La percezione del dolore

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Alessandra Bertocci

LA PERCEZIONE DEL DOLORE

LA PERCEZIONE DEL DOLORE Alessandra Bertocci

Romanzo MINERVA EDIZIONI

“Forse, voglio solo ricongiungere le due parti di me, raggiungere un equilibrio... Forse oggi ci riuscirò.”

Ventiquattro ore possono cambiare una vita intera?

MINERVA EDIZIONI



Narrativa Minerva Collana diretta da Giacomo Battara

Alessandra Bertocci

La percezione del dolore

Minerva Edizioni


la percezione del dolore

di Alessandra Bertocci

Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Giacomo Battara © 2011 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. “Ogni riferimento a persone o fatti realmente esistenti è puramente casuale” ISBN: 978-88-7381-367-5 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com


Ad Alessandro, Martino e Luce



La percezione del dolore

Il chirurgo spinge la porta della terapia intensiva come se gli costasse uno sforzo enorme. Ha la mascherina ancora in faccia. Conosco quegli occhi cerchiati di stanchezza così come conosco ogni centimetro dell’impiallacciatura graffiata, che divide ciò che è dentro – bambini attaccati a cavi di alimentazione come minuscoli aerei in un hangar – da ciò che è fuori. Al tatto, studio i contorni degli oggetti più vicini, il bracciolo della poltrona in similpelle, la manica del cappotto blu che ho portato ogni giorno in cui sono venuta qui in questo lungo inverno. Cerco inutilmente degli indizi che mi confortino in una direzione o in un’altra, che mi rivelino la natura reale o illusoria di ciò che mi circonda. Nel dubbio, mi comporto nel modo più adeguato alle circostanze: mi alzo in piedi e sorrido al chirurgo in un più o meno inconsapevole gesto propiziatorio. Adesso ore 5,40 circa Metto a fuoco il display luminoso del telefono della camera da letto che sta sulla mensola, davanti alla finestra, a circa un metro da me. Basta questo accomodamento automatico della vista perché senza accorgermene passi dal torpore del dormiveglia, ancora blandamente riconvertibile in sonno vero e proprio, ad una lucidità senza scampo. Troppo tardi per prendere uno xanax, non lo smaltirei prima delle dieci. Giulio dorme ancora, dall’altro lato del letto avverto il suono ritmico del suo respiro. è stata una notte tranquilla come non capita spesso. Mi alzo fa5


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cendo attenzione a non svegliarlo. Al buio, raccatto i vestiti buttati alla rinfusa sulla poltrona la sera prima. Non so nemmeno se ho preso qualcosa di utile, ma non ho modo di controllare. Schiudo la porta del bagno e il riverbero improvviso della lampadina da duecento watt investe il letto. Per un attimo le sue labbra sembrano fremere, come se, anche nel sonno, dovesse dirmi qualcosa. Come se, dopo ieri sera, ci fosse qualcos’altro da dire. Lo scrosciare dell’acqua bollente sulle spalle attutisce tutto il resto, fino a che non mi accorgo che lentamente la temperatura si sta abbassando e decido di lavarmi. Dove è finito tutto l’amore? Perché ho la sensazione che non esista più un prendersi cura l’uno dell’altro, ma piuttosto un delinquenziale assorbimento di tutte le mie energie? Ha un aereo fra quattro ore, ma non è questa la ragione del nostro scontro. Giulio ha sempre viaggiato per lavoro. Negli ultimi tempi però, ho l’impressione che a casa ci sia ancora meno, e che soprattutto la sua presenza non serva a granché. Mi fermo per un attimo sulla porta della camera dei bambini, finché non sono certa che sia tutto tranquillo, poi scivolo silenziosa lungo il corridoio, davanti allo sgabuzzino che mi ostino a chiamare “il mio studio”: due metri per quattro privi di una luce adeguata, residuo di quello di un tempo. Con una mano reggo l’asciugamano intorno al corpo, e con l’altra i vestiti, ancora stupita che Alessandro non si sia svegliato le solite sei-sette volte. Quando dico che dorme poco, credono che esageri. Forse dovrei fornire i dettagli, ma mi sono stufata di dare spiegazioni. 6


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Per nostra fortuna, invece, Mati si addormenta senza storie nel suo lettino alle otto in punto, ben prima di suo fratello, e si risveglia il mattino successivo. La svolta c’è stata con il compimento del quinto mese di vita, e io la vedo in questo modo: ci sono quelli che dormono, e quelli che non lo fanno. Ecco tutto. Spero solo che non si accorga mai di quello che succede dopo che lei va a letto, altrimenti penserebbe di venir truffata e smetterebbe subito di essere così brava. Non voglio nemmeno immaginare che cosa ci succederebbe con due insonni. Mi siedo sulla panca all’ingresso e comincio a vestirmi. Maglione, calze, pantaloni, scarpe da ginnastica: a parte mutande e reggiseno, infilati nella cesta della biancheria sporca ieri sera, c’è più o meno tutto. E se si tralascia il fatto che il maglione è una taglia cinquanta, è discreto persino l’accostamento di colori. A quanto pare, al buio ho preso quello di Giulio anziché il mio. ore 6,30 circa Seppia si lascia togliere il guinzaglio inclinando il muso con delicatezza, senza quegli scatti di pura energia nervosa che ancora mi mancano. Poi mi lecca la mano e trotterella tranquilla scendendo per il prato. Lungo la strada si ferma ad annusare il primo dei suoi alberi preferiti, un leccio, poi passa al cespuglio d’alloro a ridosso del muro di cinta della casa generalizia dei Missionari Comboniani, e infine si ferma per un po’ davanti ai pini posti a metà strada tra l’entrata del parco e la piccola valle dove per un tacito accordo possiamo sciogliere i nostri cani. 7


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Sempre lo stesso percorso: diagonale, rotazione di novanta gradi, diagonale, come se questa sola, tra infinite altre varianti, potesse permetterle di ricostruire tutti gli odori, canini e umani, che si sono succeduti nelle ventiquattr’ore precedenti la nostra passeggiata. Seppia ha solo tre anni, ma per molti aspetti mi sembra di avere a che fare con un animale molto più anziano. Forse è solo il carattere disciplinato dei labrador, o forse, piuttosto, i labrador non sono cani adatti a me, e questo mi porta a considerare in qualche modo sbagliato tutto il suo comportamento. Chi si lamenterebbe di un cane obbediente? No, il problema è un altro, semplice quanto ingiusto: Seppia non è Gilda. Seppia non è il mio cane. Anche se per qualche strano motivo che non comprendo si ostina a credere il contrario. Se ho questo cane è solo perché il mio è morto una settimana prima che nascesse Mati. E perché a volte ti trovi a percorrere l’atrio al momento sbagliato. Sei mesi fa, un pomeriggio in cui come al solito cercavo di indurre Alessandro ad entrare nell’ascensore senza perdere tempo a guardare le pubblicità finite nel cestino sotto la cassetta della posta, la vecchia signora inglese che per anni aveva abitato nell’appartamento ricavato dalla portineria, ne ha approfittato per fermarmi e chiedermi se sapevo di qualcuno disposto ad adottare un cane adulto, la sua labrador di tre anni. Guardavo l’animale in questione, una specie di statua di gesso color miele a forma di cane grasso, e naturalmente facevo paragoni con la mia Gilda, un cane vero. Labrador contro fox terrier, immobilità assoluta contro vivacità e intelligen8


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za. La Wilkins doveva tornare in Inghilterra all’improvviso per accudire la sorella malata. Non poteva portarlo con sé, la sorella era allergica ai cani. Mentre mi faceva questo discorso, il più lungo che mi avesse mai rivolto in tanti anni, Alessandro si è abbassato sul cane con uno scatto, lo ha abbracciato e ha detto: “È mio”. Per me è stato sufficiente. Per come la vedo “è mio” è abbastanza perché corra a procurargli tutti i cani del mondo. Così mi ritrovo un animale che è quanto di più inadatto a me si possa immaginare: tranquillo, disciplinato, discretamente affettuoso, accomodante. In una parola, noioso. Un cane che in oltre trenta minuti non riesce a fare nulla di sbagliato, non si perde nei rovi, non dà la caccia a nulla, non litiga. Pretende soltanto che continui a tirargli il suo stupido riporto verde. Da lontano, Alvaro mi fa un cenno di saluto prima di sciogliere il suo cane per permettergli di correre giù. Viene dalla villa. Come molti altri, tutti i giorni fa un lungo giro del parco, e solo alla fine lo fa giocare un po’. Si soffia il naso rumorosamente con un vecchio fazzoletto beige, poi mi dà le spalle, e torna a guardare Seppia e Ugo che giocano tra loro più in là. Ugo è un meticcio di quattro anni, uno di quegli assurdi incroci – kurzhaar, credo, e forse setter – selezionati pedestremente nell’illusoria ricerca del cane da caccia ideale. Non so se talvolta funzioni, di certo non in questo caso. Ugo è stato ritrovato da un amico di Alvaro esperto cacciatore vicino a una riserva, quasi in chiusura di stagione. A fronte di un’algida inettitudine con la preda, tale da rasentare la perfezione, è stato subito chiaro che non era stato perduto, ma abbandonato. 9


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A quel punto, scaricarlo ad Alvaro che non ha mai sparato un colpo in vita sua, è parso naturale. Tra Seppia e Ugo, entrambi orfani al secondo affidamento è scattata una forma di solidarietà che ha ben poco di canino. – Che ci fai in giro a quest’ora? – ansima Alvaro, brusco come al solito. – Non riuscivo a dormire. – rispondo, ancora a qualche passo di distanza. I suoi occhi sembrano contenere una certa dose di rimprovero o è solo una mia impressione? Mi sarei potuta mettere a lavorare e non l’ho fatto… Accantono l’idea di parlare apertamente di un problema che solo io sento come tale. Per lui, prendere una decisione e portarla avanti sono la stessa cosa, e non sarebbe affatto in grado di capire in quale razza di pantano io mi trovi adesso. Alvaro mi guarda interrogativo, poi si china per raccogliere un bastone da tirare a Ugo, che però non sembra accorgersene. Mi guarda ancora e scrolla le spalle, poi lancia un fischio di richiamo al suo stupido cane. Probabilmente in questo momento sta solo pensando che fra poco la mia famiglia si alzerà e che io non sarò lì con loro. – Sono quasi le sette… – mi fa notare. – E allora? – Ci avevo visto giusto: ai suoi occhi l’unica reale preoccupazione, è chi preparerà la colazione e vestirà i bambini. Che a casa ci sia una persona pagata per farlo al mio posto all’occorrenza o un padre, non lo sfiora neanche. Il mio amico è maschio, ha più di settant’anni, e non ha fatto il sessantotto. La domanda se il suo sia un 10


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atteggiamento sessista o meno, non è rilevante. Appartiene alla generazione che sa cos’è la guerra. Le cose per lui erano chiare, e lo sono ancora. Se gli parlassi di tutto quello che mi passa per la testa in questo momento non avrebbe dubbi. Delineerebbe una netta linea di demarcazione tra questioni principali e accessorie e mi darebbe una risposta recisa. Ho due figli, no? Il mio lavoro è fare la madre. Il resto non conta. Non conta la lotta quotidiana per ricavare una mezz’ora che abbia un senso. Né che i miei spazi abbiano subito una restrizione non del tutto giustificabile con l’arrivo di un secondo figlio. E nemmeno l’ansia, la paura, o il sentirmi sempre più sola ad affrontare tutto. Ma perché dovrei perdere tempo a spiegargli le cose? Alvaro è un calvinista (se solo sapesse che cosa vuol dire), e talvolta pure un po’ stronzo. Se glielo perdono, è solo perché una volta si è trovato a condividere con me un momento determinato. Lui e nessun’altro. Prima L’erba indurita scricchiola sotto la suola degli stivali con un rumore vetroso appena attutito dal fango gelato. Ho freddo ma sudo ugualmente. Presto butterò questo cappotto come quasi tutti gli indumenti che indosso in questi giorni. L’odore insopportabile e impossibile da togliere, nonostante i ripetuti lavaggi. L’odore di un animale impazzito dalla paura. Guardo Gilda lanciarsi per il pendio. All’inizio si limita a trotterellarmi accanto, sorvegliandomi con discrezione, quasi tema di vedermi svanire da un mo11


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mento all’altro. Poi, dapprima con timidezza, quindi via via più sicura, si allontana in direzione della valletta che è stata suo dominio incontrastato per anni. Dopo un numero di giorni impossibili da quantificare per un cane, passati da sola a casa ad aspettare che qualcuno si ricordi della sua esistenza, corre sfrenata lungo il sentiero, riassaporando una situazione di quasi normalità. Per settimane, il suo unico rapporto con noi è stato il momento del pasto, quando in orari inconsueti le abbiamo buttato nella ciotola il contenuto di una qualsiasi scatoletta di cibo per cani, e questo è stato tutto. Per un animale abituato a considerarsi figlio unico per oltre dieci anni, e che con fatica ha accettato l’arrivo di uno strano cucciolo privo di pelo, più lento nell’apprendimento del più stupido dei beagle, si tratta di una situazione a dir poco disorientante. Niente giochi, niente coccole. Infine, il cucciolo viene sottratto all’improvviso e di lì a poco si ritrova priva anche del resto del branco. Adesso, abbaia selvaggiamente contro una grossa gazza che la deride appollaiata sul ramo più basso di un pino silvestre, consapevole del proprio assoluto vantaggio. Mi è sempre piaciuto questo punto del parco, tranquillo e insignificante rispetto ad altri e che proprio per questo mi garantisce la solitudine di cui ho bisogno in questo momento. Non ce la farei a subire l’ennesimo sguardo d’inutile, superficiale partecipazione. Non voglio essere consolata. Si viene consolati quando non c’è più niente da fare, e questa non è un’eventualità per me accettabile. Soprattutto ora. Nessuna di queste considerazioni però giunge ad una forma compiuta, nè riesce a scalfire lo spesso bozzolo 12


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di vetro lattiginoso che mi separa dal resto del mondo. Fluttuo in uno stato di sospensione, non del tutto reale, il tempo e lo spazio incerti e dilatati, simile credo a chi sta per andare in battaglia. La mia essenza indurita e assottigliata, compressa in un raggio di energia luminosa dal perdurare della tensione. Solo dopo scoprirò che la battaglia si è trasformata in una guerra. Mi concentro su Gilda che scava di fronte alla rete che delimita il prato: raffiche di zolle proiettate a centottanta gradi subito in caduta libera. Poco oltre, la macchia di rovi nella quale generazioni di cani si sono perdute, talvolta per non tornare mai più. Basta una manciata di minuti perchè al posto del manto d’erba, nell’unico punto rimasto intatto a dispetto del lungo inverno, compaia una buca profonda una trentina di centimetri. Gilda uggiola di felicità, sorpresa per lo strappo alla regola, senza sapere che in questo momento le consentirei di scavarne altre venti. Dal cielo uniformemente grigio prende a cadere una pioggerellina stupida ma insistente. Rimango lì per diverso tempo, lasciando che la buca diventi una voragine, a guardare quanto tempo impiegano le microbiche gocce d’acqua sul palmo della mia mano tesa a riunirsi in una più grande, fino a che il cane semplicemente non si stufa e non viene via. Poi la pioggia cessa e nelle nuvole si aprono timidi squarci azzurri, mentre Gilda attacca una nuova buca. Il fango ormai ammollato attutisce il rumore dei passi alle mie spalle. – Perché non lo ha fermato? Che razza di danno…– mi rimprovera una voce sprezzante con un raschio di sottofondo. – Fox terrier! Non so se sono peggio loro o loro padroni... – continua a mezza bocca. Mi giro, e 13


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fisso a lungo il vecchio che ho di fronte, senza guardarlo realmente. Solo più tardi ricostruirò i lineamenti del volto, e la sua espressione infastidita. La sagoma sfocata si fonde con quella di un animale nerastro a stento classificabile come cane, incollato alle sue gambe. Un raggio di sole attraverso gli aghi di pino raggiunge i miei occhi, ferendoli. Non ho idea di che ora sia. – Mio figlio è in terapia intensiva – dico più a me che a lui. – Forse non passerà la notte –. Probabilmente non è più di un mormorio, ma, credo, mi senta ugualmente. Riprendo a osservare Gilda, intenta a scavare in profondità tra le zolle di terra umida. Da dietro arriva il sottile sibilo da enfisema prodotto dai polmoni del vecchio… Dopo un po’ il suono si avvicina. Non so per quanto tempo rimaniamo così, senza far niente. – è possibile. Ma per il momento è ancora vivo – conclude con calma. Queste parole mi legano ad Alvaro più di quanto io riesca a spiegare. è come se con questa frase lui riuscisse a colmare di getto la lontananza tra noi. Tutto ci separa: età, sesso, educazione, cultura, censo, ma condividere con me questo momento, quando nessun altro riesce a farlo, ne segna il superamento. Adesso ore 7,00 circa I cani si sono spostati di un centinaio di metri, e ora abbaiano forsennatamente scavando sotto a un cespuglio di biancospino. Dalla nostra postazione vediamo solo la terra smossa. 14


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– Che diavolo fate? Volete sradicare quella siepe? Ugo vieni qui subito!– sbraita Alvaro seduto su un tronco d’albero che gli operai del servizio giardini hanno segato di recente. – Il tuo cane gli dà il cattivo esempio.– Si lamenta alzandosi per andare a recuperare il suo animale. Quando si tratta di Ugo, Alvaro perde completamente di oggettività. Pare non rendersi conto di quanto sia stupido, e del fatto che non distinguere un tordo da un cinghiale non sia precisamente motivo di vanto. La cosa ha la sua importanza, perché un tordo non ti ammazza, un cinghiale sì. L’esempio vale anche per altre creature che da queste parti si incontrano più facilmente, come gazze, cani di varia taglia e i pochi gatti che in primavera scavalcano il muro dei missionari per tuffarsi sugli avanzi dei picnic domenicali. Non attaccare briga con i pitbull dovrebbe essere un principio di immediatezza assoluta. Allora, conto fino a dieci. Lo faccio, perché voglio bene a questo vecchio stronzo e non voglio mandarlo affanculo. Nel frattempo, ho modo di osservare la montagnola di terriccio sempre più alta, e il biancospino che comincia a pendere da un lato. Prego che nessuno degli addetti alla manutenzione passi da queste parti finché non ci siamo allontanati abbastanza. ore 7,25 circa Sono in ritardo, e so bene che lo sarò tutta la mattina, ma tornare a casa alle sette passate, quantomeno ha evitato che io e Giulio ci rimettessimo a litigare subito prima della sua partenza. Dopo un’occhiata frettolosa a Mati ancora addormentata e un paio di raccomandazioni a Stella urlate 15


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da una stanza all’altra, raccolgo in fretta e furia i vestiti per Alessandro che rifiuta di guardarmi perché svegliandosi non mi ha trovato e ha dovuto fare colazione con un’avventizia. Prendo il caffè, che oggi è particolarmente cattivo, e continuo la solita corsa per non arrivare al centro di riabilitazione oltre quel termine che costringerebbe la terapista a non prendere in consegna il piccolo. Possiamo permetterci dieci minuti oltre l’orario previsto per la terapia, non di più. Sette e trentasette. Guardo ancora una volta l’orologio come se dipendesse dalla lancetta lo scorrere del tempo, e non da un fattore esterno con il quale avrei ormai dovuto imparare a convivere, e faccio esattamente il contrario di ciò che mi è stato consigliato tante volte: vesto mio figlio come se fosse un neonato, e non tento neanche di indurlo a collaborare. Non lo metto a sedere su uno sgabello per costringerlo a stare dritto e a concentrarsi sui movimenti da compiere, ma lo lascio sdraiato sulla panca del soggiorno, inerte. Tiro su un piede, poi l’altro, gli sistemo mutande, canottiera, calzini, pantaloni, maglietta e felpa, infine le scarpe: tutto come se fosse il bambolotto con il quale non ho mai voluto giocare. Il suo sguardo non mi lascia un istante. Ingoio il secondo caffè che mi consentirà di guidare per questi due o tre chilometri, e mentre Stella gli infila un cappotto pesantissimo e gli cala il cappuccio della felpa sugli occhi, finalmente perdo il tempo necessario per sorridergli e i suoi occhi si illuminano. Lo prendo in braccio e corro verso le scale, ma non penso nemmeno di permettergli di compiere con calma i pochi passi che lo separano dall’ascen16


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sore, per poi aspettare di vedere la luce verde che ne indica l’arrivo, e una volta all’interno leggere i numeri della tastiera avanti e indietro. Lo scaravento in macchina e senza aver controllato se qualcun altro sta uscendo dal garage, mi precipito a retromarcia verso il cancello che si apre lentamente. Quarantaquattro gatti nella prima versione dello Zecchino d’oro è la nostra colonna sonora. Sono gli automatismi che mi salvano. Prendere il caffè che mi viene allungato, agganciare le cinture di sicurezza (la mia e quelle del suo seggiolino), schiacciare il telecomando del cancello automatico e imboccare la strada giusta. Tutto qui: tra le sette e trentacinque e le otto e cinque del lunedì e del giovedì io sono solo questo correre, questi gesti precipitosi tesi a un unico obiettivo sempre uguale. Varcare la soglia del centro in orario, e consegnare mio figlio a una terapista che ha imparato a sorriderci da poco. Che io ci infili quelle parole e quei gesti affettuosi che gli sono indispensabili più della luce del sole per una pianta, dipende soltanto da una manciata di secondi. È difficile da capire, ma ogni carezza, ogni parola con Alessandro richiede una cura particolare, un tempo necessario e prolungato. Parlargli abbassandosi alla sua altezza e agganciandone lo sguardo, toccarlo con la calma dovuta per fargli comprendere la piacevolezza e la concretezza del contatto fisico. Cose solo apparentemente scontate, cose che ho dovuto imparare. Sprofondo nella poltrona di finta pelle e apro il libro che porto sempre con me nella borsa cercando di non rovesciare il pessimo caffè del distributore automatico. Distrattamente mi chiedo se ho rimesso o meno in tasca la chiave magnetica, e decido di fidarmi. Non accendo 17


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l’iPod, a quest’ora non ce n’è bisogno, è per questo che ho accettato un orario che normalmente non sta bene a nessuno. Davanti a me ci sono cinquanta minuti di relativa tranquillità, appena inframmezzati dai saluti di rito con gli inservienti che ultimano le pulizie, le segretarie e le terapiste in arrivo, e i pochi lungodegenti del centro ai quali è data abbastanza libertà di movimento da arrivare di tanto in tanto all’ambulatorio. Quasi mai ci sono genitori, grazie a Dio. L’ora di psicomotricità è finita e Alessandro traballa sorridendo fino alle mie braccia: stavolta ci prendiamo tutto il tempo necessario. Saluto la terapista e lo costringo a fare altrettanto, guardandola negli occhi e scandendo le parole. Lei gli scompiglia i capelli ma lui non sembra accorgersene, già proiettato verso qualcos’altro. Mentre il bambino va a sfogliare una rivista abbandonata io e Marcella facciamo insieme il piano della settimana: oggi psicomotricità, domani logopedia, giovedi osservazione in terapia, e venerdì di nuovo logopedia, stavolta in abbinamento con l’ortottista. Quando sono ormai sulla porta Marcella mi ricorda che devo consegnare dei certificati in segreteria con urgenza. La rassicuro, saluto di nuovo, e con il cappotto in mano tento di recuperare Alessandro, già infilato nella cabina telefonica di fronte all’ingresso. Dopo qualche tentativo infruttuoso riesco a convincerlo a venire con me. Cammina con la testa rivolta all’indietro, continuando a guardare la cornetta penzolante tra i vetri sporchi. Mi domando se indovini la funzione di quest’oggetto, così diverso dai telefoni privi di fili che siamo ormai abituati a vedere. Dal suo punto di vista deve assomigliare piuttosto ad una doccia. 18


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Lo rimetto in automobile e dopo un quarto d’ora arriviamo a scuola, tranquilli e sorridenti più di tutti gli altri, la perfetta immagine pubblicitaria della mamma con in braccio il suo bellisimo bambino, affettuosi e felici. Questa immagine di noi che trapela all’esterno non è necessariamente falsa, solo, è l’unica che possiamo permetterci. Il massimo del cattivo umore che mi posso concedere è quello di stamattina, pena una caduta del tono dell’umore di Alessandro stesso, ipotesi da evitare. Chiacchero amabilmente con insegnanti e genitori, lasciando che chiunque colga soltanto la positività della situazione. Io e mio figlio per primi. Poi, lo depongo a terra con delicatezza, ne aggancio lo sguardo e, mentre ancora lo saluto, l’osservo vacillare fino alla scaffalatura ingombra di libri. Mi giro ed esco dalla classe. Incrocio lo sguardo di due o tre genitori che vorrebbero chiaccherare ancora, ma faccio finta di niente: per oggi ho socializzato abbastanza. Continuerò a fare finta di niente anche fra poco, quando, com’è inevitabile, incontrerò qualcuno di loro al bar dove quasi tutti nel quartiere facciamo colazione. È il momento di accendere l’iPod. Grace. Jeff Buckley. Oggi potrebbe essere la giornata dei suicidi. ore 10,30 circa Invece di lavorare, passo buona parte dell’ora successiva a mettere ordine tra le carte mediche dei bambini: In questo mare di scartoffie, in generale i dati riguardanti Alessandro sono in netta preponderanza, a occhio e croce mille a uno, e di sicuro non 19


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è per motivi di età, anche se tra i miei figli c’è un intervallo di più di tre anni. – Signora si è rotto il microonde – dice Stella. è un’epidemia, la tecnologia domestica si è rivoltata contro di me. Due giorni fa la lavapiatti, e ora il forno a microonde. Mi pulisco le mani rassegnata e chiamo il numero verde per avere l’indirizzo del centro di d’assistenza più vicino, poi faccio finta di non sentire Mati che vuole la merenda, e lascio che sia la tata a rispondere ai suoi richiami. Tolgo il panno umido dal bozzetto preparatorio salvo riavvolgerlo subito dopo, senza neanche provare a toccarlo di nuovo. Mi annuso le dita appena impregnate dell’odore di creta umida: per tacitarmi la coscienza prendo un appunto su un foglietto giallo che ripongo priva di convinzione in uno dei cassetti del bancone che mi fa anche da scrivania e da archivio. Sulla scaffalatura a mezzo metro da me crete e gessi di un uniforme color polvere. È straordinario quanto le cose cambino in fretta, e sempre in negativo: stamattina, non ho aggiunto che pochi segni a un lavoro che fino a un mese fa sembrava promettente. Appena il campo è libero mi rifugio in bagno con la Repubblica in mano. Forse oggi scoprirò cosa succede nel mondo civile. Questo è in assoluto l’unico luogo dove, se mi sono ricordata di girare la chiave, mi è consentito di stare con un giornale aperto senza che figli, cameriera o altro reclamino la mia attenzione. Il cane naturalmente mi ha seguito, e ora è accoccolato ai miei piedi. Dieci minuti, chiedo solo dieci minuti prima di darle da mangiare: non è poi molto, no? 20


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Sul bordo della vasca quintali di riviste sembrano aspettarmi. Finisco di scorrere i titoli della prima pagina in fretta, poi prendo un settimanale di approfondimento. Questa pila di giornali stazionerà sul ripiano tra la vasca da bagno e il gabinetto per tutta la settimana crescendo lentamente. Musica, recensioni di libri che non avrò il tempo di leggere, itinerari gastronomici, film e mostre che posso solo sognarmi. I commenti politici da tempo sono un argomento che il mio cervello atrofizzato rifiuta di trattenere. Da sotto il mucchio, un numero semi-dimenticato di D, attende che lo lanci nel secchio sotto il lavandino. Quando atterra a circa mezzo metro dall’obiettivo si apre, incerto per qualche secondo, tra il solito articolo sui disturbi alimentari e il servizio sulle tendenze di stagione impersonate da una modella adolescente anoressica. Odio le riviste femminili: mi infastidisce il solo fatto che debba esistere un genere distinto di giornale per le minoranze. Il fatto che comincino ad esserci gli equivalenti maschili, cioè riviste dove si parla di creme di bellezza, moda, plastiche e non siano necessariamente per omosessuali (o pornografici), non mi consola, non smette di farmi sentire quel clima da riserva indiana tipico della giornata della donna. Le donne, gli extracomunitari di metropolis, gli invalidi della rivista trimestrale dell’amnic, magari il bollettino dell’arcigay o lotta comunista (si chiama così no?), quello che vendono porta a porta. Passo senza rendermi conto della differenza da Panorama a l’Espresso, e da un reportage sul traffico di organi alla chirurgia estetica. 21


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Dalla cucina intanto arrivano echi poco rassicuranti. Do un ultimo sguardo alle foto, e mi preparo mentalmente ad affrontare la merenda della piccola: quaranta minuti di lotta con una mela grattata come terreno di scontro, prima di liquidare la faccenda con un bel biberon. Mi chiedo se continuare a fare finta di niente potrebbe indurre Stella a sbrigare la pratica al mio posto… La mia inadeguatezza di madre con Matilde mi sconcerta, ma solo di tanto in tanto. Con lei sono semplicemente più rilassata o piuttosto mi sono rilassata? Tra le due cose c’è una differenza non trascurabile. Rispondo al telefono quando ormai è al terzo squillo. è Camilla, e guarda caso ha letto anche lei l’articolo di prima. Ora che ci penso, mi pare che da qualche tempo ovunque si parli soltanto di chirurgia estetica, è diventata una mania collettiva. – Fanno delle cene per far toccare alle amiche le tette di Margherita. L’idea è di Flavia –. – Non ci credo!– scoppio a ridere, quasi di buon umore. Le amiche vuol dire altri avvocati come loro due. Già m’immagino la scena: il foro cittadino intento a palparsi vicendevolmente seni veri e finti mentre spettegolano dei fatti dei loro clienti e si lamentano dei mariti e di come nei rispettivi studi legali le stiano lasciando indietro a causa dei figli. Flavia non fa testo, lo studio è del padre e non ha fratelli. Il marito lo ha ben educato. E io ho già capito di chi può essere l’idea: Margherita ha sempre fatto tutto quello che dice Flavia, e se si è rifatta le tette per prima è solo perché quella voleva vedere il risultato finale. 22


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– Davvero. È Flavia che organizza, manco fossero sue…– ripete infatti – Capirai, è da quando aveva tre anni che le dicono che un giorno ce le avrebbe avute… Non sta più nella pelle!– Flavia è sempre stata piatta al di là di ogni speranza, unica portatrice di un gene recessivo (assenza di tette) in una famiglia in cui tutte le componenti femminili fino al quattordicesimo grado di parentela sembrano uscite da un film anni Cinquanta e i maschi fanno gli avvocati. Come a dire che non aveva scelta. – Si riuniscono, poi Margherita si spoglia e si fa tastare – continua Camilla serissima. – Ovviamente Giancarlo è al cinema con i bambini…–. Flavia, come Margherita e Camilla sono state mie compagne di scuola per tutte le medie e il liceo, con Camilla, che ha l’aggravante di essere mia cugina, ho fatto persino la materna e le elementari. Dai quindici anni in poi siamo state un gruppo. Prima che la logica del mercato immobiliare ci sbattesse ai quattro angoli di Roma, eravamo vicine di casa. Se qualcuna di loro lo fosse ancora, quantomeno potrei partecipare anch’io, e mi divertirei pure a parlare di protesi e di tribunali, anche se non c’entro niente. Devo ammettere però che da un po’ di tempo raramente riesco a stare sveglia oltre le nove di sera… In più ormai è come se le mie amiche avessero un certo pudore nel coinvolgermi nel cazzeggio puro, con tutto che negli oltre vent’anni passati assieme non mi sono mai tirata indietro. – Ma almeno ci sono degli uomini?– chiedo, anche se so bene quale sarà la risposta. – No, è chiaro –. 23


Alessandra Bertocci

Naturalmente. Non sono così trasgressive da invitare dei maschi. Lo spettacolo è solo per le signore. E nessuna è lesbica, nessuna di noi è così avanzata culturalmente o genuinamente omo… Peccato però. Sarebbe più interessante, rifletto, ma in effetti, sarebbe più interessante comunque… – La faccenda è organizzata per far vedere come funziona a quelle che ci stanno facendo un pensierino – dice ancora. Dunque si tratta di una dimostrazione. A quanto sembra, quello che sono state La Stanhome o la Tupperware per la generazione precedente, è adesso la chirurgia estetica per noi. In fin dei conti si tratta sempre di materie plastiche… Il bello è che ci avevano raccontato che per noi sarebbe stato diverso, e ci abbiamo pure creduto. Camilla ne è un tipico esempio. Solo che non lo sa… Per il momento. – Ma almeno la pagano?– – Chi? Quelle che le toccano le tette?– – No, i medici –. – Non lo so, è possibile – ribatte Camilla, che continua a rifiutare di cogliere il lato comico della faccenda. Forse accarezza l’idea di rifarsi qualcosa anche lei. – E tu?– mi apostrofa all’improvviso. Istintivamente mi porto le mani al seno: in effetti due allattamenti non sono passati invano. Ci ho messo tutta l’adolescenza ad abituarmici, e adesso? Che cominci ad assomigliare a Flavia? – Nonna diceva: “Chi poco spende poco appende”– rispondo. Ora come ora rischierei di risvegliarmi con dei globi gommosi appoggiati casualmente sullo sterno, 24


La percezione del dolore

o magari sulla schiena, per una sottovariante medicochirurgica della iubris– . E poi, – ammetto alla fine con onestà, ho una paura fottuta dell’operazione –. Che qualcosa possa andare storto dovrei saperlo anch’io, o no? Anzi, forse proprio per questo rischierei più degli altri di beccarmi qualcosa in post-operatorio. “Le operazioni si affrontano solo se è davvero necessario” fa eco mia cugina in una perfetta imitazione del tono asburgico di nonna Giselda – Certo,– sghignazza – sosteneva pure che una signora non esce mai senza cappello e senza guanti…–. A Camilla, di ciò che pensava nonna Giselda non gliene ha mai importato un tubo. Sono sempre più convinta che stia per combinare qualcosa. Adesso dalla cucina arrivano le urla disperate della piccola: la mia pausa sta per essere definitivamente archiviata. – Signora, è arrivato il tecnico, e la bambina con me non vuole mangiare – mi incalza Stella da dietro la porta del bagno. Dal tono non c’è dubbio che sia seccata, mi dico, ma io lo sono anche di più. Mi domando a che scopo io abbia dovuto rinunciare a due terzi del mio studio… Perché devo essere presente all’avvento di un tizio che dovrebbe ripararmi la lavastoviglie? Non può farsi spiegare le cose dalla cameriera? Questa gente non dovrebbe essere qui per rendermi la vita più facile? E poi, lo so che la bambina non vuole mangiare con lei, non lo fa mai, ma tanto non vorrà mangiare neanche con me. – Camilla ti devo lasciare, sono stata richiamata all’ordine – sbuffo. 25


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