Narrativa Minerva collana diretta da Giacomo Battara
Milano Marittima
Milano Marittima di Letizia Magnani Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Giacomo Battara © 2012 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. In copertina: frontespizio originale materiale pubblicitario “Società Milano Marittima”, 1912, firmato da Giuseppe Palanti, ragazza al mare, foto anni trenta. Il romanzo è opera di fantasia ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale Edizione 2012 ISBN: 978-88-7381-440-5
Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com
L etizia M agnani
Milano Marittima
Minerva Edizioni
A Gabriella
Milano Marittima
Capitolo1. 1963 Il biroccino lo aspettava fuori, sulla strada. Era insolito vederne uno di quei tempi. Era di un suo professore che, nei mesi invernali, indossava la caparella di lana, come si usava un tempo. Portava sempre anche il bastone. Simbolo di distinzione, di antica eleganza, di potere. Non era un bell’uomo anche se era impeccabilmente vestito con un gusto un po’ d’altri tempi, oltre che rispettabile. Ogni dettaglio in lui era piuttosto simile a quello del suo bastone. Ne aveva più di uno. Erano da passeggio e tutti avevano come impugnatura un pomo finemente decorato. Alcuni dovevano essere stati torniti nei decenni precedenti. Appartenevano alla famiglia del suo professore da almeno due o tre generazioni. La mano affusolata e candida del professore stringeva i pomi di quelle impugnature con naturalezza e, assieme, con dignità e divertimento. Per lo più si trattava di teste di animali che potevano ricordare e anzi ricordavano luoghi lontani: la savana, il deserto, l’Africa più profonda. Ce ne era uno con la proboscide da elefante, con tutti i particolari che emergevano nel legno, liscio e dorato. E poi uno con la testa di un leone. Un giorno, a lezione, il professore si era presentato perfino impugnando un bastone con le sembianze di una piccola scimmia antropomorfa. Doveva provenire dall’Africa quell’oggetto finemente scolpito. Almeno questo era quello che pensava Eugenio. L’Africa. Sapeva che quel suo professore ci era stato, almeno due 7
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volte. E aveva letto i racconti degli inviati di guerra, Max David e Curzio Malaparte. Quello che del suo professore lo aveva colpito subito era l’aria da ragazzino, che dissimulava continuamente nel parlare, nel vestire, nell’essere quello che era. Insegnava economia politica ed era più rispettato che temuto, cosa inusuale per quegli anni. Eugenio lo aveva ammirato sin dal principio e lui, il professore, lo doveva aver preso in simpatia. Forse perché in lui vedeva il ragazzo che era stato o più semplicemente perché condividevano gli stessi valori mazziniani. In fin dei conti le loro storie non erano poi così dissimili. Il professore era nato a Lugo, da una famiglia di antica nobiltà, ma aveva sempre vissuto a San Pietro in Vincoli, nel villino delle vacanze estive, in campagna, lontano da una famiglia da cui aveva preso le distanze presto, prima di trasferirsi a Bologna, dopo aver frequentato il meglio che il mondo potesse offrire allora. Parigi, Montpellier, poi l’Africa. Ci era stato molti anni prima, da giovane e ora, anche se annodava sempre con cura il fiocco di seta al collo e manteneva una certa aria da impunito, non si sentiva più tanto giovane. La vita, il mondo gli piacevano. Viveva da solo a Bologna e non era stato sposato. Da quel che si sapeva non gli mancavano certo le donne. Ma per un motivo o per l’altro non aveva ancora trovato quella che facesse al caso suo. A San Pietro in Vincoli lo aspettava ogni fine settimana una vecchia zia. Era la sorellastra del padre, figlia illegittima del nonno, che, a quanto si diceva, si fosse divertito moltissimo nella sua esistenza con le donne, il vino e le carte. 8
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Il professore non ricordava molto di quel nonno. Anche perché di lui si era sempre parlato poco e malvolentieri nella grande casa in stile padronale di Lugo. Solo la zia Adelina, che non a caso era stata per così dire esiliata a San Pietro in Vincoli assieme a quel figlio senza regole, ne parlava di tanto in tanto. Diceva che era un uomo gentile a cui piacevano le belle donne. E proprio questo non andava a genio al padre del professore che era un possidente di terreni nella larga ravennate col quale non si poteva discutere e che dal nonno non aver preso molto, tantomeno la vocazione al libertinaggio. Ci aveva pensato a lungo negli anni il professore. Poi se ne era fatto una ragione. Forse era per andare alla ricerca delle tracce di quel nonno e delle sue avventure che aveva deciso, un giorno, di partire per l’Africa. Quel suo viaggio aveva determinato una profonda frattura col padre che lui considerava rude e insensibile. Il loro rapporto era compromesso in qualche modo da tempo. Ma quel viaggio aveva determinato una separazione inequivocabile, insanabile. Quando il padre morì, anni prima, già non si parlavano da un tempo che al professore era sembrato eterno. Della sua famiglia, del suo casato, della sua storia gli rimanevano la casa di San Pietro in Vincoli, i bastoni da passeggio del nonno e la zia Adelina, a cui lui voleva bene come se fosse stata una zia legittima. Per lui, come d’altra parte per il nonno, in fin dei conti, lo era. Se lo si guardava bene, ed Eugenio lo aveva fatto spesso a lezione, si vedeva che doveva non essere più giovane. Poteva benissimo avere cinquanta o cinquantadue anni. In realtà ne aveva 9
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appena quarantasei. Eugenio lo aveva conosciuto all’Alma Mater Studiorum di Bologna, anche se lui abitava nella campagna ravennate, non troppo lontano dal mare, a Castiglione. Castiglione era un paesino nel bel mezzo della campagna. In estate il caldo era torrido e le zanzare facevano il loro mestiere. Il paese, abitato ancora da poche persone, per lo più contadini o piccoli artigiani, era diviso in due. Il fiume Savio, infatti, delimitava la frattura più evidente, quella geografica, e dunque c’erano due Castiglione. Una che era chiamato “ad là”, si trovava verso Ravenna e aveva “quel che”, come si diceva allora, che hanno le cose signorili. La campagna ravennate era sterminata, né ricca, né povera, ma signorile. Piena di dignità. La stessa che riconosceva nel suo professore, che, non a caso, veniva proprio da quella campagna: San Pietro in Vincoli. Poi c’era la Castiglione “ad qua”, detta anche Castiglione di Cervia, in tutto e per tutto uguale a quella di là, ma in qualche modo meno dignitosa. Forse perché mancavano i signorotti ravennati o perché nasceva subito a monte (anche se a percorrerlo tutto lo spazio, sembrava una distanza severa) di quella che ormai era considerata da tutti una meta turistica in ascesa, Cervia. Lui era nato nella parte “ad qua” del fiume, in direzione del mare, a Castiglione di Cervia. Il padre, che era morto tre anni prima, aveva iniziato come manovale a giornate, poi negli anni aveva messo in piedi una sua impresa edile che lavorava non poco, soprattutto da quando il boom era arrivato anche da quelle parti. Non erano né poveri né ricchi prima che il padre morisse improvvisamente. 10
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Avevano qualche terreno, frutto di acquisti andati a buon fine o cambi merce che il padre, repubblicano convinto, aveva fatto nel tempo. Poi c’era l’impresa edile, che lavorava parecchio, soprattutto nella costruzione di piccole abitazioni residenziali nella nascente Milano Marittima. Si trattava della porzione di terreno che si trovava a nord del porto canale e che delimitava Cervia nella parte più alta, verso Ravenna, proprio al di là delle saline. Era lì che qualche anno prima della Grande guerra un gruppo di giovani borghesi milanesi aveva deciso di costruire una specie di villaggio delle vacanze per la media borghesia meneghenina. Poi c’era stata la guerra. La prima, nella quale avevano combattuto in tanti, compreso suo padre e che aveva segnato anche questa porzione d’Italia, con lutti e scomparse, che ancora pesavano non solo nella memoria, ma nel quotidiano. Poi la seconda. La sua famiglia e quella della sua ragazza, la donna che Eugenio avrebbe sposato da lì a pochi mesi, erano state sfollate proprio in una delle grandi colonie sul mare costruite negli anni Trenta in quella che suo padre chiamava ancora Cervia Pineta. Ed era proprio al limitare di Cervia Pineta, quella che poi sarebbe diventata per tutti Milano Marittima, che il padre di Eugenio aveva i suoi principali interessi. Poco prima di morire aveva appena ultimato due villette adiacenti, non molto distanti dal mare, in mezzo alla pineta, per due cugini che venivano, guarda caso, dalla Milano borghese di allora, uno di loro era un avvocato affermato. Anche se al padre di Eugenio non piaceva, perché era scorbutico e fascista. 11
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Castiglione di Cervia viveva poi anche una seconda frattura. La chiesa, in pietra rossa che dominava la piccola piazza polverosa del paese, si affacciava proprio di fronte al bar dei repubblicani. Come nel vecchio West, ogni tanto, si fronteggiavano le opposte fazioni sui due lati della strada che portava, seguendo il fiume, verso Savio. Il giovane pretino che era stato mandato là, Don Giuseppe, non era affatto democristiano, ma rappresentava quel potere che da sempre la gente di lì combatteva, magari senza un motivo preciso, ma come missione principale. A dire la verità Don Giuseppe non sembrava né giovane, né pretino. Ma era una specie di capro espiatorio. Non che a lui facesse piacere. Anzi, a volte andava a letto con certi mal di testa, per le offese che riceveva dai giovani repubblicani. A poco era servito aver scelto la parte giusta. Era stato vicino ai braccianti nelle loro rivendicazioni contro i padroni e alle donne durante la fine della guerra, aveva lottato anche, certo a modo suo, contro il fascismo. Aveva salvato nove uomini. Erano canadesi e se i fascisti li avessero trovati gli avrebbero fatto la pelle e di certo l’avrebbero fatta anche a lui. Aveva aiutato i partigiani. Era stato anche lui partigiano, motivo per il quale gli uomini, come il padre di Eugenio, lo rispettavano, nonostante fosse un prete. Perché ai preti, come alle donne, non era stato lasciato grande spazio neppure in quel frangente. Il maschilismo e una certa genuina ignoranza alla buona erano ancora i pilastri su cui la Romagna si fondava. Anche il padre di Eugenio, che pure non disistimava Don Giuseppe come uomo, era una acceso anticlericale. Una delle poche cose che gli ave12
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va insegnato suo padre, per cui le parole dovevano essere un bene prezioso visto che le usava con una parsimonia senza uguali, era che se vedeva all’orizzonte un punto nero, avrebbe dovuto sparare. Poteva trattarsi di un prete o di un fascista. In ogni caso la pallottola non era stata sprecata. Non che suo padre fosse un violento. Non andava neppure a caccia e forse non aveva mai sparato, nemmeno durante la guerra, anche se questo non lo aveva mai detto a nessuno, ma aveva un rancore atavico nei confronti dei preti. In questo ricadeva anche Don Giuseppe, che in realtà solidarizzava quasi con i repubblicani e che aveva un viso così solcato dalle rughe che sembrava davvero una persona ricca di saggezza sin da molto giovane. Era stato vicino ai partigiani. Aveva bevuto anche lui parecchio olio di ricino. Aveva lottato, a modo suo, anche pregando. Piangendo. Forse era questo che gli anticlericali non gli riconoscevano. Il pianto e la preghiera: scorciatoie da femmine. Inoltre aveva la gonna lunga da prete e la domenica nella predica non le mandava a dire a nessuno, tanto meno ai repubblicani bestemmiatori. Erano due motivi, la gonna lunga e la predica alla funzione della domenica, sufficienti per non averlo propriamente in simpatia. Il padre di Eugenio non si considerava né di ampie vedute, né limitato. Era un uomo di buon senso, come se ne incontravano tanti da quelle parti. Ma un prete, per il fatto stesso di essere prete, poteva essere un assassino, una spia o un nemico come gli anni del fascismo e del contro fascismo avevano in parte dimostrato, e poco importava se Don Giusep13
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pe non era mancato nemmeno una volta alle riunioni clandestine che si erano tenute in casa sua, con regolarità, fino alla fine del 1945, poco importava se non ci aveva pensato su un secondo prima di nascondere i soldati canadesi, anche quando gli altri uomini in paese, compreso lui, erano dubbiosi. Era comunque un diverso. E lo era perché predicava, senza vivere. Lo era perché era dogmatico e se il padre di Eugenio credeva in qualcosa era proprio nell’assenza dei dogmi. Nemmeno la famiglia lo era in assoluto per lui. Forse per questo aveva perfino tradito la madre di Eugenio di tanto in tanto. Don Giuseppe, Eugenio stesso lo sapevano. Non che ci fossero voci su suo padre, era un uomo stimato e schivo, forse stimato perché schivo. Ma era così. Non poteva che esserlo. Gli unici fari che orientavano la vita del padre di Eugenio erano la fatica e il dovere. Il dovere avrebbe segnato anche quella del figlio. Non si trattava di un dogma, inteso come quelli di cui parlavano i preti dall’altare. Anche se a guardare da fuori ci assomigliava moltissimo. Il senso del dovere era l’insegnamento più grande che avesse mai ricevuto e che avrebbe lasciato al figlio. Il rancore nei confronti dei preti non era diminuito nemmeno quando suo fratello Ettore aveva deciso di indossare l’abito talare. Da qualche anno viveva oltre Ferrara, in una paesino nella bassa, quasi vicino a Rovigo, dove difficilmente riesce a filtrare il sole, anche in estate. Amava suo fratello. Si fidava ancora di lui. Ma non ne aveva approvato la scelta. Dove finiva il senso del dovere se lasciavi tutto per occuparti unicamente di Dio? Lo aveva giudicato egoista per quella scelta e poi incoerente, un 14
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venduto. Anche lui forse credeva in Dio, non ne era certo e, comunque, in questo suo credere non aveva bisogno di andare in chiesa, come faceva sua moglie Ada, ad ascoltare le prediche di Don Giuseppe. Provava simpatia per Ettore e Giuseppe. Ma non ne capiva le vite e quindi non poteva stimarli. Quello nei confronti dei fascisti era un rancore meno atavico e ancora presente. Anche se erano passati molti anni si ricordava ancora l’odore nauseabondo dell’olio di ricino che quei cani gli avevano fatto bere e le loro voci prepotenti, come i loro manganelli. Nel dubbio era sempre meglio sparare: si eliminavano un prete o un fascista. La cavalla che trainava il biroccino, elegante, a due posti, era grigia chiara, pezzata, con delle macchie più scure, quasi nere sul davanti. Doveva avere più di dieci anni, era lenta e solenne in ogni passo. Eugenio rimaneva sempre colpito dall’immagine della frusta sulle natiche forti dell’animale. Era ciò che stava riempiendo il suo campo visivo anche ora, mentre il suo professore con polso sicuro, batteva appena i fianchi dell’animale. L’odore della pelle colpita si mischiava a quello del calpestio degli zoccoli, un misto di terra ed erba, che si univa ad un leggero sentore di sterco che i cavalli portano sempre con loro. Era inebriante. Si eccitava ogni volta a quella vista. Come se la frusta sul di dietro dell’animale fosse contemporaneamente un’azione di potere e di persuasione, come se ci fosse qualcosa di erotico e di amorevole in quel gesto così semplice, pulito, a tratti perfino secco. 15
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La cavalla del professore per altro era docile e abituata a quel tragitto, quindi non aveva bisogno di particolari spinte per muovere, eppure ad Eugenio sembrava che quel gesto facesse sembrare il suo professore uomo per eccellenza e che quel colpire le terga del cavallo fosse il preludio di un discorso molto più complicato. Fosse la porta per un piacere profondo che provava ogni volta che fissava quella scena. Era una erezione potente che tratteneva in mezzo alle gambe, sperando che il suo professore non se ne accorgesse. A volte da solo a casa, la sera, rientrato da una di quelle gite, aveva perfino avuto l’ardire di pensare che magari il suo professore poteva essersi accorto di quel gonfiore fra le sue cosce e che probabilmente era lo stesso anche per lui. Riusciva a sborrare con due o tre colpi di mano pensando a questa cosa. Lo trovava un pensiero audace e gli piaceva. Perché sentiva sintonia con quell’uomo che ora stimava più di suo padre. Mentre il professore frustava la cavalla Eugenio aveva nella propria mente non la sua ragazza, ma solo la frusta su quelle natiche enormi e odorose. Tutti i suoi sensi erano permeati dall’odore della cavalla colpita, della terra e la memoria gli riportava in quell’istante anche l’odore dell’aceto, nelle notti d’estate in campagna; così Eugenio si soffermava con il pensiero sulla sorella non sposata di sua madre, Emilia, che sputava come un uomo, ma aveva un sedere in tutto e per tutto simile a quello della cavalla del suo professore. Almeno a lui appariva così. E ci ripensava nelle notti estive disteso nella sua branda. 16
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Il fondoschiena delle donne in genere lo eccitava. Ma era diventato qualcosa di molto più denso e grumoso, come un chiodo fisso, una malattia perversa, il desiderio esercitato dal pensiero della similitudine fra il culo della zia Emilia e quello della cavalla del professore. Avrebbe voluto colpirle entrambe col mezzo frustino del biroccino. Sentire il sudore sulla schiena piccola e bianca della zia Emilia e su quella larga e setolosa della cavalla. Seguire i movimenti dell’animale e quelli di sua zia. Ad un tratto il desiderio era così forte che gli sembrava l’unica sensazione possibile da provare per un giovane uomo come lui. Era normale. E in quella normalità adulterina e bestiale, dopo essersi copiosamente venuto nelle mani, si addormentava. La sua ragazza al contrario aveva un culo quasi maschile, muscoloso, magro e alto. Troppo alto. Non lo trovava particolarmente eccitate. Nonostante lei non fosse proprio il tipo di donna slanciata, quel sedere secco era stato messo troppo in alto rispetto al resto del corpo. Era bella, aggraziata, piccola. Era certo allora che le donne piccole si brancolassero meglio a letto. Non che con lei ci fosse ancora mai stato a letto. Era una ragazza riservata, dai modi austeri, a tratti freddi. Lui era sicuro di non trovarla desiderabile. Ma era anche altrettanto certo che l’avrebbe sposata. Aveva i capelli castani e gli occhi color nocciola chiaro. Era bella. Anche se il suo sedere era secco. Alto e troppo secco. Come i suoi modi, freddi. Ma Eugenio la stava per sposare. Tutti sapevano che sarebbe andata a finire così e anche loro due non avevano dubbi. Forse non avevano neppure avuto l’ardire di pensare a qualcosa di di17
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verso da quel matrimonio per loro. Di certo non lo aveva fatto lei. Ma in realtà neppure lui. Le loro famiglie erano sfollate nella stessa stanza della medesima colonia sul mare di Milano Marittima dal maggio del 1944, alla fine della guerra. Lei aveva qualche mese in più di lui, anche se anagraficamente si trattava di un anno a tutti gli effetti, motivo per il quale avevano frequentato due classi diverse alle elementari. Quando vivevano sfollati in quella colonia sulla spiaggia lei aveva cinque anni e lui quattro. Due anni dopo, tornati alla vita normale, in campagna, avevano frequentato due classi diverse delle elementari. Sara era un anno avanti a lui. Questo Eugenio lo ricordava. Non che in generale ricordasse granché di quel periodo. Era troppo piccolo. Ricordava le sberle di sua madre, la voce di Emilia e il suo grande culo, che ancora non aveva trovato eccitante, ma che comunque lo attirava. Era allora che poteva toccarlo con le sue mani di bambino. Ci sprofondava dentro come i piedi nella sabbia calda e si sentiva a casa. Ricordava l’odore del mare e la nebbia pungente, nelle sere d’inverno. Forse qualche gioco con quella bambina e con altri. Poco di più. Sta di fatto che Sara nella sua vita c’era sempre stata. Anche dopo. Anche allora. Anche ora. Anche poi. Sempre. Quando suo padre era morto improvvisamente e lui era ritornato in tutta fretta dal collegio – era stato proprio lo zio prete Ettore ad andarlo a prendere a Forlimpopoli – Sara era lì ad aspettarlo. A dire la verità c’era anche Don Giuseppe, che, sebbene fosse un prete, era un amico di casa. Ricordava solo il viso senza lacrime di Sara e quello pieno di rughe di Don 18
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Giuseppe di quel giorno. Entrambi lo abbracciarono per un istante. Lui capì che qualcosa stava cambiando dal silenzio irreale degli sguardi che si incrociavano in quella stanza con poca luce, dove era disteso il corpo privo di vita di suo padre. In quelle occasioni si creava una normalità irreale e finta che nascondeva invece di raccontare, ma che, ciò nonostante, non era in grado di difendere. Lui, per la prima volta nella sua vita, si sentì indifeso, nudo di fronte alle grida di sua madre, le uniche che ricordasse di quel momento e in generale le uniche che ricordasse di sua madre che raramente aveva alzato la voce prima. Erano grida strozzate, piene più di disperazione che di dolore per l’uomo appena scomparso. «E ora, come faremo?» Era stato un momento. Aveva capito che avrebbe dovuto prendere in mano le sorti di quelle due donne. Avrebbe sposato Sara e sarebbe rimasto al fianco di sua madre. Ora era un uomo. Doveva uscire dal collegio, odiato, doveva mettere ordine nelle questioni lasciate aperte dal padre, l’impresa edile, gli operai, i committenti. Doveva riscuotere i soldi dei lavori che suo padre aveva portato a termine, finire quelli ancora iniziati. Sapeva delle due villette appena costruite a Milano Marittima. Doveva mandare avanti la famiglia e contemporaneamente crearne una nuova, per sé e per Sara. Sentiva di doverglielo. Sara era lì con lui e accompagnava la morte di suo padre in una abbraccio senza trasporto e senza lacrime. Ma c’era. Eugenio sapeva di doverle qualcosa. Magari non la sua fedeltà. Ma la sua fiducia, quella sì. Ettore e Giuseppe, i due preti, accompagnarono la bara di suo padre. Nel silenzio e nel dolore di due 19
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amici, senza fare prediche. I compagni cantavano una canzone anticlericale sulla bandiera rossa e nera che avvolgeva la cassa di legno scura. Ettore e Giuseppe, Sara, lui e sua madre Ada non cantavano. Solo Emilia piangeva. Eugenio strinse la mano di Sara che gli sembrava misteriosamente più docile e più calda del solito, quel giorno. Non sapeva se per senso di dovere o di riconoscenza, ma le chiese di sposarlo e lei accettò. «Allora ti sposi a fine agosto?» gli stava chiedendo proprio in quel momento il professore, il quale, senza lasciarlo parlare proseguiva «Eugenio ci hai pensato bene? Una vita è troppo lunga da passare accanto ad una donna solamente. E se un giorno invece che di beccaccia, ti venisse voglia di allodola?» A malincuore Eugenio doveva distogliere parte della propria attenzione dal tenere a bada l’erezione che violenta gli gonfiava i pantaloni e dalla vista delle natiche grandiose della cavalla frustata dal professore, ma questo discorso delle allodole e delle beccacce lo incuriosiva e sapeva che doveva assecondare la provocazione del suo professore. «Che storia è mai questa delle allodole e delle beccacce?» «Tu hai presente l’imperatore Federico II di Svevia? A Melfi viveva come un vero e proprio libertino, fra banchetti eccezionali e donne bellissime che poteva cambiare quando voleva. Si diceva che sua moglie avesse in testa più corna che capelli e che la Basilicata fosse più popolata di bastardi del re che di ladri. Così il Papa…» «Figurarsi se non c’era di mezzo il Papa illiberale…», sorrise Eugenio. 20
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«Già», proseguì il professore, «ma lasciami finire. Un giorno il Papa, stanco di tutto quel libertinaggio, mandò a Federico un suo emissario perché vedesse con i propri occhi e potesse raccontare al Papa, per poter poi scomunicarlo senza più remore. Federico accolse l’emissario con tutti gli onori che gli si dovevano attribuire, poi la sera lo invitò a cena e gli fece trovare un grande banchetto a base solamente di beccacce e così per le tre sere successive. L’emissario, stupito della cosa, andò dall’imperatore e gli chiese come mai nel suo regno si mangiassero sempre e soltanto beccacce; Federico gli rispose: “tornate pure dal Papa ora e ditegli che la vita è come la tavola. Le beccacce sono buone, ma ogni tanto si può alternare le beccacce con le allodole, o con altre leccornie che Nostro Signore ci ha dato. Per le donne è lo stesso”». «Io conosco ogni difetto di Sara. È una donna egoista e fredda. Ma è la donna con cui devo passare il resto della mia vita. Senza di lei non saprei vivere». Per il professore la risposta di Eugenio aveva il sapore dell’ingenuità dei suoi anni, ma lasciò correre. Cosa poteva saperne in fondo lui di mogli? Conoscendo la caparbietà di Eugenio, caratteristica che in altre occasioni aveva trovato apprezzabile, pensò che sarebbe stato fiato sprecato provare a farlo rinsavire sull’idea del matrimonio e si limitò a dire «Se è così, ti auguro di essere felice. Ma non rinunciare mai alle allodole, mio caro». Il tragitto verso Milano Marittima era praticamente tutto dritto, anche se era abbastanza accidentato. La strada, l’antica Salara che passava proprio in mezzo ai bacini salanti della saline, era 21
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malridotta. In auto non ci si faceva troppo caso, ma con il biroccino era tutta un’altra cosa. Quel giorno il professore era passato a prendere Eugenio per il loro giro di rito della domenica. Una volta al mese, quando il tempo era buono, il professore attaccava il carro alla cavalla e passava a prendere Eugenio che, nel fine settimana, faceva sempre ritorno nella casa della madre. Sara poteva vederla anche a Bologna. Non era per lei che rientrava. Anche Sara infatti studiava all’università. Faceva geologia. Era insolito per una donna, ma i suoi genitori erano dei commercianti. Con la guerra avevano fatto i soldi e da un po’ di tempo il padre aveva anche aperto una piccola pensione a Cervia, lungo il porto canale, dove nei mesi caldi ospitava coppie degli stranieri che arrivavano in auto o in treno e così avevano insistito perché Sara andasse all’università. Lei non ne aveva una gran voglia. Avrebbe preferito di gran lunga fare la maestra e la moglie. Ma, visto che le si presentava l’occasione, aveva deciso di iscriversi ad una facoltà che le sembrava esotica. Così aveva finito per scegliere geologia. Mentre la faceva aveva anche scoperto che la mineralogia le piaceva particolarmente, e così quell’obbligo era diventato tutto sommato divertente. Una volta a settimana vedeva Eugenio (non avevano ancora fatto l’amore, lui non glielo avevo chiesto e lei non osava farlo, così aspettava), per il resto studiava, andava al cinema con le amiche nel pomeriggio e si sentiva tutto sommato serena. Quel giorno il professore ed Eugenio avrebbero dovuto seguire un comizio di Enrico Berlinguer. Loro non erano affatto comunisti, ma Berlinguer 22
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era l’esponente più autorevole del Partito Comunista, un pezzo da novanta della politica e poterlo ascoltare a Milano Marittima appariva ad entrambi come un privilegio. Di certo non sarebbero stati in accordo con le sue posizioni, ma erano convinti che ascoltarlo avrebbe aperto loro le menti e forse anche i cuori. Eugenio aveva imparato dal suo professore, più ancora che da suo padre, ad essere laico, almeno per quanto riguardava le idee. Quanto alle donne, forse non era proprio così. Non ancora. Con Sara non era mai andato oltre qualche bacio e la classica pomiciata in auto. Le aveva profanato le tette e questo gli era piaciuto molto, tanto più per lo stupore, sempre molto compito, che aveva visto per una volta disegnato sul viso della ragazza. Aveva comprato una Mini cooper di seconda mano. Era orgoglioso della sua macchina e il sabato, quasi sempre, portava Sara a fare una passeggiata al mare, dove poi la baciava lungamente. Sentiva di doverlo fare. Fra fidanzati si faceva così. Era il dovere a spingerlo. Non il desiderio. Nemmeno il piacere. Il fatto è che lei, a parte lo stupore dimostrato di fronte alle sue mani impetuose sul seno, era una donna fredda che non lo sapeva coinvolgere. Era intelligente e questo lo conquistava ogni volta. Ma non ne condivideva le posizioni. Era certo che alle elezioni Sara avrebbe sicuramente votato per lo scudo crociato. Non ne aveva mai parlato con il suo professore, anche se era convinto che lui avesse ben inquadrato la sua futura moglie. Sapeva che non le piaceva. D’altra parte anche Sara si irrigidiva particolarmente 23
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quando gli parlava del suo professore. Lo canzonava e gli metteva il muso quando provava a raccontarle quello che si erano detti, il suo punto di vista. La odiava quando gli metteva il muso. Per evitare musi e tensioni aveva deciso di vederli, Sara e il professore, sempre separatamente. Per il medesimo motivo parlava poco dell’uno all’altra e viceversa. A dire il vero non aveva mai parlato nemmeno con lei di elezioni, partiti, politica e altre questioni affini. Non gliene importava. Era uno di quegli argomenti, la politica, di cui non avrebbero mai discusso. Fin dal principio era calato fra loro un lungo silenzio che nemmeno il quotidiano riusciva a riempire. C’erano molti ambiti della vita sociale dei quali non parlavano e diversi tabù. Eugenio ne fu consapevole ben presto. Erano l’uno per l’altro. Da sempre. Ma in qualche modo e allo stesso tempo erano anche l’uno contro l’altro. Mancavano sintonia e compenetrazione. Mancavano nel bacio e sarebbero ben presto mancati anche nella camera da letto. Non che questo fosse in alcun modo un problema, almeno non per Eugenio. La morte del padre l’aveva obbligato a lasciare il collegio, dove per altro si sentiva soffocare, e a rilevare di fatto la sua attività. Con quella mandava avanti la famiglia, che, oltre alla madre e alla zia Emilia, contava anche Giacomo, il figlio, ovviamente illegittimo dello zio Ettore, il prete, che era andato a vivere da loro sin da piccino, con Maria, la sua mamma. Maria era diventata una valido aiuto per Ada in casa, e Giacomo era stato cresciuto da tutti come se fosse il “fratellino” più piccolo di Eugenio. Eugenio, dunque, si sentiva responsabile anche nei suoi 24
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confronti, come in quelli della madre e delle due zie, compresa quella per così dire acquisita. Aveva continuato a studiare, aveva lasciato le magistrali per ragioneria e poi si era iscritto ad Economia perché il ruolo di capo famiglia che gli era forzatamente toccato non gli bastava. Prendersi carico di tutto e di tutti. Quello era il suo ruolo. Quello era il suo dovere. Doveva farlo e lo aveva fatto. Ma quello stesso senso del dovere che sentiva fortissimo, come un pugno secco in mezzo allo stomaco, gli aveva insegnato a condurre in qualche modo due vite parallele. In una era irreprensibile e accudiva alla famiglia, pensando a tutto, organizzando la vita di tutti, prendendo le decisioni in vece degli altri. Suo padre non lo aveva mai fatto, forse per temperamento. Ma ad Eugenio veniva facile parlare per gli altri e decidere per loro. Talvolta a Giacomo sembrava che il “fratello” pensasse anche per lui. Però era consapevole che non si sarebbe mai ribellato perché, in fondo, la vita, così, scorreva più tranquillamente, senza grandi intoppi. In questa vita c’era posto, quasi naturalmente, anche per Sara, che, da lì a poco, avrebbe sposato. Nell’altra, dal lunedì al giovedì a Bologna, c’erano i seminari di economia politica del suo professore e le assemblee con i mazziniani di Bologna, qualche contatto con i massoni ravennati, di cui anche il suo professore faceva parte, c’erano la politica e le cose divertenti, ma c’erano anche e soprattutto le puttane. Eugenio le adorava, con le loro calze arrotolate, i loro figli mancati (e quelli che invece erano venuti al mondo, nonostante tutto), le pizze che mangiavano in una lurida trattoria sui viali che restava aperta tutta la notte. 25
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Il proprietario, Vito, veniva dal sud Italia e aveva fatto costruire nell’angolo più lercio del locale un forno a legna. Quella pizza e quella disinvolta compagnia sarebbero sempre mancate ad Eugenio negli anni a venire. C’erano le cosce di Adriana che aveva l’apertura grande, materna, protettiva. C’era la bocca di Giuliana, che gli aveva insegnato per la prima volta quanto potesse essere bello farsi baciare da una donna sul pene. Il suo primo pompino era stato una rivoluzione. Chissà se Sara avrebbe mai osato baciarlo lì in basso? Ogni tanto se lo chiedeva e trovava questa domanda così porca da divenire eccitante. «I pompini, con tutto il rispetto» aveva osato dire un giorno al suo professore, arrossendo appena, «sono una loveria». «Lo credo anch’io Eugenio. Le donne che te lo fanno con amore, quelle sì, sono da sposare…», rispose il professore «ma visto che non si possono sposare tutte le puttane di Bologna, allora personalmente ho deciso di non sposarmi affatto». Ne avevano riso. La Federazione dei Giovani Comunisti aveva organizzato per quel pomeriggio a Milano Marittima una manifestazione operaia. C’erano studenti e operai da tutta Italia e poi c’era Berlinguer. Non potevano non andarci. Così la cavalla, frustata a dovere, percorse i pochi chilometri che li separavano dalla rotonda Primo Maggio dove si sarebbero svolti la manifestazione e il comizio. Mentre stavano passando in mezzo alle saline ad Eugenio venne da pensare che quello era un momento felice della sua vita e che non avrebbe voluto essere 26
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da nessun’altra parte al mondo. C’erano il suo professore, la cavalla col sedere rigonfio e odoroso, c’erano le puttane con la pizza di Vito, c’erano le saline, c’erano lo zio Ettore e la zia Emilia, a cui voleva bene ma per motivi diversi, e poi c’era Sara che fra poco sarebbe diventata sua moglie. Era un giovane uomo felice. Dopo un bel po’ di strada, al passo lento e costante della cavalla, arrivarono nel folto della pineta, dove parecchi ragazzi avevano già preso posto. Intorno c’era solo qualche macchina. Era la fine di aprile di un anno particolarmente freddo. Le case di vacanza dei milanesi erano ancora tutte chiuse. Anche il “Mare e Pineta”, l’albergo di Ettore Sovera era sprangato. I primi turisti si sarebbero visti solo dopo la seconda metà di giugno, quando le giornate sarebbero state sufficientemente piene di sole e calde. A Milano Marittima, nelle pensioni, fra il verde, c’era solo qualche ardimentoso turista tedesco o austriaco. Solo loro potevano fare già il bagno in mare, con quelle temperature ancora rigide. Qualche giovane vociò all’arrivo del biroccino. Eugenio e il professore sentirono distintamente qualcuno urlare «Dove pensate di andare voi borghesi?» Entrambi pensarono che si trattasse solo di uno sfottò dovuto al mezzo col quale erano arrivati. Quei giovani non sarebbero stati in grado di far loro del male. Poi Berlinguer prese la parola e attorno fu in un attimo silenzio. Parlò del lavoro, dei giovani, della società, dei cambiamenti in atto, della famiglia, della comunità. Parlò con chiarezza del bene comune. E ad Eugenio sembrò che in quelle parole, così franche, ci fosse molto anche del suo di pensiero. Si riconosceva in quelle parole di sinistra e, guar27
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dando l’attenzione con la quale il suo professore stava seguendo quell’intervento, imperniato tutto intorno ad una profonda riflessione socio-economica, pensò che anche a lui le parole di Berlinguer dovevano piacere. Non avrebbe mai votato per il PCI, ma era convito che, comunque, con i compagni si potesse dialogare e che, addirittura, si potesse trovare una convergenza, tema che di lì a qualche anno sarebbe diventato molto popolare. Lo sfottò dei giovani aveva colto qualcosa di autentico, però. Era vero infatti che il suo professore era una gran borghese e che anche lui aspirava a diventarlo. Così l’epiteto con il quale li avevano apostrofati al loro arrivo non lo aveva affatto turbato, anzi, semmai, lo riempiva di orgoglio. Gli piaceva essere equiparato al suo professore. Gli piaceva l’idea di essere, di diventare, un borghese. Quando Berlinguer finì di parlare e alzò il pugno al cielo, in segno di saluto ai compagni, i giovani levarono anche loro i pugni al cielo e iniziarono a cantare l’Internazionale. Eugenio, come mosso dall’istinto, si trovò anche lui a cantare. Gli era sempre piaciuta l’Internazionale. Trovava che chiunque avrebbe potuto ritrovarsi in quelle parole, con quelle persone. Anche chi, come lui, avrebbe sempre continuato a coltivare, almeno per quanto riguardava il pensiero, una punta di anarchia. Il suo professore lo guardò e si limitò a sorridergli. Quando il canto finì rimontarono sul biroccino con l’intenzione di ritornare a Castiglione. Le giornate iniziavano ad essere appena tiepide, ma ancora non erano lunghe come nel periodo esti28
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vo, e con la cavalla ci avrebbero messo un bel po’ a ritornare indietro. Poi, fu nel giro di pochi minuti che i ragazzi iniziarono a disperdersi. Camminavano nella via principale, l’unica per la verità già completata, di Milano Marittima, che era stata progettata da Giuseppe Palanti nel 1911 sullo stile di una grande capitale europea. Come Parigi, dove il suo professore era stato a lungo, Milano Marittima aveva il boulevard e le rotonde. La passeggiata era maestosa, soprattutto per chi, come Eugenio, a Parigi non c’era ancora mai stato e incuteva rispetto quel luogo, quella natura così esuberante con le villette rade che si nascondevano alla vista dei pochi passanti dentro ad una vegetazione selvaggia, con le dune ricoperte di ciuffi di erba alta che declinavano veloci verso la spiaggia candida e poi, lontano, come se fosse oltre il disegno degli umani, il mare, la linea del mare, luccicante in fondo a tutto. Il suo professore l’aveva conosciuto Palanti e gliene aveva parlato come di un uomo di grande ingegno e passione. A Cervia era considerato da tutti un uomo di smisurato valore umano. Nei mesi estivi, quando si trasferiva con la famiglia nel villino che si era fatto costruire in uno stile assai originale a pochi passi da lì, proprio vicino alla spiaggia, girava in bicicletta con legati dietro la cassetta dei colori e le tele. Andava in giro per la pineta, risaliva il porto canale e si fermava a disegnare le vele, i pescatori. Era conosciuto da tutti e i salinari lo salutavano con la reverenza, formalità che veniva riservata davvero a poche persone. «E nòstar pitòr» lo chiamavano sulla banchina. Il professore gli aveva raccontato di una grande mostra, allestita nel 1948, con le marine del Palan29
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ti, al Magazzeno del Sale e lui si chiedeva sempre se avrebbe mai conosciuto nella sua vita personaggi come quel Palanti che si era inventato addirittura una città: Milano Marittima, che mutuava il nome dalla società fondata dallo stesso Palanti e da altri milanesi per realizzare quel sogno di vacanza in campagna che a Milano era lontanissimo. Per la sua famiglia non esisteva realmente il concetto di vacanza. Anzi lui non ricordava di avere mai fatto alcuna vacanza quando era piccolo. Il mare era lontano da Castiglione, ma era comunque meno lontano a Castiglione che a Milano e quindi certamente era per questo che i milanesi avevano sentito l’urgenza di una seconda abitazione per le vacanze e i suoi genitori invece no. Per chi come lui era sempre abitato a Castiglione non serviva una vera e propria vacanza. Lui la campagna l’aveva vista da quando era piccino attorno a casa. E prima ancora aveva visto il mare, quando erano sfollati e giocava con Sara. Per questo ogni tanto quando era piccolo suo padre lo caricava sul cannone della bicicletta e lo portava al mare. Erano quei pomeriggi, con le gambe a penzoloni della bici del padre, le vacanze di Eugenio. Era una pensiero di un provincialismo terribile, ne era consapevole, ma in fondo lo evocava volentieri. Bologna era una bella città dalla quale però inevitabilmente, di tanto in tanto, fuggiva per tornare alla casa, quella vera, con sua madre, suo “fratello”, Maria e zia Emilia. La sua vita, con la morte del padre, non era come l’aveva sognata da bambino. Allora pensava che avrebbe fatto l’ingegnere e che sarebbe partito per un posto lontano, magari l’America. Ma era felice. Era la seconda volta che gli veniva di 30
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pensare a questa cosa in quel pomeriggio e questo lo riempì di commozione. Come aveva fatto prima con l’erezione, ora represse la commozione. Non riuscì invece a reprimere lo stupore nel vedere quello che stava accadendo. I giovani comunisti avevano preso d’assalto le poche auto parcheggiare lungo il viale principale. Alcune avevano la targa straniera. Erano auto tedesche e austriache. I comunisti stavano rompendo i vetri con delle mazze, stavano prendendo a calci le portiere. Qualcuno aveva innalzato dei cartelli. In uno c’era scritto «Mangia-patate tornatevene a casa». Anche se era ancora freddo per i turisti, a Milano Marittima erano già arrivati i primi tedeschi. Per loro la Pasqua era un periodo lungo di vacanza e in diversi avevano preso l’abitudine di passare anche uno o due mesi di ferie in quella che considerano la loro spiaggia. Il professore si rese subito conto che la rabbia dei giovani stava montando con troppa violenza, così colpì ripetutamente la cavalla con il frustino e riportò il biroccino sulla via di casa. Ad Eugenio in parte dispiacque, perché, per la sua innata curiosità, avrebbe voluto rimanere lì a vedere che cos’altro avrebbero fatto, come sarebbe andata a finire. Finì che la lotta di classe fece un bel disastro, non solo di vetri delle auto, ma anche in ambito diplomatico e, di conseguenza, per il turismo. I tedeschi, con cui, ad onor del vero, i conti erano tutt’altro che chiusi, dopo l’occupazione della seconda guerra mondiale, non presero molto bene quei fatti che considerarono un insulto, non solo per i vetri rotti delle auto. A farli arrabbiare veramente era stato quel cartello. Forse non tanto per l’appellativo di 31
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“mangia-patate”, quando per quell’ordine secco e tutto sommato un po’ cafone “tornatevene a casa”. Quella era la loro spiaggia, la “teutoten grill” e da lì non avrebbero proprio voluto muoversi. Ma la notizia di quel cartello e di quei disordini fecero presto il giro dell’Italia e arrivarono in Germania, dove i turisti, appresa la cronaca dai giornali, iniziarono a disdire le vacanze a Cervia e nella giovane Milano Marittima, che i tedeschi preferivano ad altre destinazioni per le sue pinete incontaminate e verdissime. La notizia gliela diede il professore un paio di settimane dopo, in uno dei loro abituali incontri. Un amico giornalista del professore gli aveva raccontato che quella violenza poteva diventare un disastro per il turismo e che per questo il presidente degli albergatori, Federico Tiozzi, l’aveva portato con sé in Germania in un viaggio riparatore. L’eccentrico albergatore, che negli anni si sarebbe inventato manifestazioni di successo, e il giornalista amico del professore partirono qualche giorno dopo quella domenica in auto alla volta della Germania, ma non lo fecero, come si poteva credere, col cappello in mano. Gli uomini sono da sempre abilissimi ad inventare scuse, non fosse altro per avere una storia pronta da raccontare alle proprie donne quando le tradiscono, e così, anziché scusarsi, Tiozzi e il giornalista andarono in Germania proponendo e realizzando, in pochi giorni, il “Treno dell’amicizia”. L’idea, nata nel giro di una notte, era geniale e, speravano i due, di sicuro successo. Ogni albergatore di Cervia e di Milano Marittima si impegnava ad ospitare gratuitamente per una settimana un turista 32
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tedesco “bisognoso o meritevole”. I quasi trecento turisti tedeschi scelti dalle locali amministrazioni teutoniche avrebbero soggiornato nelle pensioni di Cervia e di Milano Marittima gratuitamente e avrebbero potuto dire, una volta tornati a casa, come il clima nei confronti dei tedeschi fosse buono, l’accoglienza ottima e il soggiorno davvero speciale. In questo modo si poteva archiviare l’incidente provocato da quel cartello e si poteva, speravano Tiozzi e il giornalista, modificare la pessima pubblicità di quell’evento in una buona promozione per le località. «Sono dei pazzi, ma può funzionare», disse il professore ad Eugenio I due “pazzi” nel frattempo avevano incontrato trenta borgomastri in altrettante città tedesche a cui avevano consegnato una lettera di invito per i loro concittadini. Sarebbero stati loro a scegliere chi inviare a Cervia per una soggiorno gratis, fra quelli più “meritevoli e bisognosi”. Il progetto, un po’ folle, venne presentato in una conferenza stampa a Monaco, nell’hotel “Bayericher Hof”, complice la sede locale dell’Enit, l’Ente Nazionale del Turismo, grazie al quale si arrivò nel giro di pochi giorni anche ad un accordo sorprendente fra le ferrovie di stato tedesche e quelle italiane. Poco più di un mese dopo il “Treno dell’amicizia” era pronto a partire da Monaco, con a bordo i fortunati turisti. All’arrivo a Cervia vennero accolti come amici che non si vedono da molto tempo, con la banda musicale, un buon bicchiere di Sangiovese e ogni albergatore prese sotto scorta i propri turisti, che adottò, è il caso di dirlo, per una settimana. Naturalmente Eugenio e il professore erano sul biroccino, dietro al grosso culo della cavalla grigia, 33
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quando il convoglio arrivò nella stazione di Cervia. Eugenio rimase molto colpito da quella iniziativa e pensò che il turismo poteva fare per lui, perchÊ era divertente e appagante, non proprio come un pompino, ma, insomma, almeno come la pizza da Vito subito dopo.
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