Il Cervo e il Bambino (di Francesco Vidotto)

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francesco vidotto Cover design: Alessandro Battara Illustrazione: martm © 123RF.COM

Il cervo vecchio chiese al cane cieco: «Ma gli uomini sono tutti adulti?». E il cane cieco rispose: «No, ve ne sono anche di saggi. Li chiamano “bambini”».

il cervo e il bambino

Francesco Vidotto nasce nel 1976 e questo è già molto. Dopo una laurea in Economia e dodici anni di consulenza d’azienda, intuisce che il tempo è per lui una ricchezza irrinunciabile. Si ritira a vivere in Cadore, a Tai, tra le Dolomiti. Nel taschino preferisce avere un paio d’ore libere che il portafogli gonfio. Scrive storie di “ultimi”. Ha pubblicato: Signore delle cime (Carabba 2007), Siro (Minerva 2011, vincitore del premio Cortina d’Ampezzo per la letteratura di montagna 2011 e del premio eLEGGERE LIBeRI di Tione di Trento 2013), Zoe (Minerva 2012), Oceano (Minerva 2014, vincitore del premio letterario Torre Petrosa di Villamare e del premio letterario per la letteratura del nord-est Latisana) Fabro (Mondadori 2016), Meraviglia (Mondadori 2017), Il Selvaggio (Minerva 2018), Racconti del vento del nord (Michael Edizioni 2020). www.francescovidotto.com

nce s a r f

co v i d ot to

CERvO IL e il

Bambino R acconto

ISBN 978-8833242613

9 788833 242613

MINERVA

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uesta storia racconta di un cervo ucciso da un cacciatore a caccia con il figlioletto di cinque anni. L’animale era in fin di vita e il bambino abbracciò il suo forte collo. Il cervo vecchio allora parlò all’anima del piccolo, di come nel tempo lungo della sua esistenza aveva imparato a conoscere l’uomo.

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Ai bambini e agli anziani, perché nel principio e nella fine vive la verità.



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I

l grande cervo era steso nella boscaglia. Respirava a fatica. I polmoni si gonfiavano e soffiavano dalle narici umide il fiato bianco. Era fuggito fino a quando aveva potuto, poi si era accasciato esausto. Sul collo un foro preciso e rosso di sangue: il piombo del fucile l’aveva trafitto e costretto a morire. Aspettava il cervo, riverso a terra com’era, mentre il suo occhio nero e triste guardava oltre le cime degli abeti.


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Vedeva il cielo sporco di nubi e poi l’occhio scuro del cervo vecchio scorse un bambino. Era il figlio del cacciatore. Precedeva il padre e cercava l’animale che ferito s’era dato alla fuga. Non aveva ancora fatto il primo anno di scuola ma già doveva imparare la caccia. Si scrutarono. Un tremore scosse il cervo vecchio che inspirò e sbuffò e tentò di alzarsi sulle ginocchia senza riuscirci. Non voleva arrendersi alla vita che finisce. Il bambino spalancò la bocca per chiamare il padre ma la sua anima pulita gli disse di tacere. Stava lì in piedi accanto a quel corpo immobile il fanciullo e lo fissava attraverso i suoi occhiali grandi. Gli si avvicinò. Il ritmo dei cuori accelerò. Poi fece quello che la sua giovane età gli suggerì: lo abbracciò.


“Mi dispiace”, pensò, e il cervo vecchio lo capì, giacché gli animali non conoscono le parole ma ugualmente sentono attraverso la pelle e attraverso la pelle si dicono le cose del mondo. “Chissà da quanto abiti questo bosco antico”, pensò ancora il bambino. Il cervo vecchio allora decise che quello era il momento di parlare di nuovo con l’uomo e attraverso le pelle, dopo un tempo d’infinito silenzio, raccontò al piccolo della sua lunga vita tra le montagne.

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S

ono un cervo reale. Discendo dalla stirpe dei cervi rossi e ho vissuto la mia lunga vita tra le Dolomiti, le montagne più fragili di tutte. Abitavo i morbidi boschi senza confine che come onde immobili e verdi s’avvicinano alle pareti di roccia nel tentativo di lambirle senza mai riuscirci. Certe sere d’inverno mi alzavo di quota e salivo fino alle pendici del monte Antelao, dove gli alberi cedono il passo agli alpeggi. Saltavo nelle nevi alte e mi portavo laddove la vista è libera e l’occhio può correre all’orlo del cielo.


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Aspettavo che la montagna nascondesse l’ultimo sole. Lui sprofondava dietro alla pietra, il sole. Lasciava posto al firmamento, ma prima salutava il giorno colorandolo di rosa. Allora mi volgevo verso il Montanel e lo guardavo incendiarsi. La vetta e i ripidissimi pendii s’accendevano di tonalità prima tenui e poi intense fino a fondersi con il buio e la montagna severa si faceva dolce. Nell’oscurità vibravano le prime stelle della loro luce di cristallo. Annusavo il silenzio freddo del tramonto e aspettavo la notte, poi m’immergevo di nuovo nella boscaglia. Tra gli abeti sentivo la voce del vento che ne pettinava le fronde, lo scricchiolio dei possenti tronchi che ondeggiavano lievi in una danza sempre uguale, il bubolare del gufo, lo squittire dello scoiattolo e distante, l’ululato solitario del lupo. Mi ricordava che in montagna come nella vita, non si è mai al sicuro.


La mia esistenza era scandita da questi suoni ancestrali e ascoltandoli trascorreva il tempo tondo delle stagioni che s’inseguono.

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E

ra estate quando per la prima volta vidi l’essere umano. Camminava guardingo, talmente inadatto a questo ambiente verticale. Si reggeva a fatica sulle magre gambe posteriori e non aveva pelliccia né coda. Risaliva il pendio ripido piegandosi tutto in avanti per meglio bilanciare il peso e spesso si fermava a tirare il fiato. Fu allora che anche lui mi vide. Lo fissavo dall’alto del crinale. Alzò lo sguardo e rimase immobile.


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Era nuovo di questi luoghi eterni e per ciò intimidito e gentile. Alzò una mano in segno di amicizia ed io chinai il capo con la corona di corna e me ne andai. Da quel giorno lo vidi sempre più spesso, l’uomo: prima solo e poi in compagnia di altri suoi simili. Scelsero un luogo pianeggiante, tagliarono gli alberi alti che precipitavano uno alla volta nel cuore della foresta con un rumore che rompeva il mondo, e lì si stabilirono. Si davano da fare nel tentativo di addomesticare la montagna. Nudi e fragili come erano avevano bisogno di ripari e per questo con il legname imbastivano baite e capanne, dissodavano il terreno freddo, piantavano sementi sconosciute e aspettavano i germogli. Coltivavano la terra giacché erano troppo lenti per cacciare gli animali piccoli e troppo deboli per cacciare quelli più grossi. C’erano giorni in cui passeggiavo sul limitar del bosco e li guardavo zappare.


Vivevano cauti, a volte stremati dal carattere della montagna. Non appena mi scorgevano, la vita si fermava. Le donne e gli uomini coglievano le carote e tendevano il braccio nell’aria. Vedevano in me il fascino della vita selvaggia ma nel loro cuore già vibrava tenue l’istinto di addomesticarmi perché quando fiuti la libertà altrui, ti pare di poterla arraffare privandone chi ne è in possesso. I bambini invece s’avvicinavano tranquilli con le manine alzate. Volevano abbracciarmi il collo, stringermi il muso e toccarmi le corna. Dovevano ancora crescere e quando sei piccino lo sai che la fiducia la conquisti con l’amore e non con le carote. Io rimanevo ad osservarli e poi mi addentravo nuovamente tra le conifere e li lasciavo al loro vivere.

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