora tanti, ammonì Passaro, occorre guardarsi anche da loro, sarebbe paradossale se dopo averli strenuamente combattuti dovessimo dargli di nuovo corda solo perché in Italia esiste il più forte partito comunista dell’Europa occidentale che può prendere il potere anche attraverso il libero voto. 16

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Dobbiamo muoverci senza indugio – disse infine l’oratore – poiché questo governo imbelle minaccia di condurci alla rovina, prigioniero com’è della paura, paralizzato dai traccheggiamenti politici. Forse, dopo aver preso il potere, dovremo sospendere per un po’ le garanzie perché l’ordine va ripristinato rapidamente e con efficacia, ma subito restituiremo il paese alla democrazia, massimo entro sei mesi, con libere elezioni generali. Non parlò di armi ma non c’è dubbio che ci fossero, visto il programma. Durante la concione di Passaro il direttore Logo e il professor Aldini sempre più spesso si erano guardati in faccia, smunti, increduli e con gli occhi strabuzzati. Che delusione! Mai avrebbero immaginato di essere stati invitati lì come congiurati per un colpo di Stato. Ecco perché la riunione a notte fonda come i cospiratori di una volta. Se lo avessero saputo o immaginato, si sarebbero ben guardati dal partecipare a quell’incontro, pur con tutto il rispetto per Passaro che senza dubbio – pensavano loro – era vittima della propria senilità. Guardarono le facce dei vicini e con un certo sollievo videro che anche fra loro, non in tutti però, c’erano stupore e incredulità. Decisero di non attendere oltre, se ne andarono in punta di piedi senza avvertire, come se dovessero allontanarsi un momento per andare a fare pi-pì e una volta fuori constatarono, di nuovo con sollievo, che anche altri sfollavano. Ma cosa gli era preso a Passaro? Non dubitavano che la situazione fosse grave, ma non irrecuperabile a tal punto. E poi non era possibile che il direttore del quinto giornale italiano per numero di copie vendute, lui, Logo, si compromettesse tanto. Non se la sarebbe più sentita di commentare la situazione politica come faceva da tempo in piena libertà: con quale coraggio e faccia tosta avrebbe continuato a scriverne? E il povero Aldini, da lui trascinato in quella avventura, grande studioso di liberalismo, fondatore di prestigiose riviste scientifiche? 17

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Sì perché essere liberali non metteva al sicuro da nocive etichette. Il liberalismo era pur sempre considerato di destra conservatrice in un paese come l’Italia che non brilla per cultura politica occidentalizzante. E da qui a passare per fottuti conservatori mancava poco o nulla. Aldini poi, il conte, con i quarti di nobiltà che si portava addosso e con tutti i suoi cognomi che testimoniavano la sua stretta parentela con le famiglie aristocratiche della città, non si sarebbe mai salvato dal ludibrio riservato ai forcaioli. *** Il ritorno dei due fu dimesso e quasi clandestino, Logo cercò addirittura di non farsi notare, vana speranza in un giornale con quelle pareti interne, moderne e del tutto indiscrete, tanto che il direttore pensò di farle imbottire nel suo ufficio per attenuare i suoni. Logo si tenne in corpo quel segreto per alcuni giorni, nel frattempo fece imbottire le pareti, poi come Numa aveva previsto, lo chiamò e dopo un comprensibile momento di incertezza, vuotò il sacco su quella notte nella costa ligure, con quanti più particolari ricordasse. Concluse chiedendo il parere di Numa. Il quale aveva una idea cui lavorava da un po’ di tempo, nella sua mente. Non si stupiva – disse – che sulla costa ci fosse stata quella specie di congiura. Qualche settimana dopo Logo venne a sapere in via riservata, attraverso i propri canali, che Passaro aveva rinunciato al progetto di colpo di Stato per molti motivi ma anche perché in troppi dei suoi amici si erano ritirati. Il vecchio comandante fu anche arrestato di lì a qualche settimana (restò in galera mica tanto), quando la polizia scoprì i suoi ormai inutili piani. Numa riteneva possibile che altri accarezzassero l’idea di un golpe, ma ciò che egli aveva in mente era molto diverso, aveva bisogno di tempo per metterlo a punto, per raccoglierne elementi di prova e testimonianze e anche adesso 18

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non volle accennarne al direttore al quale diede un parere generico, non impegnativo, le cose che si dicono in simili circostanze, che non significano nulla. Il direttore sulle prime si stupÏ della risposta, non era da Numa, ma subito intuÏ che il suo giornalista lavorava a qualcosa e ne rispettò la riservatezza. ***

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€ 12,00 i.i.

Gianni Giacinto Mazzoleni

la cesarina ha le armi

Gianni Giacinto Mazzoleni, giornalista professionista, già redattore capo dei servizi economici e finanziari, inviato e editorialista del vecchio Resto del Carlino. All’inizio degli anni Ottanta ha previsto in una serie di articoli il crollo dell’Urss. Una sua inchiesta giornalistica su illecite operazioni della politica, a fine anni Ottanta, ha provocato severe condanne penali (tribunale di Ancona) preannuncio di Mani Pulite. Con Giovanni Sartori ha pubblicato La Terra scoppia - Sovrappopolazione e sviluppo (Rizzoli, 2003). Il suo primo romanzo, Come fosse ora, (Foschi editore) è del 2009.

Minerva Edizioni

Un viaggio nel tempo che ci riporta al ’68 e alle lotte studentesche, agli anni di piombo, alle tensioni di un’Italia in divenire, con tanti sogni e altrettante divisioni. Ambientato in un periodo di grandi avvenimenti internazionali, in una città che ricorda tanto la Bologna del tempo, La Cesarina ha le armi è la storia romanzata di una redazione giornalistica in fermento, scossa da lotte interne e da intrecci complessi, in un’epoca profondamente segnata dal terrorismo e condizionata dalla politica e dai poteri forti. Il libro prende il titolo dal fatto che i due protagonisti, allarmati dalle voci insistenti su un imminente colpo di Stato della destra fascista, vengono a conoscenza che anche i comunisti hanno le armi, da utilizzare in caso di golpe. Ai depositi si accede solo in gran segreto, attraverso una misteriosa Cesarina… Un romanzo appassionante, che evidenzia le ferite ancora aperte della nostra Italia, protagonista di una storia recente molto discussa e travagliata.

Gianni Giacinto Mazzoleni

LA CESARINA HA LE ARMI

Storia di giornalismo negli anni di piombo. Romanzo

Minerva Edizioni


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