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DINO BIONDI
LA FABBRICA DEL
DUCE MINERVA
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Sommario
Introduzione..................................................................5 Notizia introduttiva.......................................................9 La fabbrica del Duce...................................................11 L’uomo..............................................................................15 Nascita di un condottiero............................................17 Duce per la prima volta...............................................25 La squilla mattutina.....................................................31 Se fossi fatto idolo mi demolirei da me.......................38 Biografie da vivo mai...................................................45 Non si può essere sempre socialisti ............................51 E per Benito «e» Mussolini.........................................59 Una «storia» brillante..................................................65 Il duce che segue..........................................................70 L’ardente vigilia............................................................78 A Roma in direttissimo................................................84 Questa mascella è la garanzia dell’Italia......................91 I busti si fanno solo ai morti........................................97 Come il Mosè di Michelangelo..................................108 La malattia del marmo ..............................................117 Nessuna pietà per i grassi .........................................122 Il buon dittatore.........................................................127 A me la colpa.............................................................133 Il mito.............................................................................141 Il domatore................................................................143 Tentato parricidio......................................................148 L’inscalfittibile............................................................155 Mussolini ha sempre ragione.....................................161 Trenta con lode..........................................................166
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Rosso di sera..............................................................170 Adagio Biagio.............................................................176 Lo smemorato di Collegno........................................181 L’uomo della provvidenza.........................................190 In cielo, in terra e in ogni luogo ...............................195 A che pensa? .............................................................200 Commediografo ........................................................211 Cantare soltanto per Lui............................................217 Organi irresistibili .....................................................221 Il colpo di fulmine.....................................................227 Sior Duce, eco fato....................................................233 L’idolo infranto..............................................................239 Il Tempo della Fortuna virile....................................241 Abbiamo pazientato quarant’anni: ora basta............246 La fede in Dio e la fede in Mussolini........................252 Si pensa ad altro in Italia, adesso..............................257 E se ti dice va’, tranquillo vai....................................263 Propiziatore di benefiche piogge..............................269 Lo stile fascista...........................................................276 Il bastone del capobanda .........................................285 Vinceremo..................................................................293 L’affondatore dell’impero..........................................299 Il cavaliere Benito Mussolini.....................................306 Indice dei nomi...............................................................329
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INTRODUZIONE
Non ci sarà mai più (speriamo) una dittatura. Non ci saranno più le adunate oceaniche in piazza Venezia, non ci sarà un altro Duce, un altro Re, un altro Hitler da seguire nel baratro della follia. La Fabbrica, invece, è ancora lì, pronta a riaprire i suoi cancelli e a ridare il via alla produzione del mito, del salvatore della patria e dell’uomo forte, abile nel cavalcare l’onda del malcontento. Vale per tutte le fabbriche di oggi rispetto a quelle di cento anni fa: sono differenti i “macchinari” e le strategie; è cambiato il linguaggio, sono molto più rapide la produzione e la distribuzione; la tecnologia oggi pretende studi e specializzazioni sconosciute ai lavoratori di allora, ma l’invisibile Fabbrica della mistificazione e della distorsione è sempre pronta a soddisfare le richieste di chi, già forte del consenso popolare, sogna il potere assoluto. C’è questo di unico nel libro che mio padre scrisse nel 1967 per capire che cosa aveva cambiato, a volte violentato, la sua infanzia e la sua adolescenza: fabbriche così prima del fascismo non esistevano, ma cento anni dopo quella Fabbrica c’è ancora e a volte riceve ordinazioni che la fanno lavorare a pieno ritmo. Continua a soddisfare le richieste di qualche politico italiano con mania di grandezza e ha aperto filiali all’estero. Il suo modello, adesso, riveduto e corretto dai nuovi sistemi di comunicazione, va molto forte in Russia e ha avuto in Donald Trump un “testimonial” d’eccezione. La Fabbrica del Duce è dunque lo studio di un prototipo, che si è sviluppato in un modo molto simile alla bicicletta. Le sono stati aggiunti i cambi, le selle anatomiche, i computer e le batterie. Cambiano i modelli che si adattano alle innovazioni, ma l’essenza è sempre la stessa: telaio, ruote, pedali e catena perché si possa muovere. Così era, così è, così rimarrà, esattamente come la Fabbrica. Credo che mio padre abbia scritto questo libro per necessità più che per piacere. Prima di passare nottate e albe sulla Lettera22 appoggiata su un cuscino perché il ticchettio dei tasti non tenesse sveglia famiglia e condomini, riempì la casa di volumi su
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La fabbrica del Duce
Mussolini e sul fascismo, senza essere mai stato fascista ma, casomai, vittima del fascismo: la collezione ne conta circa duemilacinquecento che sono ancora tutti nell’appartamento dove nacque questa ricerca spasmodica, questo bisogno di spiegare e soprattutto spiegarsi quei vent’anni. Era necessario capire per dare un perché alla propria storia di bambino in divisa da Balilla, poi sfollato sulle colline della campagna imolese, poi rinchiuso in un seminario, unica cesta di vimini per tutti i piccoli Mosè che chiedevano pane e libri, mentre l’Appennino diventava Linea Gotica e le case sotto i monti mense per i soldati tedeschi in ritirata. A prima vista, storie da nonno seduto sulla vecchia poltrona e da nipotini che per rispetto non gli sbuffano in faccia. Non è quello un passato sepolto. Pochi mesi fa toccò a Matteo Salvini tastare il polso alla massa per capire se l’Italia fosse disposta a mandarlo al governo con pieni poteri o qualcosa di simile. A sorreggerlo la Fabbrica dei like, la solita ricerca del cattivo (meglio se migrante e nero) e a comandare il reparto “propaganda” un abilissimo social media manager. Dai comizi davanti a folle oceaniche alle news, ai video e agli slogan seminati ad arte sul web per quattro milioni di follower: l’evoluzione della specie, appunto. Negli anni addietro, proprio per vent’anni, è stato Berlusconi a elevare se stesso a salvatore dell’Italia. Poco importava se quanto era solito promettere fosse vero, falso o impossibile: era sufficiente la propaganda delle sue televisioni, dei suoi giornali e delle sue radio perché la maggioranza degli italiani lo seguisse, senza controllare se davvero le tasse calassero, se le assunzioni abbattessero il tasso di disoccupazione e se il Pil crescesse. Tra Berlusconi e Salvini, si è inserito Renzi. Rapida la sua ascesa quanto il suo ridimensionamento: altissimo è stato il gradimento degli italiani all’idea di rottamare la vecchia politica, quanto netto è stato il loro rifiuto davanti alla proposta di cambiare la Costituzione. Renzi, unico caso di un leader la cui Fabbrica era visibile: le riunioni alla Leopolda partorivano idee e slogan nella vana speranza di gonfiare a dismisura l’immagine del leader e dei suoi poteri. Quando la Fabbrica lavora al meglio delle sue capacità, non esistono più vero e falso. Basta la parola: conta soltanto che chi ascolta penda dalle labbra di chi l’ha pronunciata. E conta che
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Introduzione
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servi pavidi o prezzolati si prestino a essere cassa di risonanza. Se ne trovano tanti oggi come allora. Duce, Migliore, Cavaliere, Rottamatore, Capitano: esiste un altro filo conduttore tra differenti momenti della nostra storia ed è quello del nome con il quale il leader viene elevato da persona normale a Sua Entità. Qualcosa di simile al nome d’arte delle attrici o delle cantanti: la Divina, la Dea, la Pantera, l’Aquila. Non se li scelgono loro i roboanti appellativi, siamo noi ad affibbiarglieli perché ci piace distinguerli dalle persone comuni per farne idoli e tenerli a debita distanza dal dubbio e dal dibattito quotidiano. Il compito della Fabbrica è di trasformare un uovo in maionese o un cucchiaio di latte in frappè: non crea dal nulla la gallina o la mucca. Le vengono affidate materie prime e sta a lei lavorarle così bene da renderne stupefacente il prodotto finale. La Fabbrica trasforma il reale in prodigioso o salvifico e aspetta che i “consumatori” abbocchino all’amo. Non il fascismo né tantomeno i suoi gendarmi armati di bastone e olio di ricino: gli italiani adoravano Mussolini e lo elessero a loro Duce. La sua fama varcò presto i confini dell’Italia e fece il giro del Mondo. Da Churchill a Lenin, non si contano i leader politici che, prima della guerra, abbiano paragonato il maestro di Predappio a Garibaldi. Il coro era planetario: «Finalmente l’Italia ha un nuovo e grande condottiero». Il palloncino era stato gonfiato tanto bene da reggere, senza scoppiare, anche i voli intercontinentali. Oggi come allora la Fabbrica è una prodigiosa macchina della propaganda capace di creare un muro di gomma che rimbalzi lontano logica, critiche e approfondimento. Quando la Fabbrica ha svolto un buon lavoro, non esiste più il vero o il falso, esiste soltanto un Pifferaio magico in testa a un corteo obbediente, che non si domanda più se quanto sta ascoltando sia corretto: segue il leader, lo idolatra, smette di analizzarne le parole, è suggestionato, quasi ipnotizzato dal personaggio, dai suoi gesti (il linguaggio del corpo) e da quell’alone di magia e di perfezione che gli è stato costruito intorno. A prima vista, pare questo un argomento riservato a soli uomini. La Fabbrica non ha mai lavorato per le donne. In attesa, probabilmente, di quella che, per prima, chiederà pieni poteri. Se
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La fabbrica del Duce
nessuna di loro avrà questa insana tentazione, tutte insieme potranno contribuire alla chiusura dei cancelli. Basterà, come purtroppo ancora oggi succede (vedi le fan di Conte), che le donne non cedano alla suggestione del carisma e della bellezza dei “condottieri”. Durante il fascismo non si contarono signore e signorine “incantate” da Mussolini e dal suo potere di seduzione e il loro ruolo, a livello sociale, soprattutto famigliare, fu fondamentale per indottrinare i figli e servire una sponda a mariti o fidanzati. Il Duce piaceva come soggetto politico agli uomini e anche fisicamente alle donne. Connubio perfetto. Altrimenti non puoi campare per vent’anni di promesse impossibili da mantenere. L’esempio più clamoroso, quello dell’Impero: l’Italia non aveva un esercito in grado di replicare neppure un decimo di quello Romano, ma alla vigilia di ogni “campagna” e di ogni battaglia quasi tutta l’Italia applaudiva trionfante all’interventismo. Era stato il Duce a dire che si doveva e si poteva fare e tanto bastava per andare incontro alla sconfitta e alla morte. Di vivo c’è questo libro che ebbe successo perché non piacque ai nostalgici per il tono ironico con il quale raccontava la retorica fascista e neppure piacque a sinistra, dove si aspettavano, oltre alla storia, anche una nuova impiccagione, stavolta a mezzo stampa. Quindi, piacque a tutti i moderati, a tutti coloro che non cercavano identificazione, ma fatti minuziosamente ricostruiti. È piaciuto anche all’editore, a Roberto Mugavero, che oggi con la sua Minerva riporta alla luce uno studio che ha agevolato molti scrittori a caccia di particolari sul Ventennio e al quale va il più amichevole dei “grazie” di tutta la mia famiglia. Stefano Biondi
NOTA AL LETTORE La casa editrice Minerva ha scelto di riprodurre il volume in una edizione anastatica, mantenendo testo e scelte stilistiche dell'autore fedeli all’edizione originale, ad eccezione della correzione di errori evidenti.
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NOTIZIA INTRODUTTIVA Dino Biondi
Nato a Dozza Imolese nel 1927, Dino Biondi ha cominciato a lavorare nei giornali da quando aveva diciassette anni. È stato via via cronista, impaginatore-capo, redattore della terza pagina, critico cinematografico, inviato speciale e corrispondente da Parigi per il “Resto del Carlino”. Ha diretto il “Giornale d’Italia” di Roma nel 1969-70 e per quattro anni (1971-75) ha diretto il quotidiano sportivo “Stadio” di Bologna. Autore di alcuni libri di successo. (Il sottobosco del cinema, Bologna 1964; L’assicuratore, Firenze 1966), ripropone ora al pubblico questa Fabbrica del Duce che molti autorevoli critici hanno giudicato l’opera più rivelatrice sull’Italia fascista. Nel corso della sua indagine sulla nascita, l’affermazione e il crollo del mito del Duce, Dino Biondi ha sfogliato intere collezioni di giornali e riviste, ha letto centinaia di volumi (pubblicati prima, durante e dopo il fascismo) per spiegare a sé e agli altri perché gli italiani, fra il 1925 e il 1940, furono, se non proprio fascisti, quasi tutti mussoliniani e perché fu necessaria la tragedia di una guerra perduta per trasformare il Duce d’Italia, fino allora potente come un monarca e infallibile come un papa, nel cav. Benito Mussolini. Dino Biondi non fece in tempo ad essere fascista; indossò tuttavia anche lui, come tutti i coetanei, prima la divisa di figlio della lupa, poi quella di balilla e infine quella d’avanguardista, e questo, se è servito a immunizzarlo contro il virus dell’irreggimentazione e del totalitarismo, lo ha favorito nell’opera di rievocazione di una epoca di cui ricorda soprattutto la vuota retorica e i cocenti disinganni.
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LA FABBRICA DEL DUCE
Questo non è un libro di storia. Questo è un libro di cronaca. È un documentario di vent’anni di vita italiana “montato” da un giornalista che non a caso è stato anche critico cinematografico. Rovesciando la convenzione che sacrifica ai margini della pagina le minuzie della quotidianità, l’autore ha elevato queste notazioni minori alla dignità del testo; e il rispetto della cronologia non gli ha impedito di collocare le tessere del suo mosaico secondo criteri di analogia e di contrasto indispensabili al ritmo del racconto e alla dinamica del quadro. Tanto fiducioso nell’oggettività dell’analisi, quanto sospettoso della soggettività della sintesi, Dino Biondi ha preferito che i fatti parlassero da sé, limitando la sua interferenza alla tessitura del fondale sul quale quei fatti andavano a collocarsi. La sua opera di scavo nelle collezioni dei giornali e nella caotica pubblicistica del regime ha riportato alla luce i resti del monumento che gli italiani avevano innalzato a Mussolini. E poiché finora si era guardato alle rovine di quel monumento con il binocolo rovesciato, evitando così di cogliere i particolari, l’autore ha voluto esaminarle da vicino per individuare il marchio di fabbrica delle pietre, dei blocchi di marmo, dei fregi e degli ornamenti che lo componevano. Ha rispolverato anche i nomi degli ammiratori che andavano a incidervi la loro firma con la stessa esibizionistica devozione dei fedeli che imbrattano i muri dei santuari. Non l’ha fatto per amore di scandalo, ma per amore di verità. La mole delle citazioni e la ressa dei turiferari tolgono al dossier ogni carica scandalistica e ogni intenzione denigratoria: ripropongono, se mai, una valutazione del fenomeno fascista e del mito del Duce diversa da quella corrente. Non erano le cartoline precetto, come piace di lasciar credere oggi, a radunare in piazza le folle oceaniche. Il fascismo e il mussolinismo affondavano le loro profonde radici in un humus nutrito da coltivatori spesso interessati e a volte soltanto ingenui. E gli addetti alla fabbrica del Duce, i persuasori non sempre occulti della
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La fabbrica del Duce
civiltà dei fasci, offrivano volontariamente, soprattutto dall’estero, il loro contributo più o meno autorevole. Starace non fu il manager di questa colossale campagna pubblicitaria: ne fu il prodotto fatale e corrosivo. La fabbrica del Duce intende appunto ristabilire questa realtà, contro il “giustificazionismo” degli uni e lo scandalismo degli altri. «Bisognerà un giorno – proponeva Francesco Flora nel suo pungente e risentito Ritratto di un ventennio – decidersi a scrivere una cronaca, o meglio un’aneddotica dell’adulazione fascista verso il cosiddetto duce, studiando i modi con i quali la propaganda lo istituì uomo di Stato sovrano, non soltanto tra quanti nascessero mai a Predappio e dintorni, ma anche in Italia, nell’Europa e nel mondo. Quest’aneddotica non servirà certo alla storia, che s’affaccenda di ben altre sue ragioni ed opere; ma potrà giovare a non far ripetere certi errori, svelandone l’origine fatua e quasi infantile». A sua volta Benedetto Croce riteneva che sarebbe stato «assai proficuo per la conoscenza della verità e per la causa della giustizia ribadire ed estendere la... dimostrazione che il fascismo fu incoraggiato e sorretto in Italia dai plausi e dai rapimenti ammirativi degli altri paesi, e perfino di quelli anglosassoni; il che assai lo imbaldanzì contro noi oppositori». La fabbrica del Duce è la «cronaca dell’adulazione fascista» auspicata da Flora, ed estende la sua indagine ai «rapimenti ammirativi» degli stranieri, secondo il desiderio espresso da Croce. Col suo viaggio nel tempo perduto – il tempo che Grandi definiva «della Fortuna virile» – questa cronaca incontra anche uomini di alto prestigio morale i quali contribuirono involontariamente a dare: credito alle iniziali fortune politiche dell’uomo che poi li avrebbe costretti all’esilio in Italia e all’estero. L’obiettività della cronaca esige la registrazione anche di questi contributi, per il peso che ebbero nelle fondamenta della mitologia mussoliniana. Il libro propone dunque una realtà forse sgradevole, ma in un modo disincantato. Giovani e non più giovani, mussoliniani e non più mussoliniani, siamo tutti interessati a comprendere meglio quello che siamo stati, per essere migliori di quello che fummo.
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La fabbrica del Duce
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Alcuni giudizi [...] un’opera singolare e affascinante perché rivela la sua chiave personalissima: documentare la nascita, l’evoluzione e la fine del mito Mussolini attraverso i piccoli episodi di tutti i giorni... Anche se è ormai accertata e accettata la passionale ventata di esaltazione e consensi che la meteora Mussolini suscitò in Italia e in mezzo mondo, la lettura di questo libro resta ugualmente traumatizzante perché Biondi – con la sua esemplare ricerca e con l’amara ironia di cui l’ha illuminata – è riuscito a documentare spietatamente la più minuta sintomatologia di questa psicosi semiuniversale. Luca Goldoni, “Il Resto del Carlino” [La fabbrica del Duce] è, infatti, una collana di perle. C’è dentro, cioè, tutto il fiato di trombe che in Italia e all’estero s’è speso per gonfiare il mito del Duce. Ce n’è di ogni tipo e di ogni provenienza, di piccole e di immense, di ridicole e di paurose [...] C’è tutta l’Italia insomma, quella cioè che buttò fuori quel fiato, che fu tanta, tanto numerosa, anche se non tutta. Claudio Marabini, “Vita” Solo un giornalista dotato di sensibilità e propensione per la riflessione storica poteva scrivere un bel libro come questo: un libro riuscito per felice sintesi fra ricerche giornalistiche e qualità stilistiche, fra intuizione storica e notazioni acute, fra ricchezza d’informazione e lievità di battuta. Interessanti e sapide sul piano del costume, queste pagine offrono però stimoli che oltrepassano tale sfera. Ferrando Manzotti, “Nuova Antologia” La fabbrica del Duce ricostruisce cronologicamente l’affermazione del mito mussoliniano come insostituibile riempitivo del vuoto fascista. È quasi un dialogo sceneggiato tra il coro degli adulatori e l’uomo preso da morbosa adorazione per se stesso, un farneticare collettivo nel quale si perde la nozione dell’identità degli uni e dell’altro. Edgardo Bartoli, “Corriere della Sera”
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La fabbrica del Duce
Io non avevo mai letto prima un libro che restituisse così bene il clima eroicomico, un poco folle, così misteriosamente buffo e grandioso allo stesso tempo che ha caratterizzato l’era mussoliniana [...]. Ciò che colpisce di più nel libro di Biondi è appunto questa abbondanza di documenti, di citazioni, di discorsi, di articoli che restituiscono il sentimento vissuto da tutto un popolo, stregato al punto che le manifestazioni più grottesche gli sembravano sempre sublimi. Lo raccomando questo libro senza alcuna riserva. Jean-François Revel [...] un blocco fluido, un esempio di grande e gradevolissima narrativa giornalistica. E non c’è astio, questa è la dote altrettanto importante: non c’è livore rabbioso ma l’impassibilità, ironica, dello storico. Enzo Tortora
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L’UOMO
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NASCITA DI UN CONDOTTIERO
Gli italiani del Ventennio riconoscono in Mussolini il Veltro dantesco, lo scambiano per l’uomo nuovo vaticinato da Carducci, presentito da Oriani, intravvisto da D’Annunzio; lo paragonano a Costantino, a Leonardo e a San Francesco; dicono che egli incarna il genio universale di Roma, che non gli può stare a fianco nessun grande Capo di altre nazioni e che il suo precursore antico è Cesare e il suo profeta moderno Dante1; lo proclamano sacro e intoccabile. Mussolini protesta: «Lasciatemi tutta intera la mia profanità»2. Ma protesta debolmente, senza convinzione, come una bella donna pronta ad arrendersi. Incoraggiati, gli italiani lo acclamano Dio: «Mussolini è Dio e l’Italia è la terra promessa» scrive Asvero Gravelli3; mentre il prof. A.R. Viggiano lo definisce toutcourt «un nuovo Gesù»4. Il suo culto è universale: «L’America del Nord lo apprezza in omaggio ai pionieri. L’America del Sud lo esalta perché guarda a Roma essendo in isfacelo la sua civiltà ottantanovista. Fervida è l’ammirazione del Giappone dove si respira un patriottismo ad oltranza. A Lui si volge l’anima indiana con l’auspicio di più stretti legami tra Oriente e Occidente... Lo segue l’Europa perché ha bisogno di pace, perché è stanca di essere ingannata dai governi democratici»5. Insomma, «se interrogate l’aria non solo d’Italia, ma del mondo, essa vi risponderà: Mussolini»6. Il suo nome è una fede, la sua parola un dogma: «Commentare le parole del Duce è cosa stupida; rallentarne la scorrevole lettura con postille intercalate nel testo o con note pretenziose, è una profanazione. Le parole di Mussolini non hanno bisogno di postille tanto son chiare nella lettera e nello spirito: corrono dirittamente e s’incidono nell’anima e nel cuore del lettore come vive verità umane»7. Parlando ad un gruppo di professori, il federale di Bologna Leati definisce «ridicolo» lo sforzo di comprendere quello che «scende dalla mente del Duce, avendo la presunzione di mettersi sullo stesso piano di Lui»: fra Mussolini e gli altri uomini corre, infatti, «una distanza semplicemente astronomica»8. Egli
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L’uomo
«è il Sole che illumina, riscalda, crea, distrugge»9 e «vede chiaro e lontano perché studia le cose dalle cime più alte dello spirito»10. Ugo Ojetti, guardando il Montegrappa, scopre che verso ponente esso «segna contro il cielo il profilo, netto, di Benito Mussolini»11. E Corrado Govoni canta: «Non vogliamo conoscere / quali sono le ambiziose tue mire: / la voce del maschio comando / a noi basta di udire»12. Se Mussolini si vanta di essere «un condottiero dello stampo di Colleoni»13, Margherita Sarfatti nota che effettivamente «Colleoni gli assomiglia come un fratello che gli assomigli»14; e se dice che la sua famiglia «era notevole nel tredicesimo secolo a Bologna»15, il prof. Francesco Dall’Osso precisa che le radici dei suoi trisavoli affondano «nella Roma imperiale di duecento anni prima di Cristo»16. La caccia all’antenato del Duce mobilita centinaia di topi d’archivio e ogni Paese del mondo tenta di sottrarre alla Romagna il privilegio di essere stata la culla dei Mussolini. Infatti, in Jugoslavia si vorrebbe far discendere il Duce da una famiglia serba; in Germania si insinua che un guerriero della sua tempra non può che essere il pronipote di un mercenario calato in Italia al seguito del cardinale Albornoz; in Cecoslovacchia si sussurra nientemeno che egli non sia italiano ma polacco e che il suo vero nome non sia Benito ma Beniamino17. C’è anche chi tenta di innestare nell’albero genealogico del Duce un rametto di nobiltà; e Mussolini decide allora di far murare una lapide (In questo podere / chiamato Collina / vissero e lavorarono / le generazioni contadine dei Mussolini) che dà una lezione di modestia «a quanti si attribuiscono titoli, stemmi e blasoni per inventare discendenza dal nobilume»18. Nobilume è una parola fascista, mussoliniana. Per vent’anni gli italiani parlano un linguaggio altisonante che inebria senza dir nulla. «Eja, eja, alalà». E scoprono lapidi dappertutto. Le camicie nere di Roma ne murano una anche nel cimitero di San Cassiano in cui riposano i genitori del Duce: «La notte dell’Ascensione abbiamo vegliato gli spiriti di Rosa Maltoni e di Alessandro Mussolini. Essi sono i pilastri e i cardini della latinità risorta che non cadrà mai più. Essi hanno generato il Duce». Lo hanno generato a Dovia il 29 luglio 1883 e «da molti secoli in Italia l’incontro di due giovani non aveva dato frutto così
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Nascita di un condottiero
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superbo come Benito» scrive Giorgio Pini19. Un altro biografo, l’ungherese Kemeckey, garantisce che, nella stessa ora in cui Mussolini nasce, un’aquila viene colpita a morte da un fulmine a Schönbrunn, residenza degli Asburgo: col che il cielo vuole ammonire che quel prodigioso bambino provocherà di lì a trent’anni, con la sua campagna interventistica contro l’Austria, la fine della duplice monarchia20. Per paura forse di insinuare che le disgrazie non vengono mai sole, nessuno dei biografi del regime fa notare che Benito Mussolini è nato all’indomani del disastroso terremoto di Casamicciola. Nello stesso 1883 è morto Marx. Garibaldi è scomparso da un anno. Guglielmo Oberdan ha fumato da poco la sua ultima sigaretta prima di salire sul patibolo. Il principe Vittorio Emanuele, erede al trono, ha trascorso le sue vacanze a Berlino. Le inquietudini degli italiani sono vaghe ma molteplici. Non sanno quello che vogliono ma lo vogliono subito. L’anno dopo, appena rimessisi da un’epidemia di colera che in una sola giornata uccide a Napoli 357 persone, si ammalano del «mal d’Africa». I negozi vendono un revolver da sarta che contiene forbici, rocchetto, agoraio, crochet, ditale, lapis e boccettina d’odore: un poliziotto di Torino ne sequestra un esemplare convinto che si tratti di un’arma da fuoco. Anche il piccolo Benito Mussolini sente le inquietudini del secolo, tanto è vero che si chiude in un ostinato mutismo che preoccupa i suoi genitori. Ma un otorinolaringoiatra di Forlì li rassicura che parlerà: «Ho anzi l’idea che parlerà anche troppo»21. «Per merito suo» dirà molti anni dopo Carnelutti «l’eloquenza è assurta a dignità senza precedenti»22. Sorprendendolo, ragazzo, a far l’oratore davanti allo specchio, la madre gli chiede se è pazzo. E Benito le risponde: «Non ti preoccupare: verrà il giorno in cui l’Italia dovrà temere di me»23. Nell’attesa, per allenarsi, prende a sassate e coltellate i compagni di classe e di collegio. I biografi sorridono benevolmente a queste sue prodezze: «L’infanzia degli uomini superiori – spiega Margherita Sarfatti – non è mai felice... I bambini predestinati a grandi cose ignorano l’equilibrio naturale ed amabile degli uomini mediocri»24. Ma i salesiani di Faenza, gente all’antica, queste cose non le capiscono e appena possono si liberano
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L’uomo
del turbolento ragazzo predappiese. Più tollerante, il fratello di Carducci, Valfredo, lo accetta nella Scuola Normale di Forlimpopoli e chiude un occhio sulle sue bizzarre intemperanze, limitandosi ad ammonirlo: «Mussolini, Mussolini! Lei ha molto ingegno, lei farà tanto cammino nella vita, nessuno arriverà dove lei potrà arrivare col dono che Dio le ha dato; ma si moderi!»25. Rievocando su “Giovinezza fascista” di Bologna, del 21 aprile 1928, quegli anni di collegio, un condiscepolo di Mussolini, Enrico Sella, scriverà: Era uno spirito acceso, un tipo ribelle; gli occhi fieri di un nero cupo, mobilissimi, davano al suo sembiante virile un atteggiamento grave, troppo grave per così poche primavere, grave tanto che pareva di corruccio. Vestiva dimesso, ma le sue inseparabili ghette gli davano una certa eleganza; portava il cappello a larga falda, schiacciato, la cravatta svolazzante. Ma più che l’aspetto rivelavano in lui qualcosa di singolare gli atti, gli accenti. Ricordo certe sue risposte taglienti, quasi brutali, che sconcertavano i suoi interlocutori e turavano la bocca ai più ostinati. Una forza imperiosa e latente, propria di una tempra d’acciaio, che non domandava se non la lotta per manifestarsi, si palesava sovente irresistibile.
Si incastona in questo periodo quella che Guido Dorso definisce la più bella perla della piaggeria mussoliniana. I biografi del Duce assicurano, infatti, che nel 1899, in occasione di una visita di Giosue Carducci alla Scuola Normale di Forlimpopoli, suo fratello gli presenta Benito Mussolini dicendo: «È quello che farà onore all’Istituto nostro»26. Ma nella sua autobiografia giovanile, e nelle successive memorie, Mussolini non accenna mai a questa presentazione; e se l’incontro col Poeta della Terza Italia fosse veramente avvenuto egli non l’avrebbe certo trascurato. Tuttavia, i suoi compagni di scuola non esitano a garantirne l’autenticità. Eugenio Garavini scrive sul “Resto del Carlino” del 18 maggio 1930: «Noi non sappiamo quel che il Carducci ebbe a dire al nostro condiscepolo, ma piace oggi pensare che i due grandi uomini: il Poeta sul tramontare della
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vita, il Duce allo schiudersi della giovinezza, si conoscessero, si capissero, si divinassero». Rino Alessi, che frequentava la stessa scuola di Mussolini, sia pure in una classe inferiore, ha raccontato recentemente a Silvio Bertoldi27 che il Carducci, idolo e nume di tutti i convittori e di Mussolini in particolare, guardò gli allievi uno per uno e proclamò: «Facce oneste». Poi si volse al fratello e domandò: «Qual è quel tuo scolaro che fa tanto rumore?» Lo scolaro che faceva tanto rumore era naturalmente Mussolini, il quale in quel momento si trovava nell’orto a zappare. Fu mandato a chiamare. Comparve «sudato, disordinato, spettinato, truce, accigliato, scontroso». Carducci lo sogguardò tra i cespugli delle sopracciglia che gli calavano sugli occhi, e gli sorrise, senza dir nulla; ma più tardi osservò a Valfredo: «È un giovane molto dotato che potrà fare di molto bene o di molto male all’Italia». Sembra, dunque, che l’incontro ci sia veramente stato. Ma è difficile credere che, in occasione della visita di Carducci, mentre tutti gli allievi vengono passati in rassegna, proprio Mussolini, che idolatra il Poeta, sia assente, impegnato a zappare nell’orto. Nel gennaio 1901 muore Giuseppe Verdi, e «l’adolescente dalle singolari parvenze», che sta per diplomarsi maestro, e che «non domanda se non la lotta per manifestarsi», lo commemora parlando per la prima volta in pubblico; e per la prima volta il suo nome compare sull’“Avanti!”. Nasce il Duce, ma nessuno se ne accorge. Anche il sindaco di Predappio non si rende conto di nulla, tant’è vero che gli rifiuta un posto in Comune. Alessandro Mussolini domanda allora risentito: «Non lo volete come impiegato? Ebbene, verrà giorno in cui dovrete accettarlo come padrone». Con gli amici, il fabbro perfeziona la sua profezia: «Quello non è adatto per gli impieghi. È nato per farsi ubbidire». Sfogandosi direttamente col figlio è ancora più preciso: «Tu sarai – gli dice – il Crispi di domani»28. Il «Crispi di ieri» è morto da pochi giorni. Comincia il secolo ventesimo. Giolitti ha 59 anni. Lenin 30, Mussolini 18. L’Italia ha trentadue milioni di abitanti. Con 5 centesimi si compra un giornale. La lira si mantiene salda. Si discute a lungo per decidere se un bilione vale mille milioni o mille miliardi. Al Teatro Manzoni di Milano si dà Il mondo
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della noia e sembra una allusione all’Ottocento che se n’è andato «carico di colpe». Francesco Pastonchi tiene una «lectura Dantis»: farà in tempo a partecipare alle «lecturae Ducis». Dopo una lunghissima caccia, il brigante Musolino inciampa nella rete, anzi nel filo tesogli dai carabinieri, e gli italiani, che con l’umorismo sono ancora fermi al calembour, fingeranno presto di confondere il cognome del bandito con quello del giovane rivoluzionario romagnolo. Nietzsche è morto da poco. “Menelicche” è il personaggio preferito dai cantastorie. Marconi riceve il primo s.o.s. attraverso l’Atlantico. Insieme con l’aspirina si inventa la Wassermann. Al primo ballo del nuovo regno, Vittorio Emanuele, che è salito sul trono sei mesi prima, quando suo padre è stato ucciso da un anarchico, rompe la tradizione indossando la divisa militare invece del frac. È anche questo un sintomo del secolo. Dopo aver ottenuto un posto di insegnante a Gualtieri dal primo sindaco rosso d’Italia, Mussolini, terminato l’anno scolastico, emigra in Svizzera. S’è accorto di non essere fatto per parlare ai bambini, ma per arringare le folle. I suoi comizi infiammano gli emigranti italiani, affascinano Angelica Balabanoff, sono ascoltati, si dice, persino da Lenin. Un certo Mégevand asserirà più tardi di avergli prestato in questo periodo tre luigi d’oro, mai più riavuti. E il Duce gli farà inviare un assegno di cinquecento lire. Durante il Ventennio, migliaia di persone vanteranno più o meno strette amicizie col dittatore, e saranno numerosi persino i giovani che tenteranno di farsi riconoscere figli naturali del Duce, inducendo Mussolini a sfogarsi con la sorella Edvige: «Questo è il mondo alla rovescia: un tempo, se qualcuno era figlio di un corno, taceva il fatto o cercava di nasconderlo. Ma ora ci dev’essere nei cervelli qualche stravolgimento»29. Saranno legioni anche i «testimoni» delle intuizioni profetiche del Duce. Una donna di Forlì racconterà di essere stata rimproverata da Mussolini, ancora ventenne, per avere osato sorridere di lui: «Perché ridi? Tu non puoi capire che io un giorno farò tremare il mondo»30. Un emigrante italiano riferirà che Mussolini, dopo essere stato sottoposto dai poliziotti di Berna alle misure antropometriche, avrebbe esclamato: «Si pentiranno di questa indegnità... Se ne pentiranno perché io
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diventerò il padrone dell’Italia»; e uno scalpellino di Losanna riferirà che fin d’allora «egli vedeva più lontano di noi»31. Naturalmente non tutti questi segni premonitori si sono manifestati e poche di queste frasi sono state pronunciate. Gli addetti ai lavori nella fabbrica del Duce le hanno inventate «dopo». Perché il mito di Mussolini si imponesse con tutti i crismi della sacralità, era necessario che un’aquila morisse mentre egli nasceva; che tre autorevoli nunzi, novelli Re Magi – Carducci, Oriani e D’Annunzio – ne profetassero l’avvento; che un otorinolaringoiatra ne annunciasse il verbo; che il sindaco di Predappio gli rifiutasse un banale impiego in Comune; che i poliziotti svizzeri lo misconoscessero e che fosse un semplice, un puro di cuore, uno scalpellino, a intravvederlo proiettato nella gloria del futuro. ----1 A. Gravelli, Uno e molti, Nuova Europa, Roma 1938, p. 28. 2 Cfr. la lettera di Mussolini a Carli e Settimelli, direttore dell’“Impero”, citata in G. Pini, D. Susmel, Mussolini, l’uomo e l’opera, vol. II, La Fenice, Firenze 1954, p. 326. 3 A. Gravelli, Uno e molti, cit., p. 50. 4 A.R. Viggiano, Il Duce, Studio editoriale romano, Roma 1926, p. 34. 5 A. Gravelli., Uno e molti, cit., p. 35. 6 A. Gravelli, Uno e molti, cit., p. 47. 7 G. De’ Rossi Dell’Arno, Fascismo e Popolo, edizioni di Italia e Fede, Roma 1933, p. 7. 8 A. Gambino, Storia del Pnf, Sugar, Milano 1962, p. 154. 9 G. Margani, Il Duce e il regime, tip. Fiumani, Velletri 1932, p. 14. 10 A. Gravelli, Uno e molti, cit., p. 42. 11 A. Gambino, Storia del Pnf, cit., p. 154. 12 C. Govoni, Poema di Mussolini, Cuggiani, Roma 1938, p. 20. 13 N. Valeri, D’Annunzio davanti al Fascismo, Le Monnier, Firenze 1963, p. 38. 14 M. Sarfatti, Dux, Mondadori, Milano ediz. 1934, p. 118. 15 B. Mussolini, My autobiography, Hutchinson e c., Londra 1928, p. 367. 16 G. Pini, D. Susmel, Mussolini, cit., vol. I, p. 11. 17 G. Pini, D. Susmel, Mussolini, cit., vol. I, pp. 13-14. 18 La vita italiana, Roma 1935, p. 235. 19 G. Pini, Benito Mussolini, Cappelli, Bologna 1926, p. 11. 20 L. Kemeckey, Mussolini, Wildgirodalom 1927, p. 362, cit. da G. Pini, D. Susmel; op. cit. 21 E. Mussolini, Mio fratello Benito, La Fenice, Firenze 1957, p. 12. 22 “La Stampa”, 2 aprile 1938.
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23 A. Beltramelli, L’uomo nuovo, Mondadori, Milano 1923, p. 121. 24 M. Sarfatti, Dux, cit., p. 22. 25 G. Pini, D. Susmel, Mussolini, cit., vol. I, p. 57. 26 F. Bonavita, Mussolini svelato, Sonzogno, Milano 1924, p. 109. 27 S. Bertoldi, Mussolini tale e quale, Longanesi, Milano 1965, pp. 39-40. 28 Cfr. G. Pini, Filo diretto con Palazzo Venezia, FPE, Milano 1967, p. 222. 29 E. Mussolini, Mio fratello Benito, cit., pp. 162-163. 30 G. Pini, D. Susmel, Mussolini, cit., vol. I, p. 176. 31 G. Pini, D. Susmel, Mussolini, cit., vol. I, p. 77.
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