La strage del 2 agosto - di Beppe Boni

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BEPPE BONI, è nato a Castelfranco Emilia nel 1957, a metà strada fra Modena e Bologna, nello stesso anno in cui Carosello debuttava in televisione e la Fiat 500 diventava la mini diva delle strade italiane. È condirettore di Carlino.it e de “Il Resto del Carlino” di Bologna, dove ha trascorso gran parte della carriera. Nel percorso professionale ha salito tutti i gradini. Prima cronista di nera e giudiziaria, antica passione, poi caposervizio, capocronista della cronaca di Bologna, caporedattore, caporedattore centrale e vicedirettore. Ha diretto due volte “Cavallo Magazine”, rivista dello stesso gruppo editoriale. Ha anche collaborato negli anni scorsi con l’Agenzia giornalistica Ansa e il “Corriere della Sera”. I primi passi nel giornalismo li ha mossi al “Giornale” diretto da Indro Montanelli, dove ha cominciato come professionista. Oggi è arrivato qui.

BEPPE BONI

LA STRAGE DEL 2 AGOSTO

L’orologio è ancora lì, ancora fermo sull’ora dell’Apocalisse. Alle 10:25 del 2 agosto 1980, un sabato di sole, mentre l’Italia va in vacanza con il sorriso sulle labbra, una bomba fa esplodere la stazione di Bologna. È la più grande strage del Dopoguerra in Italia, in quel periodo già devastata dal terrorismo, al centro della strategia della tensione e degli Anni di piombo: muoiono 85 persone e 200 rimangono ferite. Le indagini partono a senso unico, verso la bomba di matrice neofascista, replay di precedenti fatti analoghi. La verità giudiziaria, in un’altalena di svariati processi, certifica la condanna all’ergastolo per Valerio Fioravanti e la sua compagna Francesca Mambro, la coppia “Bonnie and Clyde” dei Nar, e per Gilberto Cavallini, a 30 anni per Luigi Ciavardini. Il quinto uomo, in attesa di giudizio dopo 40 anni, è Paolo Bellini, ex Primula Nera. Ma la condanna di Mambro e Fioravanti divide ancora, non convince da più parti, anche a sinistra, è considerata piena di lacune. Intorno allo scenario della strage si muovono personaggi ambigui, depistatori e servizi segreti, affiora piena di misteri e indizi la pista alternativa dei terroristi palestinesi indicata dai nostri 007, ma non presa per buona dalla magistratura. E i mandanti di Fioravanti e Mambro? Secondo un’ultima inchiesta innescata dall’Associazione familiari delle vittime sono quattro deceduti, fra cui Licio Gelli capo della P2. I palestinesi, che collaboravano con brigatisti rossi e terroristi di Carlos lo Sciacallo, finanziati dalla Germania dell’Est, avevano avvertito: faremo attentati in Italia. Perché? Perché, dicono i servizi segreti e le conclusioni della commissione Mitrokhin, l’Italia non rispettò il Lodo Moro, patto che prevedeva libera circolazione di armi e membri del Fplp in Italia. Un groviglio, fra trame e ombre, che non ha ancora la parola fine.

A CURA DI

BEPPE BONI

LA STRAGE DEL

2 AGOSTO LA BOMBA ALLA STAZIONE, I PROCESSI, I MISTERI, LE TESTIMONIANZE 2 AGOSTO 1980 – 2 AGOSTO 2020 MINERVA


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A CURA DI

BEPPE BONI

LA STRAGE DEL

2 AGOSTO LA BOMBA ALLA STAZIONE, I PROCESSI, I MISTERI, LE TESTIMONIANZE 2 AGOSTO 1980 – 2 AGOSTO 2020

MINERVA



INDICE

Prefazione di Michele Brambilla

p. 7

Cap. I - Gli Anni di piombo e la strategia della tensione

p. 12

Cap. II - 1980: un anno terribile

p. 22

Cap. III - L’altalena delle sentenze

p. 36

Cap. IV - L’intreccio delle indagini fra ombre e processi

p. 44

Cap. V - I segreti della pista palestinese

p. 61

Cap. VI - L’enigma Abu Saleh, un guerrigliero al bar

p. 85

Cap. VII - La barba di Corto Maltese

p. 95

Cap. VIII - L’inchiesta sui mandanti, quattro morti nel mirino

p. 102

Cap. IX - La battaglia infinita dei familiari delle vittime

p. 138

Cap. X - Le testimonianze - Alla stazione c’ero anch’io di Gianni Leoni - Il quarto d’ora del tassista - L’autobus 37 come carro funebre

p. 147 p. 148 p. 162 p. 167

Ringraziamenti

p. 175



PREFAZIONE di Michele Brambilla

Il 2 agosto 1980 era un sabato. La stazione ferroviaria era presa d’assalto da turisti che andavano e venivano, perché Bologna è il crocevia d’Italia, da qui si passa per l’Adriatico e per il Sud, per la Toscana e per il Brennero. Coppie di sposi e di fidanzati, nonni, giovani con zaini stracolmi, tedeschi, bambini in sandali con il sacchetto dei giochi da spiaggia, impazienti e ignari che l’orologio del destino aveva già così presto fissato la loro sorte. Nella sala d’attesa della seconda classe esplose una borsa che conteneva cinque chili di tritolo e T4 e diciotto chili di nitroglicerina. I morti furono 85, i feriti 208, molti orrendamente mutilati nel corpo, tutti mutilati per sempre nell’anima. Il presidente Pertini arrivò e riuscì a dire solo: «Non ho parole». Quella mattina Marco Bolognesi aveva sei anni ed era andato alla stazione con la nonna paterna e i nonni materni. Per lui era un 7


giorno felice: la mamma, insieme con il suo papà, stava tornando da Basilea, dove era stata operata con successo; finalmente sarebbe guarita. I suoi genitori lo ritrovarono qualche ora dopo, grazie a una segnalazione di una radio privata, all’Ospedale Maggiore: era tutto nero, non vedeva e non parlava, lo riconobbero per una voglia sulla pelle. Marco ha subìto, nel corso degli anni, quattordici interventi chirurgici: i medici, e forse qualcuno dall’Alto, hanno fatto il miracolo e gli hanno salvato un occhio. Oggi suo padre, Paolo Bolognesi, è presidente dell’“Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna”. Andai a trovarlo dieci anni fa, nel trentesimo anniversario. Ricordo che la sede era in via Polese, una delle tante stradine con i portici. Due o tre stanze semplici, quasi povere: l’orologio sul muro, come quello della stazione, era fermo sull’ora del demonio: le 10:25. Di quel giorno parlai anche con Giorgio Guazzaloca, primo sindaco non comunista della storia di Bologna. Lo accusavano di non aver mai detto, alle celebrazioni del 2 agosto, che la strage era fascista. Mi spiegò: «Mi era stato chiesto da An di rimuovere la lapide che parla di violenza fascista, e io avevo risposto che finché sarei stato sindaco quella lapide sarebbe rimasta lì». Ricordò poi: «Allora avevo ancora la macelleria, che era vicina alla stazione. Non 8


sentii il boato. Entrò un signore urlando: è scoppiata la caldaia, forse una bomba. Nella tragedia la città seppe anche dare il meglio di sé: ci fu molta solidarietà, tutti si diedero da fare. Poi su Bologna scese una cappa. La città non era già più quella aperta, gioviale e gioiosa degli anni Sessanta. Ma la strage del 2 agosto fu una svolta traumatica: da allora Bologna è diventata più chiusa, più preoccupata. Credo che non si sia più ripresa». Lo pensa anche Pupi Avati, che di quel giorno ha un ricordo indelebile. È una scena che sembra tratta da un suo film: «Stavo arrivando a Codigoro, nel Ferrarese, dove in una villa dovevamo iniziare le riprese di Aiutami a sognare, un musical con Anthony Franciosa e Mariangela Melato. C’era con noi il grande coreografo americano Hermes Pan, che aveva fatto i film con Fred Astaire e Ginger Rogers. Eravamo felici, c’era un clima di festa. Vedemmo che sul cancello della villa c’era ad aspettarci gente che, invece di accoglierci festanti, ci faceva gesti disperati. Pensai che fosse successo qualcosa a uno dei nostri attori. Mariangela entrò a chiedere e uscì piangendo. Passammo tutta la giornata a sentire la radio: tutti in costume e con le scarpe per ballare il tip e tap, una scena surreale, con un retrogusto terribile». Anni dopo Pupi Avati ha girato per la Rai una fiction intitolata Un matrimonio: «C’è una scena in cui una 9


donna, che poi è mia madre, cammina in via Indipendenza e sente lo scoppio. Ho provato a ricostruire che cosa accadde in quel momento in città». Da quale inferno giunse il mostro? Le sentenze inchiodano gli estremisti neofascisti. Ma c’è un ampio fronte che sollevò e ancor oggi solleva dubbi, e non è solo “di destra”: è un ampio fronte trasversale. Sostiene che “Giusva” Fioravanti e Francesca Mambro siano vittime sacrificali, scelte per placare l’opinione pubblica. Ne parlai con Paolo Bolognesi e mi rispose così: «Chi sostiene questa ipotesi non conosce gli atti del processo. La Pista palestinese, che ancora oggi viene avanzata come alternativa a quella neofascista, è stata il primo tentativo di depistaggio ordito dai servizi segreti». Cossiga – gli obiettai – dice che fu un incidente, lo scoppio fortuito di un esplosivo che i Palestinesi stavano trasportando. «Si vergogni e si decida a dire la verità», mi rispose. «Il fatto che Cossiga sia stato presidente della Repubblica è una macchia nera per l’Italia». Ma a distanza di tanti anni i magistrati lavorano ancora per cercare di stabilire una verità completa, anche sui mandanti. E molti fatti nuovi – compresi i resti di una vittima mai identificata – rendono ancora fitto il mistero. Il libro di Beppe Boni ricostruisce tutti i fatti, le inchieste, i processi, le ipotesi, le piste seguite e 10


quelle forse troppo presto abbandonate. Emerge, purtroppo, un’amara verità: e cioè che come per tutte le altre stragi che hanno insanguinato l’Italia per oltre vent’anni – dal 1969 al 1993 – troppe ombre permangono. Depistaggi, servizi segreti deviati, tesi precostituite portate avanti con ostinazione, trame eversive interne, legami fra terrorismo politico e criminalità organizzata, intrecci internazionali. Troppi fattori hanno finora impedito, anche sulla strage del 2 agosto, il raggiungimento di una verità piena e convincente. Troppe volte, quasi sempre, a chi lottava perché sia fatta luce su questi massacri è stata opposta la ragion di Stato. E così, siamo rimasti il Paese dei misteri. Il prezzo di questa omertà è la sfiducia via via cresciuta, nel popolo italiano, nei confronti delle istituzioni. Non è un caso se per molti anni, in piazza Medaglie d’Oro, i politici sono sempre stati fischiati.

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I. GLI ANNI DI PIOMBO E LA STRATEGIA DELLA TENSIONE

Sfogliando all’indietro le pagine della storia d’Italia gli anni della notte più buia della Repubblica sono scolpiti nel sangue e nella paura del periodo che va dalla fine dei Sessanta ai primi anni Ottanta. Furono sequenze senza fine di violenza politica quotidiana, nelle scuole e nelle strade, dove stare da una parte o dall’altra significava rischiare la vita per uno sguardo, per una frase o più semplicemente per l’abbigliamento che classificava l’appartenenza a uno schieramento. Ma furono anche anche gli anni dove fiorirono il terrorismo di destra e di sinistra, un contesto che significò il salto di qualità di tanti giovani che dagli slogan passarono alla lotta armata. Agguati, sequestri di persona, ordigni esplosivi, morti e feriti. L’inferno di quel periodo è una sequenza di fotografie prima in bianco e nero e poi a colori scandite da volti e 12


nomi che hanno caratterizzato una vera guerra civile. I numeri sono spaventosi e testimoniano il clima di uno scontro senza precedenti dall’Unità d’Italia in poi: quarantamila denunciati, quindicimila arrestati, migliaia di anni di galera con oltre quattromila condannati, morti e feriti a centinaia. Le ombre del Sessantotto si allungavano ancora sul finire del decennio quando la strage di piazza Fontana a Milano, 19 dicembre 1969, con la bomba alla Banca nazionale dell’Agricoltura, di matrice fascista, segna di fatto l’inizio della cosiddetta strategia della tensione. Da lì in poi l’inferno d’Italia si riempì di vittime e di sigle, dall’estrema sinistra alla destra radicale. Nacquero fra le altre Prima Linea e le Brigate Rosse, gemellate con altri nuclei internazionali come la Rote Armee Fraktion nella Germania Ovest. Dalla parte opposta i gruppi di destra al di fuori del Movimento Sociale che affascinarono un’altra generazione perduta, furono: Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, Terza Posizione. Alcuni erano strutturati e organizzati, altri, come i Nar, Nuclei Armati Rivoluzionari, erano cani sciolti. Si contrapponevano a quelli di estrema sinistra, ma nello stesso tempo il loro obiettivo era lo Stato da scardinare per rieducarlo e costruire un nuovo ordine di governo. La Strage di Bologna (2 agosto 1980, 85 morti, ore 10:25) viene attribuita, secondo la verità giudi13


ziaria, proprio ai Nar, anche se storicamente e statisticamente fino a quel momento il loro cosiddetto “spontaneismo armato” era sempre stato indirizzato verso obiettivi singoli, verso simboli che in qualche modo rappresentavano lo Stato da abbattere. In tre successive tornate giudiziarie la magistratura indica come colpevoli la coppia nera Valerio Fioravanti e Francesca Mambro (1995), compagni di vita, di politica e di violenza nichilista senza limiti, ancora oggi insieme (dopo aver scontato 26 anni di carcere), Luigi Ciavardini (2007) minorenne all’epoca dei fatti, considerato l’enfant prodige dei Nar, e Gilberto Cavallini (2020). Nella nebulosa galassia di misteri, depistaggi, ombre dei servizi segreti la prima fase processuale, tutta fondata sulla pista neofascista (una conclusione che ancora oggi trova opinioni diverse e contrapposte) ha portato solo dopo un lungo iter giudiziario alla condanna per depistaggio del grande burattinaio, il venerabile maestro della P2, Licio Gelli, degli appartenenti dei servizi segreti Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte e Francesco Pazienza. Le indagini dell’inchiesta più recente della procura di Bologna, innescata dall’Associazione familiari delle vittime della strage, indica come mandanti (11 febbraio 2020) Licio Gelli, ritenuto uno dei principali organizzatori e finanziatori della strage, Mario Tedeschi, giornalista e intellettuale della destra storica, 14


Umberto Ortolani, faccendiere e agente dei servizi, e Federico Umberto D’Amato, prefetto – tutti deceduti – e Quintino Spella, generale dei carabinieri, unico vivente dopo quarant’anni. Rimane appesa a ipotesi, sospetti e indagini aperte e chiuse e forse mai del tutto approfondite, ma mai provata, la cosiddetta “Pista palestinese” che attribuisce ai terroristi del Fronte Nazionale di Liberazione della Palestina, appunto, la paternità della bomba di Bologna. Ma questa è un’altra storia. Il decennio degli Ottanta, i cosiddetti “Anni di piombo”, fu preceduto da altri tre anni terribili dove la violenza politica si infiammò ulteriormente e il confine con terrorismo per molti gruppi dell’una e dell’altra parte era una striscia grigia molto frequentata. L’impennata dell’estrema sinistra venne soprattutto dalla svolta del 1977, con la città di Bologna che si trasformò in un campo di battaglia. La cittadella universitaria fu una prima linea di scontri furibondi. Alle molotov la polizia rispose con numerosi colpi di arma da fuoco che causarono la morte dello studente Pier Francesco Lorusso. E fu rivolta per giorni e giorni. Il ministro degli interni Francesco Cossiga, che ritroveremo per la strage della stazione, mandò i blindati e sui muri di Bologna diventò Kossiga. L’Italia bruciava nella lotta al terrorismo di sinistra che rapiva e gambizzava, con le Bierre che 15


imperversavano da capofila. L’anno dopo, il 1978, segnò la svolta ulteriore dell’eversione di destra, con la strage di Acca Larentia. Il 7 gennaio due militanti missini, Francesco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, vennero giustiziati da estremisti di sinistra a colpi di mitraglietta Skorpion, arma prediletta dalle Bierre, nel quartiere Tuscolano a Roma. Il pomeriggio e la sera esplose la reazione dei giovani di destra che occuparono parte della città. Nelle scorribande, negli scontri che ne seguirono rimase ucciso un altro militante missino, Stefano Recchioni, centrato dai colpi esplosi da un ufficiale dei carabinieri. Questo avvenimento segnò il passaggio del Rubicone per la parte più estrema dei giovani che non si identificavano più nella politica, giudicata troppo moderata, del Movimento Sociale. In questa palude di violenza e reazione nacquero i Nar, Nuclei Armati Rivoluzionari, teorizzando l’offensiva contro le forze di sinistra ma soprattutto contro lo Stato. Il 16 marzo 1978 è la data che segna un’altra svolta nella galassia del terrorismo: in via Fani, a Roma, viene sequestrato il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, e nell’agguato vengono uccisi i cinque agenti della scorta. Il 9 maggio successivo viene fatto trovare il cadavere di Moro nel bagagliaio di una Renault rossa. È una delle giornate più buie della Repubblica. Intanto non passa giorno che non 16


vi sia un agguato, un ferimento, un attacco ad agenti, imprenditori, manager. Francesco Cossiga, ministro dell’Interno, si dimette, mentre il presidente del Consiglio in carica, Giulio Andreotti, in agosto nomina il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa coordinatore della lotta al terrorismo. Il generale più amato dagli italiani contribuirà a batterlo, ma sarà ucciso dalla mafia dopo essere stato nominato prefetto di Palermo. Lo Stato lo lasciò solo, non lo protesse, e l’Italia perse uno degli uomini migliori. E anche questa è un’altra storia. Negli anni terribili che precedettero la strage della stazione ancora una volta sono i numeri a tracciare uno scenario apocalittico. L’aumento di agguati, uccisioni, ferimenti, ebbe una impennata senza precedenti. La rete di sigle, a destra e sinistra, che scelsero la lotta armata contro le istituzioni e gli avversari politici erano aumentate come i funghi dopo la pioggia. Se nel 1969 furono censite appena 2 organizzazioni riconosciute come tali, nel 1977 salirono a 91, nel 1979 a 269. In quest’ultimo anno il bollettino del terrore fece registrare il record di 659 attentati, mentre nel 1980 ci furono 125 vittime, 85 delle quali alla stazione di Bologna. Un avvenimento questo, che viene considerato l’ultimo dello stragismo di matrice “nera” dopo diversi altri episodi i cui principali sono la bomba di piazza Fontana a Milano con 17 morti e 17


88 feriti (dicembre 1969), piazza della Loggia di Brescia (maggio 1974) dove un ordigno nel cestino della spazzatura causò 8 morti e 100 feriti e il treno Italicus (agosto 1974) dove una esplosione all’uscita della galleria di San Benedetto Val di Sambro, sull’Appennino bolognese, fece 12 vittime e 105 feriti. Il 1980 per i misteri d’Italia, che secondo diverse interpretazioni si incrociano con le trame internazionali, resta un anno cruciale, ancora insanguinato dalle imprese dei terroristi di destra e di sinistra. Nel conto vanno messi anche i giornalisti. Il 28 maggio a Milano viene assassinato l’inviato del “Corriere della Sera” Walter Tobagi, professionista di area moderata “colpevole” di essere troppo ostile alla sinistra radicale, vittima di chi ha premuto il grilletto, ma anche di un clima ovattato e insidioso che offriva copertura indiretta, culturale e politica, al terrorismo di sinistra. Lo giustiziarono due giovanotti della “Milano bene”, Marco Barbone, figlio di un dirigente editoriale, e Paolo Morandini, figlio di un critico cinematografico, fondatori della Brigata XXVIII Marzo, un nucleo che scalpitava con le armi in pugno e ambiva al riconoscimento da parte dei fratelli maggiori delle Brigate Rosse. Nel 1977 era toccato anche a Indro Montanelli, colpito alle gambe sempre dagli estremisti di sinistra. L’opinione pubblica, pur già quasi assuefatta dagli avvenimenti degli anni precedenti, sprofondò 18


in uno stato di grande tensione nel quadriennio di sangue 1978-1981. Per molti si era ormai sulla soglia di una guerra civile che per fortuna fu evitata. L’impegno delle istituzioni contro il terrorismo riuscì tuttavia a fare argine. Se lo stragismo attribuito all’ultradestra finisce con Bologna, gli Anni di piombo messi in conto al terrorismo della sinistra estrema vengono considerati conclusi, invece, con il sequestro e la successiva liberazione del generale americano James Lee Dozier, all’epoca vice-comandante della Nato nel Sud Europa. È questa, dopo il sequestro Moro, l’impresa considerata più simbolica e audace delle Brigate Rosse che avevano alzato il tiro con un obiettivo di caratura internazionale. L’alto ufficiale venne sequestrato a Verona il 17 dicembre 1981 e liberato con un blitz dei Nocs nell’aprile dell’anno successivo. Gli ultimi sussulti delle Bierre tornano poi tra la fine degli anni Novanta e il 2003 dove, fra gli altri, viene assassinato a Bologna il giuslavorista Marco Biagi (19 marzo 2002). Il 1980, con al centro la strage di Bologna, resta un anno terribile dove si incrociano trame e attentati. Non dimentichiamo, fra gli altri, la strage di Ustica, che impressionò Bologna e l’Italia un mese prima della strage alla stazione. Alle 20:59 del 27giugno l’areo DC9 Itavia, volo di linea IH870, partito dall’aeroporto Marconi di Bologna esplode in volo sopra il 19


cielo del tratto compreso fra le isole di Ponza e Ustica. Nel disastro muoiono tutti gli 81 occupanti fra passeggeri e membri dell’equipaggio. Ancora oggi la tragedia del DC9 rimane uno dei misteri italiani irrisolti dentro un intreccio di ipotesi che da decenni oscilla fra un cedimento strutturale, una bomba collocata a bordo, un duello areo in cielo fra aerei francesi o americani e un Mig libico. La verità oggi non c’è ancora e probabilmente non l’avremo mai più, dentro questo tunnel di sospetti e misteri mai chiariti. L’inchiesta penale non ha certificato alcuna verità, ma ha escluso il duello aereo che vorrebbe il DC9 colpito per errore da un missile francese “a risonanza”, ipotesi sostenuta anche da Francesco Cossiga, all’epoca primo ministro. Va detto che i procedimenti per alto tradimento a carico di quattro generali dell’aeronautica si sono conclusi con l’assoluzione. Altri processi a carico di 80 militari dell’aeronautica sono finiti con assoluzioni o con condanne che vanno dal falso alla distruzione di documenti. E dentro il vortice di questa storia ci sono anche suicidi di militari e documenti spariti. Eppure la tesi del missile è alla base delle sentenze civili che hanno determinato risarcimenti milionari ai parenti delle vittime da parte dei Ministeri della Difesa e dei Trasporti, sullo sfondo di una incongruenza difficile da comprendere. Per la Giustizia penale l’ipotesi del missile non è 20


plausibile, per quella civile sì. C’è anche una lettura, mai provata in termini giudiziari, del disastro Ustica che ipotizza un legame con la strage di Bologna, passando dalla Pista palestinese di cui parleremo più avanti. Dunque anche qui, fra ipotesi e suggestioni si intrecciano possibili, oscure e inconfessabili coperture, servizi segreti, piste internazionali, scontri della politica. Ma il rebus resta e la tragedia di Ustica, dopo quarant’anni, non ha colpevoli certificati.

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