Le stagioni dei cinni

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A tutti quei cinni che camminano da anni passo dopo passo verso il loro futuro.



Claudio Bolognini

LE S TA G I O N I d e i c i n n i

Minerva Edizioni


Claudio Bolognini Le stagioni dei cinni Il tempo scorreva lentamente tra aquiloni, figurine di calciatori, scubidù, flipper e motorini, mentre qualcuno faceva ancora il gioco del dottore … Traduzioni dei testi in dialetto bolognese a cura di: Fausto Carpani LA GRAFIA DIALETTALE La presente grafia del dialetto bolognese è la OLM (Ortografia Lessicografica Moderna) messa a punto dai professori Luciano Canepari e Daniele Vitali, ormai usata dalla quasi totalità degli autori che pubblicano in dialetto. La descrizione completa dei segni diacritici e dei suoni corrispondenti è reperibile nel sît bulgnais ai seguenti indirizzi: www.bulgnais.com; www.bulgnais.com/grafia.html Direzione editoriale Roberto Mugavero Grafica e impaginazione Francesco Zanarini © Archivio Walter Breveglieri Tutti i diritti sulle fotografie sono riservati. Le immagini di questo volume sono protette dalle leggi sui diritti di copyright internazionale. La loro riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo, è vietata senza il consenso del detentore del copyright. L’immagine di pag.8 raffigura a sinistra un giovane amico, Marco Castellucci con il fratello gemello Gianni. Due veri “Cinni”. Ringraziamo per la gentile concessione. © 2010 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, vietata. ISBN 978-88-7381-341-5

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Claudio Bolognini

LE S TA G I O N I d e i c i n n i IL TEMPO SCORREVA LENTAMENTE TRA AQUILONI, FIGURINE DI CALCIATORI, SCUBIDU’, FLIPPER E MOTORINI, MENTRE QUALCUNO FACEVA ANCORA IL GIOCO DEL DOTTORE…

Traduzioni dei testi in dialetto bolognese a cura di

Fausto Carpani Prefazione di

Giancarlo Roversi Immagini storiche di

Walter Breveglieri

Minerva Edizioni



Cinni, cinazzi e cinazzini Giancarlo Roversi

“O

h, té, cínno, rîga bän drétt sinchenå t an inpèr mégga a fèr al lardarôl cum và!”: se penso a questa frase mi rivedo ancora,

adolescente, mentre ascoltavo il mitico salumiere Tugnoli a Porta Castiglione che redarguiva il suo giovanissimo fattorino. Sì perchè il fattorino era il “cinno” per antonomasia, quello che lavorava soprattutto nei negozi alimentari ma anche dal barbiere dove era addetto a spazzolare i clienti. E che, da grande, immancabilmente apriva la sua bottega e si metteva in proprio. Un percorso quasi obbligato. Questo era il “cinno” lavoratore, poi c’erano i “cinni” studenti, invidiati da quelli dell’altra categoria perchè ritenuti dei figli di papà, quindi dei mezzi vagabondi, che avevano tempo per divertirsi. E risento ancora la vecchietta affacciata a una finestra della natia Via dell’Oro gridare, con quel po’ di voce che le era rimasta in corpo: “Cínno, §mitî ed fèr tótt cal pulèr! Êla scupiè la guèra un’ètra vôlta?” E i “cinni” che, in un passato neppure tanto lontano popolavano tutte le strade minori di Bologna, “dl arm১d, dal plócc”, quello che oggi si direbbe del casino, ne facevano davvero tanto. “Cinno” era un termine affettuoso. Le mamme del popolo spesso si riferivano al figlio chiamandolo “cal cinno” là, insomma un birichino ma buono. Come affettuose erano tutte le storpiature, spesso italianizzate, per indicare i bambini, ossia “cinazzi”, “cinazzini”, che alludevano a “cinni” già sulla via dell’adolescenza e che avevano un sinonimo nel termine “ragazù”. I “cinni”, anzi sarebbe meglio dire i “cinno”, perchè in bolognese è una parola indeclinabile che indica sia il singolare che il plurale: “ciâma chi cínno ch’ai é bèle la mnèstra in tèvla”. Invece al femminile la “cinna” ha anche il plurale. 7



“Cinno” era anche usato come termine di paragone temporale. Le mamme redarguivano spesso i figli impazienti di crescere con la frase fatidica: “T an vadd che t î ancåura un cínno?”. Oppure, sgridando per qualche scemenza quelli già grandi, aggiungevano: “piântla! T an î mégga pió un cínno!”. Ma anche i “cinni” diventavano grandi e, incontrandosi, spesso si udiva un’altra frase comune: “Mo guèrda bän cum a t trôv in fåurma: t um pèr anc un cínno!”, alludendo all’aspetto giovanile sorprendentemente conservato. E spesso nelle persone già avanti negli anni i ricordi del passato non avevano un riferimento ben preciso, ma si riassumevano semplicemente in “quand che mé ai êra un cínno”.

Ma facciamo un passo indietro per calarci nell’atmosfera calda delle vecchie strade bolognesi piene di cinni, spesso organizzati in bande perennemente in lotta l’una con l’altra e impegnati a divertirsi con tanti giochi semplici, gli stessi che emergono plasticamente da questo libro: “cucco” (nascondino), “palla avvelenata”, “strega in alto” (a patto che ci fossero delle porte con lo scalino), “strega impalata”, i “mestieri muti” (una sorta di gioco dei mimi), “uno due tre per le vie di Roma” e i “passi degli animali” (inutile dire che chi comandava il gioco cercava di impedire, con un’abile quanto scontata alternanza di passi lunghi e brevi, avanti e indietro, che qualcuno arrivasse alla meta, evitando al massimo di ordinare i passi da elefante e preferendo vigliaccamente quelli da formica, che in realtà, nell’immaginazione furbesca dei “cinni”, assomigliavano ai passi di una specie mirmidonica gigantesca inesistente). Le “cinne” erano invece più riservate e quasi mai si mescolavano ai “cinni”. Esisteva una rigida separazione sessuale perchè così imponevano i genitori, la scuola e la mentalità imperante. I cinni da una parte con i loro giochi spesso sfrenati e le “cinne” da un’altra al massimo a giocare a luna, ma anche ai giochi maschili appena ricordati, più praticati in chiave sobriamente femminile. Ma erano tempi in cui non solo le bambine bensì anche le ragazzine arrossivano facilmente a sentire certe parole anzi non 9


avevano neppure il coraggio di pronunciarle o addirittura di fare delle allusioni...illecite. Quando lungo una strada o in un cortile si notava una frotta di “cinni” appollaiati sotto una finestra era segno che si faceva il gioco della “cójja”, ricordato brillantemente anche in queste pagine e su cui è inutile dilungarsi. Salvo ricordare che serviva a chi faceva i lanci dalla finestra per liberarsi di cose che non gli servivano a nulla, tutte di poco conto. Tutti ne erano consapevoli ma questi non intaccava il divertimento, preannunciato da urla ripetute: “Ala cójja, ala cójja!”. A volte il gioco si faceva un po’ pesante, soprattutto quando veniva gettato in strada qualche misterioso scartoccino che faceva rimanere di sasso chi riusciva a prenderlo perchè trovava avvolto nella carta solo quel prodotto umano che ha reso famoso il generale Cambronne! In questi frangenti le risate e i lazzi raggiungevano l’acme mentre la vittima giurava un’acerrima vendetta contro l’autore della maleodorante beffa. Più tranquilli erano il gioco con le biglie di terracotta, di una rotondità molto approssimativa (quelle di vetro colorato erano un lusso che non tutti potevano permettersi) e soprattutto il gioco dei coperchini. Teneva impegnate frotte di “cinni”, sdraiati lungo piste tortuose disegnate sotto i portici e tracciate nei cortili, tutti intenti a contendersi appassionatamente, a colpi di cricco sul bordo dei coperchini, la vittoria in immaginari giri ciclistici d’Italia o tour de France. Prima dell’inizio della gara c’era l’immancabile disputa per poter correre col nome dei campioni preferiti, quelli più in voga, in particolare Coppi e Bartali. Bisognava pronunciarne ad alta voce il nome prima che gli avversari facessero altrettanto e scatenassero poi una lunga contesa verbale. Ma per non correre rischi bastava pronunciare la parola magica “staga” (a volte rafforzata con “stâga” o “staghén” ) dopo il nome del corridore (“Coppi stâga”) e nessuno poteva più accampare pretese. Era una legge osservata da tutti e nessuno osava trasgredirla. Quello dei coperchini era un gioco fai da te, che non costava nulla perchè utilizzava i tappi delle bibite che i “cinni” andavano a razziare nei bar 10


con la classica domanda “ha coperchini?”. Una richiesta che impietosiva il barista e lo costringeva a vuotare fra le mani degli imberbi avventori la cassetta dei coperchini (a volte però si limitava a indicare il “bidone del rusco” dove tutti potevano andare a raspare, insudiciandosi spesso le mani coi fondi di caffè). I coperchini contenevano spesso il nome del corridore per cui si tifava e, a volte, in quelli più evoluti, anche la sua faccia ritagliata da una figurina e incorniciata dal sughero abilmente svuotato al centro, un lavoro da certosini che inorgogliva i “cinni” che l’avevano realizzato. Ma coi coperchini le piccole canaglie si divertivano anche in altri modi, soprattutto a metterli sulle rotaie del tram per appiattirli, scatenando l’ira dei manovratori. La loro rabbia raggiungeva il colmo quando, al posto dei coperchini, i “cinni” mettevano sotto le ruote del tram le castagnole che provocavano botti terribili e facevano sobbalzare di paura i malcapitati passeggeri. Le castagnole venivano scagliate anche fra i piedi delle “cinne” per spaventarle da morire. Non va dimenticato un altro “passatempo” dei “cinni”, quello di lanciare in qualche luogo affollato le fialette puzzolenti e la polvere da grattare per poi crepare dal ridere nel vedere le reazioni scomposte e adirate della gente e sentire le loro imprecazioni “I én stè chi malnétt ed chi cínno... s’a v guant a v chèv al còl!”: erano però colpi sparati a salve perchè in fondo le prime a divertirsi erano proprio le vittime. Come nel gioco del portafoglio legato a un filo di bava quasi invisibile e posato lungo un marciapiede o sotto un portico di fronte a una porta dove erano nascosti i “cinni” in attesa che qualche “pesce” abboccasse e si chinasse per raccoglierlo, quasi sempre con finta noncuranza. In quel preciso momento scattava fulminea la beffa: i “cinni” tiravano il filo lasciando con un palmo di naso il povero tapino cui non restava che sorridere o tutt’al più mandare qualche accidente ai bidonatori. Era un gioco innocente per adolescenti ancora semplici e senza troppe malizie, amanti della burla e che avevano gusto a ridere con poco. 11


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I più incalliti si divertivano pure ad attaccare le “Cîcles” (inizialmente si chiamavano così e non “cheving gum”) sulle sedie dei cinema, sui banchi di scuola o, peggio ancora, nei buchi delle serrature, causando non pochi rosari di invettive da chi se le ritrovava appiccicate. E si sollazzavano anche a suonare i campanelli, specie a sera tarda, per fare prendere uno spago alla gente. Oppure a rubacchiare i frammenti che si staccavano dalle barre di ghiaccio quando “al giazzarol” le tagliava a pezzi sul suo furgoncino per poi rifornire i “giazzarein” delle famiglie più benestanti (il frigorifero cominciò a diventare comune nelle case solo alla fine degli anni ’50). Oppure a compiere qualche blitz nei giardini delle ville collinari per fare man bassa di ciliege, giuggiole e “lazzarini” (minuscoli pomi selvatici). Se colti in flagrante tutto si risolveva con una sfilza di rimbrotti e minacce di chiamare i carabinieri e al limite qualche scappellotto. Salvo per chi era sorpreso a rubare le ciliege negli orti di S. Domenico, cui si accedeva scavalcano un muro accanto alla chiesa del Crocifisso del Cestello dove passa ora via S. Domenico. Chi veniva colto sul fatto era costretto a sorbirsi una bella confessione con relativa penitenza impartita da qualche zelante frate predicatore. Chi scrive non ha mai corso questo rischio perchè era il “cinno” incaricato di fare il “palo”. Le cose si complicavano quando, giocando a pallone per strada o in cortile, i “cinni” mandavano in frantumi qualche vetro. Dopo le sgridate di rito c’era l’immancabile strascico del “cinno” preso per le orecchie o stretto a un braccio e portato dai genitori per ottenere il pagamento del vetro rotto. Per lui i guai seri venivano dopo e talvolta comportavano, oltre alla classica ramanzina, qualche bella cinghiata. Ma a parte questi giochi “violenti” i “cinni” praticavano anche svaghi più innocui. Nelle vie e nei cortili di Bologna giocavano anche con le figurine, non solo a “Carta e fìgura”, ma anche a scambiarsele per portare a termine una collezione. La prima degli anni ’50 fu quella degli animali, che diventò una sorta di fenomeno sociale, di contagio collettivo, che coinvolse anche le famiglie e che, per scambiare i doppioni, aveva punti di riferimento presso 13


i barbieri, i caffè e altri negozi. I “cinni” facevano la fila per trovare le figurine mancanti e cedere le doppie, spesso scambiandole non alla pari, ma due e o tre contro una in modo da riuscire a terminare la raccolta che comprendeva 600 figurine. Partivano dagli animali preistorici e venivano vendute in bustine azzurre nelle edicole, che a volte fungevano esse stesse da luogo di scambio. I “cinni” giocavano anche a tirare giù i soldatini di piombo o di legno compensato con una biglia, oppure si divertivano con l’arco ricavato dai rami più elastici di acacia o sambuco (però era poco resistente) incurvati e fissati con un elastico che permetteva di scagliare una freccia ossia un bel bacchetto appuntito. Era un passatempo di nessuna spesa purchè si avesse a portata di mano un giardino con qualche pianta da cui staccare una fronda (ma i vigili, la terribile e odiata “pulla” come la chiamavano i “cinni”, ai Giardini Margherita facevano la posta ai monelli che si avventuravano nel boschetto verso via Sabbioni alla ricerca di tralci). Al posto dell’arco le altre “armi” dei “cinni” erano il “tirino” e la cerbottana. Il “tirino”, ossia la fionda, si costruiva con una forcella di legno, ricavata da uno degli innesti dei rami di qualche pianta di buona resistenza e poi fissata alle due estremità con un elastico robusto. In sua mancanza bastava una camera d’aria da biciclette (in genere fornita da un meccanico amico o da un vulcanizzatore) nel cui centro si applicava un pezzetto di pelle che serviva per stringere il sassolino quando si lanciava (e che a volte mandava in frantumi i vetri delle finestre). Per disporre di una cerbottana senza spendere un soldo bastava trovare un tubo di diametro abbastanza ridotto entro cui infilzare le frecce, rigorosamente arrotolate a mano con i fogli dei quaderni di scuola e saldate con un po’ di saliva. Le più sofisticate e pericolose avevano uno spillo fissato sulla punta che permetteva di conficcarle contro un bersaglio durante le gare che i “cinni” facevano per vedere chi era il tiratore più abile e dotato di maggior fiato perchè questa era la dote più importante. Ma non di rado, 14


tirandole solo con un filo di fiato, servivano per punzecchiare nel sedere le “cinne” o qualche “nemico”, con lo stesso effetto di una puntura. L’arco, le cerbottane e il tirino erano anche l’ equipaggiamento indispensabile per giocare a guardie e ladri o a pellerossa e indiani. Ma non basta. I “cinni” si dilettavano anche a scarabocchiare i muri. Non erano certo paragonabili ai graffitari di oggi. Anche perchè si usava solo il gessetto bianco, sottratto a scuola, o un pezzetto di carbone. E poi perchè gli sgorbi erano pochi e molto ingenui. Le timide scritte alludevano a una tresca d’amore o inneggiavano alla cinna amata segretamente o lanciavano insolenze contro qualche rivale o qualche insegnante detestato o soprattutto contro la tal squadra o il tal campione sportivo in una spiritosa alternanza W di W e a seconda della fazione di appartenenza. Nelle iscrizioni murarie i “cinni” avevano una predilezione per “l’asino chi legge” con l’immancabile aggiunta vendicativa: “...e chi l’ha scritto”. L’offesa maggiore, per chi vedeva il suo nome bersagliato in una scritta, non era rappresentata dagli epiteti oltraggiosi o scurrili, il peggio del peggio era sentirsi definire “lózz”, un insulto che i “cinni” si lanciavano anche a voce durante un litigio e che nel loro immaginario significava il concentrato di tutte le ingiurie possibili (ma forse corrispondeva alla traduzione dialettale di luccio, il che fa abbastanza sorridere, ma nessuno ci pensava). I “cinni” di una volta erano anche intraprendenti. Dopo le elezioni staccavano i manifesti, li inzuppavano nell’acqua e facevano delle palle da vendere a chi riscaldava le case con la stufa, la vecchia cucina economica. Facevano i raccattapalle al Circolo del Tennis dei Giardini Margherita, svuotavano le barche del laghetto per poche lire. E quando ogni estate veniva prosciugato per ripulire il fondale, andavano a piedi nudi fra il fango e le pozzanghere a catturare i pesci rossi che poi rivendevano alle famiglie dei dintorni di Porta Castiglione, guadagnando un piccolo gruzzolo (dietro l’assicurazione che i pesciolini sarebbero vissuti a lungo mentre, messi in un vaso e privati del loro habitat naturale, morivano dopo pochi giorni). 15


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I “cinni” “lavoravano” anche per la chiesa: in occasione dei funerali andavano in cotta con ceri in mano assieme al parroco a prendere i morti nelle loro abitazioni per condurli alle esequie in chiesa, portavano nelle case l’olivo durante la domenica delle Palme e l’acqua benedetta la vigilia di Pasqua quando venivano slegate le campane ed era usanza bagnarsi gli occhi e farsi il segno della croce. Per tutti questi “servizi” i “cinni” guadagnavano sempre qualche soldino. Pare ancora di sentire il cappellano dire al vecchio sagrestano: “Ciâma dänter chi cínno ch’i s métten la còta e la stanèla e ch’i tójjen sîg äl candail ch’andän a tôr al môrt”.

Queste sono solo alcuni spunti di vita vissuta riverberate dai ricordi personali. Molti e molto più umorosi e vibranti sono quelli raccolti in questo libro fresco e vivo anche se volge il suo sguardo al passato. E’ un film dell’infanzia e della prima adolescenza per tanti bolognesi, quasi un bagno catartico che ci riporta dall’oggi, così pieno di stimoli di ogni genere e di frenesie, a ieri così ricco di valori, di cose semplici ma che, pur fra tante sofferenze, non mancavano di fascino e di soddisfazioni. E’ un libro che ci fa riappropriare di abitudini perdute, che ci fa rivivere tranche de vie che ci appartengono e che sembrano risalire alla preistoria mentre sono appena di ieri e in cui tutti coloro che hanno attraversato gli ultimi sessant’anni possono riconoscersi e immedesimarsi. E’ un mondo da non rimpiangere ma da ripensare con uno sguardo bonario perchè il passato, per quanto bello, rischia di venire trasfigurato come una sorta di età dell’oro mentre era pieno di difficoltà e i “cinni” non vedevano l’ora che il tempo passasse velocemente. Non bisogna insomma rifugiarsi in quello che erroneamente continuiamo a chiamare buon tempo antico, bisogna solo ripercorrerlo sorridendo, come ci invita a fare questo libro, senza dimenticarsi di progettare il futuro. Se è vero, come dicono alcuni, che siamo programmati per toccare i 120 anni, anche chi oggi ha superato la sessantina o la settantina si trova solo a metà del cammino quindi è ancora un “cinno, ed Bulagna” naturalmente. 17


Un giovanissimo Fausto Carpani a Budrio sul muturĂŠn MV dello zio Giovanni. Un vero cinno!


Prologo Claudio Bolognini

l tempo dei cinni i mesi scivolavano lentamente, settimana dopo settimana, giorno dopo giorno, ora dopo ora, persino i minuti duravano un’eternità e le stagioni, come d’incanto, recavano con sé una nuova meraviglia. Il primo giorno dell’anno era riservato agli auguri casa per casa. Era concesso unicamente ai maschi perché tutti dicevano che le femmine portavano sfortuna solo a vederle per strada. La notte più lunga era quella in attesa della Befana. Qualcuno giurava di averla vista aggirarsi tra le tegole dei tetti, con il sacco stracolmo di regali e la scopa tra le gambe. In genere appariva sul tetto della vecchia casa dei nonni. I nonni avevano l’orologio a cucù, con le catenelle di metallo e due pesi a forma di pigne. L’uccellino dell’orologio appariva e spariva tanto rapidamente, che nessuno riusciva mai ad osservarlo con attenzione. Erano gli anni in cui il tempo aveva un suo valore e ogni secondo veniva scandito da orologi autorevoli e chiassosi come la sveglia di metallo con il suo implacabile ticchettio. Quasi a rimarcare che il tempo deve essere assaporato lentamente, con giudizio. Tutto era cadenzato dal lieve mutare della natura, gli unici orari rigidi erano quelli del pranzo e della cena, che un bambino saltava se aveva fatto il birichino finendo a letto senza mangiare, per punizione. Ma dietro l’angolo c’era sempre un nuovo e stupefacente gioco. I giochi arrivano all’improvviso. Appariva il primo fucile a elastici? Ecco che di colpo ne sbucavano decine per poi scomparire all’arrivo di una nuova cerbottana, un tirino o un cariolino di legno. Quei giochi, una volta abbandonati, attendevano pazientemente l’anno successivo per ricomparire puntuali, come la neve a Natale o il solleone in agosto.

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Con la bella stagione i mille giochi all’aperto, ritornavano con eccitata semplicità. Come sospinti da un medesimo richiamo, tutti s’accingevano a fare gli stessi giochi: giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, quasi fossero fasi storiche. La fine dell’estate era decretata dalle prime radiocronache di tutto il calcio minuto per minuto. L’inizio ufficiale dell’autunno, invece, era sancito dal primo giorno di scuola. Anche se il calendario gregoriano reclamava sin dal ventuno di settembre il suo diritto alla stagione autunnale, il primo d’ottobre, con l’apparire dei primi scolari, ufficializzava l’inizio dell’autunno. Prima, infatti, era sempre e comunque estate perché estate stava a significare “vacanze scolastiche”. Il grappolo d’uva si mangiava solo in autunno, le ciliegie solo a maggio e solo come premio. Le fragole si mangiavano unicamente a fine aprile e non tutto l’anno, ogni stagione portava con sè il suo esclusivo sapore. Le stagioni avevano qualcosa di prodigioso e mentre il tempo scorreva lentamente, i cinni iniziavano ad affacciarsi sull’uscio del mondo degli adulti. Guardavano con ammirazione il cinquino con le ruote larghe, iniziavano a giocare a flipper e sbirciavano qualche bella signora mentre faceva intravedere le cosce. Qualcuno provava persino a fumare una sigaretta, mentre qualcun altro faceva ancora il gioco del dottore, cercando di arrivare in fretta all’audace momento della puntura.

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Autunno - Autón Asino chi legge Ottobre arrivava sempre all’improvviso. Il primo giorno del mese la gente si soffermava ad osservare i primi alunni, accompagnandoli con lievi espressioni di compiacimento. Molti scolari erano scortati dalla mamma, anche se la maggior parte ne faceva volentieri a meno. Alcune madri, infatti, sgridavano i figli davanti a tutti anche con energici smatafloni. Altre, invece, s’attardavano a sistemare i capelli del figlio con un pettine tascabile. Ecco perché tutti preferivano andare a scuola da soli. Le femmine si contemplavano a vicenda il fiocco rosa sul colletto bianco inamidato, i maschi erano eccitatati perché di lì a poco poteva avere inizio il campionato di tiro con il pennino. Sul poggiapiedi del banco di legno, veniva disegnato un bersaglio con cerchi concentrici. Ad ogni circonferenza corrispondeva un punteggio, che aumentava gradualmente verso il centro. La cannetta con il pennino veniva lanciata verso il punteggio più ambito. Quando la penna a biro soppiantò la cannetta, il pennino e il calamaio, questi campionati terminarono tristemente. Ma i cinni ne sapevano una più del diavolo e persino di tutti i provveditori scolastici. La biro ha un’anima dove c’è lo stecchino in plastica dell’inchiostro e la sfera con la punta. Allora basta sfilare lo stecchino e introdurre una piccolissima pallina di carta accartocciata con lo sputo. Poi con un rapido soffio bisogna lanciare la pallina con quella cerbottana improvvisata. Qualcuno arrivò ad usare persino chicchi di riso come proiettili. Ma il gesso scorreva impietoso sulla lavagna e segnava puntualmente i buoni e i cattivi. 23


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Una volta in castigo dietro la lavagna, allo scolaro birichino restava una sola possibilità di vendetta. “ASINO CHI LEGGE”, era la scritta impertinente che la maestra trovava dopo aver girato ignara la lavagna.

Sumâr chi lè< Utåbber l arivèva sänper ed pâca. Al prèmm dal mai§ la <änt, con la fâza tótta sudisfâta, i s afarmèven a §barlucèr i prémm sculèr. Dimónndi sculèr i êren custudé dala mâma, anc se par la pió i arên preferé èser da par låur. Socuanti mamà, defâti, i bravèven i fiû in fâza a tótt, §lungändi anc di bî §mataflón. Däli ètri, invêzi, i andèven sänper d lóng a ajustèr la cavièra di fiû con un pnén da bisâca. Ecco parché tótt i arénn preferé andèr a scôla brî§a acunpagnè. Äl fàmmen äl s cuntrulèven ónna con cl’ètra al fiòc rô§a in vatta al sulén insaldè, i mâsti i êren in §var<ûra parché al stèva par cminzipièr al canpiunèt ed tîr con al penén. In vatta al pogiapî dal banc ed laggn, i d§gnèven un barsâi con i sû bî zîrc’ tónnd. Ògni zairc’ l avèva al sô puntàgg’, sänper pió èlt ed man in man ch’a s andèva vêrs al zänter. La canatta con al pnén la dvintèva una frazza da lanzèr vêrs al tundén ed zänter coi pónt pió èlt. Quand la panna “bîro” la ciapé al sît dla canatta, sti canpiunèt i fónn méss int al panirån ed Cúccoli. Mo i cínno i êren pió fûrb dal dièvel e parfén di mésster. La bîro l’à un’ânma ed plâstica con l inciòster e la pónta par scrîver. Alåura bastèva tirèr vî cl’ânma e insfilzèr int la panna vûda una balé@na d chèrta inpatachè col spudâc’. Pò, con un bèl supiòt, a se sparèva adruvandla cómm una cerebotèna ciné@na. Zertón, cme cartócc’, i adruvèven anc däl grèn ed rî§. Purtròp, però, al <àss an guardèva in fâza a inción e al sgnèva int la lavâgna i nómm di bón e di catîv. S’l arivèva in castîg drî dala lavâgna, al sculèr birichén l avèva såul una manîra par vendichères. 24


LE STAGIONI dei cinni

«ASINO CHI LEGGE» l’êra la scrétta scuajunè che la masstra la catèva quand la prilèva cl’ètra fâza dla lavâgna.

Tutto il calcio minuto per minuto La domenica pomeriggio in tanti tenevano la radiolina transistor incollata all’orecchio. La trasmissione preferita era “Tutto il calcio minuto per minuto” dove, se la squadra del cuore vinceva, bisognava brindare con Stock 84 e se perdeva ci si poteva sempre consolare con Stock 84. Erano gli anni in cui il portiere poteva toccare il pallone con le mani in ogni situazione, le partite finivano esattamente al novantesimo minuto e le maglie dei giocatori avevano i numeri che andavano rigorosamente dall’uno all’undici. I difensori centrali si chiamavano “stopper” e “libero”. Lo stopper stava incollato al centravanti avversario e il libero, invece, se ne stava dietro a tutti, un paio di metri davanti al proprio portiere. A quel tempo se un calciatore giocava male non poteva essere sostituito, e se qualcuno s’infortunava doveva restare stoicamente in campo; al massimo veniva confinato all’ala destra, per non fare danni. I bambini si entusiasmavamo nel sentire declamare i nomi dei calciatori. Lavorando con la fantasia tutti cercavano di allestire una super formazione in grado di affrontare le più forti squadre del mondo e tutti i calciatori dell’universo, persino i marziani. Il più lesto ingaggiava Pelè e gli altri Sivori o Altafini; se per il ruolo di portiere c’era chi aveva già preso Yascin, restava sempre Pizzaballa; ma se per la difesa qualcuno si era assicurato Guarneri o Salvatore, nessuno si sognava di indicare Niccolai. Comunardo Niccolai era lo stopper del Cagliari, il mitico Cagliari di Riva, Boninsegna e Nenè. Pur essendo un discreto difensore, in un determinato periodo della carriera, manifestò un nefasto difetto: segnava gol nella sua stessa porta. Allora chiunque provocasse un’autorete diventava immediatamente Niccolai. Anche chi giocava a pallone in strada, in cortile o nel campetto parrocchiale, se disgraziatamente buttava la sfera nella propria porta veniva chiamato Niccolai, inesorabilmente.

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LE STAGIONI dei cinni

Tutto il calcio minuto per minuto La dmanndga dåpp me<dé, in tant i tgnèven la radiulé@na inpatachè al’uraccia. A i êra la tra§misiån “Tutto il calcio minuto per minuto” dóvv, se la scuèdra preferé la vinzèva, l êra d òblig festegèr bvänd un cicàtt ed Stock 84 e s’l’avèva ciapè la pèga a s psèva båvver l istàss par cunsulères. In chi ân, al purtîr al psèva tuchèr al balån col man in tótt i chè§, äl partîd äl finèven dåpp nuvanta minûd prezî§ e äl mâi di <ugadûr äl i avèven i nómmer ch’i andèven sänper dal ón al ónng’. Quî ch’<ughèven in mè< ala difai§a i s ciamèven “stopper” e “libero”. Al stòpper al stèva inpatachè al zäntravanti aversèri e al lébber, invêzi, al stèva de drî da tótt, una ciòpa ed mêter dnanz al sô purtîr. A chi ténp, se un <ugadåur al <ughèva mèl an i êra inciónna sostituziån e se ón al s fèva mèl al tgnèva bòta e l avanzèva in canp; al mâsum i al mitèven al’èla dèstra pr an fèr di dân. I ragazû, int al sénter dîr i nómm di canpión, i mitèvn insàmm un gran murbén. Lavurànd ed fanta§î tótt i fèven la sô scuèdra inbatébbil ch’la pséss cunbâter i pió gran scuadrón, anc s’i fóssen stè fât ed marziàn. Al pió §vêlt al tulèva Pelè e chi èter Sivori o Altafini; se in pôrta i avèven bèle ingagè Yascin, a i avanzèva sänper Pizzaballa: mo se par la difai§a quèlc d ón l avèva bèle tôlt Guarneri o Salvatore, inción s insugnèva ed dlî<er Niccolai. Stu-qué, ch’l avèva nómm Comunardo, l êra al stopper dal Cagliari, al gran squadrån ed Riva, Boninsegna e Nenè. Anc s’l êra un difensåur discrêt, par socuànt ân al pistèva däl bèli buâz: al fèva di gran gol, però... int la sô pôrta! Alåura tótt quî che par d§grazia i mitèven al balån däntr ala sô pôrta, i vgnèven sóbbit ciamè Niccolai. E quasst suzdèva anc quand as <ughèva par la strè, int i curtîl o int al canpàtt dla paròchia.

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Claudio Bolognini

Il camion della legna Il camion della legna arrivava in sordina sbucando dalla curva in fondo alla strada. La notizia, però, si spargeva in fretta e tutti accorrevano a curiosare. Mentre il legname scivolava rumorosamente dal cassone, una piccola nube con intenso odore di legna accoglieva i primi ficcanaso. In mezzo alle cataste c’era sempre qualche pezzo dalla forma strana che attirava l’attenzione dei bambini. Ma il momento più emozionante era quello della sega. Il camion, infatti, non portava solo legname ma recava anche la pericolosa mola dentata con il motore. I bambini piccoli non dovevano nemmeno avvicinarsi e quelli più grandicelli erano guardati a vista. Quando il pezzo di legno veniva tagliato con quel tipico stridore, tutti facevano smorfie con la bocca stringendo con fastidio gli occhi. Alla fine rimaneva soltanto un mucchio di sgadizza, che a prima vista sembra assomigliare alla segatura, ma è tutta un’altra cosa. Con la segatura si fanno tante cose utili, la sgadizza invece si adopera sull’ingresso delle botteghe quando piove o nevica, oppure trabocca nel cervello dello scolaro negligente.

Al câmios dla laggna Al câmios dla laggna l arivèva zétt e chiêt spuntànd dala vultè in fånnd ala strè. La nôva, però, la se spargujèva int un spéll e tótt i arivèven par §braghirèr. In st’mänter che l algnâm al §guilèva vî dal casån con un gran armåur, una nuvlatta con un gran udåur ed laggna la dèva al bänvgnó ai prémm feccanè§. Stramè< al mócc’ ed laggna a i êra sänper di vèg pîz ch’i tirèven l òc’ di cínno. Mo al mumänt pió da emoziån l êra quall dla saiga. Al câmios, defâti, an purtèva brî§a såul la laggna mo l avèva sîg anc la saiga tånnda, col sô mutåur 28


LE STAGIONI dei cinni

priglåu§. I fangén pió cén i n vèven gnanc da av§inères e quî pió grandén i êren sänper såtta cuntròl. Quand al pèz dla laggna al vgnèva tajè con cal sô zirlèr caraterésstic, pr al fastîdi tótt i fèven di gróggn e i strichèven i ûc’. Ala fén a i avanzèva såul una móccia ed §gadézza gròsa, ch’la n êra brî§a cme cla fé@na. Con la fé@na as fà tant quî óttil, mo cla gròsa la s adrôva da métter dnanz al butaig pr an §bli§ghèr quand al piôv o al naiva, o... la pôl anc saltèr fòra dal zarvèl d un sculèr zucån.

La bottega del barbiere La bottega del barbiere era aperta anche la domenica mattina, difatti molti clienti amavano farsi radere nel giorno di festa. Il barbiere affilava il rasoio a mano libera sulla striscia di cuoio, che stava attaccata alla poltroncina. Il cliente, tra una chiacchiera e l’altra, doveva soltanto tenere in mano la schedina della Sisal che serviva per ripulire la lama dalla schiuma. I cinni andavano malvolentieri dal barbiere. Non sopportavano farsi tagliare i capelli con la macchinetta, che scorticava il coppino senza pietà. L’unica consolazione restava quella di poter salire sul cavallino di metallo. Man mano che i cinni crescevano, però, nella bottega del barbiere trovarono altri motivi d’interesse. L’oggetto più ricercato era il calendarietto con le donne nude. Era piccolo come un biglietto da visita, stava dentro una bustina trasparente dalla quale spuntava un cordoncino con il fiocco. Era profumato con un aroma delicato, accattivante e misterioso come quei volti che sorridevano da quelle paginette per dodici lunghi e intriganti mesi. Il barbiere allungava l’ambita strennina con un cenno malizioso, quasi conoscesse personalmente quelle signorine inarrivabili. 29


Claudio Bolognini

I calendarietti finirono un po’ in disparte quando sul tavolino del barbiere, nascoste nel ripiano inferiore, trovarono posto le riviste proibite dai nomi accattivanti ed esotici.

La butaiga dal barbîr La butaiga dal barbîr la stèva avêrta anc ala dmanndga maté@na, defâti dimónndi cliént i andèven a fères la bèrba int i dé d fèsta. Al barbîr l aguzèva al ra§ûr a man lébbra int la curamèla ed curâm atachè ala pultrå@na. Al cliänt, stra una ciâcra e cl’ètra, l avèva såul da tgnîr in man la schedé@na dl Sî§al ch’la vgnèva adruvè par pulîr al ra§ûr dla stiómma dal savån. Quand a i êra da andèr dal barbîr, i cínno i tirèven al cûl indrî. I n supurtèven brî§a ed fères tajèr i cavî con la machinatta, ch’la scurtghèva al cupàtt sänza pietè. L’ónnica cunsulziån l’êra qualla d andèr a scavalózz dal scranén fât cunpâgna un cavalén ed metâl. D in man in man che i cínno i carsèven, però, dal barbîr a i êra di èter quî ch’i i intarasèven. Al quèl pió rizarchè l êra al calendarién col dòn nûdi (o què§i). L êra cinén cme un bigliàtt da vî§ita, méss dänter a una busté@na trasparänta d’indóvv a i spuntèva un curdunzén con un fiucàtt. L avèva un bèl prufumén delichèt, senpâtic e misteriåu§ cunpâgna cäl fâz ch’i regalèven di surî§ da cäl pâgin ed calendarién, par dågg’ mî§ lóng e da insugnères. Al barbîr al §lunghèva al regalén tant gradé con un surî§ maliziåu§, què§i ch’al cgnuséss ed parså@na cäl bèli fàmmen. I calendarién i fónn méss un pô da una banda quand in vatta al tavlén dal barbîr, un pô arpiatè int un pian bâs, a i arivé i giurnèl pruibé, con di nómm furastîr e senpâtic.

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