GIACOMO BATTARA
Ma lì in quel posto ero nessuno. Uno zero spaccato. Un ronzio fastidioso. In un posto come quello, una domanda innocente del tipo come stai?, può risultare quasi un abbraccio.
la Follia di Gregorio
Giacomo Battara con Minerva edizioni ha pubblicato: Fuori scena (romanzo, 2005). Scritto in blu (romanzo, 2006). Pusher (romanzo, 2009). L’ultima notte (romanzo, 2011). Il Ventennio e l’estetizzazione del potere in “Mussolini ritrovato” a cura di A. Petacco, 2012. Viaggio nel vortice (romanzo, 2013). Amico mio carissimo in “Amori dAmare”, antologia di racconti a cura di C. Demi, 2014.
GIACOMO BATTARA
la Follia di Gregorio
Cover by: Illustrificio Morskipas (www.morskipas.it)
MINERVA EDIZIONI
ROMANZO
MINERVA EDIZIONI
«Domenica 21, quello era il giorno perfetto. C’era chi si organizzava per un’ultima gita al mare, chi andava in chiesa per consuetudine o devozione, chi a trovare i nonni per ascoltare storie fantastiche o inverosimili. Io volevo morire.» È così che inizia la storia di Gregorio, la vicenda di un uomo giovane ma stanco della sua esistenza, un uomo che non ha paura di guardare negli occhi la morte, anzi, la desidera fortemente, la insegue con un piglio sempre nuovo ed ostinato, in una corsa affannosa verso un aldilà in cui crede a modo suo. Difficile capire la scelta ragionata di metter fine alle sue avventure sfortunate. Nessuno prova ad immedesimarsi nella sua curiosità verso una vita oltre la morte che lo attrae in modo indomito e risoluto, nonostante illuminate riflessioni elaborate con raziocinio. Così i medici scelgono per lui la “cura” più appropriata che consiste in un percorso di riabilitazione in un ospedale psichiatrico, tramite potenti farmaci che dovrebbero indurlo al ripensamento. La follia di Gregorio è un viaggio introspettivo dentro le emozioni del protagonista ritenuto folle per la sua lucidità stupefacente, per la sua sincerità disarmante e all’interno del suo pensiero tanto innocente quanto sconcertante. Tanti i personaggi che come pezzi unici di un mosaico favoloso, si intersecano prima e si sistemano poi, in un loro posto che sembra destinato ancestralmente, fino a formare il quadro astratto, laconico ma scintillante, della vita di Gregorio. È una storia sull’inestimabile valore della dignità umana, sul rispetto della diversità troppo spesso violato. È una storia che parla d’amore, di futuro, di vita schiacciata da troppo peso e del sollievo dell’oltre. Un viaggio da cui si torna mai uguali.
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Narrativa Minerva Collana diretta da Giacomo Battara
Giacomo Battara
la follia di gregorio Romanzo
Minerva Edizioni
«Percepiamo molto più di quanto vediamo. Siamo leggeri, sottili sibili. Siamo veli in trasparenza. Solo soffi.» Roberta De Santis
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Domenica 21, quello era il giorno perfetto. C’era chi si organizzava per un’ultima gita al mare, chi andava in chiesa per consuetudine o devozione, chi a trovare i nonni per ascoltare storie fantastiche o inverosimili. Io volevo morire... Avevo predisposto ogni cosa con una precisione che rasentava la perfezione al punto che io stesso ne ero rimasto sorpreso e poiché, ovviamente, si trattava di questione personale, avevo pianificato ogni cosa con scrupolosa riservatezza, come si conviene per chi ha deciso di andarsene definitivamente. Avevo fissato il gancio al muro con molta cura utilizzando un trapano con una punta del cinque, in alto, quasi a sfiorare il soffitto, sistemato come si doveva il cordino robusto di nylon e, sotto al gancio, perpendicolare, lo sgabello di legno, quello che usavo ogni tanto, quando m’esercitavo a ripetere con la chitarra le note di qualche canzone, rifacendo gli accordi a orecchio − esattamente come fanno i neofiti che s’avvicinano al mondo della musica senza uno studio propedeutico, oppure a una qualunque altra arte; persone indubbiamente incuriosite o affascinate dalla magia che l’arte ispiratrice è capace di trasmettere. Il fatto è che io − ne ero consapevole − non appartenevo né all’una né all’altra categoria, nel senso che non ero incuriosito, tantomeno affascinato e, tuttavia, da molto tempo tentavo di suonare; grosso modo erano più di vent’anni che mi cimentavo nell’impresa e ancora non 9
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sapevo leggere e distinguere un do da un re, per giunta pasticciavo terribilmente con le dita della mano sinistra che cercavano invano le corde giuste che malamente piegavo sul manico della chitarra, col risultato di finire sempre per incazzarmi e maledire me e lo strumento e soffiare sui polpastrelli arrossati e doloranti che poi immergevo nell’acqua fresca per qualche secondo. È evidente che mi mancasse il talento, una cosa che hai oppure no. Io no. E allora cos’era che mi costringeva a prendere in mano la chitarra e a consacrarle due ore al mattino e due al pomeriggio tutti i giorni? All’inizio, di certo, il desiderio d’imparare, una sorta d’euforia che prende all’improvviso e magari esorta il presunto artista a stare tutta una notte sveglio a provare e riprovare accordi impossibili per le sue dita o di fronte a una tela, con i pennelli immersi nei colori nella speranza d’imprimere un qualcosa su quello schermo chiaro che spesso, alla fine, si traduce in un banale niente, perché non ha percezione delle forme che restano piatte e malmesse sulla tela, gli difetta lo studio del colore, della prospettiva, e perché, forse, manca pure l’idea. Generalmente, trascorsa la notte, al giungere della nuova alba, dopo avere constatato il fallimento, la chitarra o i pennelli, i colori, la tela, tutto insomma, finisce accantonato in un luogo che, nel tempo, non si rammenta più, insieme all’ambizione o all’illusione di poter diventare un artista: così tutto si conclude miseramente, definitivamente. Per me è stato diverso, decisamente diverso, a causa, suppongo, della mia ostinazione, che qualcuno probabilmente definirebbe malata, che m’induceva, sempre, a perseguire obiettivi oggettivamente improbabili da raggiungere, soprattutto per un uomo come me, forse normodotato, ma certamente, come ho detto, per nulla talentuoso. Sicché posso affermare che, per questo, non 10
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mi è mai mancato il coraggio d’affrontare la sconfitta. Ho sempre inteso che il mio fosse un accanimento senza senso, eppure non mi era mai passata per la testa l’idea d’abbandonare il mio proposito. Inoltre ho pure pensato − peraltro nessuno mi hai mai fatto considerare che non potesse essere vero − che la mia inadeguatezza musicale non fosse altro, come si suole dire, che metafora della mia esistenza, segnata da numerosi e svariati tentativi, sempre abbandonati per altri a loro volta lasciati appesi non so dove, altri vaganti senza meta; un insieme, quindi, incoerente di azioni orientate a raggiungere il nulla, perché niente, alla fine, ho conquistato che mi abbia fatto sentire soddisfatto, neppure uno straccio di serenità, quella che fa bene al nostro dentro, anche se, a guardarmi bene, nessuno avrebbe potuto dire, tra le persone che ritenevano di conoscermi, che fossi un uomo straziato da chissà che cosa. E in effetti non lo ero. Direi piuttosto malinconico, questo sì, ma straziato no, e ritengo ci passi una bella differenza. Beh, insomma, a parte questo, riprendendo le fila della vicenda, tutto era pronto affinché io non fossi più di questo mondo da un momento all’altro. E, francamente, non me ne fregava niente di lasciare andare le cose e gli oggetti che mi circondavano, nonostante provassi, ma soltanto verso alcuni di loro, un sentimento quasi d’affetto e li curassi più di altri, lucidandoli con maggiore attenzione, forse accanimento, oppure spolverandoli lungamente, qualche volta bisbigliando loro parole di tenerezza che adesso, però, non rammento. Ma era certo che lo facessi e che l’avessi perfino confidato a qualcuno − chi non ha importanza − che consideravo amico fidato e che tale, successivamente, scoprii non esserlo, senza vergognarmi. La mia collezione di sassi 11
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ad esempio. A quelli sì ero particolarmente affezionato. Erano cinquantasei, raccolti a distanza regolare di circa dieci passi, da casa mia sulle Fondamenta Nuove al numero civico 5076 al piccolo imbarcadero di... non mi ricordo più, comunque era il mio percorso preferito. Poi vediamo. Ah sì, c’era la scatola vuota di cioccolatini dell’ultimo Natale trascorso con i miei genitori, prima che mamma s’ammalasse. I cioccolatini li aveva comperati di fretta mio padre credo in un discount e facevano schifo, ma la scatola era bellissima; tutta colorata con tre grossi fiori azzurri simili a dalie, sistemati intorno al cuore del coperchio. Infine c’era il mio vasetto prediletto, che conteneva l’acqua delle sei di mattina dell’Isola di San Michele: trasparente a quell’ora come mai durante il giorno, raccolta nel punto preciso d’attracco della mia barchetta al masso puntuto di quella piccola insenatura. Allungai un’ultima languida occhiata a quegli oggetti tanto amati, che poi avevo finito per considerarli miei amici... sempre presenti, fedeli. Chissà, mi ero chiesto, che effetto potessi fare appeso lassù, a mezz’aria, con gli occhi sbarrati e con la lingua penzoloni? Ecco una natura morta! Questa sì che è natura morta! Poi ero scoppiato in una risata a metà tra l’isterico e il soddisfatto per una scoperta che in fondo può essere catalogata come stupida, oltre che macabra. Perché, mi ero domandato senza riuscire a darmi una risposta convincente, non ho mai provato a dipingere sulla tela o sulla parete della stanza, dove di solito mi sistemavo per guardare la televisione, delle nature morte? O forse sì, una risposta me l’ero data: perché matite e pennelli non erano il mio forte, esattamente come la lettura di uno spartito. Continuavo a pensare a me agganciato a mezz’aria. Santa Madonna dell’Orto!, avevo esclamato, quante perso12
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ne mi vedranno penzoloni! Avrei fatto bella mostra di me, un gran figurone. Ci tenevo che fosse tutto perfetto, due giorni a preparare. Io pulito e profumato, le scarpe tirate a lucido per non parlare della casa spazzolata da cima a fondo col sapone di marsiglia che io usavo regolarmente anche su di me quando facevo il bagno perché amavo quell’odore. Quaranta minuti davanti all’armadio aperto, a osservare camicie, pantaloni e maglioncini, tutto lasciato in ordine, sistemato secondo la scala cromatica della luce del giorno. Infine avevo optato per indossare indumenti assai prossimi al colore della notte, più in accordo col mio programma luttuoso. La scalata allo sgabello era stata problematica perché il mio corpo tendeva sempre verso destra e quindi mi sbilanciavo facilmente, perdevo l’equilibrio e mi ritrovavo un po’ scombussolato con i piedi sul pavimento e le mani protese per cercare un appoggio che quasi sempre era lo schienale della poltrona in pelle, consunta dall’uso quotidiano e dal tempo. Forse i miei sbandamenti, frequenti anche durante la mia vita antecedente all’atto che avevo deciso di compiere, erano dovuti a quell’ictus, lieve − così avevano sentenziato senza dubbi gli esperti − che mi aveva centrato in passato e condizionato la postura, e forse messo fuori uso anche una qualche rotella del mio già provato cervello che doveva fare i conti anche con quella malinconia di fondo difficilmente definibile ma che c’era. Non che questo reiterato intoppo m’avesse in qualche modo distolto dal proposito, tuttavia allungava i tempi dell’agonia mentale, ammesso fosse davvero tale, instillandomi lievi ma continui scatti nevrotici che si esplicavano attraverso l’accentuazione di tic che, generalmente, il mio subconscio, forse anche da me aiutato perché ci tenevo a mantenere una certa estetica del corpo che, come si sa, i tic, soprattutto se ac13
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centuati, deturpano, riusciva a dominare, anche se non sempre e non facilmente. Dopo svariate scalate e altrettante cadute parzialmente assistite per l’appunto dallo schienale della poltrona, ero riuscito a trovare il giusto equilibrio sul piano dello sgabello. Ero pronto, senza pensieri ma forte nell’orgoglio per il mio proponimento che volgeva al successo. Finalmente la conclusione di tutto. La conclusione di un ciclo, il mio. La bocca che arriva soddisfatta a mordere la coda. Coraggioso e fiero su quello sgabello dell’aldilà, mi ero posto come sull’attenti, in un movimento di estremo saluto, che sapeva di solenne in quell’istante irripetibile, di maestoso. La mente che spontanea ma trepida, mi rimandava le immagini di me bambino, che poi bambino non sono stato mai. La palla che qualche compagno di scuola tentava invano di avvicinarmi come fosse un amo ed io l’esca per azzardare un approccio. La palla che scivolava via desolata sempre più lenta, fino alla resa. Io che restavo immobile, con le mani dietro la schiena, a mostrare forse una superiorità che veramente non mi apparteneva, oppure un qualcosa che tutti scambiavano per stranezza. E in un istante di apicale dignità, dopo aver disposto per bene il cordino intorno al collo, guardato amorevolmente ciò che mi circondava e salutato con un ciao pieno di vitalità il mondo degli affetti umani, che se c’erano erano scarsi, mi ero lanciato in avanti, come fa la montagna che frana... come fa il bimbo tra le braccia... come fa il vento con le rose... In avanti, in avanti... Una scena che se avessi avuto modo di vedere avrebbe avuto probabilmente i connotati della più fine rappresentazione scenica. Sarebbe stata una tragedia se il suicida non avesse coscientemente manifestato scarso interesse alla sua dipartita. Invece era un semplice, ba14
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nale tentativo di suicidio per l’appunto razionalmente architettato. Comunque, subito dopo avevo avvertito, in rapida successione, l’impatto dello sgabello sul pavimento, una dolorosissima stretta al collo, un effetto buio tutt’intorno, qua e là percorso da minuscole stelline lucenti e fuggevoli e, infine, il tonfo di un qualcosa che si era schiantato sul pavimento. Forse, scalciando, avevo ribaltato il tavolino su cui amavo appoggiare qualche rivista o il mio libro d’arte, l’unico che avessi in dotazione. O forse era il mio corpo che si era schiantato al suolo..., certo, poteva essere... Ma poi, pensandoci meglio, avevo concluso che sarebbe stato impossibile perché avrei dovuto penzolare dall’alto come uno stoccafisso, tuttalpiù leggermente oscillare come il pendolo dell’orologio che nel mio modesto ingresso di casa scandisce con il suo tic tac il ritmo implacabile del tempo − ammesso e non concesso che il tempo possa essere scandito con un qualche ritmo o con quel ritmo ossessivo. A parte le divagazioni, pensavo che finalmente fossi morto. E riflettevo sul fatto che se davvero fossi stato morto lo doveva essere di certo anche la mia carne che presumevo fosse già sul punto di raffreddare e assumere quel colorito bianco-cenere osceno tipico dei defunti, mentre i miei occhi avrebbero dovuto essere sbarrati anche se avevo serrato le palpebre per pudore e rispetto alla sensibilità altrui, e il mio cuore finalmente non più pulsante. Tutto doveva essere bloccato tranne, evidentemente, il cervello che viveva ancora attimi di lucidità, perché mi piazzava davanti, velocissimamente, centinaia di fotogrammi della mia esistenza, quella appena vissuta e quella più remota. Roba, tutto sommato, di scarso interesse, ma che stava lì a dimostrare che ancora quel blocco molliccio di materia cerebrale non aveva cessato di funzionare. Come mai?, mi domandavo incerto 15
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sul da farsi. Avrei potuto osare un leggero movimento delle dita, come ad arrischiare qualche nota sulla corda della chitarra. E se mi fossi svegliato? In fondo quella fluttuazione poteva funzionare come sprone, un incoraggiamento a tornare, un pungolo a svegliarmi. No, no no no! Devo rimanere immobile come sono! Magari la morte cerebrale sopraggiunge successiva al definitivo congelamento fisico... sì sì certo è così, cercavo di convincermi. Eppure che strano, me la immaginavo diversa la morte. Diversa come? Non so, ci devo pensare bene. Mi ero svegliato steso su un letto con le lenzuola che mi erano sembrate pulite ma alquanto ruvide, mentre le pareti lo erano molto meno tanto che se fossero state quelle di casa mia le avrei dipinte immediatamente. Non mi sono mai piaciute le pareti grigie o giù di lì, tantomeno se sono imbrattate. Non ho mai gradito le sfumature del bianco perché, per quanto mi riguarda, il bianco o lo è, o non lo è. I polsi erano immobilizzati da bende, a loro volta unite alle barre di contenimento laterali in metallo poste ai margini della struttura del letto, anch’esso in metallo e di un colore crema insulso, e pure i piedi erano saldamente costretti alle barre metalliche, sicché ero obbligato a stare a gambe divaricate, per giunta ero nudo. San Michele a mare! Nudo!, esclamai con forza appena compresi il mio stato di fatto. Ci metto sempre un po’ a realizzare. È come se il comprendonio arrivasse con qualche secondo di ritardo alla vista. Non sono mai stato veloce nell’afferrare il senso delle parole, soprattutto quando è contorto, o quando mi dicono una cosa ma ne intendono un’altra. Le battute ad esempio, quelle le schifo proprio. Che poi, che termine peculiare bat-tu-te. Forse perché vanno a scontrarsi col pudore e il riserbo delle persone. Cozzano sull’imbarazzo. C’era 16
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un signore, vicino di casa, morto da qualche mese, che riposi in pace per carità, io il male non l’auguro a nessuno, che però era proprio un figlio di puttana, con tutto il rispetto per la madre, che puttana, lo spero per lei, non sarà mai stata. Ebbene ogni volta che mi trovavo davanti casa sua, si rivolgeva a me in strano modo: oh Gregorio, dove te ne vai così elegante? Ma io avevo solo un pantalone e una camicia; la solita camicia che mi piaceva da morire di un azzurro bello e sognante... Un giorno d’estate decisi di tagliarla dal gomito in giù per via dell’afa, ma poi coi primi freddi la ricucivo. Certo non è che fossi un sarto ma, a parer mio, sembrava un buon lavoro anche se, devo ammettere, agli esteti poteva apparire assai poco elegante. Oppure mi diceva: oh Gregorio deciditi, o vai a destra o a sinistra, e giù risate a crepapelle. Io rimanevo serio e pensieroso, immobile a cercar di capire cosa volesse dire. Eppure andavo diritto, anche se mi costava camminare in quel modo per via di quello stramaledettissimo ictus che mi tirava cocciuto a destra, in un continuo saliscendi di volontà, un tiro alla fune verticale. Tornando al mio stato di fatto, perché dovessi essere nudo come un verme non l’avevo capito, né qualcuno si era preso la briga di spiegarmelo. Non avendo nulla da fare dato che ero impossibilitato a muovermi, non mi restava altro che osservare, ubbidendo a un istintivo impulso, il mio corpo con molta attenzione, almeno per quel tanto, anzi poco, che la posizione mi consentiva a patto che sollevassi il capo il più possibile. Era da molto che non lo facevo, e devo ammettere che il mio decadimento fisico, a cinquant’anni appena suonati, era davvero impressionante. Se non fossero state le gambe, per loro natura robuste, avrei potuto dire che il mio tono muscolare complessivo fosse pari allo zero o poco di più; insomma, non proprio carne flacci17
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da ma quasi. D’altra parte non è che potessi pensare di vedere un corpo armonioso e muscoloso, dato che avevo sempre considerato l’attività fisica un inutile spreco di energie che preferivo convogliare altrove, per esempio tentando d’imparare a suonare la chitarra oppure, ogni tanto, di pensare alla mia vita. Finalmente avevo distolto lo sguardo dal me esteriore e l’avevo fatto girovagare attento dentro quel modesto cubo, comunemente definito stanza. Là dentro ero solo e tuttavia la presenza di un altro letto, desolatamente vuoto, posizionato al mio fianco destro forse a una distanza di circa un metro o poco più, mi rasserenava un poco perché immaginavo che avrei potuto scambiare, prima o poi, qualche parola con un mio prossimo compare di camera, un compagno di sventura in quanto etichettato pazzo precisamente come me. Hey, gli avrei detto, questi ti legano perché ti considerano fuori di testa, ma tu rimani saldo. Pensa al tuo cagnolino, ce l’hai un cagnolino? Io l’ho sempre desiderato un cagnolino, uno piccolo, di quelli che non pesano tanto, ma mio padre diceva che poi bisognava trattarlo come uno vero, voleva dire grande e grosso, pulirlo, dargli da mangiare, e non mi ha mai permesso di averlo. Ma se tu ce l’hai, ferma l’immagine sull’istante in cui lo riabbraccerai e questo inferno passerà veloce. ecco proprio questo gli avrei detto. Leggermente rattristato da quel ricordo, cercai anch’io nei miei pensieri un perno a cui aggrapparmi. Serviva qualcosa che potessi ritrovare facilmente una volta dimesso dall’ospedale, che sarebbe stato lì in attesa di me. Effettivamente il panorama che mi si parava dinanzi era desolante. Ma una cosa faticosamente la trovai. La mia barchetta Sofia. Mi avrebbe aspettato senz’altro, arpionata saldamente al palo del molo assai modesto poco lontano da casa. Quella visione addolcì 18
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il mio senso di malessere e m’apparve il mare come una visione. Il suo respiro, in quella camera, lo percepivo appena, come lo schiaffo dell’onda che ritmicamente affibbia alle barriere solide delle Fondamenta Nuove da dove, dalla finestra di casa al civico 5076, potevo ammirare quotidianamente, a volte fissare addirittura per una mezza giornata, il profilo dell’isola di San Michele e poi un punto un po’ più oltre che immaginavo fosse il cimitero. Ero costretto dentro muri spogli, ma il caso aveva fatto sì che potessi vedere dalla finestra il cielo a quadretti che, in quel momento, era grigio e non prometteva nulla di buono. Infatti, poco dopo, o tanto tempo dopo, non saprei dire, avevo udito il fragore dei tuoni e visto i bagliori dei lampi che da qualche parte si erano diretti e chissà che cosa avevano combinato. Ricordo che una volta mio padre mi raccontò che, mentre tornava a casa, in un momento in cui il cielo pareva innervosito, quasi furioso con chissachi, vide a un tratto un fulmine, come una saetta dispettosa e veloce, piantarsi dritta dritta a impalare Panfilo, il pescatore di Fondamenta della Sensa. Il poveraccio non tornò più lo stesso. Parlava come a mozzicare le persone, con gli occhietti che si spalancavano e poi si richiudevano rapidi e schizzati. Preoccupato dal fragore avevo pregato che quei lampi non portassero guai. E poi, finalmente, il rumore della pioggia che se una persona è soltanto un po’ romantica non è più rumore perché è poesia, musica o qualcosa d’altro, comunque bello, armonico in sé. Una bella fortuna non c’è che dire, perché, se m’avessero immobilizzato nell’altro letto, probabilmente sarei riuscito a vedere assai poco o forse nemmeno una piccola porzione del cielo e avrei dovuto consolarmi, anche se non era poco, con la musica liberata dalla pioggia insistente. 19
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Una domanda mi circolava per la testa: perché mi avevano ricoverato al manicomio, più elegantemente rinominato ospedale psichiatrico che poi non cambia nulla, come se fossi stato un pazzo pericoloso? Nessuno poteva dire di me che fossi un uomo pericoloso, anzi, ero naturalmente propenso alla pacificazione al punto che non esercitavo nemmeno i miei diritti se ciò poteva comportare l’afflizione altrui. E per la pazzia? Ah beh, non ricordo che qualcuno l’avesse riscontrata, almeno nel significato comunemente inteso. Tantomeno nessuno aveva mai ipotizzato che potessi essere un matto tanto furioso da dover essere legato. Magari stravagante, questo sì. Ah, forse mi avevano legato perché temevano che potessi tentare di nuovo il suicidio. In sostanza: ti faccio del male perché tu non te ne faccia. È plausibile, certo. Allora per quanto tempo m’avrebbero tenuto in quel modo? Un mese, tre, sei o un anno? La risposta non ero riuscito a darmela perché una spossatezza che era piombata all’improvviso, mi aveva abbracciato decisa, forte, e poi condotto verso un sonno profondissimo. Un fragore terribile, attraversato da urla e bestemmie di vario genere, mi aveva svegliato di soprassalto. Sul momento avevo pensato al mare in burrasca e che le grida fossero quelle di un naufrago disperato. La stanza sarebbe stata avvolta nel buio se una lucina al neon, appiccicata proprio sopra la porta, non l’avesse un po’ rischiarata rendendo quel luogo, di per sé squallido e sinistro, un poco meno minaccioso per via di quella penombra che fin da piccolo avevo sempre gradito. Le urla e le bestemmie, che ovviamente non provenivano dal mare tantomeno da un naufrago, mi avevano innervosito e una sorta d’agitazione aveva fatto sì che iniziassi a scuotermi forte, a strattonare con rabbia braccia e gambe per liberarmi da quella posizione che, tra l’altro, mi aveva provocato un insopporta20
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bile dolore alla schiena, come fosse stata una scottatura proprio là, nella parte alta, in mezzo alle scapole, e più giù, fin quasi sulle chiappe e all’attaccatura dei polsi e delle caviglie che si erano rigati di rosso vivo a causa della mia pelle delicata. Il motivo di quella crisi mi sfuggiva, esattamente come era chiaro che non sarei riuscito a slegarmi. Forse uno sfogo del corpo costretto allo stagno contro ogni mia volontà o forse mi ero agitato come raramente mi era accaduto quasi a voler testimoniare, attraverso il dolore, una sorta di solidarietà umana per le sofferenze inflitte inutilmente; di certo non volevo fuggire, tra l’altro sarebbe stato impossibile. Avevo invece urgenza di andare al cesso per pisciare e fare la cacca, magari dare una sbirciatina dalla porta del corridoio per vedere chi fosse quel matto che urlava e bestemmiava come un ossesso. Tutto qui. Invece, nonostante i molti tentativi, ero sempre costretto nella solita posizione con lo svantaggio aggiuntivo d’essere sfinito a causa degli sforzi fatti, cui non ero abituato e, cosa assolutamente indecente, d’essermi pisciato addosso e non solo, col risultato di puzzare così tanto d’avere frequenti conati di vomito. È questione d’abitudine, mi ero detto. E io non ero abituato a essere inondato dal piscio e imbrattato di merda come se fosse una cosa normale. Non avevo mai avuto l’occasione di soggiornare in una stalla, certo qualche rapido passaggio per vedere gli uomini che mungevano le vacche l’avevo fatto da ragazzino quando, insieme ai miei genitori, trascorrevo una decina di giorni in montagna, ma nulla di più. Ecco, per spiegare, il tanfo che mi sentivo in corpo era lo stesso che avvertivo in quelle stalle di montagna, semplicemente disgustoso, insopportabile ancora di più se sprigionato da un essere umano tra l’altro, per sua natura, per nulla riluttante all’acqua e al sapone.
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