Alberto Braglia. L'atleta del Re (di Stefano Ferrari)

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stefano ferrari

Stefano Ferrari, classe ’69, modenese trapiantato a Bologna, è un giornalista professionista dal 2003, pubblicista dal 1995. Redattore di Trc, corrispondente da vent’anni del “Corriere dello Sport – Stadio”, ha fatto l’inviato, il telecronista, il conduttore, il ghostwriter e lo scrittore. Si deve a lui la scoperta della casa natale di Enzo Ferrari. Allievo di Valerio Riva che lo porta in Mondadori, ha scritto migliaia di articoli e alcuni libri: fra questi, Ricordando Altavilla, l’uomo che salvò la vita a Enzo Ferrari (Pontegobbo 2000), Capitan Pastene. Una terra di Promesse (Logos-Yema 2004), Corre la Pace (Artestampa 2006), le due edizioni di Su e giù dal Podio (Pontegobbo 2013-14).

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alberto braglia l’atleta del re

«Dica Braglia, cosa posso fare per lei, voglio sdebitarmi a nome degli Italiani» mi chiese il Re. «Maestà, vorrei un posto da operaio alla Manifattura Tabacchi» risposi.

Cover design: Alessandro Battara (Illustrificio Morskipas)

alberto braglia

MINERVA

Alberto Braglia (Modena, 23 aprile 1883 – Modena, 5 febbraio 1954), è stato il più grande ginnasta italiano, l’unico capace di vincere l’oro in almeno due diverse edizioni olimpiche da atleta, di ripetersi da allenatore, di essere protagonista nelle edizioni sperimentali a cinque cerchi, di uscire imbattuto per un decennio dalle competizioni internazionali. Pioniere della tecnica sul cavallo con maniglie, nella storia della ginnastica solo per Braglia è accaduto che i giudici si siano rifiutati di valutare le prove con i voti, sostituendoli con i giudizi, come “Magnifico”, “Insuperabile”, “Fantastico”, tanta era la sua superiorità. Premiato dai sovrani di tutto il mondo, osannato in ogni angolo del pianeta, Braglia è stato protagonista di una vita leggendaria fatta di ripetute cadute e rapide riprese, episodi al limite del grottesco e che spesso hanno avuto dell’incredibile, il tutto segnato da un destino che lo ha visto soccombere nei modi più tremendi e rialzarsi nelle maniere più imprevedibili. Alberto Braglia, alfiere della Società Panaro di Modena, viene squalificato a vita per presunto professionismo e poi riabilitato, premiato dal Re d’Italia ma anche ineffabile saltimbanco nei teatri, emigrante di lusso in America ai tempi di Rodolfo Valentino e ambito dal cinema, rovinato da faccendieri senza scrupoli e creduto morto, finito a chiedere elemosina sotto i portici della sua città e, infine, a lavorare come custode nella palestra che porta il suo nome, dove conosce la fine dei suoi giorni. Nel 1957, dopo un referendum, il Comune di Modena gli ha intitolato lo stadio cittadino, fra i rari casi in Italia di impianti che non portino il nome di un calciatore. Alberto Braglia, l’atleta del Re: una straordinaria persona comune.

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MINERVA



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Inverno, interno giorno. C’è solo una debole luce che esce dalla palestra, viene buio presto la sera a gennaio. Se ne sono andati tutti quelli che di giorno l’hanno vissuta, atleti, allenatori, giovani promesse, come ogni sera tutti sono tornati a casa, ognuno per conto proprio: chi in una casa vera e propria, chi si deve ancora arrangiare come può perché, da queste parti, la guerra più o meno ha segnato tutti e c’è chi una casa vera non ce l’ha. La luce debole e tremolante filtra da un sottoscala di una palestra posta nel cuore della città e dedicata ad Alberto Braglia: dopo averla ripulita e sistemata, messi via gli attrezzi e spazzato il pavimento il custode di questo luogo magico si corica a letto, perché lui abita lì. Non parla se non quando viene interpellato, osserva stringendo gli occhi e balbetta da sempre, il custode è quasi un misantropo. Timido e riservato, ogni giorno fa di tutto perché il luogo dove vive resti una specie di segreto, un patto non scritto fra lui e il piccolo mondo che lo sa. Dopo averla pulita, sistemata e gestita, la sera il custode chiude la palestra a doppia mandata e mette via gli attrezzi, poi mangia qualcosa, si cura gli acciacchi e va a letto. Presto, va a letto, perché non c’è nessuno con lui. Non sta bene, il custode, è ammalato da anni ormai: soffre di arteriosclerosi che di questi tempi, e siamo all’inizio del 5


1954, è una malattia difficile da curare e che unita all’età (e settanta cominciano a farsi sentire) può avvicinare alla fine dei giorni. Una malattia che non è sopportabile per chi aveva fatto del proprio corpo un vanto, specialmente per uno come lui che ne ha fatte di ogni risma, ha viaggiato il mondo, quello stesso mondo che prima lo ha osannato e poi dimenticato e infine lo ha ricompensato con due soldi, per una sorta di grazia ricevuta a gestire come fosse una specie di ultima chiamata, una palestra specializzata nella ginnastica e nella scherma. Quella che in sintesi è stata la sua vita. Tossisce forte, suda freddo, ha spesso la febbre il custode, e questo al di là del freddo cane di quei giorni di gennaio e sente, percepisce, che qualcosa non va. Lo avverte perché conosce bene il suo vecchio corpo. È rimasto solo, nella vita: la moglie non c’è più e da giovane ha perso un figlio, in tenera età. La vita che gli ha regalato tanto, gli ha spesso presentato il conto, un conto salato, quasi impossibile da saldare. A volte ci pensa guardando con gli occhi sbarrati la parete grigia della palestra, poi allontana il pensiero come se fosse una mosca petulante. Mangia un boccone di pane, beve un po’ di latte, va al lavandino per lavarsi, si guarda allo specchio, il custode. Le rughe profonde, gli occhi ingialliti, le cicatrici sulle spalle, i capelli radi. Il custode sa bene che questo sarà un inverno durissimo per lui, più duro di quelli, infiniti, passati durante la guerra, un periodo che gli disse male, molto male e che lo condannò per sempre. Fuori è buio, un buio pesto, la sera è venuta a trovarlo anche questa volta e il custode ringrazia il buon Dio che lo ha protetto ancora, si mette a letto sotto la scala che porta nella sala dei trofei e spegne la luce. Ha 6


un gran mal di testa, si tocca le gambe e le braccia per sentire se c’è ancora e si rassicura al tatto, il senso che più gli ha portato fortuna in passato, e poi prova a dormire, nel sottoscala del pieno centro di Modena, in via Fonteraso, a due passi dall’Accademia militare. Sperando di risvegliarsi l’indomani, ancora vivo.

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È tutta una questione di scelte. Non si possono tenere i piedi in due scarpe. Se ti piace il calcio, non si può tifare per la Lazio e anche per la Roma, per il Milan e anche per l’Inter, per il Modena e per il Bologna: devi scegliere. Se segui il Palio di Siena, non puoi tormentarti per l’Aquila e allo stesso tempo strapparti le vesti per la Pantera, essere dell’Istrice o della Lupa, perché una sola di queste è la tua, le altre le consideri in un ventaglio di ipotesi che va dall’indifferente al nemico acerrimo. Ed è una scelta che non compie il cervello, che non si decide a tavolino, la compie di solito il tuo cuore, il tuo istinto, ci sono sensazioni inspiegabili che ti porti dentro. C’è qualcosa che ti ha segnato da bambino o che una volta ti ha raccontato tuo padre, oppure tuo nonno e da lì, tac, ecco la scintilla, che poi non ti abbandona mai più. A Modena, da sempre, non si può gareggiare per la Fratellanza e per la Panaro: devi scegliere: o l’una o l’altra. Una è nata da una costola dell’altra e in questo caso se sia nato prima l’uovo o la gallina è chiaro, perché la prima è stata certo la Panaro. Però nel comune pensare sono quasi gemelle, nate comunque negli anni Settanta dell’Ottocento, quindi tanto tempo fa ma sono gemelle eterozigote: dalla Società Panaro, che si occupava prevalentemente di ginnastica, lotta e scherma, è poi sorta la Fratellanza, 9


che si occupava di atletica leggera. Oggi come allora ancora è questa la suddivisione e se ti iscrivi alla Fratellanza il tuo quotidiano è l’atletica, se vai alla Panaro sei un ginnasta o tiri di scherma, al limite lotti. Delle due l’una. Sono come due fiumi che, sgorgati dalla stessa fonte, poi procedono paralleli verso il mare, verso il loro estuario, e la strada che percorrono è lastricata di sudore, di pianti e sorrisi, di sacrifici e sconfitte, di sogni e vittorie. Di ricordi. Luigi avrebbe potuto scegliere, avrebbe potuto bussare alla porta della Fratellanza. Dopo la guerra la sede è stata trovata in una laterale di corso Vittorio, Calle Bondesano ed è tuttora lì. La frequentano alcuni suoi amici, anche un paio di compagni di scuola. Gli dicono essere una società in cui si impara benissimo a correre, saltare in alto e in lungo, lanciare il peso e il giavellotto, saltare gli ostacoli. Sono proprio bravi, alla Fratellanza, e fra poco in via IV Novembre trasformeranno la vecchia stalla per i muli del commendator Malavolti in uno spazio per allenarsi vero e proprio: in cambio delle pulizie e della manutenzione, ci si può esercitare al coperto e d’inverno come ora è importante che sia così. Magari ci penserà, il giovane Luigi, quindici anni e tanta voglia di lasciare il segno. E che ha scelto di fare ginnastica. Come fece Braglia che scelse la Panaro quando gli dissero che non era adatto per la corsa, pensa. Si fece vedere nella palestra all’aperto della Fratellanza per un po’, poi passò un anno appena, e dopo una sua prima apparizione come podista, la ginnastica divenne il suo forte, tanto che si trasferì alla Società di Ginnastica e Scherma Panaro. Così gli hanno raccontato. Ora tocca a lui. C’è un campanel10


lo, suona. Attende. Torna a spingere il pulsante. Gli apre un signore, anziano, uno che sembra un custode più che un maestro e con addosso un grembiule blu: gli sorride, e Luigi gli dice che vuole allenarsi per diventare un ginnasta. Ma il custode non può decidere per altri, balbetta decisamente, è timido, ha una ramazza in mano, stava pulendo e gli implora di aspettare: deve andare a chiamare un allenatore, un dirigente, qualcuno che possa dirgli cosa deve fare per esercitarsi lì. Lui è soltanto il custode. Socchiude la porta, ma gli dice ossequioso di entrare, perché fuori fa freddo, e non si può stare lì a metà dell’uscio, anche perché ci sono ragazzi che stanno esercitandosi nella lotta greco-romana, e potrebbero patire gli spifferi dell’inverno. Entra, si guarda intorno: Luigi vede i trofei, le immagini, gli attestati, i diplomi, le medaglie, gli attrezzi, le palle mediche, la sbarra e il quadro svedese, il cavallo con maniglie e gli anelli. Sente il profumo del gesso per le mani, l’odore di canfora per i muscoli, l’afflato acre del sudore, il senso di pavimento pulito della varechina, lo stesso odore di pulito dei luoghi pubblici che le sue narici sentono nei corridoi di scuola. Le sue orecchie si riempiono del rumore degli attrezzi, dei gemiti degli atleti, dei versi impliciti dopo una capriola, delle parole al vento dopo una caduta, la sua bocca è impastata di frasi che vorrebbe esprimere, di sogni che vorrebbe realizzare, di saliva che si sta seccando sempre di più al pensiero che domani no, forse già oggi, potrebbe iniziare ad allenarsi ed essere un atleta, cominciare, iniziare a capire cosa 11


significhi. Poi lo sguardo si alza, le sue pupille mettono a fuoco una targa che quel signore intanto, dopo avere detto di lui a qualcuno, sta spazzolando con uno scopino blu: “Palestra Alberto Braglia”, legge. Questo qualcuno esce, gli allunga la mano e lo accoglie: «Buongiorno Luigi, sei il benvenuto. Da oggi sei un nostro allievo ma ricordati, serve tenacia e continuità, serve sacrificio e volontà. Solo così potrai divertirti ed essere davvero un ginnasta dei nostri, degno erede di Alberto Braglia» dice, sorridendo e voltando il capo verso quel signore con il camice blu che pulisce la targa. Che non si gira, esita un attimo, ma continua il suo lavoro. Quello di sempre, pensa Luigi: il custode di un posto magico. Che lo guarda e bonario si avvicina. «Ciao, zuvnot...» dice in dialetto biascicato. E mentre lo dice nota la sua bocca palpitare, in un leggero balbettio. «Ti piace fare ginnastica? Guarda che qui è dura la pagnotta, sai? Bisogna avere tanta voglia, tanta costanza, bisogna essere molto determinati e allenarsi tutti i giorni.» Luigi lo osserva, e china il capo, sta entrando in un mondo di magia. Il custode ha tre capelli come riporto, gli mancano alcuni denti, sorride a stento ma ha l’animo della persona buona, di quelle che ti sanno aiutare. «Mi scusi – chiede Luigi, con un filo di voce – lei ne avrà visti passare tanti in questa palestra. Avrà visto campioni e anche gente meno brava, gente che ci ha provato e poi ha smesso. Ecco, non so se sarò mai un campione, per la verità a me piacerebbe essere capace di fare abbastanza bene tutti gli esercizi, ma crede ci sia un segreto particolare, oppure è questione di fisico? Insomma, per quelli come me decide Madre Natura o anche quelli normali 12


possono avere successo in questo sport?» Il custode gli sorride e si siede, e gli chiede: «Come ti chiami?» «Luigi» risponde. «E quanti anni hai?» «Quindici» gli fa, con un certo orgoglio. «Piacere, io sono Alberto.» Gli allunga la mano, il ragazzino: «Ah, lei ha un nome importante qui dentro. Non per niente la palestra è dedicata a un altro Alberto, un grandissimo Alberto, cioè Braglia». «Sì, lo so, è dedicata a me.» «In che senso, scusi?» «Sono io Alberto Braglia.»

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Mi presento. Sono Alberto Braglia, ho più di settant’anni e me li sento tutti addosso. Per la vita che ho vissuto è come se ne avessi cento. L’inverno è duro per me, come per tanti altri qui in città. Una volta era diverso, ora me ne accorgo. È appena passato Capodanno, siamo nel 1954 ormai. La guerra è lontana ma la sentiamo bene ancora tutti i giorni: non è facile abitare come me a due passi dalla stazione, bombardata e ferita. Le buche nelle strade, le case distrutte ai lati, alcune ancora abbandonate e con i vetri spezzati dai sassi che schizzavano indiavolati, sono intorno a noi, i portoni rotti, i legni che bruciano per fare caldo e per cuocere castagne, per chi le ha. Fa freddo, di quei freddi che ti paralizzano le ossa. Oggi, quattro gennaio, il ghiaccio ha fatto un brutto scherzo a tutti: i conducenti delle auto e dei camion sono scesi dai veicoli e hanno aiutato i ferrovieri a sganciare il convoglio di un treno bloccato come fosse su un piedistallo spingendo in avanti la motrice, così alla fine hanno potuto transitare davanti alla stazione e raggiungere il terzo binario. Tre vetture filoviarie hanno subito incidenti, se pur leggeri, un treno proveniente da Bologna ha avuto un ritardo di ben sei ore. Così ha sentito dire Luigi mentre è uscito di casa per venire qui, in via Fonteraso dove c’è la sede della Società Panaro e dove io faccio il custode. 15


Sì, il custode della palestra che porta il mio nome, Alberto Braglia, la stessa che mi ha visto allenarmi ormai quaranta, cinquant’anni fa, ormai non tengo più dietro al tempo: sono vecchio, malato e ogni giorno per me è un regalo del Signore. Comunque la nevicata si diceva: è normale di questi tempi, le scuole elementari resteranno chiuse fino a che non saranno sgombrati dalla neve i tetti. Il pericolo di crollo è palpabile: si tornerà a scuola dopo la Befana. Luigi è un bravo ragazzo, mi ha detto che ha appena iniziato le scuole superiori, si è iscritto alla scuola per geometri. Il suo papà dice che con tutte quelle case da rimettere in piedi e tutte queste strade da rifare non avrà problemi di lavoro, ma solo se saprà finire gli studi. Credo abbia ragione. Il mondo sta cambiando, tutto scorre veloce molto più di prima. Ieri ad esempio, è successa una cosa straordinaria: è nata la televisione. «La Rai, Radiotelevisione Italiana, inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive» ha detto una ragazza, un’annunciatrice come si dice adesso. Erano le undici di mattina quando quel piccolo aggeggio dalla forma squadrata ha iniziato a trasmettere immagini in bianco e nero. Ero di là che spazzavo la palestra e mi hanno chiamato: «Alberto, vieni qui a vedere» mi hanno urlato. «Magari un giorno alla televisione parlano anche di te, delle tue medaglie» ha fatto un altro. Be’, chi lo sa, anche se a me ormai importa ben poco. Penso che la televisione sia una cosa come la radio, ma in più con le facce di chi parla. Ma chi se lo può permettere un televisore oggi? Costa cinque volte lo stipendio di un operaio e io vivo con due lire e per grazia ricevuta!

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Per fortuna ci sono ancora le tradizioni di una volta. Luigi mi ha detto che per Natale ha ricevuto un regalo: in una busta chiusa per bene con la ceralacca, una cosa seria insomma, i suoi genitori avevano messo un biglietto con su scritto: “Caro Luigi, appena passato l’anno potrai iscriverti allo sport che vuoi, noi pagheremo quello che ti serve. Diventerai un campione. Firmato, papà e mamma”. Mi ha detto che gli piacciono gli sport individuali, in particolare vuole praticare la ginnastica. «Perché vuoi fare ginnastica?» gli ho chiesto. «Perché qui in città c’è una grande tradizione, ci sono stati campioni straordinari che hanno fatto la storia di questo sport, uno su tutti. Mio padre mi racconta che a inizio del secolo, quando lui era un bambino, tutta Italia impazziva per te, cioè, Alberto Braglia, il più grande atleta che il nostro Paese avesse mai avuto. Braglia, che poi sei tu, ha vinto due medaglie d’oro alle Olimpiadi, tre se ci mettiamo anche quella a squadre, quattro con quella vinta da allenatore: nessuno è stato grande quanto te.» «Mi diceva mio padre – mi ha detto ancora Luigi – che per la prima volta nella storia e solo per te fino ad ora, al termine degli esercizi i giudici non votavano l’esecuzione come si faceva anche ai tuoi tempi e si fa anche adesso, alzando le palette con la mano destra con su scritto i numeri che ti avrebbero assegnato, che so otto, nove o dieci, ma con aggettivi, ognuno nella propria lingua, che lodavano le tue gesta urlando: “Fantastico! Incredibile! Unico!”. Per me tu sei una leggenda. Semplicemente, una leggenda.» «Che strada hai fatto per venire qui, Luigi?» 17


«A piedi sono passato per corso Vittorio, ho tagliato il centro tenendomi alle spalle l’Accademia, ho imboccato via Farini e sono arrivato qui, nella sede della Panaro, in via Fonteraso.» «Posso raccontarti una storia?» «È la cosa che desidero di più» risponde Luigi. E mentre parla sorride e gli si illuminano gli occhi castani.

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