La Effe di john

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LA EFFE DI JOHN

Minerva Edizioni


Collana: Sul filo di lana LA EFFE DI JOHN di Sandro Serenari

sandro.serenari@unibo.it Grazie a: Andrea Albertini, Renzo Angori, Renato Ariatti, Ugo Bartolini, Marco Bonamico, William Boselli, John Douglas, Enrico Faggiano, Paola Gambini, Clara P. Gandolfi, Ivo Germano, Maurizio Gualco, Massimo Iacopini, Claudio Lamberti, Marco Odorici, Nino Pellacani, Stefano Pillastrini, Fabrizio Pungetti, Stefano Quadrelli, Lorenzo Sani, Andrea Sassoli, Sandro Serenari, Alberto Vecchi, Jack Zatti.

Tutte le illustrazioni sono realizzate da Giuseppe Palumbo (inventario.biz) La ricerca su fonti originali e interviste è stata realizzata da Enrico Faggiano Un ringraziamento particolare a Valerio Malavasi e a Yoga Conserve Italia

Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Direttore Collana: Marco Tarozzi Grafica e impaginazione: Zonamista.it

© 2012 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna

Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Deroga a quanto sopra potrà essere fatta secondo le modalità di legge.

ISBN: 978-88-7381-479-5

Minerva Edizioni

via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.663.05.57 - Fax 051.89.74.20 www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com


‌e a tutti il piÚ cordiale benvenuto.



LA EFFE DI JOHN Pubblicare un libro sulla propria squadra è il sogno di ogni tifoso, scriverlo sulla Fortitudo degli anni della propria adolescenza è una duplice e sconfinato piacere. Il mio attaccamento alla squadra di pallacanestro è un sentimento straordinario e complesso, un autentico momento di appartenenza e di identificazione cittadina, distillato di vita quotidiana che trascina, esalta, infuria ed appaga in modo febbrile, insano. Un ruvido legaccio che corre tra i ricordi degli anni più belli, che stringe, intreccia il tempo ed il luogo di certi eventi sportivi alle migliori memorie personali che, per questo, si rendono indimenticabili: uno scadenziario parallelo di cose vissute e partite giocate, per accompagnare di anno in anno i momenti da segnare nel calendario di ciò che non si potrà dimenticare. Imprevedibili, casuali e per ciascuno differenti sono i fattori che innescano ed esplodono l’appassionata militanza di un pubblico, dedizione alla propria bandiera, una frenetica attrazione per cinque atleti in calzoncini e canottiera sul campo di gioco; due gli elementi che vanno a comporre questa chimica: l’età giusta per innamorarsi e il campione per cui impazzire. Riconoscerlo significa, dal quel momento in avanti, fissare l’unità di misura del valore, del coraggio del desiderio e della capacità di vittoria. La Fortitudo dei miei sedici anni si chiamava Yoga e la canottiera numero “8” girava attillata attorno alle robuste spalle di John David Douglas, una guardia di colore con garretti d’acciaio e un tiro in sospensione micidiale, galleggiante ed esitato; “illegale” o “tanta roba”, come direbbero oggi con gergo alla moda i giovinastri o i finti giovani in camicia bianca di ritorno dalle Baleari. Alla squadra che giocò nei suoi anni a Bologna è dedicato questo libro: a quella Fortitudo che visse nella preistoria del marketing e delle tecniche che avrebbero reso immortali le fotografie d’annata. Scatti d’autore recuperati per dare profondità alle origini, valore alla tradizione o ancora, qualità al prodotto: emozioni a lunga scadenza, icona da frigorifero per far venire i brividi anche a chi ahilui non c’era; per renderlo partecipe di quanto s’è perso. Queste pagine provano a rievocare qualcosa accaduto in un’epoca breve, caduta nel colpevole silenzio della storiografia; quel tempo sportivamente debole, per molti meno attraente dei ricordi sfumati in nero e bianco dell’indimenticabile Gary Schull o delle vincenti gestioni che sarebbero arrivate sotto il segno del grandissimo Giorgio Seragnoli. Con tutto il rispetto per il prima e gratitudine per il dopo però quella era la mia squadra: allenamenti da seguire in Furla e partite a impugnare la balaustra dei posti non numerati. Sotto di noi, i giocatori potevano pur indossare una canottiera senza F sul petto, una concessione priva di roman5


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ticismo che, per qualche mese, aveva lasciato spazio al nome di un negozio di abbigliamento, situato nel centro del nostro universo: a metà strada tra la sede sociale e il campo di gioco, il “Palazzo”, ribattezzato nelle stagioni con nomi di autorità cittadine o di camioncini fuoristrada. Per me, semplicemente e per sempre, Piazza Azzarita, tempio Fortitudo. I colori rosso e bianco, con il rosso prevalente in trasferta; il blu, che gli anni a venire avrebbero santificato come imperativo valore identitario, compariva semplicemente come sfondo del marchio dello sponsor che produceva succhi di frutta. Senza mancare di riguardo agli amuleti ed agli oggetti di culto che si sono affermati nei decenni e che rappresentano oggi simboli irrinunciabili della tifoseria, rivendico a buon titolo il merito di una squadra che si batteva e incantava vestendo altri colori. Mi piace perdermi nella malinconia del ricordo per quei giocatori, alcuni di loro discreti ed altri poco più che onesti, che si sono avvicendati senza baciare la maglia e neppure giurare fedeltà con il pugno sul petto e l’indice alzato verso gli spalti: una sola costante in quel quadriennio, John in elevazione sul parquet e tutti noi con il cuore in gola in gradinata. Chiunque a proprio diritto può tuttavia reclamare una passione più antica di quella descritta in queste pagine; perché ai sedici anni di ciascuno spetta una propria EFFE originale, senza primato né prevaricazione. O altrettanto, nemmeno chi è stato sedotto da una Fortitudo più recente, può sottrarsi al punto che pare tanto evidente: si è legati alla maglia per la vita, ma quello che marchia a pelle un tifoso è una specifica squadra di un certo anno, rappresentata nelle sue somme dalle gesta di un solo giocatore. Ed in questo senso, mi considero tra i primi tifosi di John Douglas così come reputo un privilegio esser riuscito a promuovere questa intensa iniziativa editoriale insieme a tutti coloro che sono stati a diverso titolo protagonisti del periodo. Lo ammetto senza reticenza o falsi timori: nel corso degli anni ho provato un certo disappunto vedendo riempita la casella del giocatore simbolo della mia squadra da qualche fuoriclasse con l’autista o peggio, da funamboli lamentosi e strapagati. Credo sia successo a tutti quelli che come me, perduto il beniamino, sono rimasti attaccati ai colori della società sportiva: trascorsa la stagione della benevolenza per la prodezza del singolo, talvolta pur esagerata, nell’evoluzione della specie si va a prediligere il bene e la forza del collettivo. Magari restando in un po’ in disparte, o finendo per scrivere un libro di ricordi. La storia della Fortitudo si è riempita di bizzarrie e contrasti, arricchendosi nelle ultime stagioni di irripetibili vicende societarie e sportive: nei saliscendi economici, si è compiuto un viaggio con ritorno verso una dimensione continentale di una società nata in un quartiere. E lì è tornata. Non è casuale

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pertanto che il tifo sia un amalgama composito di tante espressioni: impossibile cercare il prototipo del vero tifoso, più facile inquadrarlo nel tempo della specifica Fortitudo che lo ha innescato. La EFFE è stata davvero tante cose, più di quante chiunque ne avrebbe potute immaginare; ciascuno vive il proprio sentimento, così come raccontato in queste pagine, secondo inclinazione ed un gusto molto personale. Rito individuale o collettivo, giovani facinorosi che invecchiando vestono le griffe, piccoli geppetti che da professionisti adulti si scoprono caldi supporter. Ultras che restano Ultras, benestanti travestiti da banditi, pirati con la stretta di mano molliccia, contestatori ostinati, rumorosi menefreghisti e quello per cui ogni momento è buono per andare a fighe. E tanti, tantissimi innamorati a prescindere. Ci sono voluti oltre un paio d’anni di aperte discussioni con l’amico Nino Pellacani, ispiratore e valente grafico di questo progetto, per decidere come realizzare un testo celebrativo di quegli anni, trascorsi senza medaglie e senza medagliere. La cosa più bella – più da curatore che da autore – è stata l’organizzazione di tanti incontri, con quelli che hanno scritto (e lo hanno fatto grazie al rigoroso ausilio di un giornalista scrupoloso come Enrico Faggiano) a parlare e riparlare di gesta sportive quasi scomparse nel dimenticatoio. Sapevamo altrettanto che questo lavoro avrebbe forse falsato la storia, riscrivendola sulle note di ricordi imprecisi, nel confronto delle narrazioni ogni tanto contraddittorie; come poi accade alle biografie, anche se questa non ha l’intenzione di esserlo, succede che spesso il testo superi la realtà. E dopo la stampa l’unica cosa che diventa vera, anche a prova di verità, è proprio quello che viene pubblicato. Nessuno però vuole riscrivere o abbellire la storia: questo è semplicemente un inventario di sentimento dove in secondo ordine passano sia il fotogramma che la statistica. Un collage di aneddoti, angolazioni e interpretazioni, condiviso tra chi ha vissuto lo stesso periodo dal campo o dalla gradinata, come professione o come passione, come gioia o come tormento. Un lavoro collettivo che ripercorre le annate sportive 1983-87 della Fortitudo pallacanestro attraverso la memoria di 24 contributi diretti; senza aspirazioni narrative da racconto, né ambizioni di fedele cronaca giornalistica, con eventuali imprecisioni ed errori che devono essere considerati soltanto come toni di colore. Un saga di piccoli eroismi che questo libro non vuol lasciar dimenticata per la mancanza di risultati di rilievo, nel complesso delle quattro stagioni sportive; un modesto saliscendi tra la prima e la seconda serie. La Fortitudo in campo tra il 1983 ed il 1987 era forse povera di tutte le cose che sarebbero arrivate in seguito: un modesto ascensore di categoria tra la A1, troppo abbondante, e la A2, troppo stretta. Un periodo di promozioni facili e

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retrocessioni immediate; una società stretta attorno al suo allenatore Andrea Sassoli, del quale qui leggeremo i ricordi, retrocesso due volte con la stessa squadra senza mai esser messo in dubbio o con le spalle al muro. Un gruppo di giocatori che rimase quasi intatto dal primo all’ultimo giorno, a parte rare cessioni per far quadrare il bilancio e la naturale rotazione degli juniores. Uno sponsor fedele che ha sostenuto questa pubblicazione e che ringrazio, lo stesso di quelle favolose divise di gara color rosso fuoco da trasferta! Le storie personali raccontano con affetto e con partecipazione il legame ancora saldo tra passato e presente dei cittadini bolognesi con la loro società sportiva: la traccia narrativa è impreziosita dal contributo di illustrazioni originali che completano e fissano negli occhi disegni da guardare con nostalgia e orgoglio. Un piacevole viaggio all’indietro arricchito dalla china di Giovanni Palumbo, Pal, uno dei più importanti disegnatori d’Italia. Questo libro, tra i tanti piaceri, mi ha dato l’opportunità di approfondire un’amicizia: a lui è stato affidato il compito di rivisitare i ricordi e di restituirceli in immagine, cosa che ha completato e arricchito il compito rievocativo. Un rilievo merita la tifoseria e più, il cuore del tifo organizzato: la Fossa dei Leoni. Tutti quelli che frequentano il Palazzo, in un qualche periodo della loro vita, sono stati iscritti a questa storica organizzazione, fondata nel 1970. Io lo sono stato per un paio d’anni, da abbonato di gradinata non numerata, dal 1983 al 1985; il mio posto sugli spalti era sempre lo stesso, sulla sinistra qualche fila sotto la balaustra degli Ultras. Perché mi piaceva guardare la partita da seduto e perché la Fossa, all’origine, si sistemava da metà della gradinata in su. Ed io così in alto non vedevo bene; poi dalla mia posizione potevo scorgere tutti i movimenti sulla panchina della nostra squadra. Se escludiamo il derby e qualche partita con le squadre lombarde – Milano, Cantù e Varese – nemmeno negli anni di A1 il palasport era esaurito negli ordini di posti: credo che la media delle presenze fosse di nemmeno 3000 persone, cui andavano aggiunti un centinaio di cioccapiatti sorridenti e mangiapane a gerla, imbucati con le tessere SIAE e pochi titolari di biglietto omaggio. Negli anni è diventata una battuta ricorrente e un po’ rivendicativa, ma se ci fossero davvero stati tutti quelli che giurano di esserci stati, avremmo giocato allo stadio e riempito curve e distinti. Il tifo organizzato, con le sue dispute ed avvicendamenti tra i suoi leader, ha vissuto vicende che non mi hanno mai appassionato; costole di fuoriusciti come Bologna biancoblù e i Vikings nel mio ricordo sono un tutt’uno con la Fossa, poiché erano più o meno le stesse persone, pur anche di diverse ed opposte opinioni politiche. A me piace pensare e ricordare il tifo di quel periodo come un corpo unico ed unito, così come lo descrisse Maurizio Gentilomi, firma di Superbasket, un

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commento che sarebbe diventato l’intestazione di tutte le comunicazioni: “… la Fossa, tacciata di smisurato fanatismo ma tremendamente chiassosa per tutti i 40 minuti anche e soprattutto quando la squadra del cuore è in difficoltà”. Tifosi orgogliosi di quello che la squadra era; nessuno si vergognava di retrocedere e nessuno rinunciava alla forza della fantasia. Il derby era un tabù, vincerlo significava regalarsi diversi mesi di estasi, di agognato sorpasso, in una rivalità ben più grande della nostra dimensione. Il movimento della pallacanestro degli anni ’80 era molto simile a quello che si sta riaffermando negli anni ’10: poche risorse economiche, giocatori giovani e qualche scommessa azzardata tra veterani a fine carriera e talenti fuoriusciti dai pro per qualche problema personale. Con molto meno atletismo, e forse un po’ di cura in più per i fondamentali, quasi tutte le squadre erano composte da un quintetto pressoché inamovibile, con poche riserve di livello, nemmeno una per ruolo: un piccolo che facesse regia e guardia, un quasi lungo per un vero lungo, magari uno specialista della difesa o un jolly, poi due juniores nel fondo della panchina. In campo, palla in area o al tiratore da fuori, gioco rapido e giocatori piantati, pochi fronzoli, punteggi spesso a tre cifre, con gli americani quasi sempre cannibali del punteggio. Era un basket di giocatori bandiera, di cori e insolenze che si ripetevano di anno in anno, di pomeriggio in pomeriggio; raccontato con parole antiche da giornalisti rigorosi, con uno stile tanto indimenticabile quanto soporifero, come Aldo Giordani sulla tv di stato durante le differite. Mi è caro ricordare due giornalisti dell’epoca che più di altri mi hanno fatto vivere con intensità quelle vicende: Stefano Germano autore dell’incipit di ogni articolo “la Fortitudo che nel cuor mi sta” e Peppino Cellini, stravagante cronista con il quale ho avuto mille volte la stessa conversazione: “Pepino – dicevo io con quella cadenza bolognese che smarrisce le doppie nella pronuncia – guarda che la Virtus gioca domenica prossima!” E lui per me aveva la stessa risposta squillante: “va’ a far delle puniette!” Il libro è scritto per tutti, ma è destinato alla mia generazione: quelli che l’adolescenza l’hanno avuta rovinata da Renato Villalta non da Predag Danilovic. Spero che questo modesto lavoro possa avere un seguito e magari essere ripetuto: sarebbe bello che qualcuno scrivesse la EFFE del Barone, la EFFE di Vincenzino o la EFFE di Carlton. Qualcuno potrebbe addirittura pensare di raccontare la EFFE di Gil, magari per una collana di diversa narrativa; per intanto, questa è la ricostruzione di quel Talento Fortitudo in sospensione sulla città. La EFFE di John.

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JOHN DOUGLAS Nell’estate del 1983 mi trovavo nella mia casa in Alabama, a Birmingham, al termine di una stagione terminata nei Montana Golden Nuggets, nella seconda lega professionistica, la scelta naturale dopo le mie ultime partite nell’NBA, nei San Diego Clippers. Ero il fratello di un top player americano, conosciuto e rispettato nei campi di gioco e considerato come un leader anche fuori. Aveva tutte le caratteristiche del fratello maggiore, esperienza e diritto acquisito, come capita a chi le cose le vive sempre per primo e poi sente il dovere di insegnarle: ed io, in un misto di gratitudine per la protezione e desiderio di indipendenza, ero diventato un giovane uomo che per lavoro aveva deciso di dedicarsi alla specialità della casa: la pallacanestro. Mio fratello ha sempre saputo come vivere e gestirsi nel basketball business, quasi un dono naturale unito a capacità che si sviluppano quando per certi versi ci si trova a scrivere la storia: nel 1974 per la prima volta in un torneo di basket degli Stati del Sud, le squadre cominciarono a mischiare giocatori bianchi e neri ed in questa prima generazione di atleti misti, Leon Douglas fu un vero protagonista, tanto da portare Alabama ad essere tra le numero uno della costa Orientale. Credo che tutto cominciò proprio perché Leon, che aveva una grande capacità di pianificare le cose anche lontane nel tempo a venire, una volta disse a uno dei suoi contatti tra i promoter in Europa: “Hey Ciccio, abbiamo una guardia in famiglia”. Ciccio Grigioni era uno scout fidato, preciso, sornione e svizzero. Fu come se fossi spinto dalle convinzioni di mio fratello: “L’Europa sarà per il tuo bene”, anche se principalmente il mio trasferimento sarebbe potuto diventare un investimento futuro anche in suo favore: la mia partenza avrebbe creato un ponte, un’opportunità che sarebbe potuta tornare utile non soltanto a me. In questo modo, dopo alcune telefonate in cui non capii esattamente dove sarei andato, né chi avrei incontrato o per chi avrei giocato, fui persuaso ad andare; non ero proprio convinto della scelta, se non altro perché non avevo la minima idea di cosa avrei trovato.

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Nessuno di noi sapeva cosa ci fosse in Italia, che tipo di vita e di pallacanestro si giocasse: nemmeno Leon, che pur aveva giocato in Italia la stagione precedente, sembrava raccontarmi cose imprecise per rassicurarmi. Diceva che sarebbe stata una terra di opportunità, allo stesso modo in cui gli Stati Uniti lo erano per i tanti italiani che viaggiavano in direzione opposta alla mia. Non avevo paura, ma di certo apprensione; e non avevo alcun indizio che questa sarebbe stata la scelta più felice di tutta la mia vita. Arrivai all’aeroporto e due persone speciali vennero a prendermi in automobile: l’indimenticabile Armando Caselli, dirigente della Fortitudo, accompagnato da un giovane collaboratore al volante, William Boselli che ancora oggi è uno dei miei più cari amici e che in questo libro ha scritto le pagine dei suoi ricordi. Nei giorni precedenti alla mia partenza ci eravamo sentiti telefonicamente con Armando e Ciccio: capivo poco di quello che dicevano, ma ricordo che una cosa mi divertì molto. Dissero di non portare nulla con me, soltanto il necessario per il viaggio, perché Armando era padrone di un negozio di abbigliamento e mi avrebbe dato tutto quello che mi serviva. La sua idea, con esplicite finalità di advertisment, era quella di ribattezzarmi John “Tempest” Douglas, per fare pubblicità alla sua attività commerciale. Li presi alla lettera e sbarcai con pochi effetti personali in una sacca e le due cose fondamentali che facevano sentire cool un ragazzo coloured all’inizio degli anni ’80: lo spazzolino da denti e la spazzola piatta per i capelli. Impiegai settimane per capire il significato di una sola parola: tutti erano molto gentili, il cibo fantastico, la città bellissima ma rimasi con un senso di precarietà finché non cominciai a fare ciò per cui ero lì; non ero spaventato ma in attesa, perché speravo che il gioco avrebbe portato considerazione e rispetto nei miei confronti e magari sfamato le aspettative che avvertivo attorno a me, davvero forti. Chi dai pro si trasferiva in Italia a giocare a basketball in quel periodo, doveva adattarsi a diverse cose: gioco, palleggio, tiro e difesa, tutto era diverso. Io sapevo che avrei fatto bene, ne ero convinto, ma dovevo prima adattarmi alle differenze per poi essere in grado di esprimere i miei valori. Il nostro era un team di giocatori bassi, però giovani ed atletici e fin dalle prime ore di palestra apparve chiaro che il motivo per cui ero stato ingaggiato era quello di portare il team ad un livello superiore. Senza che io sapessi realmente quale fosse il livello della lega in cui avrei giocato, senza conoscere il potenziale degli avversari, che avrei imparato a conoscere giocando una partita dopo l’altra. Per fare questo, e lo avrei pienamente capito con gli anni di esperienza come giocatore e come allenatore, occorre avere tutte le qualità da leader ma, prima di tutto, occorre avere un sentimento profondo a prescindere, leale verso il gruppo. Non per retorica, ma per stato

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d’animo sincero, pensai subito con convinzione “this team is my team”, la mia squadra, il mio gioco, in quel luogo che doveva diventare mio. A Bologna infatti cominciai ad essere un giocatore diverso, un uomo con le sue piene responsabilità: fossi rimasto negli Stati Uniti sarei stato il promettente fratello di una star, in Fortitudo mi misi subito a caccia della sfida; cercavo in ogni modo di prendere in mano la situazione, mi applicai con una mentalità che era nuova anche per me. Nonostante forse non ne avessi bisogno, lavorai sempre duro per mantenermi in forma, per tirare il gruppo a migliorarsi; soprattutto per il beneficio dei più giovani, vedere che il leader della squadra non si risparmiava, credo sia stato un valido esempio. Quando arrivai non conoscevo Earl Williams, nemmeno di nome: nei pro nessuno sapeva cosa fosse la Coppa dei Campioni, il torneo più importante di quella terra chiamata Europa. Fuori dal campo avevamo un gran feeling, così come in campo spesso avevamo incomprensioni; lui voleva continuamente la palla, ma dovevo tenerla io. Era la missione che sentivo: creare il gioco della squadra attraverso le mie mani. Cedere ad altri questo onere sarebbe stato come venire meno a parte delle mie responsabilità; oggigiorno come coach credo di aver maturato una diversa prospettiva. Ci vogliono cinque giocatori uniti e spiritualmente equivalenti. Il meccanismo funziona attraverso cinque ingranaggi e, anche cambiando i pezzi, sostituendo questo con quello, l’orologio deve seguire il suo ritmo. Se penso al giocatore che ero, forse non mi sarebbe piaciuto avermi in una mia squadra, né mi sarebbe piaciuto essere l’allenatore di quei giorni; solo oggi capisco che, nonostante le migliori intenzioni, il mio gioco ostacolava gli altri del team e anche il fatto di aver pensato che tutto quello fosse fatto a fin di bene, non cambia la situazione. La mia presenza unì comunque la squarda attorno al mio gioco; Earl era un solista, incuteva più timore che spirito di competizione e quando apriva le braccia faceva paura, ma senza riuscire a trascinare e coinvolgere i compagni. Era un po’ troppo calato nel ruolo del protagonista: pensava, con tante ragioni, di avere molti diritti acquisiti sul campo che lo rendevano diverso e creavano problemi di disciplina e di esempio. Oggi penso che se avessimo avuto un coach più severo avremmo giocato meglio, senza comunque dimenticare che parte di quel problema ero anche io. Tiravo, forzavo il tiro e poi tiravo ancora; un egoismo obbligato e responsabile, per cercare nella mia indipendenza l’affermazione del nostro gruppo. Perché credetemi, io di quel gruppo volevo essere un esempio, non una superstar. Quando anche Leon arrivò alla Fortitudo le cose in un certo senso si rafforzarono e per me divenne più facile mantenere il ruolo: a quel punto io ero certamente al pieno della mia forza fisica e della mia qualità sportiva. Ne avevo consapevolezza e sapevo che in quel momento lui, pur con tutta l’espe-

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rienza e la reputazione, era diventato il fratello di John. Essere una famiglia si vede in questi momenti: Leon aveva capito che tipo di situazione doveva affrontare e cominciò a sostenermi senza paternalismo. Credo che le incomprensioni avute nel team fossero frutto di questo motivo: la squadra aveva due linee guida, doveva seguire il mio talento e la ruvida disciplina di mio fratello; e tutto venne fatto per marciare in quella direzione. Ricordo le vittorie ed ancor di più le sconfitte che mi ferivano nel profondo: perdere mi dava una gran voglia di lavorare, di ricordarmi che c’era molto lavoro da fare. Al primo anno, dopo aver affrontato tutte le squadre al termine del girone d’andata, capii che Reggio Emilia era il livello che avremmo dovuto raggiungere. Avevamo ottimi giocatori, ma senza quella motivazione e forza “extra” che serve per superare i propri limiti, non saremmo riusciti nell’impresa di salire di categoria: penso a Marco Bergonzoni, sempre distratto da altre faccende, un women-guy che prendeva queste cose poco sul serio. Senza esserci fino in fondo con il cuore e con la testa; la conseguenza era che alternava grandi partite a giornate anonime ed irritanti. Io per arrivare al top delle mie possibilità ho lavorato ogni giorno: ognuno può essere e diventare good. Ma per fare il salto in avanti, quello che fa la vera differenza è la voglia di lavorare ogni giorno per superarsi. Psicologicamente, il fatto di essere considerato alla pari di Leon, mi diede molta confidenza: potevo giocare finalmente con personalità senza inseguire o sfuggire il paragone. Ero pronto a confrontarmi con i più forti, politicamente più influenti, più ricchi e protetti dagli arbitri: il giorno in cui sentii più orgoglio, fu proprio quando mio fratello ed io giocammo insieme il primo derby. Ci sarebbero voluti ancora alcuni anni prima di vincerne uno, ma trovammo subito lo spirito giusto: sapevamo di essere piccoli, ma forti. Non disposti a fare alcun passo indietro. I nostri tifosi erano esattamente come noi: orgogliosi e per questo mai vittime, mai underdog quando giocavamo in casa nostra. Mai paurosi quando giocavamo in trasferta. Brunamonti aveva sempre un atteggiamento distaccato e forse superbo, ma lo rispettavo perché era un gran lavoratore; volevo batterlo in ogni fase del gioco, misurarmi con lui in tecnica ed in atletica. Fantin era un provocatore che faceva il suo lavoro senza sosta; sapeva anche tirare e forse in quegli anni erano qualità sufficienti per giocare in serie A. Villalta, il più altezzoso e forse infastidito dal trattamento dei nostri tifosi, era imbattibile: solido e preciso. Ho avuto un gran rispetto anche per Bonamico, un vero worker, un guerriero; uno che avrei voluto avere nella mia squadra. Un uomo di cui senti la presenza. Campionato, Coppa Italia o torneo Battilani, per noi era la stessa cosa: volevamo batterli disperatamente, ogni game era un vero fight. Ogni partita durava davvero mesi: cominciava con una lunga attesa, dove

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anche agli allenamenti si smetteva di ridere e finiva soltanto quando ce n’era un’altra chance da giocare per ottenere un miglior risultato. Con gli americani della Virtus non ho mai avuto alcun problema, tranne che con Van Breda Kolff: era davvero lento, sopravvalutato e grazie alla reputazione del padre – grande maestro di basket – sempre tutelato dagli arbitri. Non è un mistero capire perché in quegli anni tutti i tifosi dell’altra squadra fossero pazzi per lui: si identificavano in lui, perché erano come lui. Sono stato invece molto amico di Michael Ray Richardson e di Joe Bryant, per me il miglior giocatore contro cui abbia mai giocato. Uno spaventoso talento offensivo quello di “Jelly Bean”; aveva davvero tanta qualità straripante, moltissima l’ha fatta vedere sul campo, altra ancora l’ha passata alla sua prole. Ho tantissimi ricordi e non voglio dimenticare nessuno, anche se non cito i nomi; ho vissuto davvero intensamente tutti i giorni della mia permanenza a Bologna, cercando di lasciare un buon ricordo di me. Al bar dove prendevo il cappuccino in Furla, oppure dovunque capitasse di fermarsi a chiacchierare con tifosi che sarebbero diventati amici; a passeggio sotto ai Portici, d’inverno con le mani in tasca ed il bavero del cappotto alzato, per quell’umidità che ti entra nelle ossa quando sei ancora accaldato per la doccia dopo l’allentamento. Ho sempre cercato di essere disponibile perché sentivo di essere stimato: e sono cose che non capitano spesso nel basket, come credo non capitino spesso nemmeno negli altri lavori. Molti mi dicevano di apprezzare il mio stile di gioco; ogni giocatore ha un suo movimento caratteristico ed il mio – come noto – era il tiro in sospensione da centro area. Ho trascorso molto tempo a rispondere alla stessa domanda che Sandro mi fece il giorno che mi ha parlò per la prima volta dell’idea di questo libro: “Ma tu, quando saltavi in sospensione, già sapevi se avresti tirato o passato il pallone?” Beh, con il passare degli anni, anche rivedendo le immagini, forse dovrei rispondere con più consapevolezza. All’epoca mi sembrava solo un gesto naturale per battere sul tempo il difensore e per superare il raddoppio in elevazione. La forza dei venticinque anni ti consente anche di pensare le cose dopo averle fatte, di correggere un movimento e di adattarlo alle circostanze; senza dubbio però quello era il momento più intenso del mio basket, una delle ragioni per cui venivano a vedermi giocare. Credo fosse proprio quel desiderio di staccare da terra a rappresentare il massimo dello sforzo che facevo per migliorarmi e per convincere il team a seguirmi. Mi sembra quasi di aver avuto momenti di esaltazione, di rabbia agonistica e di feroce convinzione ad andare avanti quando vedevo il difensore staccare in salto dopo di me e ricadere mentre ancora io cercavo nel controtempo il momento giusto per finalizzare l’azione. Un fermo immagine, un attimo sospeso a centro area che ancora posso rivedere

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se chiudo gli occhi: l’abbraccio delle gradinate in festa, mio fratello Leon che inutilmente chiama il passaggio, Lanfranco con la barba sul microfono pronto a scandire il mio nome. Il respiro trattenuto ed il sorriso di chi sa di fare la cosa che più ama. A Bologna ho trovato tutto quello che potevo desiderare: amici per la vita, anni spensierati e persino una moglie; ci sono state molte più cose di quelle che qui ho ricordato ed altre ancora che hanno superato la mia immaginazione. Vedere oggi, cresciuto e con qualche capello bianco, quel teenager scatenato – che a tarda notte venne a casa mia con una bottiglia in mano a festeggiare lo zigomo di Fantin – è per me una grandissima sorpresa, una cosa che mi onora e mi emoziona: non mi sarei mai aspettato che avrebbe messo insieme i ricordi dei quegli anni per scrivere un libro con il mio nome. Questo è successo e poteva solo accadere a Bologna: un luogo magico dove ancora vengo accolto con la stima per l’atleta ed un grande affetto per la persona. Affetto che ricambio con tutto il cuore. Il basket mi ha insegnato quello che so ed a basket ho dato con onestà tutto me stesso. Vorrei trasmettere a chi leggerà queste pagine entusiasmo ed il piacere della nostalgia; per fare in modo che i nostri ricordi rimangano impressi e trattenuti nella memoria. Come in una lunga sospensione.

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WILLIAM BOSELLI La Fortitudo non è solo una società di pallacanestro. Per me è stata anche luogo e spazio, rumore e silenzio, battere e levare, mare aperto e approdo. Un terreno dove fare germinare sentimenti per poi radicarli, una pietra dura su cui incidere nomi da consegnare al fluire del tempo. F come Fortitudo, come Fortuna, come Fede. Lì, dentro a quel luogo, c’è una residenza felice, con all’ingresso un campanello con tutti i nomi di chi vive al centro del mio petto. Chi mi conosce bene lo sa, io e lo sport praticato siamo sempre stati come acqua e olio: potete lasciarci a contatto per una vita ma non ci mischieremo mai. Armando Caselli è stato per me l’uomo del destino. Lui era vicepresidente della Fortitudo e al contempo anche mio datore di lavoro. Questo omone mi ha fatto conoscere la pallacanestro ma soprattutto mi ha fatto incontrare persone che non si sarebbero mai più allontanate dalla mia esistenza. Persone come John Douglas. Ci sono giornate che scorrono lente verso la propria foce, e mentre lo fanno e tu ti lasci cullare da questo procedere, prendono una direzione per un altrove sconosciuto. Tu credi di andare dritto ed invece la vita svolta. E tu con lei. Quel giorno imprecisato del 1983 Armandone mi dice: “Willy, vieni con me all’aeroporto, dobbiamo andare a prendere un giocatore”. Non ci ho messo molto ad accettare, anche perché qualche minuto lontano dal riordinare scatole e scatoloni in magazzino non mi poteva certo fare venire un’irritazione cutanea… Saliamo in auto e dopo pochi minuti siamo al Marconi di Bologna. Superata l’attesa che ogni sbarco porta con sé, finalmente si apre la porta degli Arrivi e compare, con un borsone a tracolla, John Douglas. Cioè, adesso è facile pensare “Cazzo, John Douglas!”. Il punto è che per me, e per la maggior parte delle persone in quel periodo, era un perfetto sconosciuto. Un ventisettenne sorridente ma timido che non parla una parola d’italiano e che con la canottiera Fortitudo non scenderà mai sotto i 21 punti, 3,5 rimbalzi e 2 recuperi di media, tirando con percentuali superiori al 36% da tre punti. Comunque, per farla breve, dopo quell’atterraggio John sotto le due torri ci rimase quattro anni, dalla mia vita invece non è mai più decollato. 18


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C’è una immagine sportiva di John che riesco a vedere anche ad occhi chiusi, anche senza averla davanti, tanto è impressa nella mia mente. John è sospeso, lo spazio che separa le sue mani dal canestro è più o meno lo stesso che separa i suoi piedi dal parquet. Sospeso in un’aria di mezzo. I quadricipiti femorali tesi, la solita maglietta bianca sotto la canottiera, la divisa rossa della “selezione Tempest”. Un braccio piegato ad arco e l’altro teso in alto. Inquadrandone solo la parte superiore della fotografia potrebbe sembrare il gesto di un ballerino. E lì, davanti a lui, la rete del canestro ancora in movimento e due palloni che non hanno ancora toccato il terreno… Nel febbraio del 1984 a Treviso si gioca il terzo All Star Game della Lega Pallacanestro fra la selezione A1 e la selezione A2. Fra il primo ed il secondo tempo, come da prassi di intrattenimento in quel tipo di esibizioni, arriva il momento della gara delle schiacciate. Anche John con il suo metro e 88 vi partecipa. È il suo primo anno in Italia e forse è sua intenzione fare vedere cosa significa saltare. Prende due palloni, il pubblico rumoreggia e attende stupito. Parte da fuori lunetta, qualche palleggio e poi il balzo: veleggia nel vuoto fino a schiacciare le due sfere arancioni perfettamente, alternando i polsi. Quel giorno di febbraio del 1984 il pubblico si alzò in una standing ovation generale. Tutti si battevano il cinque e continuarono a mimare il gesto atletico per vari minuti. Uno di quei momenti nei quali ti accorgi che alcuni atleti sono capaci di mettere d’accordo tutti con il proprio talento, senza bandiere, senza maglie, senza tifo. E per questo li ammiri ancora di più. Andare al Palazzo dello Sport a vedere la mia amata F prevedeva una ritualità costante, una sorta di appuntamenti, gesti e ripetizioni che erano tasselli di un mosaico che piano piano si andava ogni volta componendo con precisione quasi identica. Si partiva un’ora e mezzo prima dell’incontro. Come avete compreso, mi piace fare le cose con calma (ve ne eravate accorti? Allora siete attenti…). Si parcheggiava in Piazza Azzarita o in via Nannetti (a quell’ora ancora semideserte). Poi si salutava il custode Andalò e si entrava. Iniziava, dopo quei necessari passi, ciò che veniva definita “la cabala”. Si prendeva il corridoio verso sinistra – in senso antiorario – fino a raggiungere il piccolo bar e lì era la Prima Stazione del nostro procedere. A dire il vero il caffè non si poteva certo magnificare per gusto e aroma, ma quello passava il convento del Palasport. Ed era la perfetta preparazione alla partita, la liturgia. Poi, con ancora l’amaro della nera bevanda sulla lingua, cominciava il giro completo dell’anello-corridoio. Soliti discorsi, immaginarie previsioni sugli avversari, più precise previsioni sul tempo e via discorrendo. Una volta finito il giro si scostavano le tende e si entrava nel palcoscenico dell’agone sportivo. Si incontrava subito Luigi, il signore addetto alle pulizie,

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con il quale si scambiavano gli ovvi saluti e qualche parola facendo cenno di sì con la testa, perché parlava talmente in fretta che in realtà non si capiva nulla di ciò che diceva. Poi si volgeva lo sguardo alla Fossa dei Leoni e si cominciava ad ammirarne l’allestimento, con un senso di raccoglimento quasi mistico. Seguiva l’incontro con il fotografo Roberto Serra (detto “occhio”), con il custode Tonino (sempre impeccabilmente dotato del suo grembiule nero) e con il Lungo, lo speaker ufficiale che scandiva con l’abilità delle sue corde vocali la presentazione delle squadre. Una piccola nota a margine. La presentazione veniva fatta in questo modo: il Lungo esclamava il numero di maglia e il nome di battesimo e il pubblico completava il rito urlando il cognome. Toccante, emozionante, ogni volta, vi assicuro. Ecco. Ogni volta, alla fine della presentazione, eravamo talmente carichi di adrenalina e di entusiasmo che guardandoci ci rassicuravamo dicendo: “Oggi i più forti siamo noi”. Sempre. Molti di questi ragazzi sono entrati nella storia della mia Vita. Mi hanno fatto conoscere la magica F e mi hanno aiutato a vivere e a cavalcare la mia carrozza con la leggerezza di un’Aquila. Dal 1988 sono seduto su questa seggiola a rotelle. Molte cose in questi miei anni sono cambiate, le ho viste con i miei occhi. Ma la Fortitudo in questi miei anni l’ho sempre vista tramite il cuore.

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RENATO ARIATTI In quell’inizio della stagione ‘83-‘84 ad alimentare la fantasia e la voglia di riscatto di una curva ferita era solo Earl Williams, il signore di Tel Aviv, the Chief, colui che a Strasburgo, ricacciando in gola l’urlo dei Virtussini, aveva permesso che la nostra curva si identificasse in un coro da quel momento iterativamente riproposto con orgoglio ed entusiasmo (“Sì sì siamo qui! siamo tutti Maccabi!...). Ma poi ci volle poco perche le gerarchie nel cuore del tifo cambiassero. Ci accorgemmo che il vero fenomeno era quell’altro, era il piccoletto. E’ lui che riaccende i sogni e le passioni, che trascina la squadra, che diventa il simbolo di un popolo che dopo la nostalgia per i due mori, e la delusione di un anno che doveva essere di rinnovamento, poi di transizione, e alla fine culminato con la retrocessione, ritorna a identificarsi in chi, oltre alle penetrazioni funamboliche e alle bombe impossibili, non indietreggia neppure di fronte alla spocchia dei cugini e non esita, in un derby, a farsi giustizia da solo. Apologia di reato? Giammai, solo proiezione, neanche tanto virtuale e simbolica (Fantin, do you remember?) di quella pulsione libidica che albergava nel sub-conscio collettivo dell’Aquila. Per una volta il Super Io non ha funzionato e da quel momento sarà solo “John, John superstar”! Saranno, quelle che verranno, stagioni di poche vittorie e di tante delusioni, quelle dell’ “ascensore” come si diceva, un anno su e un anno giù, ma per quel DNA maledetto che alberga in noi, per quell’orgoglio di non aver ancora vinto nulla, per quel crogiolarsi masochistico nell’esaltazione della sconfitta, per quella leopardiana attesa che fa apprezzare più il sabato che il dì di festa, la F di quegli anni coagulerà attorno a sé passioni ed entusiasmi travolgenti, bozzolo da cui piano pano si andrà a costruire la crisalide dei trionfi che verranno. Atmosfere esaltanti, esodi mai più ripetuti, se non eccezionalmente, solo nelle stagioni della gloria e dei primati, diventano il treno in corsa su cui John sale con il ruolo del trascinatore, che la curva gli riconosce (ma senza dimenticare, nel breve volgere di qualche stagione, l’addizione, irriducibile e irrinunciabile, del genio di George Bucci…)

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È curioso però che più la mente scava nei ricordi e assai più che le vittorie riaffiorano soprattutto le laceranti sensazioni patite nelle sconfitte rocambolesche. Come dimenticare quel canestro convalidato all’ultimo secondo alla Peroni, in Piazza Azzarita, per una retina sfiorata da Nino Pellacani, o quel parziale di 0 a 8 a Ferrara quando a poco più di un minuto dalla fine già si festeggiava sopra di 7? (e Masetti e Albertazzi erano di là…). Solo due frammenti, ma significativi per trasmettere quel senso di perenne incompiuta che ci caratterizzava. Trasferte, quasi sempre sotto la pioggia, soste piuttosto “turbolente” (eufemismo…) nei Motta Grill (si diceva così all’ epoca, almeno mi sembra…) e ritorni carichi di amarezza sono uno spaccato di vita che ritorna più volte e riaffiora nel ricordo di quella metà degli anni ottanta. La rabbia per quel toccare da vicino qualcosa che poi non si riusciva ad afferrare era già allora il filo conduttore di una metà di Bologna che lottava e sperava. Sarà perché si viveva con l’incoscienza di un’ “infanzia” che proveranno invano, anni dopo, ad attribuirci infelice (e mai affermazione si rivelerà così lontana dal vero…) o perché è nella sofferenza che si cementano i sentimenti e si radicano le passioni e le fedi, ma quanta nostalgia per quei meravigliosi e irrepetibili anni. Quando lavorare o studiare era un solo un modo per sopravvivere, mentre seguire la Fortitudo era vivere! Verranno le vittorie, la vertigine della prima volta in testa alla classifica (chi era a Verona, come me, il 4-12-1994, con 2.500 tifosi biancoblù sugli spalti, non se lo può dimenticare…), le campagne acquisiti fenomenali, le vittorie (poche se rapportate allo sforzo…) ma la gioia di quei momenti da ricchi non avrebbe mai avuto un sapore così dolce se dietro non vi fosse stata “la F di John”, quel macerarsi nell’attesa, quel vivere di attimi irripetibili che danno un senso alla sofferenza prima ancora che alla vittoria. E, si sa, quando si soffre e poi si vince è bello soffrire.


SANDRO SERENARI Sono figlio di genitori – così come peraltro tutti i miei parenti di entrambe le famiglie – che mio malgrado hanno sempre tifato per l’altra squadra; una cosa abbastanza normale nel mio cortile, nel mio liceo o sotto le volte porticate davanti al campetto del Meloncello; la Fortitudo ha circa la stessa età dei miei coetanei e, poco più o poco meno, la sua storia è cominciata con la nostra, non certo con quella di generazioni tanto precedenti. Nel tempo della mia adolescenza, il moto naturale del Reno fluiva per parte opposta e là ammassava le sue scorie, ciabatte spaiate, mammalucchi euforici, burazzi e materassi consunti, bucce di cocomero ed ogni sorta di rappattumata verso l’acquitrino di via Calori, il lato monco delle gradinate ostili. Per nuotare controcorrente occorreva la folgorazione di eventi straordinari, tutt’altro che scontati o immaginabili, nei quali avere o meno la sorte di incappare: episodi che avessero in loro forza e capacità contraria al compimento più scontato delle cose. Per entrare nel merito, mi pare valga la pena sorvolare i luoghi più comuni che nella nostra Bologna distinguono le due tifoserie, all’incirca antagonismo sociale, reazione e rivendicazione di status, emulazione e distinzione, collina e periferia. La questione è molto più meticcia, composta e pure trasversale: noi siamo noi e loro, in ogni senso, un’altra cosa. Il campionato 1983-84 la Fortitudo lo giocò in A2; la stagione precedente, con i colori bianco e verdi dello sponsor, un’azienda di latticini, la squadra era retrocessa, forse anche per la spericolata decisione di rinunciare al servizio di un paio di stranieri strepitosi come Marcellous Starks e Charles Jordan. Quel tipo di stelle capaci di illuminare da soli tutto il presepe: giganti di bronzo generosi, adorati dalla tifoseria per tutto il loro tempo sul parquet e per molto altro ancora. Di quella accalorata devozione però, ricordo di non esserne stato parte fino in fondo; soltanto in seguito avrei capito la reale natura delle cose, così come nella giusta stagione si capisce la sfumata differenza tra le donne con cui si reclina il ribaltabile in uno sterrato e quella che si decide di portare a dicembre a Santa Lucia. Quei giocatori e le loro 24


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prodezze rapirono pertanto il cuore di altri sedicenni, non il mio. Ben inteso, lo scaldarono, lo prepararono ma non lo riempirono. Ricordo distintamente invece il tempo ed il luogo nel quale la mia semplice partecipazione al gioco con la palla ed il canestro si trasformò in qualcosa di incontenibile e più, di irragionevole: per cedersi senza freni a certi furori, occorre avere l’età giusta, la mente sgombra, fiacchi pomeriggi per ripetute erezioni e più di tutto, la voglia di farsi prendere per mano da un solo e speciale interprete: l’idolo. Cosa che accadde nell’autunno 1983, il mio colpo di fulmine. Sotto la dirigenza di Renzo Angori e dei compianti Armando Caselli e Germano Gambini, la squadra era stata rifondata, cambiando gran parte dei giocatori, sia gli stranieri che diversi italiani. Un prospetto interessante, oltre a quelli cresciuti nel vivaio era il sesto uomo, tal Nino Pellacani da Modena, per quel paio d’anni probabilmente il giocatore più forte del campionato durante la “ruota”. Tutto prese forma una domenica pomeriggio: si giocava una delle prime partite in casa, credo contro Rieti, e ancora le gerarchie interne alla squadra, tra rodaggio ed assemblaggio, apparivano più che incerte. In quella stagione al centro dell’area non schieravamo un pivot ma un colosso armato, un monumento vivente sul quale si fermavano anche i piccioni che, intimoriti, riposavano ma senza sporcare: Earl Williams arrivato dal Maccabi di Tel Aviv, al seguito del solo coach in grado di domarlo o almeno con il coraggio di provarci, Rudy D’Amico. Il suo gioco imponeva esperienza e muscoli agli avversari, personalità ed anzianità ai compagni che sin dalle prime battute si mostravano slegati, attoniti ed impauriti. Non era ancora chiaro se nell’insieme fosse un acquisto azzeccato o un piantagrane a fine corsa ma, come succede in questi casi, sono più spesso gli episodi che i contenuti tecnici a innescare i valori o ad azzerarli. Durante una delle prime azioni d’attacco, scriteriata e con poca organizzazione, Marco Bergonzoni (si, proprio il grande Marco Bergonzoni!) senza riguardo o indecisione, piazzò un tiraccio dall’angolo che spiattellò sulla base del ferro e, prendendo un’anomala traiettoria, uscì teso dal cilindro del canestro verso il centro del campo: le grandi braccia dell’orco Williams, liberatosi con colpi sopra e sotto la cintola dei marcatori, fecero per andare verso il pallone e prendere l’ennesimo rimbalzo, così come tutti ci saremmo aspettati. Quello invece fu il “mio momento”, l’inizio di tante cose, tra le quali questo libro: alle spalle del gigante Earl, con un solo balzo fulmineo in volo dalla lunetta, planò John Douglas che piazzò una schiacciata terrificante, travolgendo sia il compagno di squadra che un paio di avversari. John rimase poi lì appeso al ferro per alcuni secondi mentre sotto le plance si sgomberava l’ammucchiata di corpi travolti dall’impatto. Earl Williams si rialzò di scatto portandosi una mano sulla nuca dolorante, stordito o forse addirittura ferito: puntò minaccioso John


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con l’indice muovendosi intimidatorio verso di lui. Non fui il solo trattenne il fiato nel timore di un fratricidio o peggio, l’innesco di gelosie che irrisolte avrebbero potuto logorare la chimica dello spogliatoio. Non è insolito infatti che la personalità di un giocatore estroso crei l’involontario cono d’ombra per gli anziani del gruppo: John Douglas però, anche se era arrivato in via San Felice in ciabatte e senza valigia, viaggiava con il bagaglio a mano della reputazione di ex pro americano, lealtà sportiva e agonismo esplosivo. Da nero a nero meritava niente meno che quello che gli fu dato: “respect”. Senza rinunciare alla propria espressione da mangiafuoco, Earl trasformò l’indice aggressivo in un pollice alto. Fu il tripudio, lo scorrimento stridulo di tutta la voce che avevo in gola: così io fui preso. Se andava bene ad Earl Williams, l’alieno sceso dalla luna che due anni prima a Strasburgo aveva vinto la finale di Coppa dei Campioni contro una qualche squadra minore, figuriamoci se non sarebbe andato bene a me. “John-John superstar, John-John superstar!”. Da quel momento la passione prese la sua forma e infiammò un coro che sarebbe diventato una litania: “John-John superstar!”. Alla presentazione della squadra, prima di ogni partita lo speaker - ciao Lungo! - lo avrebbe presentato per ultimo, con una fantastica formula di rito, accompagnata dall’ovazione del tutti in piedi: “E con il numero otto...John Douglas!!”. Era nata la “F di John”, protagonista di un’epopea di piccoli eroismi e di scarni risultati, nel complesso delle quattro stagioni sportive; un modesto saliscendi tra A2 e A1, il solo derby vinto in quattro anni - a domicilio, ed il pugno, un colpo a palmo aperto in verità, sferrato proprio da John Douglas ad un tal Domenico Fantin, l’unico pregiato trofeo della mia personalissima bacheca. Un gesto violento che ogni adulto maturo, consapevole e borghese dovrebbe condannare ma che invece, visto che autore o tifoso un maraglio resta sempre un maraglio, io ricordo come uno dei miei giorni più belli. Un momento da non lasciare scappare, da festeggiare come se quel derby di Coppa Italia lo avessimo stravinto: come se quella beata gioventù non finisse mai. Quella sera, dopo la partita, entrai in un bar a comprare una bottiglia di scadentissimo spumante e con un paio di bicchieri di carta andai a suonare il campanello; passai qualche minuto sul pianerottolo dell’appartamento di John Douglas, in una traversa di via Saffi: eh sì, un adolescente indemoniato e un adulto pentito del suo gesto in mutande. Una conversazione senza senso, tra i miei schiamazzi ed il suo vano tentativo di farmi abbassare la voce: la mia fidanzatina dell’epoca, rimasta a badare la vespa sotto al portone, mi chiamava intimorita e imbarazzata attraverso la tromba delle scale con il naso all’insù ed ampi gesti delle mani. Il tutto durò ancora qualche istante finché uno spazientito rimbrotto di signora richiamò

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il mio paladino alle sue consegne notturne. “G’night kido e fai bravo!” mi congedò sottovoce in Itanglish e con uno di quei “cinque alti” che restano per sempre. Questa piccola leggenda durò fino alla sua ultima partita, uno spareggio di play out a Napoli nel maggio del 1987 che ci ributtò in A2, lo stesso giorno in cui il Napoli calcio vinse il suo primo scudetto; la seconda retrocessione terminò la carriera di John Douglas in Fortitudo ed io, senza altra opzione, diventai un tifoso riservista. A vent’anni ero già un nostalgico baby pensionato; all’inizio presi ad andare al Palazzo con meno frequenza e minor trasporto, portando comunque la sciarpa rossa al collo, così come i veterani del Vietnam avrebbero fatto con il vessillo del plotone del loro tempo andato. Senza che venisse mai meno il viscerale attaccamento alla maglia, cominciò ingovernabile la mia intolleranza per le inopportune sfarfallate da divo di chi la vestiva: per senso di appartenenza, pur restando in disparte, non avrei mancato una sola tappa dell’ultimo trentennio. Modena, Reggio Emilia, Cremona, Casalecchio di Reno, Monaco di Baviera, Treviso, Milano, fino all’ultima scena a Forlì. Nella primavera del 2004, con il groppo in gola di uno smisurato orgoglio che davvero resta difficile da descrivere, ero a Tel Aviv – in trasferta con il mio “gruppo da uno” - a battermi il pugno sul petto nel vedere i pronipoti di John Douglas guadagnarsi e giocare la finale di Coppa dei Campioni: se ci ripenso, mi si chiudono le orecchie per l’emozione e per la gratitudine. Uno stato d’animo che non mi lascia, nato dalle gesta sportive di un uomo cui debbo davvero tutta la mia riconoscenza: quello con il numero 8, statuario nel ricordo in sospensione, è il mio giocatore.

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