ALBERTO E GIANCARLO MAZZUCA
MUSSOLINI BOMBACCI COMPAGNI DI UNA VITA
Prefazioni di Annamaria Bombacci Edda Negri Mussolini
MINERVA
A GIOVI
Basta un attimo, spegnere ed accendere la luce, una goccia in mezzo al mare in tempesta, questa è la vita. Siamo tutti attaccati ad un filo e non sappiamo dove ci porta il nostro pellegrinaggio deciso da altri. Signore, pietà . Giovanni Mazzuca
INDICE
Prefazione di Annamaria Bombacci Prefazione di Edda Negri Mussolini Premessa
p. 7 p. 9 p. 13
I. Preti e mangiapreti II. Dalla Russia con amore III. La “pasionaria” di Benito IV. La riscossa dell’“Avanti!” V. Duce o “Lenin d’Italia”? VI. L’uomo del temperino VII. 1921: Livorno o morte! VIII. Camicie nere IX. A Roma! A Roma! X. L’allenza rossonera XI. Matteotti e l’Aventino XII. La “fase due” XIII. Uomo della provvidenza? XIV. Oro alla patria XV. L’ora della “verità” XVI. «Sbagliando s’impera» XVII. Il crociato delle cause perse XVIII. Il cardinal Richelieu XIX. Le confidenze in riva al lago XX. Il De Profundis finale XXI. Sangue romagnolo
p. 19 p. 27 p. 37 p. 47 p. 59 p. 75 p. 89 p. 107 p. 121 p. 139 p. 155 p. 175 p. 193 p. 207 p. 221 p. 235 p. 249 p. 263 p. 279 p. 295 p. 307
Ringraziamenti Bibliografia Indice dei nomi
p. 323 p. 325 p. 331
Prefazione AMARE GLI “ULTIMI” di Annamaria Bombacci
Non ho conosciuto lo zio del mio babbo, Nicolino Bombacci, ma, sin da bambina, sentivo sovente parlare di lui in famiglia e in altri ambienti. Per anni non ho compreso il motivo della sua fucilazione e di quella “impiccagione”, manifestazione di rancori e di odi personali. A diciassette anni, sulla scrivania del mio capo, notai una rivista aperta e sbirciai sopra le sue spalle. «Bombacci va a costituirsi», poi un elenco di nomi e quello dello zio era sottolineato due volte. Il mio superiore mi guardò, mi domandò se mi sentissi male e, contemporaneamente, affermò: «È stato ancora poco». Io risposi soltanto: «Quel Bombacci era lo zio del mio babbo». Da quel momento promisi a me stessa che avrei fatto il possibile per conoscere meglio la storia di quello zio al quale io, Annamaria, assomiglio molto nel fisico e, soprattutto, nella tempra. In famiglia ritrovai poi alcune lettere scritte a mio padre nei primi anni Quaranta che lasciavano e lasciano ancora trasparire affetto (specialmente per me neonata), onestà, rispetto verso tutti. Quando nel 1969 ripresi gli studi, l’impegno fu quello di laurearmi in materie letterarie e di scrivere la tesi su Nicola Bombacci. Con fatica e tenacia, rispettando anche i sentimenti e atteggiamenti contrari ai miei, ci sono 7
riuscita. La pubblicazione del “libretto rosso” è divenuta sintesi dei primi anni di vita e di attività politica dello zio e base per ulteriori ricerche di storia locale in Romagna o di storia politica. Sono avanti con gli anni, ma sono certa di aver reso, almeno in parte, giustizia a un romagnolo che amò la sua terra così come amò gli “ultimi”, e per essi sognò la socializzazione. Piazzale Loreto fu l’ultimo momento in cui i compagni di studio alla Scuola Normale di Forlimpopoli e, in seguito, direttori de “Il Cuneo” a Cesena e “Lotta di Classe” a Forlì, si trovarono fianco a fianco. Un atto di spregio che, nella morte, consolida l’amicizia, tutta romagnola, fra Benito Mussolini e Nicolino Bombacci.
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Prefazione LA SCHIETTEZZA ROMAGNOLA di Edda Negri Mussolini
I romagnoli sono schietti. Una delle loro caratteristiche è di prendere tutto molto sul passionale. I sentimenti giocano un ruolo importante nella loro vita. Si scaldano per un nonnulla ma lo fanno in una maniera che non dà fastidio. La politica e l’amicizia fanno parte della loro vita in maniera predominante, e sono strettamente legate. Questo può dipendere da quell’animo rivoluzionario che si perde nella notte dei tempi, quando la Romagna era sotto il papato e l’agricoltura era il mezzo di sostentamento per molti di loro che divenivano mezzadri. La libertà era spesso negata. Infatti spesso capitava di dover votare secondo gli ordini del padrone. La politica quindi entrava prepotentemente in questo contesto storico così come l’amicizia. Tra i contadini ci si aiuta, ci si sostiene a vicenda. Si ride e si piange insieme. La politica diventa uno scopo, la propria esistenza. In ogni città romagnola vi sono reclusi o morti per la politica, questo è un aspetto importante per i romagnoli, ed è proprio partendo da questi aspetti e caratteristiche che voglio parlare del rapporto tra Mussolini e Bombacci. Si conoscono da giovani, quando entrambi erano maestri di scuola. Entrambi socialisti con questa grande passione politica. Nel 1919 i loro cammini poli9
tici prendono sicuramente percorsi differenti. Mussolini fonda i Fasci di combattimento mentre Bombacci, eletto alla Camera, va verso una nuova idea di socialismo che scaturirà nel 1921 con la fondazione, insieme ad altri, del Partito comunista d’Italia. Questo però non viene a minare il rapporto tra i due, che avranno sì anche scontri politici importanti, come ad esempio quello in Parlamento del 1923, ma alla fine l’amicizia tornerà a ripercorrere il loro percorso di vita. Qui vorrei sottolineare proprio quella caratteristica romagnola che è la fedeltà dell’amicizia che va oltre alle idee politiche. Bombacci e Mussolini – entrambi animi ribelli in una terra dove la passione politica gira a 360°, dove ognuno lotta per le proprie idee, pensando che sia la giusta causa – rimangono amici. Nicola nella sua vita vedrà molti alti e bassi, vedrà infrangere la sua idea politica. Il suo modo di vedere quello che era il Partito comunista che aveva creato e questo lo porterà a scontri e ad andarsene. Creerà un suo giornale, “La Verità”, cadrà anche a livello economico in una grande crisi ma qui, ecco, che entra in gioco l’amicizia con Mussolini che, per amicizia, presterà soldi a Nicola Bombacci: lui sapeva di poter contare sul suo compagno di gioventù. Nonostante le idee politiche differenti, l’amicizia è sacra. Nicola è anche un amico di famiglia, può andare a casa del duce e di sua moglie Rachele senza dover essere invitato. Forse si può permettere anche di dire al duce cose che altri sicuramente non direbbero. I loro percorsi si perdono e si riprendono. Mussolini tiene molto in considerazione il pensiero politico di Bombacci tanto da mettere alcune sue idee nel progetto dell’Iri. 10
Ma sicuramente il loro rapporto si consolida ancora di più nell’ultimo periodo della loro vita: quello della Repubblica sociale. Nicola, pur restando fedele a quell’idea socialista, vede nel duce un modo per aiutare il popolo, un modo per ritornare alle radici del vecchio socialismo che si era perso nel corso di quegli anni, tant’è che Bombacci seguirà il suo amico Mussolini in quello che sarà l’ultimo percorso della loro vita. In quegli ultimi giorni di aprile sono insieme in Prefettura a Milano. Mussolini si fida di Nicolino, di quell’amico romagnolo, tanto da farlo salire sulla sua auto per andare in Valtellina. Bombacci resterà col duce sino alla fine. La loro amicizia li legherà anche nella morte, in quei momenti di aprile, quando continuarono il loro cammino dall’altra parte della strada: parlando del futuro, di politica e dell’amicizia romagnola.
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Premessa I DUE LENIN Mussolini: «E Mat», il Matto Bombacci: il «Cristo degli operai»
Gennaio 1921, un secolo fa: si consuma il divorzio politico tra due romagnoli doc, Nicola Bombacci, quello che diventerà il “Lenin rosso”, e Benito Mussolini, il futuro “Lenin nero”, due grandissimi avversari per tanti anni ma compagni d’una vita. Al congresso socialista di Livorno, la frazione dei massimalisti di sinistra, guidata da Bombacci insieme ad Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga, Umberto Terracini, abbandona il teatro Goldoni e si trasferisce in un altro teatro della città labronica, il San Marco, dove viene fondato il Partito comunista d’Italia con l’imprimatur di Mosca dopo la rivoluzione d’Ottobre e tra gli insulti delle bande fasciste spesso sobillate da quello che diventerà il duce. Nel giro di poco più di ventidue mesi, tra il gennaio del 1921, con Livorno, e l’ottobre del 1922, con la marcia su Roma, la rivoluzione del quadro politico dell’Italia sarà completa. Sono, quelli, gli anni della grande svolta, gli anni delle decisioni irrevocabili ma solo fino a un certo punto. In quel breve lasso di tempo, Nicola (da tutti chiamato Nicolino) e Benito imboccano strade diametralmente opposte dopo avere frequentato, a Forlimpopoli, lo stesso istituto magistrale sotto la guida del preside Valfredo 13
Carducci, il fratello di Giosuè a cui era dedicata la scuola, e avere entrambi militato sotto la bandiera del socialismo rivoluzionario. Se i seguaci del Comintern guardano a Mosca, gli eredi dei sansepolcristi attaccano i comunisti con «sacrosante legnate» sul groppone per smaltire «la tremenda ubriacatura russa del bolscevismo italiano». La Rocca delle Caminate, il colle che separa Dovia di Predappio (il paese di Benito) da Nespoli di Civitella (il borgo di Nicolino), in tutto una trentina di chilometri di distanza o giù di lì, diventa una specie di muro di Berlino che divide in due la Romagna: la Romagna di Mussolini e la Romagna di Bombacci. Ecco il nuovo Rubicone – questa volta posto in alto rispetto a quello vero – che spacca la terra dove si mastica politica sin da ragazzi e dove il vino si chiama ancora oggi e bé, il bere. Dopo il divorzio di Livorno, Bombacci diventa il nemico numero uno, il bersaglio preferito, dei socialisti riformisti ma, ancor più, dei mussoliniani. Interrogato sul suo vecchio compagno che porta una barba lunga, la sentenza di Benito è senza appello: «Nicolino, Nicolino… troppi peli per un coglione solo». E gli squadristi fascisti, durante la marcia su Roma, rincareranno la dose cantando: «Me ne frego di Bombacci e del sol dell’avvenir, con la barba di Bombacci faremo spazzolini per lucidare le scarpe di Mussolini». In effetti, i due vecchi compagni finiscono per essere davvero agli antipodi: il 31 ottobre 1922, proprio tre giorni dopo quella marcia che consegna l’Italia a Mussolini, viene scattata nella capitale sovietica una foto di Nicola che, stando in piedi, è tutto proteso in avanti per ascoltare il verbo di Lenin comodamente seduto su un divano a fianco di altri rivoluzionari italiani. Come dire: a migliaia 14
di chilometri di distanza, ecco in diretta i due grandi leader estremisti d’Italia. Di qua i fascisti, di là i comunisti. Attenzione a trarre comunque conclusioni affrettate perché i romagnoli non finiscono mai di sorprendere e, al di là delle divisioni politiche, della passionalità dei loro caratteri e della veemenza delle proprie opinioni (il socialista Torquato Nanni diceva che da quelle parti la politica non è interesse, ma «è azione, è passione, è ribellione»), l’amicizia di una vita fa sempre aggio su tutto il resto. Non è un caso che Alfredo Panzini, che pure era nato nelle Marche, disse a proposito della Romagna: «È l’unica terra dove si conserva quel po’ di buono che è rimasto nel mondo». Come definire allora Benito e Nicolino? Gli “amici-nemici a 360 gradi”. Potrebbe sembrare una contraddizione ma non lo è. Basterebbe rileggere le pagine di Sangue romagnolo, il libro che Giancarlo ha scritto con Luciano Foglietta: è la storia (vera) anche di questi due romagnoli sui quali Indro Montanelli, nostro grande maestro, ci confidò un giorno a tavola un particolare convincente sui loro rapporti d’amicizia. Siamo all’inizio degli anni Trenta: a palazzo Venezia il consigliere culturale del duce era il prefetto Luciano De Feo che entrò in confidenza con Mussolini per via di una “complicità medica”. Il duce e il suo assistente erano, infatti, sofferenti d’ulcera (o presunta tale) e ogni mattina, prima di cominciare a fissare l’agenda della giornata, facevano il punto sul decorso della loro malattia nella sala del Mappamondo. Un giorno il capo del fascismo s’accorse che De Feo era particolarmente taciturno e gli chiese il motivo di quello strano silenzio. La ragione, gli confessò, era proprio Bombacci, perché la moglie del leni15
nista di Civitella aveva scritto una lettera destinata al duce per chiedergli il suo aiuto: i Bombacci non riuscivano a pagare le spese necessarie per affrontare le cure riabilitative del figlio Wladimiro, sofferente di una gravissima forma di scoliosi e che avrebbe dovuto essere ricoverato all’ospedale Codivilla di Cortina dopo essere stato anche al Rizzoli di Bologna, dal professor Vittorio Putti. Credendo di interpretare in buonafede il pensiero del duce e senza neppure interpellarlo, De Feo aveva subito disposto un’elargizione in denaro a favore della famiglia di Nicolino, ma non aveva fatto i conti con il segretario del Pnf, Achille Starace, da sempre acerrimo nemico di Bombacci. Dopo essere stato informato dell’iniziativa personale di De Feo, Starace l’aveva convocato e redarguito aspramente. Non solo: si era fatto consegnare la tessera di partito e gliela aveva stracciata in mille pezzi. Terminata la confessione di De Feo, il duce lo congedò bruscamente senza alcun commento. Passano due giorni da quell’incontro e De Feo viene convocato dallo stesso Starace che gli consegna una tessera nuova di zecca del partito e gli dice con un sorrisino sulle labbra: «Ci avevi creduto, cretinetti, eeh!». Parola di Montanelli. Più di qualsiasi approfondita analisi, il piccolo episodio raccontato da uno dei maggiori testimoni del Novecento serve a chiarire il legame comunque inossidabile che si era venuto a creare tra i due: non è un caso che, dopo aver percorso strade diametralmente opposte sul fronte politico, si ritroveranno assieme a Salò nell’ultima stagione della loro esistenza e finiranno appesi, a testa in giù, uno vicino all’altro, a Piazzale Loreto: il duce e il “supertraditore”, come Nicolino venne definito allora da Luigi 16
Longo. Il loro fu un vero compromesso storico ante litteram, all’insegna delle comuni origini romagnole. Benito e Nicola: compagni di una vita. Con una differenza: il primo è nella storia, il secondo è volutamente dimenticato per motivi politici dagli stessi ex compagni del partito che lui ha contribuito a fondare un secolo fa.
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I PRETI E MANGIAPRETI Dieu n’existe pas (Mussolini, Losanna, 1904) Mussolini, «un uomo che la Provvidenza ci ha fatto incontrare» (Papa Pio XI dopo la firma dei Patti Lateranensi, Vaticano, 1929)
Romagnoli doc i Bombacci (per la verità si chiamavano Bombaci e la doppia “c” è dovuta a un errore di trascrizione dai registri parrocchiali a quelli civili), romagnoli doc i Mussolini. Sulle comuni origini in quel rettangolo che va da Imola a San Marino e dagli Appennini all’Adriatico non c’è molto da eccepire anche se pochissimi sanno che c’è stata pure una presenza radicata della famiglia di Benito nella laguna veneta perché, come racconta Giovanni Dolcetti in un libro del 1928, già negli anni mille i Mussolini trapiantati a Venezia ebbero un ruolo importante nella Serenissima Repubblica, tanto da diventare “Tribuni Antiqui” del Consiglio della città di San Marco e, nei secoli successivi, si distinsero sotto i dogi nelle scienze mediche. A dispetto delle apparenze (nei loro primi passi c’erano diversi punti in comune), i destini di Nicola e di Benito sembravano comunque distanti tra loro anni luce: se l’avvenire del primo odorava d’incenso, il 19
secondo pareva proiettato a diventare il campione dei mangiapreti. Le origini dei due parlano chiaro. Cosa ci dice l’albero genealogico di Bombacci? Che era nato in una famiglia molto religiosa. Il cugino della mamma, Anna Maria Paola Gaudenzi, era, infatti, il parroco di Nespoli, una frazione di Civitella. Si chiamava don Nicolò Ghini e Nicolino, che era il secondogenito, deve il suo nome proprio a quel sacerdote: non è un caso che tutta la famiglia Bombacci lavorasse nel podere parrocchiale che faceva capo al parente prete, persona molto, molto, influente e parecchio rispettata dagli “squaciarel” (i cattolici che, politicamente parlando, diventeranno poi democristiani). Anche il padre del futuro “Lenin di Romagna”, Antonio, un birocciaio, era un vero sanfedista ed era stato gendarme papalino prima di doversi dare alla macchia dopo la fine dello Stato della Chiesa e l’annessione della Romagna al Regno d’Italia. Con tante credenziali, la strada ecclesiastica sembrava, quindi, obbligata per il giovane Nicola, e infatti, appena uscito da casa, pressato dal padre e dal fratello maggiore Virgilio, entrò subito nel seminario vescovile di Forlì. All’inizio, non deve essersi neppure trovato male in mezzo ai preti considerando che, a parte le ottime valutazioni che gli venivano date dai suoi insegnanti, ebbe pure, tra i compagni di seminario, don Pippo Prati, il futuro parroco dell’abbazia di San Mercuriale di Forlì (proprio di quella chiesa in cui, segno del destino, lui stesso si sposò nel 1905) e venerato dai forlivesi ancora oggi come un santo. Predestinato a diventare, lui sì, il vero “Lenin di Romagna” era quindi Benito. Certo, anche la mamma del futuro duce, la maestra Rosa Maltoni, era molto religiosa 20
(«L’è una dona all’antiga!», è una donna all’antica, dicevano di lei), ma a casa Mussolini comandava il babbo Alessandro che di mestiere faceva il fabbro anche se, di attività vera, era soprattutto un anarchico-mangiapreti. Basti pensare che per il piccolo Benito, che pure il papà aveva fatto battezzare in chiesa per accontentare la moglie, scelse i nomi di tre grandi rivoluzionari socialisti: Benito Juarez, Amilcare Cipriani e Andrea Costa. Come ha raccontato Giancarlo in Il compagno Mussolini, scritto con Nicholas Farrell, Alessandro aveva anche trascorso sei mesi in carcere tra il 1878 e il 1879 per aver partecipato ad alcuni tumulti socialisti a Forlì e la polizia lo aveva dichiarato «un pericolo per la società e la pubblica sicurezza». Mussolini senior – che per il figlio predisse subito una carriera da vero leader socialista – divenne un grande agitatore e finì per trascurare il lavoro e la famiglia: a sbarcare il lunario provvide sempre più mamma Rosa con il suo magro stipendio mensile da insegnante. Mussolini senior sarà anche stato un po’ fanatico, ma Benito ebbe sempre una grande venerazione per il padre e quando, nel 1922, sul treno che lo portava da Milano a Roma per assumere l’incarico di Primo Ministro, qualcuno gli chiese cosa stesse pensando, la sua risposta fu secca: «A pens a e mi’ bab», penso al mio babbo. Anche per queste radici così diverse sembrava proprio che il futuro di Nicolino e di Benito (il primo era nato nel 1879, il secondo nel 1883) avrebbe imboccato strade differenti, ma poi quelle strade si sarebbero più volte incrociate. E paradossalmente si potrebbe dire che i loro destini opposti siano stati, per certi versi, paralleli. Ma quando si conobbero? È possibile che si siano incontrati 21
ancora prima di frequentare la stessa scuola magistrale di Forlimpopoli che Nicolino scelse dopo aver abbandonato “per motivi di salute” il seminario, frequentato per quattro anni. Nonostante i bei voti riportati, Bombacci aveva deciso di cambiare anche perché, nel frattempo, era morto il padre che lo voleva a tutti i costi sacerdote. È molto probabile che non riuscisse più a seguire le ferree regole dei seminaristi. La sua famiglia, quando il futuro “Lenin di Romagna” aveva 7 anni, si era trasferita da Civitella a Meldola, vicino a Forlì, perché la mamma aveva ereditato una casa dallo zio prete, e proprio nel paese che aveva dato i natali a Felice Orsini – l’attentatore di Napoleone III che pure era molto legato a queste terre e aveva partecipato ai moti in Romagna del 1831 con il fratello che morì a Forlì – si recava, di tanto in tanto, lo stesso Mussolini. Presso alcuni parenti di Meldola era stato, infatti, messo a balia (ma vi restò anche dopo) Arnaldo, perché mamma Rosa non era più in grado di allattare. Anche al fratello, che era il secondogenito, papà Mussolini aveva imposto un nome importante, quello dell’eretico Arnaldo da Brescia. Capitava così che Benito andasse a trovare Arnaldo: in particolare, c’era un appuntamento fisso a fine agosto quando si svolgeva la sagra religiosa del paese. Come Mussolini ha raccontato in un suo libro (Vita da Arnaldo), nei giorni della festa si recava con i genitori a Meldola partendo a piedi da Dovia di Predappio e scavalcando Rocca delle Caminate che per lui era già un appuntamento obbligato: lì sostava sempre per poter ammirare il paesaggio sottostante e proprio allora si innamorò di quel castello in cima al colle che, da duce, diventò la sua residenza estiva con tanto di aquila reale e di faro tricolore che, nelle notti 22
estive, si vedeva fino al mare. È quindi possibile che, in quegli anni, i due si siano incrociati proprio a Meldola e comunque nel paese di Orsini s’incontrarono di certo prima della fine del 1907, perché lì parteciparono entrambi a un congresso socialista. Ma, ancora prima, il futuro duce rosso e il futuro duce nero si trovarono a tu per tu all’istituto magistrale di Forlimpopoli, la Regia Scuola Normale Giosuè Carducci, che Benito cominciò a frequentare alla fine del 1894 e Nicola nel 1900, dopo aver lasciato il seminario. Se il primo si diplomò in quella scuola, nella patria di Artusi, già nel 1901, con un voto di 132 su 150, nonostante l’abilità dimostrata a usare le mani e il coltello, Nicolino, che pure aveva quattro anni di più, avrebbe finito gli studi soltanto nel 1904 con i seguenti voti: italiano, componimento sette; calligrafia sette; disegno sei; lingua e lettere italiane sette; pedagogia otto; morale otto; storia otto; geografia sette; agronomia sei; canto corale sei; lavori femminili (sic!) sei; ginnastica sei; matematica, computisteria, economia domestica, geometria sei; fisica, chimica, storia naturale, igiene sette. Grazie all’aiuto del libraio di Civitella, Sergio Menghetti con la moglie Valentina Felice, noi abbiamo però trovato un documento presso l’archivio storico di Forlì in cui c’è scritto che Nicola, lasciato il seminario, «fa domanda di ammissione alla Regia Scuola Normale di Forlimpopoli, dove, sulla base degli studi sino ad allora compiuti, viene ammesso alla classe III, la stessa frequentata dal futuro duce. I rapporti tra i due, tuttavia, restano quelli di una semplice frequentazione tra compagni di scuola». Quindi, secondo il documento in nostro possesso, Bombacci avrebbe conseguito il diploma assieme a Mussolini proprio nel 23
1901. E abbiamo trovato anche una foto della scolaresca molto significativa perché Benito appare già un ducetto; è, infatti, in alto e sembra sovrastare i compagni di scuola; e c’è anche un giovane che appare più sotto, pure lui molto impettito, che assomiglia tantissimo a Bombacci. Molto più avanti sarà lo stesso Nicola a dire ad Alberto Giovannini che lui e Benito «erano stati a scuola assieme». Al di là dei loro incontri diretti, già allora le vite dei due romagnoli s’intrecciarono: anche Benito, senza andare in seminario come Nicola, ebbe una parentesi quasi clericale che poi chiuse pure lui bruscamente. Prima delle magistrali di Forlimpopoli, il giovane Mussolini frequentò, infatti, i salesiani di Faenza, dove venne espulso per aver colpito con un coltello un compagno di scuola. Già da piccolo, Benito aveva dimostrato una certa riluttanza nel vivere in comunità. Senza considerare la sua scarsa religiosità: non andava quasi mai alla messa nonostante le pressioni di mamma Rosa (confessò che usciva sempre a metà funzione e che una volta svenne in chiesa forse anche per l’odore penetrante dell’incenso). Eppure fu ugualmente mandato a studiare dai salesiani, un’esperienza fallimentare. Come ha raccontato lui stesso nel libro La mia vita, ai ragazzi non era concesso di parlare a pranzo e a cena, i convittori dovevano alzarsi alle 6 d’inverno e alle 5 d’estate e andare in branda alle 19:30 dopo essersi messi in fila per baciare la mano al rettore del collegio. Per uno come Mussolini che non baciò l’anello neppure a papa Pio XI, che lo aveva clamorosamente definito «un uomo che la Provvidenza ci ha fatto incontrare» dopo la firma dei Patti Lateranensi del 1929, non deve certo essere stato facile assoggettarsi al rito del vespro in ginocchio (o quasi). 24
Se gli anni della scuola non furono facili né per Benito né per Nicola, il risveglio per i due giovani “maestri” fu ancora più brusco. Il primo, appena finite le magistrali di Forlimpopoli, si guadagnò il soprannome di “E Mat”, il Matto, e – come ha osservato Vittorio Emiliani, anche lui predappiese – «per essere chiamato strambo in una terra di strambi come la Romagna contadina di allora, ce ne vuole abbastanza di impegno». Pur scalpitando, Mussolini attese la fine della scuola per darsi alla politica. Giorgio Bocca ricorderà in Mussolini socialfascista quanto Benito, ormai già duce, scriverà di sé nel volume della Treccani sulla dottrina del fascismo: «Di una sola dottrina recavo l’esperienza vissuta: quella del socialismo dal 1903-1904 sino all’inverno del 1914. Circa un decennio. Un’esperienza di gregario e di capo». Nel 1903 anche Bombacci si iscrisse al Partito socialista. Scriverà nel gennaio 1937 su “La Verità”, il giornale da lui fondato e diretto grazie proprio alla benevolenza di Mussolini: «Io sono arrivato al socialismo non nel 1918-19 ma nel 1900, non per calcolo né per cultura scientifica, ma per sentimento. Questa è la colpa che mi hanno sempre rimproverata i professori del cosiddetto socialismo scientifico». Entrambi erano, quindi, esponenti di un socialismo reale, quello dei primi anni del nuovo secolo, negato in seguito dalla storiografia antifascista: Mussolini sarà considerato semplicemente un socialista spurio, Bombacci sarà persino cancellato dall’elenco dei fondatori del Partito comunista. Un socialismo reale, il loro, con una sfumatura differente, almeno all’inizio. Per Mussolini il socialismo è da subito rivoluzionario, duro, fatto di scontri, anche di botte, tante botte. Il faentino Pietro Nenni, nel 25
1910 a capo dei repubblicani di Forlì che molto spesso scendevano in piazza contro i socialisti forlivesi guidati proprio da Mussolini, racconterà: «Com’era nel costume della Romagna di allora, manifestazioni e comizi finivano sovente a cazzotti. Impossibile stabilire il conto del dare e dell’avere. [...] Mussolini era sempre pronto a sacrificare la teoria all’azione. “Purché si combatta” era il suo motto». Per Bombacci, invece, il socialismo era diverso: il suo era un “evangelismo socialista” concepito per aiutare gli operai, i contadini, la povera gente sulla base della testimonianza di Cristo, visto come il primo socialista della storia. Una specie di nuovo cristianesimo che indurrà Antonio Scurati a definire Bombacci il “Cristo degli operai”. Anche il fisico gli darà una mano nel recitare questo ruolo. Mussolini dirà di lui: «Bombacci deve la sua fortuna di sovversivo a un paio d’occhi di ceramica olandese e a una barba bionda come quella di Cristo». Bombacci e Mussolini, due romagnoli con un imprinting comune: il forte richiamo della politica.
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