FRANCESCO STORACE
LA PROSSIMA
A DESTRA MINERVA
RITRATTI Collana
la prossima a destra
Direzione editoriale: Roberto Mugavero Grafica: Ufficio grafico Minerva Edizioni © 2016 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Finito di stampare nel mese di aprile 2016 Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978-88-7381-814-4
MINERVA EDIZIONI Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 info@minervaedizioni.com www.minervaedizioni.com
prefazione
«Prima avvertenza: mai fidarsi dell’avversario che vi sorride, specie se comunista. Vi azzannerà appena può, è più forte di lui». Nell’espressione, che ci rimanda alla favola di Esopo sullo scorpione che uccide la rana anziché ringraziarla per averlo tratto in salvo, c’è tutto Francesco Storace, l’ironico ma fiero detentore di un vessillo chiamato Destra che non si vergogna di innalzare nei giorni in cui le vecchie bandiere destrorse e le banderuole delle nuove destre sembrano orpelli da natura morta. Questo per dire che il libro non è un affresco malinconico di passati remoti, ma una sfida rivoluzionaria all’egemonia del nulla che ha conquistato e permeato la politica. Dove, oramai, il vorticare dei tweet e l’osservanza zelante alle leggi dello slogan hanno distrutto il pensiero, la cultura, i percorsi formativi “come erano una volta”, dove l’impegno in prima persona era figlio di un impulso ideale che spingeva a stare dalla parte – e solo quella – per cui si sentiva un richiamo. Qual è il risultato? Carriere spesso fulminee che raggiungono le stelle a grande velocità ma altrettanto rapidamente precipitano, tirate giù dalle umane tentazioni che diventano vortice incontrollabile o dalla confusione tra l’esercizio del potere e la violenza del sopruso. Lo scritto di Storace somiglia, dunque, a una carta nautica necessaria per chi, tra i più giovani, ha 5
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intenzione di prendere il largo nel mare mosso dell’impegno politico. Nonostante tracci questa mappa costellandola con le tappe della propria vita, Storace non appare per nulla autocompiaciuto. Anzi, pone in essere una seria operazione di autocoscienza, merce rara in quest’epoca di egolatria politica. Si mette a nudo, abbinando a ogni fase decisiva del suo impegno politico un sentimento, fosse anche di timore e titubanza. Proprio su questo arriva la lezione più importante, cioè che il percorso politico di ognuno non deve mai essere trascinato nelle secche dell’inumanità anche se ciò comporta un supplemento d’imprevedibilità. Così assieme a quel ragazzo, che per cacciare un’orda di estremisti inferociti di sinistra s’inventò un colpo di genio utilizzando la custodia degli occhiali, saliamo la scalinata d’ingresso di via Cristoforo Colombo, agli albori del 2000. Dove trova ancora oggi sede la giunta della Regione Lazio, una delle prove di governo più importanti che la Destra italiana ebbe a sostenere nella sua storia. Assieme al funzionario di partito prima, presidente di Regione poi e ministro ancora dopo, che mai perse il gusto per la battuta dissacrante, veniamo condotti attraverso una giungla umana di questuanti, feste di paese, imbroglioni di partito, vertici estenuanti, amicizie vere, colpi alle spalle e amarezze. Perché la politica, spiega chiaramente Il Nostro, è mai tirarsi indietro, a cominciare dal confronto con i cittadini che deve continuare anche dopo la sfida elettorale. E poi, sullo sfondo, c’è la grande incompiuta della nostra storia politica. Quella Destra che si fece governativa senza esprimere una classe dirigente in grado di solidificarsi come vera alternativa culturale, sociale e politica. Dalla vicenda di queste persone e circostanze emerge nitido il contrasto tra un cammino di legittimazione che fu durissimo, affrontando le asperità di ostracismi e pregiudizi, a fronte di un’esperienza di potere che invece si rivelò effimera e fragile. Ma i giochi dei contrari, come i paradossi, sono le anime della politica per quanto siano sempre dolorosi. La vicenda dello stesso Storace lo dimostra. Lui, che di quel cammino accidentato fu un pro6
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tagonista, si ritrovò a vivere da spettatore il picco della storia istituzionale della sua famiglia politica nel 2008: Gianfranco Fini presidente della Camera, Alemanno sindaco di Roma e una coalizione che sembrava avviata a una lunga stagione di governo dopo la vittoria schiacciante di Silvio Berlusconi su Walter Veltroni. Invece, poi (altro paradosso), è andata come sappiamo. E ora quella terra politica e culturale gloriosa che fu di Almirante, Rauti e Romualdi si riscopre frammentata in un arcipelago dove, tra le sue isolette, non si costruiscono ponti ma si sparano cannonate mentre tutt’intorno avanza il vuoto di Renzi o la veemenza del grillismo. Chiunque con la storia di Storace avrebbe potuto incappare e affogare nella palude del reducismo, ma il libro scongiura il pericolo, semplicemente perché il lavoro è poliedrico. Da un lato è un bilancio senza rancori di una lunga, e avventurosa, esperienza politica. Dall’altro vi traspare la volontà di spremerla per cavarne linfa di vita e passione cui far abbeverare i più giovani. D’altra parte poi, è un punto d’appoggio per guardare al futuro, cercando di trarre da una storia (politicamente) agrodolce gli insegnamenti necessari a correggere la rotta. Partendo da una vera stella polare: l’idea, quella autentica, che si costruisce di pari passo alla propria identità di persona. In una politica dominata dagli interessi di breve periodo, dalla coltivazione ossessiva dell’immagine, dalla copula forsennata con settori di potere finanziario e imprenditoriale, suggerire ai giovani di avere una visione del mondo è un vero gesto rivoluzionario. Utopia? Forse, ma è comunque l’unica strada per riprendere fiato e non uccidere, assieme all’anima di se stessi, quella del Paese. Gian Marco Chiocci
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PREMESSA
Non ho il diabete. Per tantissimi anni mi sono portato appresso questa diceria, messa in circolazione dentro AN da Altero Matteoli, credo, e poi via via diffusa ovunque. Per giustificare le mie appassionate arrabbiature, gli altri “colonnelli” e giù per li rami i vari dirigenti, trovavano alibi nella “malattia”. Sono le cattiverie della politica, bastava sussurrare che sono matto di mio. Magari in futuro l’avrò, ora mangio poco solo quando faccio dieta. E grazie al prof. Pietro Migliaccio, nutrizionista di grande livello, sto decisamente meglio. Sciò. Detto questo, mi manca la destra. Anche qui, prima che si scateni qualche altra maldicenza, chiariamoci subito. Non sono monco, ma la destra, pari pari alla libertà, è come la salute: quando c’è, te ne freghi; la tragedia è quando non ce l’hai più. E non è la mano. Questo libro sulla destra nasce per raccontare com’era cominciata e com’è finita, come si è persa, se c’è possibilità di ritrovarla e in chissà quale forma. Potrebbe intitolarsi l’ultima destra, e sarebbe triste. Se lo titolassimo la prossima destra, sarebbe presuntuoso. Forse, è più giusto: la prossima, a destra. Tanto per cercare di individuare la direzione di marcia. 8
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Non bisogna mai deragliare, è l’insegnamento più grande che vorrei si ricavasse dalla lettura. “Essere di destra” non significa “stare a destra” e magari non nei momenti difficili e drammatici dell’MSI, ma solo nei momenti belli e comodi del potere targato AN. Non può essere la tentazione del momento quando si vince. Essere di destra deve essere uno stile e non una moda. Per questo non mi eccita più di tanto lo slogan che ogni tanto qualche fulminato delle nostre parti ci rovescia addosso, “bisogna battere la sinistra”. Bene, giusto, e poi? Per fare al posto loro le cose che faremo noi dopo aver detto che noi non avremmo mai fatto le cose che hanno fatto loro? Per carità. L’alternativa è rivoluzionaria, l’alternanza è grigiore, una specie di tic che ti prende quando ti va bene alle elezioni. Ma perdi inevitabilmente quelle dopo, a meno di fatti imponderabili. Valori, dunque, a partire da quello dell’onestà, che non può essere scippato dai cannibali a Cinque Stelle, i divoratori dei vizi altrui che presto saranno contaminati malamente come ogni novizio. Dice il mio portiere «e ci mancherebbe che non si debba essere onesti!». Già, ma siccome ci portiamo alle spalle troppi decenni di DC e socialisti, e pure nella Seconda Repubblica non è che si sia brillato per moralità dimostrata, è bene che quello che dovrebbe essere un prerequisito della politica torni a essere centrale. Anche perché proprio quella della destra italiana è una storia assolutamente pulita, di gente perbene, che si è trovata nelle istituzioni sull’esempio di uomini integerrimi, a partire da Giorgio Almirante. O, tanto per capirci, che nella storia hanno assunto le sembianze di un ministro dei lavori pubblici di Benito Mussolini come Araldo di Crollalanza, che resta una leggenda per tutti nella Bari rossa come nella Bari nera. Poi la stradina è diventata un’autostrada, l’MSI si trasformava in AN, si andava al potere ma con la pretesa di non pagare il pedaggio. E i dolori si sono fatti sentire, perché si smarriva 9
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la retta via, il governo da salvare a tutti i costi era la missione di ogni partito che arrivava a palazzo Chigi e pure il nostro assumeva questa filosofia. Vinci le elezioni su un programma di rottura, arrivi nella cabina di comando e prevale la rottura del programma: possibile che dal ’94 ad oggi non si sia riusciti, per esempio, a regalare al popolo sovrano l’elezione diretta del Presidente della Repubblica? Per farla passare in una riforma costituzionale ci dovemmo beccare la bizzarria costituzionale chiamata devolution. Gli italiani fischiarono rumorosamente in un referendum in cui si parlava ovviamente più della seconda che della prima e le beccammo di santa ragione. Per non parlare di non pochi, anche se per fortuna nemmeno tanti, episodi di malcostume che inquinavano comunque un percorso politico a causa di precise responsabilità individuali che ovviamente facevano soffrire una comunità intera. Ma non perché era stato pizzicato il malfattore di turno (quasi che se la fai franca chi se ne frega...) ma perché si aveva la coscienza che non si deve proprio fare. Però, proprio per l’allentamento della tensione sui motivi che ti avevano portato al potere, ne subivi l’intossicazione. Morale: non bisogna cascarci più. Se non noi, nessuno dopo di noi. Va anche detto che la stessa AN ha vissuto due fasi dopo la straordinaria epopea dell’MSI, che spesso ci troviamo a rimpiangere come se fosse possibile ricostruirlo senza gli uomini che lo fecero grande nel secondo dopoguerra. I dieci anni seguiti alla fondazione del 1995 sono stati tutto sommato caratterizzati dall’entusiasmo, dalla contaminazione positiva di una società che finalmente conosceva la destra di governo. Poi il disastro, da Salò a salotto. Contavano solo gli ambienti di potere, il popolo andava interpellato ogni cinque anni e basta. (Recentemente qualcuno aveva addirittura pensato che il presidente dell’Enel fossi io, me ne accorsi quando cominciarono ad arrivarmi curriculum mirati. Ma si tratta di una quasi omonimia con Francesco Starace, che credo ci giochi su pure lui, se 10
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è vero quel che mi ha confidato Alfredo Antoniozzi, consigliere d’amministrazione del colosso in questione). In questo mondo, e con rilevanti responsabilità, ho vissuto anch’io, e con non poco disagio, sennò non avrei fatto le valigie da AN nel bel mezzo della crisi prodiana e alla vigilia del trionfo berlusconiano. Sono stato missino e poi di AN, ho detto no alla militanza sia nel Popolo della Libertà che nel Partito Popolare Europeo. Non è il mio mondo quello là. Anche se non lo capisco più, Berlusconi mi resta simpatico, però in politica la pensiamo in maniera molto diversa. L’ho constatato nel 2014, quando ho avvicinato Forza Italia per qualche settimana. A me piacciono i partiti. Forza Italia è semplicemente un’altra cosa: mi sfogavo con due amici miei come Raffaele Fitto e Daniele Capezzone e anche con Saverio Romano – poi separatosi a sua volta dai primi due, preferendo Verdini – ben prima che se ne andassero dal loro partito, figurarsi che ci azzeccavo io... Con Gianfranco Fini ho fatto un lungo percorso politico e istituzionale e non me ne pento affatto. Credo che abbia sbagliato molto nel modo con cui ha scientemente rotto con larghissima parte del nostro mondo, ma gli errori non possono far dimenticare i meriti. Anche se in certi momenti lo avrei strozzato brutalmente e in proposito leggerete anche cose aspre. Ma ho avuto l’onore, al suo tempo e con il suo aiuto, di diventare deputato e presidente della vigilanza Rai; poi segretario della più forte federazione di AN, quella della città di Roma; e ancora presidente della regione e dopo ministro; poi, nei tempi di magra, ma pure esaltanti, con La Destra – e senza Fini – segretario nazionale, consigliere comunale in Campidoglio e consigliere alla Pisana, come vicepresidente del Consiglio regionale (con i miei colleghi che mi sfottono quando dirigo i lavori d’aula, “sembri la Jotti”, ha maramaldeggiato Pietro Di Paolo per il mio atteggiamento istituzionale). Fedina penale, Napolitano a parte, pulita. Diciamo che abbiamo fatto fare 11
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una buona figura a quanti ci hanno dato fiducia. E non sono stati pochi. Questa storia, retta e orgogliosa, ve la propongo nelle pagine che seguono, narrando di me e di noi. Auspicando che qualche buon insegnamento sia preso a modello dalla gioventù troppo sciatta – e a volte maleducata – che incontriamo oggi. È una storia, la nostra, che questo libro racconta ovviamente in una piccola parte e che certo non si può esaurire qui. Magari, il resto sarà argomento del prossimo libro, in cui mettere a nudo chi si azzarderà a sparlare di questo. E chissà se ce la faremo, finalmente, a narrare la nuova storia della prossima destra. Se ci riusciremo, potremo tentare di essere degni del nostro maestro di vita e di politica, Giorgio Almirante. Anche se i nostri venti anni nelle istituzioni sono stati un po’ diversi dai suoi quarant’anni... «Non ho alcuna aspirazione di potere. Noi non abbiamo alcuna aspirazione di potere e siamo in grado di raccogliere consensi sempre più vasti, anche dicendo ai nostri elettori che non li potremo difendere da posizioni di potere, ma che li difenderemo da posizioni di opposizione. Da quarant’anni a questa parte questo è il nostro atteggiamento, questo è il nostro comportamento in Parlamento e nel Paese». Giorgio Almirante
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AL GOVERNO POLVERE ERAVAMO...
Non dimenticare mai la tua storia, giovane militante che ti imbatti nel potere, nelle pratiche di governo e che arrivi a quello che in famiglia e tra gli amici chiamano successo. La carriera, brutta parola. Scegli la militanza, che è meglio e più nobile. La terza emozione che si prova nel diventare ministro – la prima è certamente quando vieni designato, la seconda quando giuri – è nell’ingresso nella sala inibita ai comuni mortali. Lì dove vengono prese le decisioni, in quel luogo storico, per quasi un anno ci sono stato anche io ed è difficile che vada perso ogni singolo istante vissuto come membro del governo del proprio Paese. Guai però a farsi accecare da quella sindrome da potere che ti porta a dimenticare che polvere eravamo e polvere torneremo. Nel Consiglio dei ministri entravo con il peso e la responsabilità di una storia gloriosa. Venivo dall’MSI, poi da AN, e in quella prima riunione guardavo le sedie dei ministri: all’epoca eravamo più di adesso – ci sono state leggi che hanno ridotto successivamente la consistenza numerica dei governi – ne contai 27 e pensai a una cifra analoga, il numero dei militanti missini morti ammazzati negli anni di piombo. Franco, Francesco e Stefano; Angelo, Stefano e Virgilio e tutti gli altri; venivano alla mente nomi e storie, tragedie e funerali, lacrime e dolore. Certo mai avrei immaginato di sedermi in quel palazzo del Potere. Il giu13
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ramento era quello di rimanere me stesso. Cambiare il sistema e non farti cambiare dal sistema. Sarà merito di sua maestà il Fato, ma ho concluso la prima bozza di questo libro proprio il 7 gennaio, in straordinaria coincidenza con il trentottesimo anniversario dell’eccidio di Acca Larentia. Non passa. E per fortuna. Perché a quei ragazzi caduti, troppo spesso si è tolta persino la memoria del sacrificio. Eroi civili di una guerra trascinatasi per tanti anni e che molti, anche a destra, hanno colpevolmente rimosso. Il martirio non fa curriculum nelle suite di chi comanda. Non per tutti è così, perché l’odore aspro delle nostre sezioni non è consentito dimenticarlo: amavamo la colla e la pennellessa con cui gridavamo libertà a colpi di manifesti con cui vincere la battaglia murale contro i rossi; innalzavamo le nostre bandiere più in alto di tutti perché ci sentivamo figli dell’Impero. Con che coraggio si potrebbe cancellare una memoria straordinariamente presente? Ho vissuto con commozione una pellicola davvero emozionante come “Sangue sparso”, realizzata e interpretata da Emma Moriconi, una storia di anime veramente belle uccise perché attivisti dell’MSI. Erano gli anni dell’antifascismo militante, la pratica quella dell’“uccidere un fascista non è reato” e davvero arrivare e restare al governo non mi sembrava, e non mi sembrerebbe neppure oggi, un buon motivo per dimenticare tutto quello che siamo stati. Un miracolo, ecco che cosa siamo stati. Straordinarie generazioni di incoscienti, diceva un saggio come Donato Lamorte, indimenticabile nostro dirigente dell’MSI e poi di AN. Che poi andò con FLI perché leale con Fini, ma mai smemorato nei rapporti di amicizia vera, inossidabile, fiera. Tommaso Luzzi a piazza Tuscolo, Tonino Moi a via Noto, Ivo Camicioli a via Acca Larentia: nomi e luoghi della mia gioventù missina impossibile da barattare per una postazione di dominio. Ecco perché mi fa una rabbia enorme pensare che la destra italiana sia arrivata all’ultima stazione perché il potere ha distrutto tutto. No, non si straccia quello che abbiamo vissuto. 14
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Anni di piombo, in un mese e anno oggi indefiniti: ogni sabato, al cambio di turno delle 11 del mattino – l’ultimo giorno della settimana gli studenti del ventitreesimo liceo scientifico di via Tuscolana facevano solo due ore in classe – i più estremisti della scuola si radunavano per raggiungere via Acca Larentia, la sezione che odiavano, per tentare l’assalto. E noi li aspettavamo per respingerli, se riuscivano ad arrivare dalle nostre parti. Capitò quel giorno che fossi solo in sezione e da piazza Santa Maria Ausiliatrice sentii il solito “Camerata basco nero, il tuo posto è al cimitero”. Erano le 11, e la conferma me la diede l’orologio antico che campeggiava nella sede, omaggio di un nostro iscritto (ognuno donava qualcosa di sé). Dissi tra me e me, “se questi arrivano mi fanno secco”. Presi coraggio e mi incamminai verso il corteo di quei due-trecento bellicosi “compagni”. A qualche centinaio di metri da me, li sfidai guardandoli dai miei Rayban scurissimi. Mi abbassai, inforcai l’astuccio degli occhiali da sole che custodivo in tasca e feci come per prendere la mira, fingendo che fosse una pistola. Gli eroici rossi scapparono come topi. Mi ero salvato. Ma la paura aveva preso anche me, mi salvò la testa pazza. Ecco, puoi scordarti tutto questo solo perché un prefetto ti chiama eccellenza?
MAI MONTARSI LA TESTA C’erano una volta la militanza politica, l’attivismo, il sacrificio. In fondo, la storia profonda dell’MSI, il partito della bella gioventù, è stato un capolavoro etico. Non si sgambettava solo per prendere il posto di un altro in Parlamento, né si “gufava”, come bofonchia Matteo Renzi nel suo linguaggio da stadio di una volta. Si lottava per idee, valori, giustizia sociale. Non ci si montava la testa per un incarico. 15
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Oggi è tutto diverso. A furia di rottamare i “vecchi”, abbiamo scoperto una politica fatta di quarantenni di rapida carriera. Tutto e subito. E la parola più gettonata è “garanzie”, nel senso: “che mi dai se passo con te?”. In quel tempo, essere cacciato dal proprio partito era la sanzione più dura, significava cancellare anni di vita comunitaria, perdere i propri amici; oggi rappresenta una liberazione, tanto amici in politica non ne ha più nessuno. Ho visto, che erano ragazzi, Franco Fiorito e Luca Gramazio, poi li ho incontrati cresciuti in Regione e il secondo anche in Campidoglio; provo tristezza per come una concezione troppo sbrigativa della politica riesca a rovinare quelli che sembrano i più promettenti. Poi c’è chi non è accusato di commettere reati, ma l’accusa di tradimento se la becca tutta intera se, con appena quattromila preferenze, priva di rappresentanza un partito che ne ha conquistate centomila per guadagnare il seggio che gli freghi poco dopo l’elezione: è un altro quasi quarantenne, si chiama Fabrizio Santori, ammalia e litiga con ogni partito che incontra. Prima o poi troverà qualcuno che gli farà passare la voglia di giocare con la fede altrui. La politica per il potere è quella che distrugge comunità, persone, territori. Come Attila, si è capaci di qualunque cosa pur di impossessarsi della Cosa Pubblica, perché non si è più capaci di stare al potere senza innamorarsene. Io l’ho toccato con mano il potere, cinque anni alla regione Lazio come presidente, un anno al governo come ministro. E in fondo anche quei quattro anni di presidenza di vigilanza Rai hanno rappresentato un pezzo di potere – quello parlamentare – in lotta contro il potere mediatico pagato con i soldi del canone. Ma ho amato più il popolo che avevo il dovere di rappresentare che il privilegio che poteva discendere da incarichi pubblici di indubbio prestigio. Li ho persi e non sono cambiato, io lo posso dire. C’è chi si è fatto cambiare persino i connotati, invece, da quelle leve che ha manovrato per un pezzo della sua vita. Mal gliene incolse, si dice naturalmente di chi si è fatto irretire. Sono 16
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quelli che vanno al governo di un’istituzione spinti dall’entusiasmo della loro curva e poi cercano gli applausi della fazione opposta. Ma se Francesco Totti fosse applaudito dai laziali della Nord, il dubbio non assalirebbe anche voi? Prendi il caso di Gianni Alemanno, sindaco di Roma. In Campidoglio c’è arrivato accolto da una selva di braccia tese, con tanto scandalo dei soliti benpensanti. E ci ha messo poco a disfarsi di quei saluti romani che più che nostalgia esprimevano una gioia incontenibile per l’ascesa di un antico militante dell’MSI al Colle che governa la Città Eterna. Lo vedremo più avanti, nel libro, quando racconterò l’incredibile storia del Museo della Shoah a casa Mussolini. Dopo la sconfitta elettorale, probabilmente è tornato quello che conoscevamo un tempo, anche se tormentato da una vicenda giudiziaria che affronta con spirito da combattente. Ma ci tiene alla verità: Il Museo della Shoah a villa Torlonia? Dice Alemanno: «È una collocazione che non ho scelto io ma Veltroni. Io l’ho ereditata già deliberata in modo chiaro. Avrei dovuto affrontare un mare di polemiche per cancellare quella scelta e francamente non ero disponibile a riaprire tutte le polemiche sulle leggi razziali del Fascismo, che non hanno mai fatto parte dei miei valori né di quelli che mi hanno eletto. Peraltro ho provato a difendere il Fascismo dall’accusa di essere il “male assoluto” pochi mesi dopo la mia elezione e mi sono trovato totalmente isolato nel PDL». E aggiunge: «In ogni caso di cose di destra durante i miei cinque anni ne sono state fatte numerose: dai viaggi della memoria alla casa del ricordo sulle Foibe e i crimini del Comunismo, all’applicazione del quoziente familiare nelle tariffe sui rifiuti, dalla demolizione di Tor Bella Monaca per costruire un quartiere in stile comunitario, dai centoquaranta anni di Roma capitale con il documento scritto da Veneziani e la celebrazione di Porta Pia con la presenza delle gerarchie della Chiesa (mai avvenuta prima), alla partecipazione dei lavoratori nei consigli di amministrazione delle municipalizzate, alla chiusura dei campi nomadi esistenti 17
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da mezzo secolo come Casilino 900, alla sede della ambasciata offerta gratuitamente ai Palestinesi, al restauro del Colosseo, dei Fori imperiali, dell’Eur e del Foro italico, ai monumenti per i militari caduti nelle missioni militari, all’impegno per la tolleranza zero contro vu cumprà e per la sicurezza». Decisamente più complessa la vicenda di Gianfranco Fini; ancora oggi suscita inquietudine pensare alla trasformazione profonda di cui è stato incredibile protagonista. Una vita da una parte, la seconda vita in quella opposta. Basti pensare per esempio al rapporto con la Chiesa. Da paladino dei vescovi, a fustigatore del mondo cattolico sulla procreazione assistita: arrivò a bollare il clero come portatore di istanze diseducative. Un’accusa più grande non avrebbe potuto pronunciarla. Chissà se con gli anni se ne è pentito un po’. Ecco, sia da monito per i giovani che vogliono fare politica. Quando toccherà a voi non inseguite la nomina facile, la pacca sulle spalle, il sorriso ipocrita di chi vi promette bagliori. No, la politica è sangue e merda e dovete esserne consapevoli. Non vi stancate di ricevere persone, di ascoltare i loro drammi personali e quando li congedate dal vostro ufficio diteglielo a chiare lettere: “Non pensare adesso di aver risolto i tuoi problemi, ché cominciano ora”. Già, troppe volte, con superficialità si promettono mari e monti agli elettori, pronti a chiederti un posto di lavoro per il figlio, al posto del figlio di un altro. E che poi, logicamente, ti dicono “se lei vuole, può”. No, io voglio ma “non può”....
QUELLA SIGARETTA DA SIRCHIA “A Ce’, scenni e famose ’na sigaretta”. “Ce’” a Roma è Cesare, quella mattina di maggio 2005 chiamai al telefono, dalla stanza da cui era appena uscito definitivamente Girolamo Sirchia, l’onorevole Cursi, mio caro amico 18
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e sottosegretario uscente, e rientrante, alla Sanità nel ministero di cui ero diventato titolare. “L’ufficio del signor ministro” era, ed è, sul lungotevere Ripa, a due passi da Trastevere, al secondo piano. Cursi stava al quarto e doveva aver patito non poco la (giusta) guerra al fumo, destinata a cancellare una delle più dannose abitudini di vita degli italiani. La tentazione – per un dispettoso impunito come me – era troppo forte: in fondo, farsi una Marlboro nel regno proibito della Salute assumeva quasi una dimensione rivoluzionaria. Molto più prosaicamente, in realtà, era un modo per far scendere la tensione all’interno di un ufficio in cui dovemmo praticamente fabbricare un portacenere in quattro e quattr’otto. A Cursi – che avevo voluto di nuovo impegnare in politica molto tempo dopo i suoi trascorsi di Prima Repubblica, in occasione della vittoria di Silvano Moffa alle elezioni provinciali di Roma – ero legato da sincera amicizia. Spesso con mia moglie Rita e la sua, Lia, siamo stati insieme, e quando Gianfranco Fini mi volle ministro – “e non fare tante storie” – volli garantirmi che sarebbe rimasto viceministro (sottosegretario, ma siccome al posto dei due che c’erano ne fecero quattro per blindarmi, consideravo lui un po’ più degli altri tre, che erano Domenico Di Virgilio, Elisabetta Casellati e Domenico Zinzi). Rispetto a tanti altri, credo che Cursi, con i suoi trascorsi da DC fanfaniano doc, avrebbe ben figurato pure al piano superiore di governo, ma la politica non sempre riconosce il giusto merito. Anche se è un furbacchione di provata capacità: quando lo pregai di coordinare le deleghe del ministro con gli altri sottosegretari – per me trattenni la Ricerca, che mi appassionava non poco – in sole 48 ore mi consegnò il decreto da firmare. Gli feci: “Hai concordato con gli altri tre?” Tutto a posto, mi assicurò. Ovviamente feci un giro di telefonate e ricevetti conferma. Il decreto, alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, per l’80% era riempito di deleghe che “avevo” attribuito a Cesare che aveva democristianamente tagliuzzato quelle dei suoi tre colleghi. Un caso innocente di firma “a mia insaputa”, potrei confessare... 19
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Imparai subito il “mestiere” di ministro e del resto mi accompagnava la bella esperienza di presidente di regione. Conclusa con una sconfitta elettorale, vero, ma a causa di uno scandalo – il Laziogate – scoppiato a soli quindici giorni prima del voto e che ben sette anni dopo si sarebbe rivelato una balla gigantesca con tanto di assoluzione per tutti gli imputati. Ma il danno era stato fatto. E l’avevo subito sulla pelle mia e della mia famiglia (essere accusato di spionaggio non è la cosa più bella, giuro). Ricordo che un mese dopo il mio coinvolgimento come ministro nell’inchiesta, e relative dimissioni in piena campagna elettorale per le politiche del 2006 – quelle perse per 24.000 voti –, fui eletto senatore e per la prima volta nella mia vita avevo quasi timore a entrare in un’assemblea di eletti, perché già immaginavo le polemiche. E, in effetti mi scontrai duramente – facendoci poi pace tempo dopo – con Goffredo Bettini ed Esterino Montino, pezzi grossi della comunisteria romana. Non feci pace invece con il noto Lusi: con lui quasi ci menammo in Aula, in una polemica durissima sulla Sanità laziale – da poco si indagava su Lady Asl, una delinquente che pensava di arricchirsi passando tre diverse amministrazioni regionali –, quando scoprii che razza di ladrone era, fui orgoglioso di quello scontro a palazzo Madama. I rapporti più belli, in quell’anno scarso al governo, li ebbi con i carabinieri dei Nas, che andai a visitare in molte sedi grazie al loro comandante Borghini, un galantuomo in divisa, un autentico servitore dello Stato. Ricordo ancora le sue lacrime di commozione autentica, nel mio ufficio, al momento delle mie dimissioni da ministro. Ne rimasi davvero colpito. Ogni giorno dai Nas ricevevo un rapporto sulle loro indagini e sapevo quali sarebbero stati i loro bersagli. Pedinamenti, intercettazioni, confidenze, tutto è servito a stroncare, per esempio, il traffico di sofisticazioni alimentari e relative frodi che inquinano le nostre tavole. Un lavoro, il loro, spesso sconosciuto ai più, ma fondamentale per tutti. 20
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Al ministero ero arrivato con gli strilli della prima pagina del Manifesto, che aveva titolato la mia nomina con l’eloquente “Salute romana”, con tanto di corazzieri a far da corona all’Altare della Patria. La conservo ancora nel mio ufficio, sono davvero bravi a richiamare l’attenzione con la loro grafica. Anche altri strillarono, e mi fecero più male. La polemica arrivò da un pezzo della “mia” destra sociale, a partire da Andrea Augello, Roberta Angelilli, Luca Malcotti e altri ancora. Non volevano assolutamente che accettassi la nomina ministeriale, credo lo facessero in buona fede, ma ci rimasi davvero di sasso, non mi aspettavo che dal mio mondo arrivassero proteste anziché auguri. La gioia fu grande quando si ricredettero avendomi visto al lavoro, con l’impegno che tutti mi riconoscono e la volontà di risolvere i problemi.
UN MANUALE PER LA BUONA SANITÀ Col caratterino che mi ritrovo, penso che mi riuscirà complicato poter tornare al ministero della Salute. Devo dire che è stata una bella esperienza, anche se non certo di potere come quella vissuta in Regione. Diciamo che la figura di quel ministro è più un difensore civico nei confronti della sanità regionale che un responsabile a tutto tondo delle politiche di governo. Ma questo non significa che non debba contare nulla. L’ho raccontato tempo fa a Beatrice Lorenzin. Anche se ormai veleggia verso sinistra da quella scialuppa bucherellata che risponde al nome di NCD di Angelino Alfano – il più odiato della compagnia – a me non dispiace affatto lo stile sobrio della ministra, come si dice adesso. L’avevo conosciuta e apprezzata da giovanissima consigliera comunale di Forza Italia a Roma. E comunque, quando una donna si afferma in politica, deve faticare sempre di più di un uomo per contrastare il pregiudizio. Se vogliamo, lo stesso destino, sempre al ministero della salute, 21
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era toccato a Rosy Bindi, che in privato è persona di grande spirito e intelligenza. Poi, certo, la sua faziosità è quella che è, sembra fatta apposta per attirare le battutacce. Andai a trovare la Lorenzin nell’ottobre del 2015, sembravamo vecchi amici che non la smettevano più di chiacchierare. E avendo comunque lei più impegni di me, a un certo punto mi alzai e le dissi sorridendo che me ne andavo altrimenti avrei bloccato la Sanità italiana. Beatrice è donna di polso, ma sa anche ascoltare. E poi ha la tenerezza della madre che si porta i due gemellini al ministero per non perderli di vista nelle culle che stanno nella stanza a fianco alla sua. L’avevo sfottuta, su Facebook, quando li mise in bella mostra sulla rete: “Perfetti per NCD, uno a destra e uno a sinistra”, ironizzai. E lei stette al gioco, con una gran risata. Mi sono raccomandato con lei solo su una cosa: non perdere mai di vista il valore della Sanità pubblica, visto che quella italiana, almeno ai tempi miei, era la seconda al mondo secondo le statistiche sciorinate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (ovviamente anche il privato convenzionato esercita un servizio pubblico, lo voglio dire a chiare lettere). Ma da troppo tempo le politiche per la salute sono considerate più un costo che un servizio da rendere a un popolo che ci paga su le tasse. “Devi far diventare la Sanità prioritaria nelle parole del presidente del Consiglio, che ne parla solo come spreco, soldi buttati, quasi se ne vergogna”, le dissi. Ogni volta che Matteo Renzi appare in televisione a parlare di queste cose, si trasforma in un succhiasoldi che non comprende il valore delle cure per le persone. Alla Lorenzin raccontai di quando invece Berlusconi, e ovviamente se lo ricordava, si mise in testa – prima di me con Sirchia – di consentire agli anziani di ricevere una dentiera. Chi lo sfotteva non capiva il valore del sorriso per una persona avanti negli anni, il potersi specchiare con gioia. Era un modo di mettere le politiche della Salute e il benessere in cima alla spesa pubblica, la spesa sociale diventava opportunità per la persona. Solo i faziosi non comprendevano il valore della scelta. 22
la prossima a destra
Qui sta il punto. Troppo spesso si parla solo di malasanità, che indubbiamente esiste e provoca rabbia, perché colpisce chi sta male, è indifeso e non può reagire da solo. Ma c’è anche tanta capacità di cura che non va affatto messa in un angolo. Se ho un rammarico è quello di non aver avuto un attimo di tempo per raccontare la buona sanità. Ci vorrebbe un manuale per narrarla agli italiani e alle italiane. Nei cinque anni alla guida del Lazio, e in quello come titolare del ministero della Salute, nessuno può immaginare quante lettere io abbia ricevuto come ringraziamento per un intervento ben riuscito, per prestazioni assicurate, per cure eseguite con grande umanità e professionalità. Rispondevo, quando potevo, girando al medico, all’infermiere, al personale, insomma, che aveva suscitato la gratitudine del paziente, la missiva che avevo sulla mia scrivania, ringraziando a mia volta. Voglio dire che c’è un numero enorme di eccellenti operatori della Sanità, che vanno incoraggiati a fare bene il loro mestiere e che troppo spesso sono messi all’indice se una cosa va male. L’ho detto anche a Nicola Zingaretti: dovresti pubblicare ogni giorno il report di quanti entrano negli ospedali della regione Lazio e quanti ne escono, così i cittadini sapranno quanto è alto il valore della nostra Sanità. Se ne è scordato pure lui. Se si desse comunicazione dell’altissimo numero delle persone salvate dai nostri ospedali, avremmo tutti più forza nel rivendicare il diritto a spendere per la Sanità italiana. Quel segno più sulle politiche per la Salute avrebbe una spinta enorme, anziché dover stare a impazzire appresso ai tagli odiosi che impediscono una Tac, un ricovero, una prestazione... Una politica più umana dovrebbe avere a cuore un settore strategico per la società. Invece prevale la spending review, questa macchina infernale che risparmia sui soldi, senza preoccuparsi delle vite umane da salvare. Fosse anche una sola. Odio.
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