Bartali, l'ultimo eroico (di Giancarlo Brocci)

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GIANCARLO BROCCI

Bartali L’ULTIMO EROICO

L’uomo di ferro Nato per il tour prefazione di Sandro Picchi

MINERVA



Prefazione di Sandro Picchi

Quante parole sono state dette e scritte su Gino Bartali e quante ne ha pronunciate lui stesso. Ebbene in questo diluvio di libri, di interviste, di ricordi, scelgo un attimo di silenzio. E lo scelgo non per fare qualcosa di originale, ma perché nell’attimo di silenzio di cui desidero parlare c’è un momento in cui poesia e rarità si uniscono senza volerlo, senza chiederlo, senza ripeterlo. L’attimo di silenzio si riferisce al Tour del 1948, quando Bartali stabilì un primato incrollabile vincendo la Grande Boucle, termine che si riferisce al disegno tradizionale del percorso della venerabile e venerata corsa, tracciato sulla carta geografica della Francia. Ci fu, questo attimo di silenzio talmente raro da passare alla storia, il giorno 18 del mese di luglio del già citato anno 1948, quando al velodromo di Losanna il pubblico aspettava l’arrivo della quindicesima tappa, 264 chilometri faticosi su e giù per le montagne. Bartali indossava la maglia gialla che aveva conquistato dopo una poderosa rimonta nei confronti di Luison Bobet, elegante pedalatore francese. Sebbene fosse il primo in classifica, Bartali attaccò da lontano e percorse in fuga solitaria gli ultimi chilometri. Era talmente solitario e talmente fug5


gitivo da cogliere di sorpresa anche gli organizzatori che, forse per qualche disguido o forse per un guasto, non avevano comunicato l’imminente arrivo di Bartali. E fu così che si creò l’attimo di silenzio, probabilmente l’unico nella storia del ciclismo. Quello che chiameremo il prodigio si verificò nel momento in cui Gino Bartali fece il suo non annunciato ingresso nella pista del velodromo. Fu allora che tutti tacquero per quell’attimo che Leonard Steckel, regista teatrale e cinematografico presente fra il pubblico, definì con queste parole: «Una cosa è certa, nessuno potrà mai descrivere quell’attimo di silenzio». È ovvio che se nessuno potrà descriverlo, noi neanche ci proveremo, ma l’attimo di silenzio può essere considerato il momento più poetico mai registrato al Tour ed era, allo stesso tempo, la forma più originale per accogliere un vincitore. L’imprevedibile attimo di sospensione di ogni sentimento, soltanto un silenzioso stupore. Se pensiamo a chi era Bartali, alla sua loquacità anche in corsa, al suo spirito di toscano-toscanaccio, agli applausi che ha raccolto e a tutto quello di cui si è circondato e con cui ha circondato gli altri, se pensiamo a tutto questo, l’attimo di silenzio diventa un tributo. Mai nessuno aveva prodotto quel miracolo. Nella mia confidenza con Bartali, maturata negli anni in cui lui era un collega, ma sì un giornalista che al Giro d’Italia scriveva commenti per “l’Avvenire”, giornale cattolico, gli ho parlato di quell’attimo di silenzio, ma lui non lo riteneva importante quanto lo era per noi cronisti sempre alla ricerca di qualcosa di originale. In quel Tour del 1948, Gino contribuì a distrarre e a entusiasmare gli italiani nei giorni difficilissimi dell’attentato a Togliatti, ma lui per primo ri6


teneva esagerato collegare i suoi successi al Tour con quanto era avvenuto in Italia – anzi con quanto non era avvenuto in Italia dopo i colpi di pistola a capo del partito comunista – e ricordava la telefonata di De Gasperi, capo del governo, che gli chiedeva di fare qualcosa che distraesse la gente in quel difficile momento. «Eccellenza, la tappa gli è possibile, ma vincere il Tour gli è un po’ più difficile, ma un si sa mai.» Invece fu possibile e Gino portò con sé un record che nessun altro è stato capace di battere: vincere il Tour a dieci anni di distanza dal suo primo trionfo. E stabilire anche il record dell’attimo di silenzio, proprio lui che parlava volentieri con tutti. Era un campione anche nel concedere la confidenza e la stretta di mano. Ho avuto l’onore di essere tra quelli a cui, durante il Giro d’Italia, non stringeva la mano. Era un privilegio riservato agli amici dopo le tante strette di mano dei tifosi che gli gonfiavano il polso.

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Introduzione

Il 5 di maggio scorso, 2020, abbiamo ricordato i 20 anni dalla morte di Gino Bartali, l’immenso campione di Ponte a Ema che ha scritto pagine di storia e letteratura a quattro mani con l’altra metà del Mito: Fausto Coppi da Castellania. Ho avuto la fortuna, non solo di conoscerlo ben vivo, ovviamente, ma di portarlo a Gaiole in Chianti a tenere a battesimo, col suo nome, l’idea del Parco Ciclistico del Chianti e di una Granfondo a lui dedicata, la prima il 23 Luglio 1995. Da un regalo pensato per i partecipanti a quella corsa amatoriale, dalla conoscenza diretta di un grande uomo come Gino, dalla riscoperta che mi indusse del suo ciclismo, nacque L’Eroica, che qualcosa deve a questo enorme campione, e anche un libro Bartali il mito oscurato che riuscii a consegnargli, appena dattiloscritto, nella sua casa di piazza Gavinana. Dal ripercorrere con lui la tanta strada, la Storia che ha scritto e attraversato è maturata questa convinzione, che avevo sviluppato da tempo e che oggi sto provando a mettere per scritto. Gino Bartali era nato, “costruito”, per il Tour; Bartali e il Tour de France, due creature fatte l’una per l’altra, disegna9


te a reciproca misura come, crediamo, in nessun altro caso. Alfredo Martini e Fiorenzo Magni, che di Bartali convissero buona parte dell’epopea, hanno descritto i tratti dell’atleta inarrivabile per le doti che il Tour esigeva, per certi versi e fatte debite proporzioni, chiede ancor oggi. «Gino si esaltava nelle giornate da tregenda – dice sempre Alfredo – quando pedalare significava anche sradicare la bici dal fango di certe strade, quando si arrivava incrostati di mota, irriconoscibili pure per le nostre mamme. Ma, al tempo stesso, era l’uomo di ferro perché resisteva meglio di chiunque alla calura dell’estate francese; aveva una salute eccezionale, lo stesso Coppi gli invidiava la capacità di mangiare di tutto senza mai un problema di stomaco, sempre pronto a recuperare qualsiasi tipo di sforzo, perfetto nel resistere più di ogni altro alle sollecitazioni della fatica estrema, mai in crisi decisiva». Anche Magni, non necessariamente un bartaliano, ne ricorda qualche connotato d’eccezione. «Se era fortissimo quando pioveva, va detto che la cosa più incredibile rimaneva la sua refrattarietà alla sete: con l’afa più opprimente, in ogni fase della corsa, quando tutti avevano finito l’acqua lui conservava una borraccia mezza piena.» Ma, allo stesso modo di ogni perfetta simbiosi ideale che storia e letteratura ci hanno proposto, il connubio si è potuto realizzare solo parzialmente, alla stregua di ogni grande amore contrastato. Il Tour de France era stato concepito come il cimento ciclistico più arduo, Bartali ne impersonò l’interprete più idoneo mai assemblato da madre natura per superarlo. Eppure storia volle che la lunghissima carriera di Gino, anche in ciò incommensurabile resistente, fosse piena di 10


omissis, di assenze, di mancate occasioni che potevano fare del Grande Fiorentino il monumento simbolo del ciclismo a tappe, quello più vicino al cuore della gente. I Tour di Bartali sono racconti di trionfi e, comunque, di storie eccellenti: due successi, un secondo posto e due abbandoni che possono leggersi come tre vittorie mancate per avverse circostanze, un buco nero di ben dieci anni fra prima e seconda vittoria (’38 e ’48), due quarti posti ben più che onorevoli a 37 e 38 anni, età che è stata solo dei Poulidor e Zoetemelk, non per niente altri interpreti mirabili della “Grande Boucle”. La guerra e le sanzioni che il regime fascista guadagnò o impose concessero a Bartali solo cinque partecipazioni su quindici possibili, lo privarono di due terzi di opportunità pressoché tutte nel periodo migliore della sua parabola atletica, dai 25 ai 33 anni. Gino Bartali, classe 1914, sarebbe stato di gran lunga il favorito d’obbligo nei Tour de France dal ’39 al ’47; dal dominio del ’38 riprese col dominio nel ’48. Nel bel mezzo la Storia, con la esse maiuscola, lo volle mettere fuori gara: mi sono persuaso, ed è stato piacevole scoprirlo, che lo fece perché avrebbe stravinto. Giancarlo Brocci

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1 Tra i geants de la route

Tra le sue memorabili uscite editoriali celebrative, “L’Équipe” pubblicò Tour de France, le livre du centenaire. Bellissimo, al solito, come la fantastica opera in tre volumi. La copertina riportava in grande un quartetto in fuga: Armstrong, Merckx, Hinault e Bartali, lasciando a diversi altri “géants de la route” lo spazio, comunque immenso in quel contesto, di una figurina: Robic, Coppi, Bobet, Anquetil, Garin, Thys, LeMond, Fignon, Indurain. Al di là di ogni considerazione postuma sul crollo dell’epopea fittizia di Armstrong (e di un certo ciclismo), Bartali stava là, nell’Olimpo, nonostante gli altri tre lo sopravanzassero di molto quanto a successi finali nel Tour. Il nostro ne ha vinti due soli, tre meno di Anquetil e Indurain, uno meno di Thys, Bobet e LeMond, due come Petit Breton, Lambot, Bottecchia, Frantz, Leducq, Magne, Maes, Coppi, Thévenet e Fignon. Sia detto per inciso, quelli dopo Armstrong non sono in disamina, fanno parte di un ciclismo sub-giudice di cui non è il caso di accennare in un libro che vuol parlare al cuore degli appassionati. E, a proposito di quella copertina, non si può dire che i francesi non se ne intendessero; neanche che non propendessero per una certa concessione a Chauvin; evidentemen13


te la considerazione della statura di Gino Bartali è diffusa anche Oltralpe, forse proprio perché gli si sono riconosciute le doti che ne hanno fatto il ciclista più tagliato per l’epicità del Tour, l’atleta naturale più dotato per l’impresa senza pause, per il sacrificio oltre ogni limite. Forse perché gli è stata restituita quella porzione di gloria che gli eventi erano andati togliendogli in modo così esoso. Sulla durezza del Tour de France si è scatenata tanta letteratura, si è costruita un’aura di leggenda che regge a ogni rivisitazione postuma. Furono davvero tempi eroici, per gli organizzatori e per i primi, enormi, attori protagonisti. Il Tour de France, come ben sa ogni appassionato del grande ciclismo, fu progettato per stupire, per oltrepassare ogni limite quando già si esaltavano gli eroismi delle Bordeaux-Parigi, delle Parigi-Roubaix, delle Parigi-Brest-Parigi, tanti chilometri, cavalcate notturne oppure pavé, strade terribili, il tutto all’insegna della sfida estrema. «Le Tour de France, la plus grande course cycliste du monde entier»; è il 19 gennaio 1903 quando Henri Desgrange, tramite “L’Auto”, annuncia la nascita della madre di tutte le corse ciclistiche. È l’idea semplice, nonché straordinariamente folle nel suo coraggio avanguardista, che finirà per sbaragliare la concorrenza dell’altra rivista “Le Vélo” e del suo patron Pierre Giffard, che lancerà in orbita il giallo del primo foglio rispetto al verde dell’altro. Giffard era, fino ad allora, praticamente l’esclusivista delle grandi corse; aveva avuto in gestione dal Vélo Club Bordelais la “Bordeaux-Parigi”, quasi 600 km, creato la Parigi-Brest-Parigi sulla distanza doppia, una corsa epica che rese al suo vincitore Charles Terront (capace di percorrerla in 71 ore e 16 minuti) una incredibile popolarità: “Napoterront” lo chiameranno i 14


francesi per testimoniargli il rango di immortale e perché sarà protagonista di successo anche in una San Pietroburgo-Parigi. Tempi di Belle Époque, di romanzi di Jules Verne ed Emilio Salgari. Anche il ciclismo viaggia ai confini della realtà, su distanze lunghissime; c’è bisogno di diffonderlo più capillarmente possibile e Giffard è straordinario in quest’opera di promozione del suo sport, del suo giornale e delle sue corse. Poi, però, subentreranno politica e mercato a rendergli vita impossibile. Dall’esperienza trionfale de “Le Petit Journal”, Giffard aveva fondato nel 1892 “Le Vélo”, primo quotidiano sportivo francese, 4 pagine interamente dedicate al ciclismo, ed era andato organizzando con crescente favore di lettori e mercato prove come Parigi-Bruxelles, Parigi-Roubaix e Parigi-Tours, oltre a una Nantes-Parigi di 1000 km. In breve “Le Vélo” avvicinò le centomila copie di tiratura, diventando monopolista di pubblicità, alzando i prezzi e talora osteggiando ciò che altri (vedi caso un certo Henri Desgrange e il suo nuovo velodromo al Parco dei Principi) promuovevano. Poi “l’affaire Dreyfus”, lo schierarsi del progressista Giffard fra i dreyfusiani coinvolgendo in ciò anche il giornale e i suoi clienti. Il conte De Dion, produttore di auto e bici, monarchico facinoroso ed antidreyfusiano, fu escluso dalle grazie de “Le Vélo” e cominciò a lavorare a un fronte anti Giffard, che finì per mettere assieme, fra gli altri, Adolphe Clément, i fratelli Michelin e monsieur Hammond, patron de “La Française”. Decisero di dar vita ad un nuovo giornale e di affidarsi proprio ad Henri Desgrange. Desgrange, nato nel 1865, era entrato in sintonia con De Dion per una discussione franca circa le prove in pista dietro motori e vantava un curriculum di assoluto rilievo: spor15


tivo a tutto tondo, già primatista ciclistico dell’ora (35,325 km percorsi nel 1893) e campione di triciclo, era agente pubblicitario di Clément e, quando Adolphe e De Dion gli proposero di lavorare a un nuovo giornale sportivo, accettò di buon grado, tenendosi il merito di esigere che la politica restasse fuori da quelle pagine. Tra i suoi collaboratori, Desgrange scelse Victor Goddet (padre di Jacques, futuro patron del Tour) come amministratore, il giallo per il colore della carta, “L’Auto-Vélo” come titolo di testata e una redazione di notevole livello e passione, in grado di coprire al meglio anche altri sport; il ciclismo (assieme al motorismo), ovviamente, occupava larga parte del foglio e, fra i suoi redattori specializzati, figurarono Alphonse Steinès e Géo Lefèvre, transfughi da “Le Vélo”: personaggi che avranno formidabile peso nella nascita del Tour. Ma qualità giornalistica e mezzi finanziari non bastavano; Giffard aveva gli eventi, mirabolanti, in grado di accendere fantasie e passioni dei lettori, i “gialli” di Desgrange restavano incollati a un terzo delle vendite dei “verdi”. Le gare, quelle di grande coinvolgimento popolare, bisognava organizzarle, non solo raccontarle al meglio. Nel 1901 Desgrange patrocinò la Parigi-Brest-Parigi, organizzata da quel “Le Petit Journal” da cui era provenuto Giffard. Vi introdusse elementi di novità, come la partecipazione dei cicloturisti a fianco dei professionisti e fu un notevole successo, anche di vendite. “Le Vélo” rispose con la Bordeaux-Parigi e pochi mesi dopo “L’Auto-Vélo” la ripropose con un cast più forte: vinse Garin (correva per “La Française” di Hammond) impiegando 4 ore in meno di Wattelier, vincitore dell’edizione rivale. Si era, come ben vediamo, agli sgarbi, oltreché alla concorrenza sulle tariffe, alla “guerra”, di cui Giffard vinse un’altra batta16


glia quando ottenne dal tribunale che Desgrange togliesse dalla sua testata la dicitura “Vélo”, illegittima perché già sua. Serge Laget scriverà di ciò come di «un suicide pour Giffard qui, connaissant le lutteur qu’est Desgrange, se doute que sa revanche sera terrible». In quel 1902, comunque, tra “verdi” e “gialli” la distanza di tiratura si era ridotta ma (ottantamila contro trentamila) rimaneva ben grande. Ci voleva l’idea monstre, quella in grado di rovesciare il tavolo, di rimescolare le carte, di accendere la fantasia di grandi masse, rendendole partecipi di un’impresa colossale. E allora, come si è visto, le corse ciclistiche maggiori si misuravano su avventure oltre le colonne d’Ercole dell’usuale, su distanze abissali, strade sconnesse, bici pesanti e incerte, di meccanica primordiale, pedalando buona parte nell’ignoto della notte, nell’agguato incombente dell’incidente, della foratura: fatica e fato a profusione, sudore, polvere o fango, sempre oltre il confine della sopportazione conosciuta. Il concepimento stesso di un Tour de France avvenne, quindi, in quell’ultimo scorcio di 1902, evocato attorno a un tavolo di redazione de “L’Auto-Vélo” nella speranza di infliggere il colpo decisivo alla concorrenza; e poteva esserlo dando vita a una creatura che proponesse quanto di più duro, arduo, difficile era mai stato pensato non solo nel ciclismo e nello sport, bensì nella pratica fisica tutta. E, non certo a caso, quando si andò ad affinare l’idea pazza si mise assieme una distanza doppia rispetto al record conosciuto: dai 600 della Bordeaux-Parigi si era passati ai 1200 della Parigi-Brest e ritorno; il Tour che nasceva, di iperbole in iperbole, avrebbe superato i 2400 chilometri.

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2 Nasce il Tour

La lampadina di una enorme corsa a tappe, intervallata da giorni di riposo, attraverso l’intero esagono francese si accese nella testa di Lefèvre («Géo trouve l’idée lors d’un dejeuner au Zimmer, proche du Faubourg, ce 20 novembre 1902», scrive Laget) e il primo, convinto, sostenitore non fu Desgrange ma il notoriamente parsimonioso amministratore Victor Goddet, che diede l’aire fondamentale del sostegno economico. Henri, in effetti, ci mise lo spazio di una notte a ruminare il progetto e innamorarsene, poco più ad elaborarlo, per poi metterlo in campo, come detto, già per l’estate 1903. Non a caso lo rese pubblico tre giorni dopo aver appreso che il tribunale gli aveva tolto dalla testata il secondo nome. Scrive Paolo Facchinetti in Tour de France 1903: «Il suo unico pensiero era quello di conferirle contenuti sensazionalistici, tali da colpire profondamente l’immaginario collettivo. Voleva vendere più copie del suo giornale, è chiaro. Ma già che c’era voleva qualcosa di più… proporre una serie di tappe massacranti che evidenziassero la magnifica brutalità dello sforzo fisico dei corridori». 19


Fu proprio Géo Lefèvre, direttore di corsa nonché giudice di gara e d’arrivo e inviato speciale al “suo” primo Tour a parlare della febbrile curiosità di una moltitudine di persone, in attesa di «cette bataille de géants de la route». Desgrange, dal suo canto, aveva scritto: «L’Auto, journal d’idées e d’action, va a lancer à travers la France, ces inconscients et rudes semeurs d’énergie que sont nos grands routiers professionels». Ne La Storia del Ciclismo, straordinaria opera non conosciuta secondo merito e scritta a otto sapienti mani da Mario Fossati, Alfredo Martini, Gian Paolo Ormezzano e Sandro Picchi, proprio quest’ultimo fotografa la nascita del Tour in un quadretto dal titolo La strada dell’epopea. Ecco il Tour, ecco la corsa a tappe, ecco spalancarsi nuovi orizzonti davanti alla bicicletta. Sarà il Tour – gigantesco e malvagio – a dare al ciclismo anima e ideali. Verranno poi altre corse e saranno anch’esse belle, ma nessuna saprà superare in crudeltà, in grandezza, in fascino, in paura, in coerenza questa pazza idea francese. Uomini sbriciolati dalla fatica sulle montagne e prosciugati dal caldo nelle pianure… Con il Tour il ciclismo imbocca la strada dell’epopea e del successo. In mezzo a mille difficoltà, forse senza accorgersene, forse senza neppure saperla né cercarla quella strada: ma la imbocca. Il Tour all’inizio è corso da magri eroi che paiono condannati al ciclismo. Uomini piccoli dagli sguardi neri, uomini senza sorrisi, uomini da molte cose preoccupati eppure capaci di qualsiasi impresa. Si chiamano Garin, Garrigou, Trousselier, Petit Breton, Pottier. 20


Nei loro volti, che sono i volti che ritroviamo nelle trincee, negli scioperi, nelle stanze in penombra, nella miseria e nel mal sottile, si riconoscono i nuovi connotati del ciclismo, non più aristocratici ma popolari. C’è, in questi primi eroi, anche una vocazione alla tragedia che si può perfino cogliere negli occhi addolorati di Petit Breton – destinato a morire in guerra come Lapize e Faber – o in quelli di Pottier, il primo re della montagna, lassù così forte ma in realtà anche così fragile e romantico da uccidersi per una delusione d’amore.

E, nel robusto battage che precederà “le depart”, il primo via del Tour, i protagonisti principali acquisiscono nomignoli di chiara marca: Aucouturier, fisico da lottatore e baffoni all’insù, diventa “Le Terrible”, Georget “Le Brutal” per come e quanto mangiava e beveva (Le Brutal era un vino rosso a lui gradito). Garin fu “Le Petit Rammoneur”, lo spazzacamino, il belga Looten “Samson”, 21


Sansone, Joseph Fisher “L’Allemand d’Acier”, il tedesco d’acciaio mentre l’omonimo francese Jean Fisher fu detto “Le Grimpeur”, l’arrampicatore, ma non per le sue doti in salita, bensì perché al termine di una prova ciclistica di oltre 70 ore salì su un albero per mostrare quante energie gli erano rimaste in corpo. Monachon fu “Le Pedaleur de Tallon”, Foureaux venne detto il Campione dei Carpentieri. Poi Pasquier, di pelo rosso, il Barbuto Volante mentre Dargassier divenne famoso come “Le Forgeron (il fabbro) de Grisolles”. Tutti dovevano il soprannome a qualche caratteristica o impresa personale, ma era chiaro che se ne annunciavano le performances come l’imbonitore per le esibizioni del suo circo. E il Tour lo era, in modo assolutamente straordinario, e puntò da subito, dalla sua partenza il primo luglio 1903 da Montgeron, da quell’albergo “Au Réveil du Matin” ormai consegnato alla storia, a esigere prestazioni “hors catégorie”.

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3 L’epopea dei primi eroi

«Noialtri senza esagerazione – e parlo sia per gli altri che per me – siamo delle pellacce parecchio in gamba, e stia sicuro che non se ne trovano tanti della nostra tempra, perché la sua corsa è la più dura, la più maledettamente dura che si possa immaginare.» Così si rivolse a patron Desgrange Maurice Garin, il primo vincitore all’ultimo traguardo di Parigi, dopo aver percorso da dominatore le sei tappe per 2428 chilometri complessivi. La Francia contava, probabilmente, la migliore rete di strade rispetto a ogni altro Paese ed era di gran lunga il cuore pulsante del movimento ciclistico mondiale. «Non per questo – scrive Roger Bastide – il fondo cessava di essere assai ostico per il pneumatico, spesso costretto a rendere la bell’anima molto prima del dovuto. Quante laboriose riparazioni a tentoni nella notte; quante cadute sul pavé, quanta fatica supplementare, quanto tempo perduto, quanti inseguimenti solitari e scoraggianti… Ma tutte queste miserie sono state esaltate e innalzate al livello dell’epopea dall’entusiasmo dei cronisti.» Ecco che il Tour comincia a costruire la sua leggenda; e, appunto, la basa sulla crudezza dell’impegno, sulle condizioni improbe, sul grado di difficoltà eccezionale. 25


Le sei tappe? 467, 374, 423, 268, 425, 471 km. Solo la quarta, la Tolosa-Bordeaux, ha dimensioni “umane”, 4 addirittura superano i 400 km. La prima partenza, data alle 15 e 16, non è in grado di prevedere la straordinaria performance di Garin, che arriva a Lione alle 9:01, dopo 17 ore e 45 minuti, alla stratosferica media di 26, 450 km/h. Lo “spazzacamino” anticipa persino Géo Lefèvre, che così racconta su “L’Auto”: «L’arrivée? Eh bien, je l’ai manquée! Ce Garin e ce Pagie, que j’avais vus se restaurer rapidement a Moulins et s’enforcer dans la nuit, m’ont précédé à Lyon sur leur simple bicyclette, tandi que je roulais dans l’express!». Lui, in treno, ha perduto la corsa con i ciclisti! Difficile immaginare iperbole più affascinante per iniziare il racconto della nuova corsa… Il buio della notte non limita più di tanto i corridori, che tagliano il primo traguardo quando il grosso della folla ancora non vi è giunto e un solo commissario è presente ad azionare il cronometro e registrare il risultato. Gli arrivi si succederanno fino al tramonto e oltre; ultimo il cabarettista Eugène Brange, che firmerà il registro d’arrivo alle 6 della mattina successiva. Si corregge il tiro immediatamente; dopo i due giorni di sosta previsti si riparte con nuovi orari e tabelle di marcia, con l’intento di arrivare in pieno pomeriggio e di coinvolgere molti più spettatori. La seconda bandierina viene abbassata alle 2 e 30, le altre partenze saranno modulate per un arrivo previsto attorno alle 17. A Marsiglia vince Aucouturier ed è subito un tripudio di gente; “Le Terrible” deve difendersi a calci e pugni da 26


tanta frenesia, si mette in salvo nascondendosi dietro le tribune. Tra l’altro già circolano e fanno grande scalpore le peripezie impreviste dei protagonisti del Tour e le emozioni che sanno suscitare. Proprio Aucouturier, il giorno prima, si era fermato al posto di controllo di Moulins, accusando fortissimi dolori di stomaco: «una limonata all’acido solforico», così lui la definì, lo aveva stroncato costringendolo al ritiro ed escludendo, quindi, uno dei più attesi protagonisti dalla lotta per la vittoria finale (il regolamento consentiva l’iscrizione anche a singole tappe, ciò che permise al grande Hippolyte di ripartire da Lione e di vincere, oltreché a Marsiglia, anche a Tolosa). Le storie si susseguono, amplificate ad arte ma spesso straordinarie di per sé: brutte cadute, rotture meccaniche, crisi micidiali incombono e gli aneddoti cominciano ad alimentare la leggenda popolare, protagonista inatteso del primo giorno, naufraga al secondo appuntamento, travolto dalla fatica, migliora Brange ma ve ne sono altri che giungono al mattino dopo, avversati da vicende le più varie. Nella terza tappa il quartetto in fuga, con Garin dentro, è vittima in piena notte di un errore di percorso, così come il turista Desvages è “vittima” di numerose soste in trattoria e della curiosità degli avventori, che gli chiedono della corsa: arriverà alle tre del mattino. In tal modo l’avventura prosegue fino alla sua conclusione, alimentata dai racconti romanzati del suo giornale e da un tam tam sempre più fragoroso. Al Parco dei Principi è trionfo, decretato dall’entusiasmo di una folla incontenibile: tutti eroi quelli che 27


hanno portato a termine l’immane fatica. Si presentano all’arrivo con un cartello in cui è segnato il loro tempo complessivo ed è trionfo per ognuno. Desgrange e i suoi hanno vinto, e nel modo più clamoroso, la loro pazza scommessa. Il Tour è nato, tra l’elogio della follia e la sublimazione della condizione operaia, tra l’Iliade e l’Odissea di Omero, i feuillettons ridondanti e popolari di Ponson du Terrail. Il Tour è un’epopea pacifica, un supplemento di vita una kermesse eroica assolutamente degna d’Alexandre Dumas e Jules Verne. La Francia scopre il Tour e il Tour scopre la Francia; venti milioni di francesi sono ancora contadini, la Corsa crea la mitologia del territorio nazionale, per lo più sconosciuto; guardare le fotografie de “Le Miroir des Sports” diventa il miglior modo di apprendere la geografia. Le strade di montagna sono ancora quasi vuote di spettatori ma sono tempi di progresso, di battaglie sociali, di inizio di un secolo che promette cambiamenti decisivi; è proprio nel 1903 che Orville e Wilbur Wright, tra l’altro meccanici ciclisti, sorvolano l’Oceano Atlantico sul loro biplano atterrando nella Carolina del Nord. Tutti i sogni son permessi: il Tour de France dei primi anni è un cinema “dal vero”, pieno di colpi di scena, di incidenti, agguati della sorte (talora degli avversari), di fatica estrema, di trame, avvelenamenti e avvelenatori, di lotta contro gli elementi scatenati, di piccoli borghi meravigliosi mai visti, di strade misteriose, di spaventosi baratri, di natura selvaggia. In certe tappe, e almeno per i primi tre decenni, ci sarà anche una certa incognita traffico, l’intrusione di elementi estranei che talora au28


menteranno rischio e incidenti. È chiaro che tutto ciò contribuisce a determinare una trama sempre appassionante, coinvolgente, una chanson de geste che coinvolge tutti e che parla all’anima popolare del Paese. A metà degli anni Trenta, quando il copione sembrerà più prevedibile, il Tour rimane l’occasione delle vacanze, sempre più la Festa Nazionale che dura un mese, sempre in grado di creare attori superuomini capaci di sollecitare il culto e l’ammirazione di uomini e donne.

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4 Il rischio del successo

Il bagno di successo, comunque, non cancella ogni problema, anche se è il miglior corroborante per continuare a lavorare alle successive edizioni. Già Desgrange ha dovuto far fronte, dalla seconda tappa, al problema degli accompagnatori e del gioco di squadra, vietato a priori ma in qualche modo aleggiante là dove si giocano le posizioni che contano. Lo prova a risolvere con partenze differite di un’ora, che separeranno i concorrenti per la classifica finale dagli iscritti di giornata. Ma il Tour 1904 (identico percorso in sei tappe) è quello degli scandali: la seconda edizione rischierà a lungo di essere l’ultima e proprio il suo patron, alla fine, arriva a decretarne la fine prematura: «Il Tour de France muore, vittima del suo successo». In effetti patron Henri, promotore della “crociata morale dello sport ciclistico”, si trova a fare i conti con una sequenza interminabile di scandali, di colpi bassi, di astuzie di vario genere. Intanto i bordi strada tendono a riempirsi di “tifosi” della zona, di qualche corridore in particolar modo. A salire il Col de La Republique, dopo Saint-Étienne, una folla scalmanata e armata di randelli 31


lascia passare il solo André Faure, beniamino di casa, e blocca tutti gli altri, somministrando anche legnate. Servono colpi di pistola del seguito, a sparare anche lo stesso Desgrange, per liberare la strada. A Nimes un bis per protestare contro la squalifica di Ferdinand Payan, ciclista del locale Dipartimento; la strada viene cosparsa di chiodi e cocci di bottiglia, antipasto ai soliti bastoni e al fuoco che parte dalle armi del seguito. Il problema più grande, però, è costituito dall’atteggiamento dei concorrenti, che ricorrono spesso agli istinti meno nobili. Le voci di brogli si fanno sempre più forti e i corridori si vedono accusare, in ordine sparso, di essersi serviti di scorciatoie, di automobili compiacenti o addirittura del treno, di essersi invertiti i numeri di gara per farsi beffe dei controllori; oppure, la più comprensibile, che rimarrà una costante storica dei Tour, di aver fissato combine, stretto accordi fra ciclisti vari quando il presupposto della grande corsa è sempre stato l’esaltazione del singolo in un impegno strettamente individuale. Come detto, agguati notturni di sostenitori dell’uno contro l’altro, tappeti di chiodi sparsi in diverse occasioni; accordi sottobanco, sotterfugi i più vari; di queste irregolarità vengono caricati sicuramente i primi 4 della classifica finale, visto che sono tutti squalificati (era stato di nuovo Garin a primeggiare) e la vittoria assegnata (a dicembre) al giovanissimo Cornet, quinto. Inutile dire che i propositi di rinuncia («Il Tour è già finito, vittima del proprio successo, offeso dagli sporchi sospetti procurati da parte di ignoranti e mascalzoni...») di Desgrange durano poco; di certo si pensa a cambiare 32


radicalmente la formula. Tappe piĂš numerose (11) e piĂš brevi (348 km la massima distanza), per limitare il buio delle notti in cui il controllo della regolaritĂ della corsa diventa difficile, chilometri complessivi che salgono a 2994, classifica a punti e non per tempi. Ma, soprattutto, irrompe sulla scena la montagna.

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