LESSICO INATTUALE. Un conservatore davanti al pensiero unico

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Lessico inattuale

Un conservatore davanti al pensiero unico



GENNARO MALGIERI

Lessico inattuale

Un conservatore davanti al pensiero unico

Minerva Edizioni


Collana La Nottola di Minerva diretta da Gennaro Malgieri

LESSICO INATTUALE Un conservatore davanti al pensiero unico Gennaro Malgieri

Direzione editoriale: Roberto Mugavero Editing, grafica e impaginazione: Sara Celia

© 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN: 978-88-7381-543-3 MINERVA EDIZIONI Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com


PREFAZIONE Una biografia interiore

Quando Nietzsche scrisse le Considerazioni inattuali sapeva di lottare invano contro il suo tempo ma sapeva anche che il tempo – che per sua natura conserva e innova – gli avrebbe riconosciuto qualcosa di più dell’onore delle armi. Lasciando cadere paragoni impropri, qualcosa del genere accadrà anche con gli scritti di Gennaro Malgieri che si portano dietro fin dal titolo la consapevolezza di essere “inattuali”. Il lettore che, a suo rischio e pericolo, si avventurerà in queste pagine avrà modo di toccare con mano. Quando un bel po’ di anni fa, ormai, iniziò l’avventura de L’Indipendente – quotidiano che vide poi lo stesso Malgieri assumerne la direzione – si scelse come frase del primo numero da collocare sotto la testata un celebre aforisma di George Orwell: «Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario». Il senso del Lessico inattuale è proprio questo ed è detto fin dalle prime righe in modo diretto e chiaro: si prova a «mettere alcune idee a posto» con la «rivisitazione delle parole» perché viviamo «in tempi di stravolgimenti concettuali e lessicali». L’esercizio che Malgieri fa non è né unico né raro; si potrebbe sostenere, con buone motivazioni, che sia una pratica abituale alla quale nessuno può sottrarsi. Ognuno di noi prova, nella sua quotidianità, a mettere un po’ di ordine nel gran guazzabuglio delle idee attraverso il buon uso delle parole. Allora, la novità del libro di Malgieri qual è? La vita. Proprio così. Perché una volta, e non per sempre, messe le idee a posto – formula che somiglia molto a quella che dice «mettere la testa a posto» – ecco presentarsi subito l’esigenza pratica che esige che si viva secondo quelle 5


Prefazione

idee. La novità di Malgieri, anzi, sia detto senza infingimenti, la novità del mio amico Gennaro risiede proprio qui: non solo nel pensare da conservatore ma anche agire e vivere da conservatore. Il testo, in fondo, è qui un pre-testo nell’almeno duplice significato della parola: è un’occasione che rinvia ad altro – la vita morale effettivamente vissuta – ed è il precedente o il fatto di cui il testo aspira ad essere una ricostruzione, una messa a punto e, insomma, un giudizio. Detto in tre parole: dalla vita al pensiero alla vita. Scrivo volentieri queste poche righe di prefazione perché le pagine che seguono non sono di uno studioso, di un accademico, di un professore ma di un uomo che viaggia e guarda il mondo vario in ciò che appare, in ciò che scompare, in ciò che resiste, in ciò che principia. Sono le parole di uomo che ha praticato e pratica il giornalismo come forma di conoscenza per illuminare una vita che chiede luce per essere vissuta umanamente. Le parole “inattuali” hanno origine non da parole ma da concetti che sorgono dalla vita. Il libro, con le sue parole-chiave che altro non sono che i cari vecchi concetti, ha molto di autobiografico ed è questa caratteristica a renderlo sensato. Conoscendo gli altri libri di Malgieri so che i suoi scritti sono la sua biografia interiore. Il Lessico può essere letto (quasi) come un dizionario. Si può scorrere l’indice e soffermarsi sulla parola che più interessa o tiene desta l’attenzione o – perché no – la curiosità. Per ragioni che il lettore scoprirà da sé, io ho iniziato a leggere il libro dalla parola Calcio. Anche qui Malgieri non parla per sentito dire ma per aver calcato i campi di calcio fin da ragazzino e per aver continuato a coltivare la passione per il pallone anche in età adulta. L’esperienza calcistica, una volta provata con passione e ragione, non va più via dall’anima anche se i piedi non sono più in grado di star dietro alla palla, mentre il pensiero è ancora in campo dietro alla vita che, per dirla con Vladimir Dimitrijevic, è un pallone rotondo. L’idea, infatti, che il calcio sia la metafora della vita va capovolta: è la vita la metafora del calcio. La 6


Giancristiano Desiderio

dimensione del gioco, diversamente da quanto si sia portati a credere – ma la caratteristica del libro è, appunto, la messa in questione dei luoghi comuni che sono forme di pregiudizi diffuse e irrobustite dall’informazione – fa parte della concezione che il conservatore ha della vita. La modernità pensata fino in fondo altro non è che un sistema di sicurezza in cui la astratta e metodica razionalità umana è impiegata sull’essere nelle sue varie forme: la vita biologica, la vita spirituale, la vita pubblica. Un sistema di sicurezza che va sotto il nome di Scienza: l’orgoglio e il vanto del mondo occidentale. Tuttavia, capovolgendo un noto detto del quale spesso si abusa, si potrebbe dire che là dove cresce ciò che salva c’è il pericolo. Il sistema di sicurezza è tale se non è estremizzato fino a coincidere con la vita e la vita del pensiero. Quando questo accade – e accade – la sicurezza diventa una minaccia e gli uomini diventano vittime delle loro tracotanti illusioni. L’idea che la tecnologia possa risolvere ogni problema è la fonte della de-responsabilizzazione di massa del nostro tempo – tempo soprattutto italiano – e ci impedisce di usare al meglio la stessa tecnica, mentre ci ritroviamo scientificamente a fare i conti con le normali e quotidiane emergenze. Il gioco mette questa estrema minaccia in fuorigioco e mostra con leggerezza e la forza stessa dell’esperienza che l’uomo per poter vivere – giocare, «giocare a pallone» come dicevamo da ragazzini – non può essere il padrone assoluto della vita, come il giocatore per poter giocare non può essere il padrone assoluto della palla. Il tentativo di uscire dalla tracotanza del pensiero come dell’azione è la via per accedere a una vita nazionale più decente e normale. In questi scritti di Gennaro Malgieri c’è questa idea o convinzione che qualcosa vada conservato o, ancor meglio, custodito come si custodisce un dono che ci è stato trasmesso e solo temporaneamente è nostro e aspiriamo a trasmetterlo nella successione dei tempi e delle mani. Mi fermo qui. Una prefazione non può e non deve dilungarsi oltre misura. Aggiungo solo un’ultima considerazione ossia che 7


Prefazione

molte delle parole qui riprese e riusate da Malgieri sono una sorta di rivolta ideale contro il suo stesso mondo, quel giornalismo che ha smarrito ciò che gli dovrebbe appartenere per nascita: l’onestĂ se non il senso delle parole. Giancristiano Desiderio

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PREMESSA

Tentare di mettere alcune idee a posto attraverso la rivisitazione delle parole è una tentazione comprensibile, spero, in tempi di stravolgimenti concettuali e lessicali. Ad essa non ho saputo, né voluto resistere: più per amor di polemica contro le falsificazioni abituali a cui siamo costretti a soggiacere che per ristabilire il corretto uso dei termini in relazione ai concetti che esprimono. Ne è venuto fuori un piccolo dizionario “inattuale” nel quale è pure condensata una visione del mondo in contrapposizione al sistema della menzogna che delle parole si serve per nascondere la verità di pensieri usati in maniera impropria. L’intento è scopertamente e provocatoriamente ideologico nella speranza più di irritare che di compiacere. Infatti il linguaggio della verità non è fatto per farsi amare ai nostri giorni e chi cerca il facile consenso è meglio che si tenga le fumisterie che lo appagano. Chi scrive è un conservatore a cui il destino ha riservato il privilegio di far parte di una minoranza, talvolta perfino ghettizzata, a cui importa poco risultare intellettualmente gradevole a chicchessia. Non v’è superbia in questo atteggiamento, ma soltanto una onesta rivendicazione del diritto a non cantare nel coro e a non invocare comprensione per lo spirito reattivo che lo motiva a fronte del conformismo che ha finito per negare l’evidenza di idee che si ritenevano immodificabili attraverso parole che invece ne hanno mutato l’essenza. Percorrendo le strade della modernità a chiunque è data la possibilità di riconoscere gli abusi che si compiono nell’utilizzo perfino delle parole più comuni dalle quali discendono distorsioni concettuali che appaiono francamente inaccettabili. Ma per quieto 9


Premessa

vivere o per pigrizia lo scempio viene tollerato al punto che quasi nessuno più ormai lo considera tale. Perciò credo sia molto più utile di specifici trattati un piccolo lessico che contribuisca, con qualche perdonabile (spero) ambizione, a mettere alcune idee a posto o, almeno, a contestare la strumentalizzazione delle stesse che specialmente la politica, il giornalismo, la sociologia ne fanno utilizzandole ben al di là del loro significato originario con parole che ne mutano addirittura i significati o quantomeno li restringono fino a renderli incomprensibili. Sono soprattutto termini di uso corrente che vengono maneggiati per uno scoperto fine di parte ingannando il fruitore o, nella migliore delle ipotesi, avvolgendolo in una cortina fumogena: le “parole-chiave” che qui vengono prese in considerazione sono tra le più abusate dal cosiddetto “pensiero unico” contro il quale muove il tentativo di sottrarle alla sua egemonia stabilita con l’ausilio della cultura televisiva e del Web impostasi in forme che definire totalitarie non è affatto esagerato. Infatti, il dogmatismo ideologico contemporaneo (tutt’altro che morto e sepolto, come vorrebbero gli apologeti della “fine della storia”) vorrebbe che la democrazia si trasformasse progressivamente nell’accettazione indifferente di meccanismi di costrizione delle volontà fondate sulla sollecitazione dei bisogni. E pertanto dovrebbe essere buono e giusto tutto ciò che viene comandato attraverso la grande informazione inevitabilmente ispirato ai precetti della finanza e dell’economia, cioè del mercato inteso non solo come terreno di gioco senza regole, ma più ancora come arbitro unico ed indiscusso del gioco medesimo. Da qui la polemica ricorrente nel Lessico contro le distorsioni del profitto e l’assolutismo del materialismo pratico. Il “pensiero unico”, così come si è configurato nel corso degli ultimi vent’anni attraverso l’apporto di correnti intellettuali apparentemente opposte eppure convergenti nel medesimo fine di smascherarne il progetto totalitario, è l’ideologia di riferimento di quanto appena richiamato. Ed ha un obiettivo preciso: il dominio della realtà “veicolato” da un nuovo tipo di universalismo laico. In 10


Gennaro Malgieri

tale ideologia si incontrano l’egualitarismo, il relativismo morale, la soggezione dei sentimenti, delle emozioni e delle passioni ai bisogni, l’interesse indotto verso l’inessenziale. Uno dei chierici più illustri del “pensiero unico”, Alain Minc, qualche anno fa scrisse: «Il capitalismo non può crollare, è la condizione naturale della società. La democrazia non è la condizione naturale della società. Il mercato sì». È doverosa una reazione culturale alle conseguenze di un’affermazione di questo genere dalla quale origina il malessere contro il quale pur si dice di opporsi da intellettuali e politici che poi finiscono per accettare un tale assunto e ciò che produce proprio attraverso uno spossessamento delle idee attraverso la menzogna del linguaggio. Ecco, dunque, che se un conservatore si pone davanti al “pensiero unico” non può che portarvi le proprie esperienze e la propria visione del mondo e della vita contrapponendogli l’essenza spirituale che motiva la contestazione a quello che appare con tutta evidenza il fondamento della modernità globale e dell’omologazione culturale. Vi è, dunque, molto di personale, perfino di autobiografico, in questo Lessico. Pertanto ogni voce non è soltanto ideologicamente “ispirata”, ma anche frutto di esperienze individuali che hanno contribuito a formarlo, come incontri, viaggi, letture, emozioni e passioni privatissime. Tutto concorre alla formazione di una concezione della vita che mi auguro emerga in maniera sufficientemente chiara da queste pagine, spiritualmente orientata in aperta opposizione al relativismo e al determinismo. Può darsi che ci si sorprenderà se alcune “voci” appaiono francamente eccentriche in un lavoro di questo genere, ma è probabile che cogliendo le ragioni che ne hanno suggerito l’inserimento ci si adatterà a comprendere come anche la parola più banale, magari poco indagata, sia rivelatrice di una storia profonda negata se non addirittura ignorata. Ad esempio, mettendo l’accento sul calcio non è tanto l’aspetto sportivo che s’intende banalmente sottolineare, quanto la radicalità di un fenomeno sociale e culturale non indifferente a centinaia di milioni di esseri umani, la più parte dei quali è inconsapevole di ciò che si cela dietro un gioco, 11


Premessa

non soltanto in termini economici, ma anche politici o se si vuole “metapolitici”. Questo Lessico inattuale è il risultato di pensieri sparsi in carte private e scritti pubblici. Mescolando il tutto è venuto fuori così come si presenta, rapsodico e invitante ad approfondire le singole tematiche. Sarebbe stato fuori luogo fare di ogni “voce” un capitolo con rimandi, note, digressioni: certamente ne avrebbe guadagnato in spessore culturale, ma l’immediatezza dell’evocazione ne sarebbe risultata compromessa. Reputando che il modo migliore per inerpicarsi lungo i sentieri della modernità al fine di mettere in risalto ciò che non convince ad ogni tornante, si è preferito “aggredire” determinate parole, altre a loro volta “aggredite” accarezzarle e rivendicarle, altre ancora resuscitarle dall’oblio. E attraverso tutte riportare all’attenzione la verità di idee-chiave cadute in disuso oppure rese irriconoscibili dall’utilizzo arbitrario che generalmente se ne fa.

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AUSTERITÀ

La crisi economica ci ha costretti a fare i conti con ciò che è essenziale e con ciò che non lo è. È pur vero che alcune rinunce sono state, e sempre più lo saranno, dolorose in termini di appagamento individuale e di gratificazione collettiva. Ma pensarci come fruitori di beni e non più soltanto come compulsivi consumatori, non è detto che sia un male. Beninteso, nessuno è talmente folle da scambiare la sobrietà con la povertà: chi intende muoversi su questa strada si esercita in una ignobile demagogia i cui effetti non è difficile individuare in una depressione generale con l’inevitabile conseguenza di far regredire la società a uno stadio quasi barbaro. È possibile muoversi, però, in tempi di magra lungo il percorso dell’austerità dei costumi e dei consumi, dello stile di vita insomma, dopo aver a lungo indugiato attorno a un narcisistico compiacimento di noi stessi nutrito dalla certezza di poter contare su inesauribili risorse, fosse pure a scapito dell’ambiente e dei rapporti umani. Sono quasi tutti concordi – economisti, sociologi, studiosi dei mutamenti sociali e individuali, osservatori delle tendenze – che il consumismo e gli effetti a esso legati siano da considerarsi relegati in un’epoca che difficilmente rivivrà. Aggiungono che è bene attrezzarsi psicologicamente, soprattutto, ai tempi nuovi se non si vuole restare prigionieri di un passato che, a dirla con un minimo di onestà intellettuale, è stato attraversato più da ombre che da luci. E, forse, proprio per questo siamo finiti così male. Mi ha colpito un dato nelle analisi sugli effetti della crisi: quello alimentare. Dal 2007 fino al 2011, quando la crisi si è fatta più acuta, il 13% del cibo che finiva nel carrello della spesa 13


Austerità

e intasava il frigorifero veniva puntualmente gettato nel secchio dell’immondizia. La percentuale poi si è ridotta al 4%. Effetto della necessaria autoregolamentazione? Non vedo altra spiegazione. E lo stesso dicasi per ciò che concerne l’abbigliamento, i gadget elettronici, i prodotti di bellezza e via seguitando. La materialità, insomma, ha subito una contrazione le cui conseguenze sul piano della resistenza delle abitudini vanno ovviamente accertate con il passare del tempo. Infatti, è giusto porsi domande “cruciali” al riguardo. Può, per esempio, non essere un bene in termini macroeconomici soprattutto per le ricadute sull’occupazione. Ma questo problema potrebbe essere affrontato e magari risolto immaginando l’avviamento a mestieri desueti per giovani che attendono un primo impiego, per esempio nell’agricoltura, nella cura del paesaggio, nell’incentivazione dell’artigianato che in Italia è praticamente morto. Sicuramente non è un male se l’eccesso di materialismo pratico, rappresentato dal consumismo compulsivo, ci mette davanti al nostro destino di sperperatori di risorse e di avidi distruttori della natura e della nostra stessa anima in rapporto con la bellezza, la cultura, la riflessione sul tempo, la caducità di ciò che come surrogato dovrebbe riempire le nostre esistenze, non avendo altro a cui rivolgerci, se non alla devastante abbondanza del superfluo tanto per immergerci in qualcosa che dia un senso all’attraversamento della vita. Indipendentemente dalle considerazioni che pur sarebbero (e sono) legittime sul divario insanabile tra aree del Pianeta ricchissime e altre (assai più vaste) poverissime, immagino che sia venuto il tempo di regolare i conti con noi stessi riscoprendo il piacere di vivere senza strafare e di non morire ricoperti dalle inutilità di cui sono ricolmi i nostri armadi e le nostre case le quali, lungi dall’essere oggettivamente belle e confortevoli, sono perlopiù magazzini in cui ammassiamo di tutto soltanto perché sollecitati da un impulso insano al possesso. La riscoperta del piacere delle piccole cose, delle cose cioè che danno gioia autentica, è perfino possibile che contribuisca a 14


Austerità

riconnetterci a una visione austera, ma non per questo grigia o mortifera, dell’esistenza. Consapevole di far parte di una minoranza e di attirarmi le critiche degli “sviluppisti”, ritengo che la cultura consumista abbia devastato individui, famiglie e comunità. L’invidia sociale, ampiamente analizzata anche dai morfologi della storia del secolo scorso, ha il suo fondamento nella corruzione del sentimento di solidarietà che è stato a fondamento della civiltà occidentale almeno fino all’avvento della rivoluzione industriale. Da questa sono scaturite le guerricciole che, assumendo man mano dimensioni imponenti, hanno legittimato teorie come quelle formulate da Marx e dai suoi epigoni. Ma questo è un altro discorso. Nelle circostanze attuali lo smarrimento di fronte alle oscene cattedrali del consumo nelle quali si trova di tutto e si scopre, tornando a casa, che si è acquistato l’irrilevante, l’inutile, l’inessenziale, è frustrante almeno quanto l’impossibilità di attingere all’offerta del superfluo che l’industria della comunicazione sollecita con imponente dispendio di mezzi. La gioia di poter finalmente scegliere, limitandosi a incursioni dove si sa che cosa trovare, e non essere scelti dall’ammiccante proposta più o meno esplicita veicolata da spregiudicati mezzi pubblicitari, dovrebbe rendere il consumatore nuovamente arbitro di se stesso, responsabile dei suoi gusti e delle sue tendenze, protagonista di un mercato “libero”, dunque sottratto dai condizionamenti espliciti o occulti, e soprattutto invogliarlo a preferire la qualità piuttosto che la quantità. Tutti abbiamo girovagato nei freddi ipermercati dove dagli scaffali vengono sollecitazioni che muovono la mano dell’acquirente quasi mai cosciente del gesto che compie. Cosa si porta via se non un’illusione di un’effimera abbondanza tutt’altro che necessaria? Confondere la recessione con l’austerità sarebbe naturalmente un errore. La prima incide non soltanto sui consumi superflui, ma soprattutto sulla vita pubblica di ciascuno di noi e sulla mercede di cui abbiamo bisogno oltre che sui servizi essenziali 15


Austerità

e irrinunciabili. La seconda è uno stile di vita che, per quanto sollecitata dalle contingenze, non soltanto non è dannosa, ma, se la si sa valutare ed accettare nella sua essenza più profonda, produce una piccola rivoluzione interiore che non è necessariamente un male coincidendo con la decrescita delle illusioni consumistiche. L’austerità, in altri termini, correttamente intesa, dovrebbe farci riscoprire la semplicità delle piccole cose ed immetterci in una dimensione più naturale e comunitaria, nella quale perfino la lentezza diventa un valore mentre finora è stata considerata alla stregua di un handicap. Soprattutto lo spreco delle risorse spirituali dovrebbe essere limitato a vantaggio di una maggiore consapevolezza di noi stessi nell’ambito di un universo complesso che è stato maledettamente ingiusto e crudele ridurre a una semplice “cosa” dalla quale suggere il massimo del piacere effimero, cedendo alle lusinghe delle agenzie di consumo e alle culture della materialità e del relativismo per le quali il massimo delle passioni a cui votarsi dovrebbe essere l’accaparramento dei beni. Dalla “produzione” di avidità a quella di prodigalità e di frugalità il passo è indubbiamente molto lungo. Ma non è detto che non lo si possa fare. Dalla crisi si esce abbracciando una rivoluzione sottile destinata a durare e a cambiare il nostro modo di vita che nessuno può immaginare peggiore di quello che abbiamo conosciuto, venerato, santificato negli ultimi trent’anni. Il solo fatto di riappropriarci del nostro destino è un fattore di crescita. La sola crescita alla quale dovremmo essere sensibili.

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AVIDITÀ

Sacrifichiamo ogni giorno consistenti porzioni della nostra libertà sull’altare dell’avere. E naturalmente riteniamo per questo di essere più liberi dal momento che facciamo coincidere, impropriamente, l’estensione della libertà con il maggior possesso di beni. Neppure ci sfiora il pensiero che essere liberi è una dimensione spirituale che poco o niente ha a che fare con la materialità cui siamo dediti nel soddisfare il nostro istinto predatorio. Ed è così che un po’ alla volta ci abbrutiamo lasciandoci abbacinare dall’accaparramento di averi verso i quali maturiamo una sorta di idolatria. L’avidità è uno dei segni distintivi del nostro agire in un tempo nel quale soltanto chi più ha conta. In effetti non ci si ferma davanti a nulla. Si guarda davanti e si scorgono praterie da attraversare senza mai chiedersi fin dove spingersi. Spesso nella corsa si travolge ogni cosa: affetti, amori, dolori. Ma che importa se il fine è la potenza a portata di mano. Prendere tutto ciò che si può e fino a quando si può. È questa l’etica che sta mandando il mondo a rotoli. Non so se la finanza sia una manifestazione demoniaca in sé, ma l’uso che se ne fa lo è di certo poiché i miraggi che diffonde annichiliscono chiunque, tanto coloro che la usano ritenendo di essere immuni dalle sue deviazioni e tanto coloro che vengono usati incapaci di comprendere fin dove può portare la “gioia” di possedere a discapito, evidentemente, di altri che per questo saranno inevitabilmente vittime sfruttate. Il sistema è apparentemente innocuo. Ma solo apparentemente. In realtà è perverso come tutto ciò che si costruisce nell’incuria di ciò che viene sottratto agli altri, ai più deboli, ai meno protetti. Si distruggono così patrimoni onestamente accumulati 17


Avidità

da generazioni perché da essi si pretende di più; si devastano aree del Pianeta poiché le risorse naturali vengono considerate a disposizione di chi vuole arricchirsi e sarebbe un peccato per loro non farlo; si tengono in cattività popolazioni facendo crescere dentro di esse bisogni e necessità che mai si sarebbero sognate di avere; si accrescono interessi soltanto come espressione di una volontà di potenza da esercitare stando in poltrona. Nei giorni in cui l’avidità si mostra nuda e fragile come mai lo è stata nel tempo della modernità, abituata a viaggiare sulle autostrade telematiche ed elettroniche, noi tutti ci sentiamo più deboli ed esposti, poiché nel corso del tempo abbiamo maturato, magari inconsapevolmente, la certezza che nulla avrebbe potuto far cambiare il corso delle cose e la nostra economia, le nostre abitudini elementari, i nostri stili di vita si sarebbero dovuti conformare chissà per quanto tempo ai diktat degli gnomi della finanza i quali, oltretutto, ci gratificavano con le briciole che cadevano dal loro tavolo e imbandivano mercati lussureggianti a nostra completa disposizione tanto da indurci a pensare che il benessere sarebbe stato infinito. All’improvviso abbiamo scoperto che non è così. E la nostra debolezza si è rivelata come una malattia infantile: spaventati stiamo raccogliendo le nostre improvvise insicurezze sperando di salvare il salvabile, mentre, a livelli più alti, a quegli stessi livelli dove è stata programmata la catastrofe, si pensa, con la disinvoltura degna delle canaglie, come mutare indirizzo, come far convivere le esigenze della produzione reale con quelle del profitto, in che modo restituire a chi ne è stato spogliato le risorse cui ha diritto. E si dice che il mondo di domani non assomiglierà affatto a quello che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni. Pauperismo? Non è questa la ricetta per abbattere le storture derivanti dalla religione dell’avidità. Ma la sobrietà, sì. E se ci fossero Stati tali da non soggiacere alle logiche del liberismo selvaggio, del capitalismo più ottuso, dell’ingordigia di pochi, non si limiterebbero a intervenire con le risorse di tutti per sostenere i sistemi bancari, ma attuerebbero riforme, nella sfera 18


Avidità

personale, tali da indurre a una educazione, in linea con il diritto naturale, soprattutto le giovani generazioni abbagliate dal mito della ricchezza facile, dei consumi inutili, dello sperpero delle risorse. Ma l’avidità ha prodotto un altro fenomeno che si tende a nascondere o, quando si palesa, lo si addebita soltanto a qualche delinquente che trasgredisce la legge penale sul punto: l’usura. Siamo proprio certi che il sistema mondiale della finanza non sia imputabile di questo orrendo delitto non perseguibile a livelli planetari? Sostanzialmente l’usura è una tassa prelevata sul potere d’acquisto senza riguardo alla produzione, spesso neppure considerando la possibilità di produrre: la banca dei Medici fallì per questo. E oggi? Oggi la storia non la legge più nessuno. Speriamo che qualcuno in queste ore di disperazione legga almeno la poesia. E in particolare un Canto di Ezra Pound, a dimostrazione che i poeti sono più avanti degli economisti e dei politici. Il poeta americano scriveva: «Con usura nessuno ha una solida casa/ di pietra squadrata e liscia/ per istoriarne la facciata,/ con usura/ non v’è chiesa con affreschi di paradiso/ (…) con usura/ la lana non giunge al mercato/ e le pecore non rendono/ peggio della peste è l’usura/ (…) Usura arrugginisce il cesello/ arrugginisce arte e artigianato/ tarla la tela nel telaio, nessuno/ apprende l’arte di intessere l’oro nell’ordito/ (…) Usura soffoca il figlio nel ventre/ arresta il giovane drudo,/ cede il letto a vecchi decrepiti,/ si frappone tra i giovani sposi/ contro natura/ Ad Eleusi han portato puttane/ Carogne crapulano/ ospiti d’usura». L’usura è figlia dell’avidità. Estirpando questa si estirpa quella. Ma c’è qualcuno, nel deserto dove non fiorisce la pietà e neppure l’interesse alla sopravvivenza sembra che non spunti tra dune pietrificate, capace di comprendere che non è più tempo di manovre d’aggiustamento, di espedienti tecno-finanziari, di rattoppi, ma di rivoluzione delle coscienze il cui compimento dovrebbe risolversi in una nuova cultura, la cultura dello spirito? È questa, alla prova dei fatti, la vera forza dell’ordine naturale sulla quale modellare l’economia di tutti, un’economia includente e 19


Avidità

non escludente, legata al merito e all’intelligenza, umana, perfino troppo umana (non sarà mai troppo), creatrice di forme non soltanto di sostentamento, ma di magnificenze tali da segnare un’era nuova. L’economia del reale, insomma, quella che fa produrre e vendere e scambiare e conoscere. Ho incontrato, tempo fa, dispersi nomadi in un deserto attorno a un fuoco attenti a far bollire il tè. Un po’ di formaggio di capra, qualche oliva, due datteri. E poi la musica; una musica malinconica eppure esaltante donataci da suonatori che mai avevano studiato l’armonia: ce l’avevano nel cuore. Sopra di noi il cielo che, con il passare delle ore, diventava sempre più azzurro fino a diventare blu, quasi nero punteggiato da stelle. Qualcuno raccontava storie che non capivo, con la leggerezza di chi tramanda brandelli di vita ai più giovani. Wall Street non esisteva. E non esistevano molte altre inutili cose a cui abbiamo sacrificato la nostra civiltà di esseri liberi. Talvolta ritorno con la memoria a quell’esperienza, ma non vorrei mai rinunciare a quello che sono. Eppure il mondo in cui vivo mi è più estraneo del mondo dei nomadi che cinque volte al giorno pregano il loro Dio e lo ringraziano del pochissimo che hanno. Non so se sono felici. Certo l’angoscia del possesso non li tiene prigionieri e godono della notte, delle storie, della musica, dell’amore e di un bicchiere di tè sorseggiato ai margini della disperazione occidentale.

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BELLEZZA

La Bellezza è un’idea inaridita. Su di essa si esercita la confusione concettuale e pedagogica prevalente nel nostro tempo. Non si viene sfiorati neppure dalla considerazione che la Bellezza non può essere rinchiusa nel recinto delle nozioni, ma deve volare nei cieli liberi del sentimento. Nell’unico spazio, cioè, dove l’intelligenza lascia il posto all’anima e questa guida e orienta le scelte umane. I ponti interrotti tra la razionalità e lo spirito hanno fatto cadere nel vuoto la Bellezza. E oggi la cerchiamo disperando di trovarla nelle ombre di un passato che esita a farsi storia a meno che non si sia disposti a riconoscere nelle forme (arte, parola, gesto) l’armonia che viene da un inconoscibile mondo, il mondo di Dio. Pensavo al miracolo che accade in un essere umano quando riesce a trarsi dalla prigionia della Ragione e ad accostarsi alla conoscenza attraverso la regolarità che si esprime nell’ordine naturale che dovrebbe ispirare l’ordine umano: ha la possibilità di vedere la creazione nello splendore dell’anima che si serve dell’intelligenza per manifestarsi. Il restaurato capolavoro di Raffaello Sanzio, La Madonna del cardellino, per dirne una, offre una visione metafisica dell’armonia che connota la Bellezza. E rimanda all’evocazione di un mondo perduto, una sorta di Eden artistico-esistenziale del quale la Bellezza era parte integrante. Si dirà che il Cinquecento è stato un secolo “umanissimo”, nel senso datogli dagli artisti che lo hanno caratterizzato. E perciò lo splendore della metafisica europea si è potuta esprimere nelle loro opere. Ma anche in seguito, prima della catastrofe razionalista, qualcosa del genere, sia pure in tono minore, si è manifestato nelle arti figurative. Restando, 21


Bellezza

infatti, nel sistema delle forme non si negherà l’esaltazione della Bellezza del corpo, dell’erotismo, della passione. Insieme, il tutto si è tradotto in un canto d’amore. Struggente, esaltato, doloroso perfino, ma comunque un canto d’amore come lo è una nascita o una morte. Nel principio e nella fine è insita l’idea di Bellezza poiché essa rimanda alla ricomposizione delle strutture primarie dell’esistenza che quando vengono trasferite dalla mano dell’uomo nella creazione danno luogo all’esaltazione religiosa dell’intelligenza. Perché, allora, la Bellezza è un’idea inaridita? Per il semplice motivo che essa connota, aggettivandola, qualsiasi cosa, indipendentemente dalla ragione profonda che la ispira. Bellezza, infatti, nella considerazione comune e prevalente, è la volgarità trasgressiva che s’impugna per vanificare il riconoscimento della religiosità insita nelle opere dell’uomo quali emanazioni della divinità. Bellezza è la glorificazione del tormento di chi cerca nell’avidità la ragione ultima della sua affermazione. Bellezza è la concettualizzazione della vacuità e dell’effimero in una voluttuosa ricerca del soddisfacimento del desiderio. Bellezza è il tramonto dell’Essere nella violenza al Creato; è l’interruzione del silenzio; è la profanazione della pietà; è il sordo rancore verso la pratica dell’umiltà; è il peccato esaltato come virtù. E tutto questo qualifica la modernità, naturalmente. La vistosità dell’osceno, infatti, si apre davanti a noi, in maniera clamorosa, con il risucchio nelle megalopoli dove l’estetica dell’arido celebra i suoi trionfi e occulta i segni della sacralità come eresie da esibire di tanto in tanto per spiegare la tolleranza con il diritto riconosciuto perfino all’estraneo ad esserci. Eppure la Bellezza può esistere nel gulag dello sconcio nel quale il bordello delle idee tiene insieme qualsiasi orrore. Il problema, semmai, è riconoscerla. Si fa fatica, indubbiamente. E certo le istituzioni formative non aiutano. Anzi, al contrario, offrono l’indecente spettacolo di una devianza elevata a normalità: il Brutto è Bello. O, quantomeno, tutto è lecito, niente deve essere respinto se non ciò che è naturaliter “normale” secondo i canoni millenari 22


Bellezza

di civiltà che hanno avuto la capacità di rigenerarsi dopo le loro cadute. La tragedia del nostro tempo, così bene descritta da Nietzsche e da Benn, e preconizzata, al di là delle loro stesse intenzioni, da Hoelderlin, Novalis e Goethe, è l’irriconoscibilità del cammino dello spirito nell’arte e nel pensiero. L’esito, immaginato dai critici della modernità, talvolta con accenti folgoranti, a cominciare da Heidegger, è l’ineluttabilità della decadenza. Il nichilismo come destino, insomma. Può esserci Bellezza nella decomposizione di ciò che nasce per restare armonico? Il mondo delle forme subisce di questi tempi oltraggi di spaventosa violenza. Perciò l’opposizione all’estetica dell’arido si configura come una rivolta creativa contro l’utilitarismo dei modi di sentire, degli stili di vita, dei gusti dominanti. Ed è la maniera, la sola che si possa riconoscere, per ricreare le condizioni affinché la Bellezza riemerga. Un ritorno alla classicità? Non bisogna temere le parole, né tantomeno le idee. Il mondo classico ci ha fornito le forme che la modernità ha deformato. Rimettere a posto le cose non vuol dire annegare nella memoria, ma renderla dinamica; guardarsi indietro e riconoscere i percorsi lungo i quali potrebbe formarsi l’avvenire. Non è un’operazione intellettualistica, come a prima vista potrebbe apparire. Essa è piuttosto una sorta di arte religiosa della restaurazione della verità. Come immaginava Wagner “inventando” l’opera d’arte totale, l’opera dell’avvenire, insomma, nella quale l’estetica e la trascendenza convivano in maniera mirabile nella descrizione della Bellezza suprema come, ad esempio, è stato nella riproposizione del mito di Parsifal. Nei secoli negati dopo la Grande Rivoluzione che ha spazzato via le certezze e reso certo il provvisorio, relativizzando perfino l’esistenza, la rappresentazione del sacro nelle dimensioni proprie dell’umanità viveva in maniera talmente naturale da non avere alcun bisogno di essere esplicitato. Le figure dell’antichità ne sono ancora oggi esempi eloquenti nei quali è riscontrabile un “soffio divino” che non contrasta neppure con le immagini 23


Bellezza

profane attinte fuori dal recinto religioso. Con questo si vuol dire che non può darsi Bellezza al di fuori di una fenomenologia della rappresentazione che non abbia una connotazione religiosa (il che, naturalmente, con le fedi non c’entra nulla). I nostri tempi, bisogna riconoscerlo, sono avari di slanci metafisici. Tutto è ridotto a materialità da consumare. E così l’arte, la musica, la poesia, il paesaggio. E anche l’erotismo, il linguaggio del corpo risentono dell’assenza di una vertigine sacrale che li riconsacri al piacere come nel Cantico dei cantici. Tutto è da usare, da gettare, da scomporre. Ogni cosa ha un prezzo, un mercato, un fine immediato. E niente è più riconducibile all’eterno, dopo il passaggio dei barbari che per la nostra felicità hanno edificato, pietra su pietra, una nuova Babele che non lambirà mai il cielo. Perciò la Bellezza se non è scomparsa dal nostro orizzonte, si è quantomeno occultata agli occhi dei più. E la Modernità celebra il suo trionfo più grande: la negazione del Bello dietro la sparizione di Dio.

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CALCIO

Ogni quattro anni la tribù globale del calcio si dà appuntamento in un qualche angolo del mondo dove celebra i propri fasti, proiettandoli oltre le dimensioni provinciali solite, in uno scenario planetario. È un fenomeno contagioso che coinvolge più o meno tutti. Dal 1930, in ogni continente, questo sport (che è molto di più di un qualsiasi altro sport) continua a raccogliere adepti che s’identificano con esso come in una sorta di religione profana. Una religione dai costi altissimi e dalle rese economiche ancora più alte. Un vero business fondato sul primordiale istinto dell’antagonismo che diviene in alcuni deprecabili casi feroce, incontrollabile, assoluto. Come per tutte le tribù il “nemico” è sempre da abbattere: nel calcio vige la stessa regola. E i riti che esso propone sono veri e propri riti bellici spinti da pulsioni che definirei “politiche”, officiati da quei militi bonari e appassionati, barocchi e un po’ cialtroni, fino a quando non si trasformano in delinquenti veri e propri, che sono i tifosi. Organizzati più o meno per bande, essi riproducono sul piano sportivo la logica del clan, della fazione, del gruppo organizzato secondo regole ferree che rimandano a schemi e modelli politici di tipo tradizionale che negli stadi celebrano i loro trionfi “patriottici”. Ricordate il titolo del Corriere dello sport all’indomani della vittoria degli azzurri del Mondiale spagnolo nel 1982? «Eroici!», semplicemente. Allo stadio il clan si difende, talvolta addirittura in modo violento, per affermare la propria identità. Il tifo è l’esplicitazione di un legame con qualcosa di vivo, concreto, tangibile come può esserlo soltanto una “fede”. Inconsciamente, nel sentirsi “parte”, 25


Calcio

il tifoso manifesta il bisogno di riconoscersi in una comunità. E quanto più la famiglia si sfalda, la patria viene negata, la tradizione misconosciuta, cos’altro resta se non l’elementare legame con una squadra in cui riconoscersi? Il calcio è l’ultima manifestazione, dunque, della politicità inconscia che vive nel profondo di ognuno e quando assume dimensioni gigantesche come la disputa della Coppa del Mondo, esso diventa la sublimazione di una “confrontazione” planetaria che vede addirittura aree del Pianeta osservare i movimenti “delegati” dalle nazioni ai loro rappresentanti in campo, come fosse una sorta di “guerra asimmetrica”. Da qui anche il conflitto economico e commerciale, legato soprattutto ai diritti televisivi, che è un corollario dell’esportazione del calcio presso tutti i popoli, perfino quelli che agli albori della diffusione di questo sport neppure immaginavano di poterne diventare protagonisti di primo piano. L’irresistibile “calcistizzazione” che ha ormai contagiato tutti gli strati e i ceti sociali, si spiega con quell’inconscia spinta comunitaria a cui facevo riferimento che è uno dei fondamenti, probabilmente il più importante, della “nuova” politicità, trascendente le forme tradizionali legate ai partiti e ai movimenti, che si va affermando ovunque. Del resto i toni stessi dei linguaggi calcistici la dicono lunga sul bisogno di aggregazione e, di conseguenza di identificazione del “nemico”. Essi esprimono in egual misura aggressività e conservazione secondo un codice di tipo politico-militare che il giornalismo specializzato enfatizza e ripropone. Allo stadio, dunque, o si è amici o si è nemici e quando la simulazione riesce, poco male: i dolori cominciano quando la politica delle parole cede a quella dei gesti. L’avversario, purtroppo, è una categoria che esiste soltanto nelle buone intenzioni di chi commenta le partite il giorno dopo, ma dalle innumerevoli stazioni radiofoniche, vere e proprie centrali di comando degli ultras, vengono inequivocabili incitamenti se non all’odio quantomeno alla demonizzazione dell’altro. Ma c’è di più. Il clan necessita di punti di riferimento che la squadra da sola non è in grado di rappresentare. Una società 26


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calcistica è costituita da tanti soggetti tra i quali il tifoso vuole individuare il leader, più o meno carismatico, come Max Weber insegnava, che sia allo stesso tempo trascinatore, difensore dei diritti del clan e liturgicamente accondiscendente ai voleri del suo popolo. Il clan e il capo sono due categorie eminentemente “politiche”, mentre lo stadio, catino di energie catalizzate dove ci si affronta secondo regole condivise, è il luogo nel quale l’antagonismo si esprime al meglio, tanto sulle tribune quanto sul campo di gioco. Se poi si considerano, oltre a quelli televisivi, gli enormi interessi finanziari che si muovono attorno al calcio, di cui il Mondiale (un tempo Coppa Rimet) è l’ennesima prova, non si può che concludere che esso produce campagne aggressive anche nel posizionamento di gruppi economico-finanziari nel dare la scalata a posizioni diverse di potere. Il calcio, insomma, al di là della spettacolare bellezza che eccita le folle, è la prosecuzione della politica con altri mezzi. Comprendere che cosa c’è dietro di esso significa sezionare i meccanismi di potere, le soggettività conflittuali, le ansie, i sentimenti come il rancore e la rivincita, un caleidoscopio di umanità, insomma, che si nasconde dietro lo sventolio di bandiere e i pronunciamenti militaristi che vengono dai fans e dai dirigenti delle società calcistiche che animano quello che forse impropriamente è considerato lo sport più bello del mondo. Ci si accorgerà, accostandosi a tutto ciò, che lo sport più in generale, ma il calcio in particolare, sta assumendo le fattezze di un “destino politico” del quale non sappiamo quanti sono consapevoli, frastornati dai pittoreschi rituali delle tifoserie e dalla retorica giornalistico-televisiva. Credo, al di là dei sociologismi necessari per capire un fenomeno planetario e le dimensioni che ha assunto, che il calcio sia essenzialmente un’estetica dell’anima, forse la più riuscita in tempi moderni, capace di mettere assieme sensibilità profonde che non hanno confini: da qui la sua intrinseca “politicità”. Uno dei più acuti e brillanti studiosi del fenomeno calcistico contemporaneo, Giancristiano Desiderio, che al football ha dedicato riflessioni filosofiche straordinariamente originali, in 27


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uno dei suoi libri sull’argomento, Il divino pallone (Vallecchi), ha opportunamente scritto: «Il calcio, come la filosofia, è materia delicata e infiammabile. Va maneggiata con cura. Praticato in un regime di libertà è quello che tutti considerano semplicemente un gioco, un passatempo, una distrazione. Praticato in un regime di illibertà rivela tutta la sua carica umana. Praticato in un regime totalitario diventa a tutti gli effetti un gioco pericoloso, per i dittatori che se ne vogliono impadronire. La palla è la manifestazione del gioco e il gioco è, per definizione, senza controllo perché nessuno lo può possedere senza vederselo annullare nelle sue tracotanti mani. La palla deve essere giocata. Su un campo di calcio, lo si voglia o no, c’è in gioco la vita. Il calcio è implicitamente una critica del potere perché il gioco non ha padroni e nasce solo là dove c’è pluralità ed esperienza dei singoli giocatori. Solo chi è affetto da un delirio di onnipotenza può credere di controllare il gioco». Se la “politicità” del calcio è incontestabile è pur vero che esso sfugge ad essere utilizzato politicamente da chi se ne vuole appropriare per farne uno strumento propagandistico: quando è accaduto si è ritorto contro i dittatori che ne hanno voluto fare uno strumento della loro propaganda: accadde in Argentina nel 1978 la cui nazionale pure vinse il Mundial, ma nessuno pensò di glorificare il generale Jorge Videla per questo. Il calcio, depurato da tutte le incrostazioni mercantili e dall’utilizzo che il potere è tentato di farne, è semplicemente una delle manifestazioni moderne della cultura dei popoli, soprattutto di quelli che sono alla ricerca di un protagonismo che non hanno mai avuto (non a caso i progressi asiatici e africani nel campo sono prodigiosi): guardo alcuni disegni giovanili del grande scrittore francese Henry de Montherlant, leggo le vecchie poesie di Umberto Saba e quelle nuove dello straordinario poeta del calcio Fernando Acitelli, mi soffermo sulle pagine di Osvaldo Soriano e ripenso a miti che non ritornano, da Garrincha a Maradona, passando per Pelè e Sivori incantatore di serpenti e di portieri. Poi, mi do pace davanti all’incanto di un divino soffio di 28


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forza e di bellezza evocatomi dal discobolo di Mirone il quale eleva a eroe l’atleta, uomo potente orgogliosamente consapevole di avere un’anima. Adesso sì, posso rimettermi davanti al televisore e frastornarmi con le vuvuzele sudafricane, i djambé nigeriani, i darbuka algerini, le seducenti ghanesi che danzano e cantano lasciando che il mondo rotoli come una palla almeno per pochi giorni, i coloratissimi carioca ed i più compassati giapponesi stupefacenti con il loro tifo elementare. E mi rafforzo nell’idea che il calcio è poesia costretta in una dimensione geometrica. O forse soltanto «il luogo delle apparizioni», come dice Desiderio, rivelando che tra il pallone e la filosofia il legame è molto più stretto di quanto si possa immaginare. Del resto, Camus non giocò in porta, Heidegger non fu un velocissimo cursore sulla fascia sinistra e Derrida non faceva il centrattacco? Mané, l’uccellino brasiliano che da destra faceva impazzire il mondo e gli avversari grazie alla gamba sbilenca, postumo fastidio di una poliomelite, non era un teoreta, ma incarnava una volontà di potenza che neppure Nietzsche l’avrebbe saputa esprimere con tanta efficacia. No, il calcio non è soltanto uno sport.

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Niente ha attratto la mia fantasia di bambino più d’una tavola ricca e ben apparecchiata. Sono rimasto sempre affascinato dalla quantità e dalla varietà di alimenti che la Provvidenza mi metteva a disposizione. Una festa per gli occhi e non solo. Tuttavia non mi sono mai lasciato andare al piacere di immaginarne i sapori, bastandomi la visione di quell’assieme di piatti ad appagare i miei sensi. Probabilmente il dato estetico prevaleva sull’essenza dei cibi stessi, ma nessuno mi toglierà mai dalla testa che una mensa ha un valore per se stessa, indipendentemente da ciò che la compone. La qualità delle vivande, naturalmente, è essenziale, se non prevalente, sulla tavola imbandita, ma è la mente a eccitare il palato e non il contrario. Infatti, tutto, dai colori ai profumi, mi si rivela ancora oggi come l’apparizione fantastica della gratuità del dono. E indubbiamente il cibo, per quanto non cada dal cielo, ma costi fatica e sudore, è pur sempre un “regalo” che non a caso in ogni epoca è stato considerato come tale da chi ha avuto a che fare con l’imprevedibilità delle stagioni e dunque con l’incertezza gravante sul raccolto dei frutti della terra. Il cibo continua perciò ad avere per me (e credo per tanti altri) connotazioni spirituali, se così posso dire, che poche altre cose materiali riescono a trasmettermi. Sarà perché a esso associo ancora la preghiera-ringraziamento che la mia bisnonna prima e poi mia nonna e poi ancora mia madre recitavano prima di assumere i pasti principali; sarà per l’abbondanza che non è mai mancata nella mia casa e per la quale sono stato educato alla riconoscenza verso Dio; sarà per la natura stessa degli alimenti che suscitano un puerile entusiasmo al punto da dissipare o alleviare 31


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le preoccupazioni; fatto sta che di fronte al cibo non riesco a pensare ad altro che alla vitalità della natura e alla sacralità del corpo. Il cibo, i profumi della cucina, l’affaccendarsi attorno ai fornelli di donne giovani e anziane, la frenesia nel cercare e comprare i prodotti necessari per preparare le pietanze stabilite, per quanto dimenticati nel frastuono contemporaneo e nel meccanismo consumistico, hanno comunque caratterizzato, e per quel che mi riguarda ancora caratterizzano, giorni particolari dell’anno. La solennizzazione “profana” delle feste è legata, infatti, ai pranzi e ogni festa è segnata da un pranzo speciale nel quale si rinnovano tradizioni, riti, usi, costumi e si esprimono sensibilità di genti diverse abituate a utilizzare i prodotti della loro terra per festeggiare attorno a una tavola possibilmente in compagnia di parenti e amici. Non credo di essere il solo a provare una vera e propria emozione dinanzi a pietanze ben fatte e costruite talvolta “magicamente”, esteticamente esaltanti; ma anche davanti a pasti frugali, non per questo meno saporiti e ricchi di rimandi a ricordi, la sensazione è la medesima. Per un motivo molto semplice: il cibo è l’elemento più vicino alla nostra natura umana. Esso serve per farci vivere e noi lo abbiamo, dalla notte dei tempi, onorato non semplicemente cuocendolo per nutrirci, ma cucinandolo per godere del nutrimento stesso che altrimenti avrebbe soltanto una funzione fisiologica. È quasi un atto d’amore che compiamo ogni volta che ci accostiamo a esso. Quasi sempre senza saperlo e perciò, il più delle volte, non ne apprezziamo il senso. Talvolta lo disprezziamo addirittura poiché il consumo cui siamo dediti, al punto di non accorgercene più, non lo rende appetibile prima all’anima e poi ai sensi. Lo trangugiamo, secondo stili e modelli di vita barbari che al tempo dei barbari “storici” non sarebbero stati neppure concepiti. E quantità ingenti le gettiamo nella spazzatura perché non sappiamo fare i conti con la nostra ingordigia. Ecco come una parte di noi finisce per essere offesa dalla nostra insensibilità, dalla voracità, dall’avidità cui abbiamo devoluto 32


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una parte considerevole della nostra animalità. Ma il cibo, frutto di fatiche, sudori, dolori, amori, pianti, resta sempre e comunque in attesa di soddisfare il nostro bisogno elementare di nutrirci. Non mi pare ci sia altro al mondo che abbia questa funzione, al di là dell’immaterialità cui pure dovremmo dedicare più spazio nella nostra quotidianità. Per quanto su di esso s’imbastiscano immorali speculazioni e si giochino partite criminose al punto da farlo mancare a centinaia di milioni di esseri umani ogni giorno in qualche parte della Terra, il cibo è il primo canto all’Inconoscibile anche da parte di chi non crede, poiché il risultato del lavoro che arriva sulla tavola ad acquietare il tormento e a lenire le pene non può che essere una forma di consacrazione laica dalla quale, paradossalmente, il vino che si fa sangue e il pane che si fa carne sono gli elementi del sacrificio eucaristico secondo i cristiani e secondo i pagani erano i doni primari che si offrivano agli dèi. Le messi e gli animali sono stati – e presso alcuni popoli lo sono ancora – nutrimento degli uomini e simboli di gratitudine alle divinità. In questo legame sacrale c’è l’essenza del cibo il quale è anche il tramite comunitario che riunisce attorno al desco famiglie ed estranei, contribuendo in modo decisivo a creare le condizioni di una pace o, quantomeno, di una tregua negli affanni della giornata. Inconsciamente, forse, noi amiamo il cibo, al di là delle sue stesse caratteristiche, perché esso esorcizza la morte facendo vincere la vita. La povertà di una tavola è come un rito funebre. Ma basta poco, perfino il più povero dei piatti, perché si accenda una fragile speranza ben sapendo che poi andrà delusa e bisogna ricominciare daccapo. Nelle Sacre Scritture, nel Vangelo, nell’Edda di Snorri, nella Bhagavad Ghita, nel Corano il cibo, il nutrimento, la condivisione degli alimenti sono protagonisti di percorsi iniziatici e di canti solenni o sommessi che rimandano alla religiosità del soddisfacimento del bisogno primario a restare in vita. C’è qualcosa di nascosto, “segreto”, e forse in questo ho rinvenuto il suo fascino al punto di mangiare con gli occhi, come mi si rimprovera affettuosamente qualche volta, nella tavola colma 33


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di ogni bene che non ho mai saputo raccontare fino a quando non mi sono trovato in un campo di profughi saharawi nel deserto meridionale algerino. Lì, davvero c’era poco di cui sfamarsi. E la miseria, le malattie, gli occhi sgranati di decine di bambini penetrarono dentro di me al punto da assaporare il latte di cammella e mangiare pochi datteri insieme con qualche rozzo ma saporitissimo dolciume condividendo la gioia di farlo con chi neppure immaginava che, in via del tutto eccezionale, quel giorno, quella sera ci sarebbe stato un banchetto in onore di chi aveva portato loro poco o niente, forse soltanto un po’di comprensione. Davanti a me, mentre il sole calava, si allargavano profumi intensi che non avevo mai sentito. Il capo del villaggio, macilento e gioviale, aveva ammazzato un grasso montone da consumare insieme con lo stupito occidentale dopo aver reso grazie ad Allah. E ci furono peperoni piccanti, e lattughe non so da dove arrivate e il cocomero più rosso e zuccheroso mai assaggiato a fare di quel pasto il più ricco e indimenticabile che io abbia mai consumato. Gli occhi dei bambini saharawi erano luminosi come non li ho visti mai più e dalle donne fasciate da vestiti sgargianti prorompeva una bellezza assolutamente indescrivibile, una sensualità viva, attraente, ipnotizzante, tale da far dimenticare che su quei corpi si esercitava quotidianamente la sofferenza, la fatica di vivere. In quei cibi consumati in allegria, con un griot venuto da chissà dove, forse dal Mali, che accompagnava le sue storie cantate con una kora, ritrovai lo spirito di una koiné che nel mio vecchio Occidente avevo perduto. Da allora non ho mancato mai una volta di levare il calice, cercando di non farmene accorgere, al cibo dei poveri che è il più saporito, benedetto dalla fatica e dalla privazione, ma quanto delizioso al palato non meno che allo spirito. L’imperatore Adriano nelle sue Memorie, per il tramite di Marguerite Yourcenar, solennizza il cibo con parole che restano scolpite nell’animo: «Impinzarsi nei giorni di festa è stata sempre l’ambizione, la gioia, e l’orgoglio naturale dei poveri. Mi piaceva l’aroma delle carni arrostite, il rumore delle marmitte raschiate, nelle festività militari, e che i banchetti al campo (o ciò che al 34


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campo costituiva un banchetto) fossero ciò che dovrebbero essere sempre, un compenso rozzo e festoso, alle privazioni dei giorni di lavoro; tolleravo discretamente l’odor di fritto nelle pubbliche piazze al tempo dei Saturnali. Ma i conviti di Roma m’ispiravano ripugnanza e tedio tanto se alle volte – durante un’esplorazione o una spedizione militare – ho visto la morte vicina, per farmi coraggio mi son detto che almeno sarei liberato dei pranzi». Il cibo è così: ha un’anima per chi la sa scorgere e per chi non ne è capace rimane riposta nella gioia che crea, nel privatissimo mondo di sensazioni che, comunque, trasfigura tutti noi che ne beneficiamo in piccoli sacerdoti di un rito antico quanto è antico il mondo. La tavola è un altare laico sulla quale s’affollano gesti lievi e misurati che la tradizione ha consacrato, una sorta di riti ancestrali dedicati alla cura umile di una pietanza sapendo che il corpo la custodirà come una reliquia. Mangiare, insomma, è una preghiera. Come l’ultimo pasto di Gesù.

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