LUCI A SCAMPIA di Angelo Pisani

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ANGELO PISANI

LUCI A SCAMPIA

MINERVA


CLESSIDRA Collana di saggistica storica

LUCI A SCAMPIA ANGELO PISANI

Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Grafica: Ufficio grafico edizioni Minerva

© 2016 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Finito di stampare nel mese di maggio 2016 per i tipi di Tipografia Grafica Veneta, Trebaseleghe (Pd) ISBN: 978-88-7381-861-8

Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 info@minervaedizioni.com www.minervaedizioni.com


Questo libro è dedicato a mio padre Vincenzo e mia madre Anna per i grandi esempi che mi hanno trasmesso.



PROLOGO

Aglia. È arrivato Salvatore. Io lo vedo, lui non mi vede. Nella stanza della presidenza c’è un vetro, che affaccia sul corridoio, messo lontano dalla scrivania, in un angolo. Consente di guardare i nuovi venuti senza essere notati. Non so chi abbia deciso questo accorgimento ma ha fatto bene. Oggi, però, mi sento turbato. L’ultima volta che l’ho incontrato è stata tosta. Erano i primi giorni che ero qui ed avevo deciso di fare un giro. La ricognizione, la chiamavo. Un modo per conoscere e farsi conoscere. Volevo capire dove mi trovavo. Volevo che gli altri sapessero con chi avevano a che fare. E poi così avrei capito quali erano le emergenze. Qui, ne ero sicuro, non mancavano. Lo dicevano tutti, giornali e voce di popolo. Amici e sconosciuti. “Che ci vai a fare?”, tutti in coro. Eppure c’ero. Perciò ho iniziato dal cuore della questione. Dalla gente del posto. Li incontravo a casa loro. Nelle sedi delle associazioni, nei circoli, anche nelle case. Erano incontri veri. A volte tesi, a volte drammatici, qualche volta si rideva. Però era roba vera. E non c’era solo gente che mi chiedeva una mano, o di ascoltarli. Non solo lamentele, c’erano pure proposte. Ottime idee, tra l’altro. Decidere di conoscerli era stato giusto. Molto formativo. Uno degli aspetti migliori era il contatto coi rappresentanti. Gente semplice: operai, disoccupati, padri di famiglia. Con la caratteristica del carisma. Chi, in un modo o 5


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nell’altro, si era fatto portavoce. Soprattutto del disagio. Non era semplice capire la loro lingua. A volte sembrava assurda. A volte erano noiosi, petulanti, illogici. Ma il mio dovere era stare a sentirli. Pure quando parlavano per ore, magari al termine di una giornata già faticosa. Salvatore no, lui non parlava tanto. Lo avevo incontrato sotto una Vela, era una sera d’estate. Lo circondavano diverse famiglie, tutte evidentemente povere e piene di problemi. E tutti si tenevano a distanza di rispetto. Come non capirli: alto, stazzante, sguardo da indio. Affilato e fiero. Gli occhi quasi socchiusi che ti fissavano, snidando subito il tuo sentimento. La voce, poi. Arrochita da un miliardo di sigarette, era la voce stessa della ferita. Veniva da sotto. Grave, mai nervosa, sempre ferma. Età indefinibile. Tra i cinquanta e i settanta ci poteva andar bene di tutto. Appena ero arrivato mi aveva fissato. Io cercavo di sorridere e capire l’atmosfera. Mi presentai a qualcuno, poi capii che era a lui che dovevo rivolgermi. “Buonasera”, mi disse. “Salve, io sono…”. “Lo so chi è lei”, mi fermò. Silenzio tutto attorno. Cercavo con lo sguardo i miei collaboratori, ma anche loro stavano ai margini della scena. Una scena cinematografica. Il lampione acceso, dietro la sagoma enorme della Vela. In quello spiazzo, poi, più niente. Lui ed io. “Ecco, se mi conoscete vorrei dirvi di parlarmi”, azzardai. “E di cosa?”, mi chiese. Il suo tono aveva un che di sarcastico, adesso. Un niente ma c’era. “Beh, dei vostri problemi, dei disagi, di quanto posso fare per voi”, dissi.

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Un’altra volta silenzio. Lui distolse lo sguardo da me. Mi superò con quello, costringendomi a guardare indietro. Ora vedevo il resto del quartiere. Una distesa di oscurità con qualche luce. Cercai di capire ma mi mancarono le parole. “Lo so”, dissi solo. “Cosa sa?”, chiese. Ancora quella linea d’ironia beffarda. “Che qua le cose non vanno tanto bene”. Si avvicinò. Dire che fu bellissimo, no. Però neanche tanto terribile. Mi sentii scuotere dentro. Mi parve che il suo sguardo si chiudesse ancor di più. Due fessure. “Avvocato”, fece, “vedo che è giovane”. “Beh..”, accennai. “I giovani possono essere capaci. Però devono capire una cosa”. “Cosa”. Mi ero fatto molto serio. Stavo entrando nella parte cui mi chiamava. “Che con la vita non si scherza”. Tacqui. Lui continuò. “Qua vengono da anni a raccontarci storie. Destra, sinistra, centro. Tutti lo stesso”. Si fermò, si passò una mano sul volto. Poi riprese. “So che lei ha una storia diversa. E ora che la guardo”, si interruppe. Aprì appena gli occhi. “Ora che la guardo mi sembra uno apposto”. Di nuovo pausa. “Però – riprese - questo per lei può essere un problema”. “In che senso?”. Gli uscì un primo sorriso. “Prima, perché la gente apposto qua non fa molta strada”. Tacqui ancora. “Secondo, perché da uno come lei uno si aspetta tanto”. “E fate bene”, dissi. “Non lo dica troppo presto. Ora l’ho vista e voglio sbilanciarmi”. Si passò una mano sul viso, una mano enor7


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me, dita grosse e scolpite dal lavoro. Un gesto come ad ordinare pensiero e sguardo. Prima di concludere: “Se a sbagliare è il solito mezzo uomo che viene a fare chiacchiere, pazienza. Uno se lo aspetta. Ma se a sbagliare sono gli uomini, quelli che meritano questo appellativo, allora è un guaio”. Mi fece un cenno e si allontanò. Rimasi di sasso: era stata un’investitura. Ora sono passati quasi cinque anni. Non si era più visto in giro, ma non avevo potuto dimenticarlo. E adesso era qua, da me. Ha la stessa faccia di cinque anni fa. E stessa età indefinibile. Potrei giurarlo, ma pure gli stessi vestiti. Identica l’aria fiera, mette soggezione al solo guardarlo. Devo riceverlo tra pochi minuti. Che vorrà da me? 8/5/2016 Scrivo queste righe mentre il libro sta andando in stampa; infatti so di attirarmi la collera, bonaria, del mio editore. Persona di una pazienza rara di cui approfitterò. Niente, proprio mentre licenzio il volume sulla mia esperienza come presidente dell’VIII Municipalità vengo a sapere di essere stato escluso da una nuova candidatura, in questa stessa e in altre zone di Napoli. Insomma il mio partito di riferimento, Forza Italia, e lo schieramento del centrodestra, mi ha ritenuto inidoneo ad un nuovo mandato. Ho la colpa, per questi signori, di aver agito troppo. Lottando contro la criminalità e i luoghi comuni, scendendo in piazza a fianco dei cittadini vessati, istituendo iniziative di legalità con nomi, come Giandomenico Lepore, forse invisi alla tradizione di quello stesso schieramento. Accendendo luci sulle ombre di un territorio messo ai margini dell’agenda istituzionale. Certo, potevo passare ad altri schieramenti, altre liste, altri partiti. Proposte non ne mancavano. Ma non ho 8


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intenzione di farlo. Non sono e non voglio passare per un poltronista. Ho fatto il presidente di tutti, anche di quelli che non mi avevano votato, e resto a disposizione di chiunque. Infatti il mio non è un saluto. Voglio continuare a sentirmi l’angelo custode di Scampia e tutta Napoli Nord. Voglio continuare a fare politica fuori dalle stanze: perchè politica, alla lettera, sta per partecipazione alla vita pubblica. Quindi, dopo aver pagato il conto della mia condizione aliena da compromessi e giochini, sono ancora qua. Sempre più sicuro che, come si dice nelle fiabe di bambini, il bene è più forte del male. a.p.

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PRIMA PARTE



IO E QUELLA PAROLA

E dunque sono qua. Quasi per caso. Che storia strana. Sicuramente da raccontare. Mi trovo a capo di una delle più incredibili zone d’Italia, se non d’Europa, e non so bene come ci sono capitato. O meglio: lo so dal punto di vista dei fatti, ma non delle ragioni. E c’è una bella differenza. Comunque, i fatti sono chiari. Ricordo benissimo quando qualcuno mi comunicò il cambio. “Angelo, per il Vomero non se ne fa niente”. “In che senso?”, dissi. “Non ti candidiamo più là”. “Ma come? Ho ideato la campagna, tutto… e poi io qui ci sono nato, ci vivo, ci lavoro. Qui sono conosciuto”, osservai. “Basta, lo sai come funzionano queste cose”. “No, non lo so come funzionano”. Era bastato poco per urtarmi. Tanto che il tipo che mi parlava, che finora non mi aveva guardato in faccia, iniziò a osservarmi. Si avvicinò con aria di sufficienza, mista a sarcasmo. “È una delle prime lezioni che devi imparare, allora. Nella politica non contano le convenienze ma gli scenari”. La frase mi aveva dato ancora più sui nervi. Sibillina quanto inconsistente. Scenari? E che giochiamo, a Risiko? Finora mi ero mantenuto relativamente calmo. E non era da me. “Le convenienze? Le competenze, vuoi dire”, obiettai. A sarcasmo, ironia. “Cosa mi vuoi fare, la morale? Uagliò”, e si era fermato. Voleva mettermi in difficoltà dall’alto di un’esperienza neanche tanto conclamata. “Le cose stanno così. Abbiamo un altro candidato che vuole il Vomero. E lo dobbiamo accontentare”. 13


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“Ho capito. E così io me ne sto fermo al palo”. “Non proprio”, fece. “Ovvero? Avete altre idee per me?”. “Proprio così”. “E saresti così gentile da spiegarmele oppure devo arrivarci io? Tanto mancano dieci giorni alla presentazione delle liste, abbiamo tutto il tempo”. Non era possibile: poco meno di due settimane e mi sollevavano da una candidatura in cui mi ero impegnato da tempo. Programmi, incontri, proposte. Era già tutto organizzato. E ora chissà dove mi sbattevano. “L’ottava”. “Chi?”, dissi. “Chi cosa?”. “Chi è che lottava?”. “Non lottava nessuno. Ho detto: ottava. Ottava Municipalità”. “E dove è?”, chiesi, e mentre chiedevo volgevo lo sguardo verso il cielo, cercando in un’immaginaria mappa della città, che poteva nascondersi nelle pieghe del soffitto, di ricordare la suddivisione delle Municipalità napoletane. “Scampia”. Il tipo, mentre pronunciava quell’unica parola, aveva di nuovo distorto lo sguardo da me. Ci giurerei che se la rideva sotto i baffi. Intanto io ero allibito: Scampia. Un nome un programma. “Sca-che?”, provai a chiedere. “Pisani, hai capito benissimo”. Era passato al cognome. Si era messo in modalità disbrigo di pratica. Infatti si era alzato e stava per uscire. “Ma, ma…”, balbettai. “In bocca al lupo”. E se ne andò. Ero rimasto solo nella sede del partito. Io e quella parola. Scampia.

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GENTE PER BENE, GENTE PER MALE

Scampia. Fino a quel momento della mia vita – avevo da poco superato il ‘mezzo del cammin’ dantesco – non è che ci ero stato tante volte. Di passaggio. Frettoloso passaggio. Per lo più tornando dal carcere di Secondigliano verso il Vomero. Ma come molti altri napoletani, come moltissimi altri vomeresi, di Scampia avevo letto soprattutto le cronache. E non sembravano belle cronache. E come quasi tutti quelli che abitano nella zona di piazza Vanvitelli, poi, la leggenda nera di Scampia era stata amplificata, negli ultimi anni, dal collegamento diretto tramite la nuova metropolitana. “Ora quelli di Scampia vengono a rovinarci il quartiere”, si sentiva dire. Oppure: “Ecco, la calata degli Unni”. La gente del Vomero era disturbata dalle comitive di giovani che nel weekend venivano a fare shopping a via Scarlatti o a mangiare nei pub di San Martino. Si, c’era stato qualche incidente. Un paio di risse e qualche scippo. Ma né più né meno di prima. Solo che questi ragazzi di periferia erano molto appariscenti, coi loro giubbotti colorati e le capigliature estrose. E poi facevano casino. E così erano un facile bersaglio. La cosa, in realtà, non mi turbava molto. Non temevo nessuna invasione né partecipavo al dibattito, in voga soprattutto tra anziani e ‘chiattilli’, che nel mio quartiere abbondavano e abbondano. I chiattilli, dico. Quella denominazione tutta napoletana che indica i fighetti, i ricchi viziati, i figli di papà. Ecco, loro avevano un timore panico per i ‘tamarri’. La categoria opposta ai chiattilli: i cafoni, per lo più abitanti i quartieri popolari. Soprattutto di periferia, secondo quanto sostenevano questa 15


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distinzione. Che a Napoli ha un peso specifico. Non so se più di altre città, ma qui è esasperata da alcuni fattori. Sicuramente dalla storia: da sempre esiste un forte contrasto tra le classi egemoni, oggi l’alta borghesia, e un popolo enorme, brulicante. E pure dall’urbanistica. Napoli non è sviluppata a cerchi concentrici come altre metropoli, e questo ha favorito lo sviluppo di periferie interne alla città. Che poi dico periferie solo per il milieu che le connota, perché non c’è nulla di così cosmopolita della struttura sociale di un quartiere tipo napoletano. Mettiamo i Quartieri spagnoli. In un palazzo abitavano i professionisti della borghesia ai piani alti, al primo i nobili e nel basso i popolani. Tre livelli della società in pochi metri. Questo consentiva un dialogo incessante, una dinamica di scambio proficua per tutti. Per me, quando si dice che Napoli ha un’atmosfera particolare, è in virtù della sua promiscuità culturale. Sebbene si stia perdendo, mantenendosi ormai in pochi quartieri del centro. Anche qua, purtroppo, sono nate isole per ricchi e ghetti per poveri. Però, in genere, la convivenza dura ancora: e per ogni quartiere ‘bene’ c’è un rione popolare. I Quartieri spagnoli confinano con via Roma, la strada delle banche, nella ricca Chiaia ci sono i bassi della Torretta, al Vomero quelli del Petraio e perfino a Posillipo, l’area dei vip, una zona di confine come il Casale. Perciò nasce questo bisogno di distinguersi. Una sorta di guerra tra poveri di spirito, per come la vedo io. Ma di cui bisogna tenere conto. Era fiorita addirittura una letteratura satirica, in proposito. A partire dal mitico Tony Tammaro, un cantante comico che aveva spopolato nei primi anni ’90. Con le sue canzoni, subito conosciute da tutti, anche fuori di Napoli, aveva preso in giro e in qualche modo celebrato i tamarri, diventandone una bandiera. Specie in contrasto coi ‘signori’. La stessa polarizzazione era stata cavalcata da un altro cantante, Fe16


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derico Salvatore. Quest’ultimo, a partire dal suo stesso nome, diviso tra l’aristocratico Federico e il popolare Salvatore, aveva costruito una carriera sulla lotta di classe alla partenopea. E poi trasmissioni, libri, modi dire. Una temperie culturale basata sullo scontro tra chiattilli, di cui i vomeresi erano l’emblema, e i tamarri. Su tutti, quelli di Secondigliano. Perchè per tutti quelli che non la frequentavano, Scampia era: Vele, malavita, droga. Ed era una cosa con Secondigliano. Nell’immaginario delle persone che non vi abitavano, la sovrapposizione tra Scampia e Secondigliano era automatica.

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LA STESSA COSA

Inutile dire che ero nervosissimo. Quella comunicazione di servizio calata dall’alto, senza preavvisi né spiragli di trattativa, mi aveva mortificato. Così si fa in politica? Si gioca con il lavoro delle persone come al Monopoli? No, non ci potevo passare. Mesi e mesi di colloqui, di preparativi, di ragionamenti. Poi magari si presenta l’ultimo dei bamboccioni, il figlio di un notabile che fa i capricci, e ti levano da mezzo. Quel genere di politica non era per me, evidentemente. Mi veniva voglia di rinunciare. Chiamai Alessandra, la praticante dello studio che collaborava alla campagna elettorale. “Pronto, Angelo, stai tranquillo. L’ho fissato, l’appuntamento con l’associazione di commercianti”, mi disse lei anticipandomi, veloce e pratica. Una forza della natura, Alessandra. Il motivo per cui l’avevo scelta, nonostante fosse di idee politiche diverse. “Brava. Ora li richiami e gli dici che non si fa nulla”, dico. “Si, si. Sempre a pazziare. Allora, bisogna chiamare l’ufficio stampa…”. “Alessandra”, la interruppi. “Che è, Angelo?”. “L’incontro salta”. “Ma…! Stai scherzando, vero?”, fece lei. “Per niente. Ora come ora non ho alcuna voglia di scherzare”. “Ma Angelo, c’ho messo un mese per organizzarlo. Mi spieghi perché questo cambio di rotta?”. Era smarrita e aveva tutte le ragioni per esserlo. 18


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“Semplice: non sono più candidato al Vomero”. Dall’altra parte del telefono non una parola. “E non l’ho deciso io”. Ancora zero risposte. “Ale, ci sei?”, la incalzai. “Arrivo subito”, disse. Dopo mezz’ora era nel mio studio di piazza Vanvitelli. “Ma com’è possibile?”, ripeteva. Agli occhi di una donna quella storia doveva sembrare ancora di più un’assurdità. Sono meno portate ai giochini di poltrone, le signore. Sono, per lo più, persone serie. Loro. “E come è possibile. Ti dico che non ho potuto obiettare nulla, praticamente”. Avevo l’aria molto rassegnata. “Che pensi di fare?”, arrivò subito al punto. “In questo momento vorrei mollare tutto”, dissi. “Ti capisco”. “E poi che ne so io di Secondigliano?”. “Ma non avevano detto Scampia?”, fece lei. “Vabbè, è la stessa cosa”. “Sei sicuro?”.

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LA GENTE DELLA NOTTE

In effetti con Secondigliano avevo qualche precedente. E non un buon precedente. Era passato un bel po’ di tempo ma il ricordo rimaneva intatto. Erano i tempi della notte. Chiamo così il periodo della mia vita in cui ho trascorso molte più ore al buio che alla luce del sole. E non perché mi chiudessi in una stanza vittima di qualche forma di depressione. Tutto il contrario. Vivevo, e vivevo alla grande. Solo, lo facevo di notte. E in qualche modo, della notte, mi sentivo il re. Ero probabilmente il più famoso organizzatore di serate di Napoli e provincia. Discoteche, locali, feste. Quando c’era un evento mondano là mi trovavo io. Avevo iniziato presto, l’ultimo anno delle scuole medie. Dai classici Mak Π, con il P rigorosamente greco. Vai a capire perché. Anzi, vai a capire perché si chiamassero così. Si, c’era una storia dietro. E ogni buon pierre doveva conoscerla, magari per fare colpo sulle ragazze. La tradizione del Mak Π è prettamente militare: la cerimonia nacque a metà ’800 all’Accademia di Torino. Un regio decreto fissò in tre anni la durata dei corsi per ottenere la nomina a sottotenente e, nell’apprendere tale disposizione, un allievo, in pratica il nostro capostipite, tale Emanuele Balbo Bertone di Sambuy, esclamò, in marcato savoiardo: «Mac pi tre ani!», ossia «Ancora soltanto tre anni». L’espressione conquistò immediata popolarità; gli anni furono poi convertiti in giorni e gli allievi presero l’abitudine di fare il conto a scalare, scrivendo sulle lavagne il lasso di tempo che mancava alla promozione. Mak P divenne così l’espressione tipica, ripetuta di anno in anno, all’avvicinarsi della conclu20


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sione del corso di formazione degli ufficiali. Verso la fine del secolo l’usanza si trasferì nel resto delle scuole militari, trasformandosi da semplice ricorrenza goliardica in un vero e proprio appuntamento istituzionale, il cui evento principale è il “Passaggio della Stecca” (un attrezzo di legno anticamente utilizzato per lucidare i bottoni dell’uniforme senza sporcarla) tra il capocorso degli “anziani” e quello dei “cappelloni”, gli studenti del primo anno. Perciò non si capisce da dove provenga il P greco. Forse gli allievi volevano dare un tocco di esoterismo a quella sigla, una roba da codice segreto, clandestina, confermata pure dall’uso della K. E, ancora, non si capisce perché da questa cerimonia di fine corso che sa tanto di “100 giorni all’alba” si sia arrivati agli odierni festini che di militaresco hanno ben poco. Sta di fatto che mi feci le ossa con questi benedetti Mak Π. E se il buon Emanuele Balbo Bertone fu l’inventore del nome, anch’io mi difesi in quanto a trovate. Divenni, di fatto, il creatore dell’organizzazione dei portagente. Quelli, in soldoni, incaricati di convincere le persone a venire in discoteca. Ecco, si può dire che l’idea di piramide, secondo cui più persone portavi più biglietti gratis ricevevi, fino a guadagnarci sopra in proporzione, l’ho lanciata io. Un metodo tanto semplice quanto efficace. Con un retaggio storico, desunto com’era dal feudalesimo. Tra vassalli, valvassori e valvassini, la rete funzionava. Un modo per incentivare i ragazzi che lavoravano con noi a farlo meglio. In ballo non c’erano solo soldi o ingressi gratuiti. C’era pure il nome. Se ti facevi spazio tra quelli che possono fare entrare alle serate ti si schiudeva un paradiso. Fatto di modelle e tavolini prestigiosi. L’idea premiava. Nel giro di pochi anni ero diventato uno dei ras delle notti partenopee. Ricordo le serate in piazza, di solito il martedì. I momenti in cui si decideva 21


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su quale locale far convergere le persone. Il locale ‘che si portava’, come si diceva. Ecco, la sensazione di determinare una voga era inebriante. Somigliava alla borsa. Una borsa tutta nostra, ma con dinamiche simili. Si capiva da come si scendeva dall’auto, che aria tirava. Noi, i più importanti, arrivavamo per ultimi. E c’era sempre uno spazio per la nostra auto. Ad attenderci i pierre e i proprietari dei locali. Dalla disposizione delle automobili si capiva pure se c’erano novità. Normalmente, se c’erano macchine nuove voleva dire che si facevano avanti gestori nuovi, con proposte allettanti. E poi, se i ragazzi erano fuori dalle auto, buon segno. Significava che gli accordi preliminari erano già presi. Se in strada non c’era nessuno, due le cose: o faceva freddo o i pierre erano in macchina a parlottare. In quel momento, allora, ci voleva qualcuno che contasse. Era bello risolvere i problemi. Era gratificante fare strategie, dare lavoro, inventarsi serate. Ormai, poi, si era creato un giro fisso. Una famiglia della notte. Con i suoi riti: feste comandate, compleanni, abitudini e tic. Si andava a mangiare tutti insieme, magari alle 4 di mattina. Uno dei nostri capisaldi erano le pizzerie di piazza Sannazaro, le uniche aperte tutta la notte. O il ‘zozzoso’ a via Cilea. Una trattoria non propriamente in linea con i desiderata dell’Asl (all’epoca si chiavano Usl) che a fine serata ricoprivamo di volantini e presentazioni. E poi il cornetto, appena spuntava il sole. E sul cornetto non c’era storia: il bar Tico. Le discoteche erano soprattutto in zona flegrea, ma a quell’ora non c’era mai traffico. Quindi, anche se eravamo di stanza al centro o a Chiaia, sempre al Tico si finiva. Un bugigattolo di caffè in via Giulio Cesare, a Fuorigrotta. Dove però accorreva tutta Napoli: ogni prodotto sfornato un’eccellenza. Non ho mai capito se preferivo la pizzetta alla provola affumicata o la brioche grondante cioccolata. Uno schizzo di 22


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nutella al solo sguardo. Però era una delizia di gusto, tatto e olfatto. Quante camicie buttate, per un morso di quella delizia. Ma era un nostro must. Così come quello della cattedrale: il Kiss. Il nostro fortino. Capitanato da Ciro Niespolo, un omone dalla canottiera e dal cuore gigante che mi trattava meglio di un figlio. Là avevamo inventato le “Domeniche italiane” ribaltando l’idea di giorno elettivo per il locale notturno: non il venerdì, non il sabato, per noi il giorno del Signore era quello in cui ballare e ascoltare musica. Al Kiss passò il meglio degli artisti dell’epoca, da Edoardo Bennato a Vasco. Ma le notti non erano solo fatte di lavoro e svago. C’erano spesso problemi. Qualche volta, guai veri e propri. Innanzitutto, i genitori. Più di una volta papà ordì agguati ai miei danni per riportarmi a casa. A volte, proprio per il collo. Ricordo ancora le sue mani sulla camicia e la spinta forte verso la macchina. Dopo un po’ si fece capace che aveva un figlio nottambulo. Eppure non accettò mai quel mio andazzo. Se c’erano problemi a casa, figuriamoci per strada. Ad esempio, i conti. Che, come da proverbio, spesso non tornano. Ma quello si aggiusta: specie se al denaro non sei attaccato. Poi, le piccole faide. C’erano gruppi di “pierre” scontenti o che volevano mettersi in proprio. E allora giù dispetti, stupide ritorsioni, messe al bando. Ancora, poteva succedere che una serata degenerasse in lite per via di una ragazza contesa: e dovevamo essere sempre noi, i responsabili, a mettere tutto apposto. Una rissa poteva costare il buon nome del nostro giro. Ma tutto sommato erano inezie, cose che dopo un po’ potevano diventare persino un ricordo su cui ridere: “Oh, da morire quella sera in cui Sasà si afferrò con Mimmo!”. “E perché, la volta che Simona vomitò sul bancone della Mela?”. I guai erano altri. 23


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L’ingresso negato, ad esempio. Credo si conosca il termine di “selezione alla porta”. Una pratica un po’ spiacevole. Parte razzista, parte ingiusta. Ma garanzia, presso certi ambienti, di sicurezza e riuscita della serata. A volte la selezione riguardava gli abiti – io detestavo i calzini bianchi e le mani non curate – a volte il genere (meglio gli eventi con una distribuzione equilibrata dei sessi), altre l’estrazione del cliente. E qui erano dolori. Di solito, una rete di protezione a vari livelli fungeva da filtro: così che i tipi loschi difficilmente si avvicinavano alle nostre situazioni. Questo era un altro termine molto in uso. “Che situazione è?”. Una situazione house, una lounge, una situazione quieta, quando magari era una serata di giovanissimi. Ma prima di arrivare ad avere una simile sicurezza ci voleva rodaggio e conoscenza dell’ambiente. Infatti per diversi anni i primi giorni della settimana era meglio non farsi vedere in giro per la città. Potevi sempre imbatterti in qualcuno che avevi allontanato nel week end. Fu così che i primi tempi, avrò avuto diciannove anni, mi trovavo a seguire una serata al Kiss. La mitologica discoteca di via Jannelli. Era proprio una ‘situazione’ più che tranquilla: un party privato di Natale. C’erano molte ragazze, questo lo ricordo. E forse fu proprio per questo che a un certo punto, alla porta, si affacciarono dei tizi. Saranno stati cinque o sei. Dire che erano poco raccomandabili sarebbe fare un torto allo stesso concetto di raccomandabilità: pellicce, anelli vistosi, catene d’oro, capigliature madide di gel. E perifrastica attiva. Come si nota, ho fatto il liceo classico: e definisco così la modalità di certi soggetti un po’ aggressivi che sembrano essere sempre sul punto di scattare per una rissa. Una prossemica molleggiata in avanti, accompagnata da un ritmico masticare di chewingum. Insomma, facevano paura. Anzi, come diceva Ciro Niespolo ‘facevano schifo’. E volevano entrare per forza. 24


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Nonostante i nostri buttafuori gli stessero comunicando che fosse una festa a inviti. Niente, dovetti arrivare io all’entrata. “Che succede?”, dissi. “Angioletto, ‘sti guaglioni non si fanno capaci che non è cosa”, disse uno degli uomini alla porta. “Ragazzi”, feci, rivolgendomi al gruppetto, “allora? Ve lo ha spiegato chiaramente, non c’è posto”. “E voi il posto lo fate uscire”. A parlare era stato il più bassino. Uno con uno sguardo orribile. “Noi siamo i compagni di Mastrillo”. “E chi è?”, chiesi. Senza ironie, ignoravo chi fosse quel Mastrillo. “Uno che questo cesso v’o fa zumpà”, incalzò il piccoletto. Pensai di mantenermi calmo. “Vi ripeto, non possiamo decidere noi. E poi credo non conosciate nessuno, dentro. Venite la prossima volta: sarete miei ospiti”, proposi. Bisognava prendere tempo: poi a qualcosa avrei pensato. Ma non servì a molto: un altro, uno invece enorme, mi si fece vicino. “Senti, bellillo, ma per chi ci hai pigliato?”. E sottolineò l’intemerata con uno spintone che mi fece volare di qualche metro. In quella intervennero i miei buttafuori: ma prima che degenerasse in rissa mi ripresi. “Basta, chiudiamo le porte”. Il gruppo rimase fuori a spingere e lanciare sassi. A un certo punto decisero di rinunciare. Ma andandosene il piccoletto, da dietro la porta, parlò ancora. “Ti veniamo a prendere, Pisani. Dove stai stai”. E la notte, dopo la serata, dettero fuoco al locale. Da qualcuno là fuori venni a sapere che era gente di Secondigliano. Il peggio è che sapevano come mi chiamavo. Da quel momento entrai nel panico, e per un po’ di tempo non mi passò. Giravo con una specie di scorta composta dai più fidati e temibili buttafuori della città. 25


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Molti me li avevano procurati colleghi di altri locali, ci fu una grande solidarietĂ . Poi la scorta mi fu affidata dai carabinieri, per sei mesi. Dopo qualche mese le acque si calmarono. Ma per me Secondigliano era diventato sinonimo di minaccia.

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