Collana diretta da Giacomo Battara
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GIOVANNI MARI
Klausener Strasse 1970: caccia al cadavere di Hitler Il diario segreto del Kgb romanzo storico
Prefazione di Nicolai Lilin
MINERVA
ÂŤSe vogliamo parlare di una nostra simpatia per una particolare Nazione, o meglio per la maggioranza dei suoi cittadini, (allora) naturalmente, non dobbiamo sottacere la nostra simpatia per i tedeschi.Âť Stalin in un colloquio con Emil Ludwig, il 13 dicembre 1931
A Sarino e alla sua battaglia
Prefazione Nicolai Lilin
L’uomo è uno degli animali più curiosi e controversi che la Terra abbia mai ospitato. Una delle nostre grandi diversità evolutive, rispetto al resto del mondo animale, è la consapevolezza della mortalità. Proprio la coesistenza con questa perenne sensazione di una fine imminente è diventata, dagli albori della nostra civiltà, una delle più grandi forze modulatrici della cultura del vivere degli esseri umani. È per quella consapevolezza che siamo i predatori più violenti, spietati e irrazionali del pianeta. Perché viviamo costantemente terrorizzati dall’idea del nostro precario momento. Come una creatura imprigionata in uno spazio buio, noi nasciamo con un innato senso di panico che si intensifica durante la nostra infanzia. La nostra vita, spesso, ricorda le mosse scoordinate e illogiche di chi tenta di trovare la via d’uscita da un incubo. Per questo l’uomo da sempre ha inventato gli dèi e ha dato notevole importanza alla celebrazione dei suoi riti. Ha creato delle regole di condotta con entità immaginarie che spesso vanno contro la sua stessa natura e sovente risultano autodistruttive. 7
Gli uomini hanno da sempre avuto enormi difficoltà nel vivere liberi; la stessa idea della libertà è molto compromessa dalla paura della morte. Non c’è da stupirsi se proprio la nostra specie ha saputo generare aspetti comportamentali fortemente depravati. E per colpa di questi atteggiamenti la grande Storia è composta per lo più da pagine che descrivono eventi infamanti, riprovevoli e disastrosi. Il secolo scorso, molto probabilmente, sarà considerato dalle generazioni future come quello più distruttivo e tragico di tutta l’esistenza umana. Uno dei meccanismi chiave che ha spinto l’umanità verso tale decadenza etica, morale e culturale, scaturisce dalle trasformazioni che le dinamiche spirituali hanno subìto con la crescita dell’aspetto manifatturiero e tecnologico. Il mancato equilibrio tra la propulsione dell’industria e della scienza con la delicata sfera della cultura individuale ha spinto le masse alla creazione di nuovi messia, aprendo lo spazio alla produzione di strutture dittatoriali senza precedenti. Tra queste, il primato, senza alcun dubbio, è riservato all’ideologia nazista, basata sulla venerazione, potente come quella religiosa, dell’indiscusso leader del Terzo Reich, Adolf Hitler. Su cosa sia stato il nazismo e in quali orrori quel regime abbia trascinato l’intera umanità, è stata scritta un’incredibile quantità di libri. Se vogliamo fare una breve riflessione su questo punto, possiamo affermare, senza timore di sbagliare, che gran parte della cultura moderna è stata contaminata, trasformata e in qualche senso dominata dalle dinamiche sgorgate 8
dalla Seconda guerra mondiale. Quel conflitto, oltre a essere stato un’ecatombe per decine di milioni di anime, è stato una delle più ignobili e vergognose espressioni dell’essere umano. Però, quello che cattura l’interesse di molti scrittori, in realtà, è il processo di comprensione del carattere di quegli eventi, dei meccanismi che li ha scatenati. Ma è chiaro che, se vogliamo capire la dittatura in generale, e quella nazista nello specifico, è necessario analizzare la figura dell’idolo che quella tirannia mette al centro: il leader, il nuovo messia riproposto per l’ennesima volta dalla Storia davanti agli uomini. Una figura che matura sempre nello stesso humus intriso di totalitarismo, fanatismo, culto della personalità, storie di miracoli e di promesse dallo splendido avvenire per cui diventa necessario e gioioso sacrificare ogni cosa. Cominciando dalla libertà individuale e finendo, di regola, con la vita fisica. Niente può distrarre così tanto l’uomo dall’idea della morte naturale quanto l’idea della morte autoinflitta nel nome di un ideale superiore. In tutto questo la figura del dittatore è fondamentale, perché incarna l’immortalità dell’idea in cui tutti credono ciecamente. Lui è la luce, il sole, l’universo di tutti i suoi seguaci, che sono totalmente dipendenti dalla sua presenza. Hitler si definiva “lo sposo della Germania”, ma, come era prevedibile, ha portato la sua prediletta verso una catastrofe sanguinaria e assoluta. Per rimediare alla sua follia servirono gli sforzi di tutto il resto del mondo. Non potendo sopravvivere al fallimento delle proprie idee estreme, si è ucciso, ma solo dopo aver 9
amorevolmente fatto ammazzare l’adorata cagnolina Blondi. La sua donna, Eva Braun, l’ha seguito spezzandosi tra i denti un’ampolla di cianuro. Il dio del nazismo era morto e doveva essere accompagnato nell’Aldilà insieme ai suoi più intimi e più fedeli sostenitori; come un vero konung norreno, arso tra le fiamme di un eterno falò funebre. Probabilmente così se lo immaginava lui stesso, nella sua mente devastata dall’odio, dalle anfetamine e dal Parkinson. In realtà, la storia dei resti di Hitler per decenni è stata oggetto di molte speculazioni. Si ipotizzavano vari luoghi della sua probabile sepoltura, alcuni amanti della fantascienza sostenevano persino che il suo cervello fosse stato portato in salvo per essere studiato e per poter clonare un nuovo padre del nazismo. In molti continuano a credere che “il più ariano di tutti” abbia in realtà organizzato una messinscena del suo suicidio, facendo uccidere uno dei suoi sosia e riuscendo invece a fuggire dalla Germania. La lettura di questo libro vi permetterà di scoprire alcuni fatti storici che prima d’ora sono rimasti ignoti alla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica. Ma lo farà con la docilità di un romanzo. Serpeggiando tra gli intrighi dei servizi clandestini di diversi Paesi, vi sarà possibile accedere ai documenti segreti rimasti per più di mezzo secolo negli archivi più protetti del mondo, accompagnare la scrupolosa e dettagliata ricostruzione degli eventi legati alla sorte della salma del Führer. E scommettere infine sulla buona o cattiva riuscita della missione: ritrovarla e distruggerla. 10
È anche un tentativo di ribadire la completa mortalità del dittatore, delle sue teorie, del male che propagandava. Contribuendo a smitizzare e smaltire quelle tracce residue di fanatismo rimaste sulla Terra dopo il suo orrendo transito. Prima di lasciarvi alla lettura, vorrei dare ancora una piccola possibilità all’umanità. Il quadro pessimista, sfumato a tratti da un pallido velo di cinismo, che un’anima sensibile non può evitare quando affronta un discorso sui grandi dittatori, si può risolvere con un unico metodo. L’anima sensibile si salva con la speranza nel trionfo del bene. E cosa è il bene, nel nostro mondo, se non l’amore? Quel sentimento puro e potente, la vera forza motrice dell’Universo, è l’unico in grado di sovrastare la morte e scacciarne la costante presenza dalle nostre coscienze, di restituirci la dignità e di tornare a essere creature realmente libere, spoglie delle paure più buie.
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Prologo I due Stati (19 marzo 1970)
Sventolavano il colbacco verso i vagoni immaginando una bandiera mai posseduta. L’esaltazione li sospingeva sulle punte dei piedi e le braccia si slanciavano verso il cielo. Una selva di guanti di lana scura ondeggiava in direzione di Willy Brandt1, nel miraggio di poterlo abbracciare. Stretti in ruvidi cappotti cenere e maglioni a scacchi, strepitavano come mai avevano fatto nelle parate ordinate dal Partito. Le gelide campate in ferro della stazione, unte dal respiro di zolfo dei freni, fabbricavano una perfetta cassa armonica e amplificavano l’esultanza tra l’ampia volta sopra i binari e le pareti di mattoncini biondi d’arenaria. Il boato, vigoroso, era tutto per lui: in carica da appena un anno, era già all’acme dell’invisibile gerarchia politica europea. Da quel momento il nome di Brandt veniva scolpito nella Storia, perché era il primo cancelliere della Germania Occidentale in visita nella Ddr, oltre la Cortina di Ferro. In casa nostra. 1 Willy Brandt (1913-1992), leader dei socialdemocratici della Repubblica federale tedesca (la Rft), sindaco di Berlino Ovest dal 1957 al 1966 e cancelliere dal 1969 al 1974 (si dimise per il coinvolgimento di un collaboratore in una rete di spie arruolate dalla Repubblica democratica tedesca, la Ddr).
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Cercavo di sentire i loro bisbigli, ma non era possibile. Frugavo nell’espressione del mio capo, Nikolaj Kovalenko, e notavo lo stesso disagio. Noi, che eravamo arrivati per spiare quelle genti, eravamo costretti a soppesare il nostro compito di agenti sovietici e il nostro stesso mondo. In arrivo da Bonn sull’unico convoglio autorizzato in tutta la giornata, Brandt era stato accolto da oltre duecento tedeschi dell’Est rimasti due ore in attesa sulla balconata, imperterriti e audaci. Il cancelliere, che era borgomastro di Berlino Ovest nei giorni della costruzione del Muro, nove anni prima, non aveva commesso errori. Appena qualche sorriso, nessuna parola sbilanciata, nessun gesto che avrebbe potuto accusarlo di aver cercato complicità, solo qualche stretta di mano. Quegli uomini, studenti e operai che ritenevamo saldamente radicati nei valori socialisti, non si accontentavano. Avanzavano sapendo che nel cuore della città una miriade di concittadini era già sul campo. Avevano conquistato la piazza e si erano schierati ai piedi dell’Erfurter Hof, l’hotel che era stato scelto per il vertice tra il leader progressista della Rft e Willi Stoph2, primo ministro della Germania Orientale. Avevano pacificamente oltrepassato le linee e gli sbarramenti di un quartiere che sembrava immobile. Avevano superato il compatto schieramento di militari a un chilometro e mezzo dal lussuoso albergo, evitando la barriera di transenne innalzata a trecento metri, 2 Willi Stoph (1914-1999), primo ministro della Ddr dal 1964 al 1973 e dal 1976 al 1989.
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sbaragliando il cordone di poliziotti a centocinquanta metri. Il fiume umano aveva travolto senza urti i gendarmi con il furore disarmato di chi si aggrappa a una speranza, scavalcando anche le tribune bianche riservate ai cinquecento giornalisti accreditati da tutta Europa. Si erano accalcati sotto il palazzo, scrosciando in lunghi applausi, nonostante il vento gelido e gli improvvisi acquazzoni. Scandivano il suo nome: «Brandt! Brandt!». Era da prima del nazismo che non si celebravano spontanee manifestazioni di massa, e con quella partecipazione, nella Ddr. In un istante aveva preso corpo proprio quello scenario che i miei capi avevano cercato fino all’ultimo di scongiurare: il nostro popolo che invocava l’oracolo dell’Ovest. Non era servito relegare l’evento in Turingia, a Erfurt, lontano dalla capitale e dal solco degli eserciti contrapposti. Nulla avevano potuto le tre zone concentriche di protezione, né il blocco dei bus e dei tram. *** Faticavo a seguire quel furore. Non ero abituato. Ed ero stato sollevato dalla decisione di Kovalenko, una volta registrata l’atmosfera in strada, di entrare nel palazzo per assistere all’incontro insieme alle delegazioni ufficiali. «Brandt! Brandt!», le voci arrivavano nel salone delle trattative. Un coro sempre più forte. Noi agenti comunisti avevamo compreso che il fronte tattico studiato nella mattinata era radicalmente 15
mutato. Temevamo una schiacciante disfatta. Lo Stato Generale era nello scompiglio più assoluto. L’unica strategia possibile era quella di contenere i danni. Da Mosca, al telefono, Jurij Andropov3, capo dei servizi segreti da tre anni, aveva alzato il livello d’allerta. Pretendeva informative in tempo reale e imponeva una reazione immediata: «Rompete quell’assedio, non possiamo tollerarlo. Non possiamo sembrare così deboli. Reagite, trovate una soluzione: agli occhi del mondo quella folla vi odia. Diranno che è stata una spallata, che il sistema non regge». Andropov aveva l’obiettivo di salvare almeno le apparenze agli occhi della stampa occidentale. L’avevo compreso perfettamente. Dall’altra parte dell’immateriale barricata, Conrad Ahlers, scaltro sottosegretario all’Informazione e nei fatti portavoce di Bonn, presenza fissa in tv e volto familiare anche nella Ddr, avendo intuito la stretta, aveva scatenato un contrattacco fulmineo. Lo stavo osservando da qualche minuto, forse affascinato dalla sua fama. All’improvviso aveva preso a braccetto Brandt per accompagnarlo alle vetrate del piano nobile dell’Erfurter Hof: «Tocca a lei, cancelliere, deve farsi vedere e nel suo volto scorgeranno un mondo intero, un mondo differente, migliore. Prenda un bel respiro, scacci quell’ansia ed esponga un sorriso rassicurante. Se la sente?». 3 Jurij Vladimirovič Andropov (1914-1984), direttore del Kgb dal 1967 al 1982; segretario del Partito comunista sovietico (Pcus) dal 1982 e presidente del Soviet supremo dal 1983 fino alla morte.
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Per il mio modo di pensare e di agire, quella era stata quasi un’interferenza: mai io avrei osato tanto con Kovalenko, il mio diretto superiore. Figurarsi con un ministro o addirittura un premier. «Ho superato prove peggiori», aveva in ogni caso risposto stizzito Brandt, precedendo Ahlers e afferrando la spessa maniglia della grande finestra. Così i due si erano affacciati sereni dal trionfale bow window sulla rumorosa moltitudine, facendo ampi cenni con la mano e ricevendo sproporzionate acclamazioni. La scena era durata pochi secondi: sopra, i due uomini in silenzio e radiosi con la mano tesa verso la folla; sotto, il popolo che si lasciava andare al tripudio. Questa era stata la fotografia dei grandi giornali europei, le prime pagine erano state solo per l’uomo dell’Occidente capitalista che si affacciava e salutava le genti osannanti dell’Est socialista. Questa era divenuta l’immagine tramandata ai figli del Secolo. Dentro l’hotel, l’atmosfera per i padroni di casa tedeschi, e pure per noi russi, si era fatta improvvisamente tesa e odorava irrimediabilmente di sconfitta. Il nuovo ordine puntava allora alla concretezza: «Lasciamo perdere la forma, guardiamo alla sostanza, cerchiamo di chiudere un accordo». Si era così diffusa la linea del governo. Stoph, magro e dimesso, aveva sviluppato la sua lunga lista di richieste iniziando con l’esorbitante pretesa di cento miliardi di marchi di risarcimento per danni subiti prima del 1961, anno della divisione fisica della Germania. Brandt, lievemente abbronzato e 17
impeccabile, nel suo completo di taglio francese, gli aveva risposto con pesantissime considerazioni politiche, evitando di discutere di danari e insistendo piuttosto sulla necessità di maggiori libertà per Berlino. Quell’insistenza sulla precedenza ai diritti civili, rispetto ai miliardi di marchi, mi aveva particolarmente colpito, mi aveva costretto a toccare con mano una differenza sostanziale. Un noi e un loro. Ed era dissonante che fossero loro a parlare di diritti e noi di soldi. Non era il contrario? Non doveva essere il contrario? Le delegazioni politiche, per contro, sembravano immuni a quel dibattito. Protetti dai rispettivi ministri degli Esteri, si trovavano uno di fronte all’altro, seduti ai lati di un lungo disadorno tavolo verde che la pletora degli sherpa aveva esorcizzato battezzandolo come “il grande biliardo di Erfurt”. Un’espressione sbarazzina nonostante l’atmosfera plumbea, che era riuscita a divertirmi. *** I colloqui, serrati, non si erano interrotti neppure tra le cinque portate del pranzo. Erano proseguiti informalmente anche durante la visita alle rovinememoriale del vicino ex campo di concentramento di Buchenwald. Tra quelle baracche, nel 1945, pochi giorni prima della Liberazione, i nazisti avevano ucciso decine di dirigenti politici tedeschi, tutti socialdemocratici o comunisti, perseguitati e arrestati fin dal 1939. Brandt, con l’ascesa di Adolf Hitler, si era rifugiato in Norvegia arruolandosi in clandestinità tra 18
i partigiani: davanti a questo amaro monumento, aveva ricordato tutti i suoi compagni dell’epoca, caduti per il loro rifiuto all’assimilazione. Li aveva commemorati uno per uno. Molti erano stati suoi antichi compagni di lotta e decise di citarli per nome, finalmente nel silenzio: erano stati dalla parte giusta quando il mondo cominciava a crollare e da quell’istante non esisteva più un Est, non esisteva più un Ovest. Anche io mi ero incupito. Svaniva la tensione di quella giornata, divampava in me una riflessione più vasta e mai conclusa. È pensando a quel momento che oggi mi sono deciso a raccontare ciò che non avevo mai raccontato. Certamente per quel che mi accadde nelle settimane successive. O forse, più probabilmente, perché da quel giorno avevo visto cambiare per sempre l’umore del colonnello Nikolaj Grigor’evič Kovalenko, capo della cellula Kgb presso l’unità militare 92626, la mia cellula. Lui ha speso la sua intera vita in quella stessa posizione, assolvendo incarichi che andavano ben oltre a quella scarna collocazione. Per oltre vent’anni io sono stato il suo attendente. *** Il colonnello mi aveva scelto tra decine di soldati considerati “affidabili” e che gli erano stati segnalati, ma non so da chi o da quale ufficio, con tanto di scheda, foto segnaletica e attestato di lealtà. Presumo che mi avesse individuato e avesse trovato una motivazio19
ne, oltre che nella mia totale dedizione al Partito comunista e nella mia storia di soldato, anche nella mia dimestichezza con la lingua tedesca e la lingua inglese. Il tedesco l’avevo appreso da mia madre, amante della letteratura ottocentesca germanica e insegnante al liceo Partner di Mosca per molti anni; l’inglese l’avevo invece studiato allo scopo di conoscere al meglio delle mie possibilità il “nemico”: gli Stati Uniti d’America. Decidendo oggi di svelare i miei ricordi, so che sto contravvenendo a tutti gli ordini ricevuti nella mia carriera. A cominciare da quelli dello stesso colonnello Kovalenko: mi aveva puntigliosamente istruito su ciò che dovevo e non dovevo fare, di mantenere sempre un profilo basso, quasi impercettibile. Mi aveva dato la consegna del silenzio più totale. Il messaggio era sempre stato chiarissimo. Non avrei mai dovuto parlare a nessuno di qualsiasi mia esperienza lavorativa. E a ciò mi sono sempre attenuto con rispetto e devozione, fino a oggi. Avevo compreso assai bene la mia delicata posizione, essendo costantemente al fianco di un uomo che stava gestendo complicate questioni politiche di sicurezza nazionale. Era naturale che io mi attenessi a quella consegna. Kovalenko mi aveva sempre portato con sé, in ogni missione, in ogni incontro che non fosse «assolutamente riservato». Avevo viaggiato insieme a lui in treno, in auto, in aereo, in sottomarino. Avevo portato la sua borsa di pelle nera piena di documenti segreti legandola con una catenella al mio polso. Gli avevo servito il tè o 20
la vodka, spento la luce quando si addormentava, stremato, sul divano dell’ufficio. Non l’avevo mai abbandonato, non gli avevo mai voltato le spalle. Un passo dietro a lui, ma c’ero sempre. Ero la sua ombra, magari relegata nel cantuccio di una stanza, e per questa mia discreta, quasi invisibile presenza, ascoltavo e registravo nella mia mente ogni conversazione, udivo ogni respiro, vivevo ogni tensione. Oggi, dopo che forse è trascorso troppo tempo dai fatti e con la clessidra della vita che mi lascia ormai poca sabbia, mi sono deciso a svelare una delle nostre missioni, una missione segretissima. Forse la più importante, storicamente la più immensa. L’obiettivo, stabilito direttamente da Leonid Brežnev4, segretario del mio Partito e presidente del Soviet supremo, in pieno accordo con il Kgb, era quello di andare alla ricerca del cadavere di Adolf Hitler. A quanto sapevano i servizi, i resti del dittatore erano stati seppelliti dai militari dell’Armata Rossa in una fossa, in Germania. Noi dovevamo trovare quella fossa e distruggere il materiale. *** Tutto avvenne molto velocemente, pochi giorni dopo il vertice di Erfurt, dove, comunque, al precoce calare del sole, non si potevano annotare novità sostanziali sulla via del disgelo tra i blocchi. Era stata 4 Leonid Il’ič Brežnev (1906-1982), segretario del Pcus dal 1964 fino alla morte, presidente del Soviet supremo dal 1960 al 1964 e dal 1977 al 1982.
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una sfida di muscoli e di nervi, eppure era bastato quel primo timido incontro a puntellare in molti la speranza per l’inizio di una nuova era a cavallo del Muro. Tornato a Ovest, Brandt aveva dettato alla stampa una brevissima, misurata dichiarazione che aveva elaborato sul treno, e con la quale descriveva un contesto io credo volutamente più ottimista: «Ritengo sia possibile la firma di un trattato con la Ddr entro un paio d’anni». Sapeva che il riavvicinarsi tra fratelli tedeschi avrebbe segnato un momento di svolta negli equilibri della Guerra Fredda. Il cammino da percorre, tuttavia, era ancora lungo, faticoso, soggetto a troppe e avvelenate variabili esterne. Noi, che eravamo stati testimoni di quella giornata, lo intuivamo meglio di altri. Ma quel cammino era cominciato e, inesorabile, non avrebbe fatto passi indietro. Ne erano certi anche i governanti, a destra e a sinistra della Cortina di Ferro, nonostante il persistere di rancori e contestazioni. Mosca aveva avvertito lo strappo, eppure non riusciva a stare al passo, a divincolarsi dal suo piccolo mondo. Pensava ancora di poter governare i ritmi della Storia. Anche io ne ero certo. Ma ricordo molto bene come quella stessa notte, durante la lunga trasvolata che mi aveva riportato a casa, il dubbio si fosse infiltrato tra i miei pensieri.
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I PARTE ALLA LUBJANKA5
5 Ăˆ il nome del palazzo che ospitava i servizi segreti sovietici, la ÄŒeka dal 1918 e poi il Kgb. Prende il nome dalla piazza su cui sorge.
1. Il via libera (20 marzo 1970)
«Jurij, archivia tutto. Anche i cani.» Andropov aveva ricevuto al telefono un ordine perentorio. Brežnev, al solito, era stato lapidario. I rapporti tra il capo delle spie e il capo dello Stato, del resto, non potevano essere differenti. Andropov aveva comunque una gran voglia di ubbidire e, nella penombra della Lubjanka, si era limitato a sibilare un semplice «sì capo». Poi lo aveva salutato nel solito modo molto formale. Subito dopo, riattaccata la cornetta rossa, senza indugiare, aveva cambiato apparecchio e premuto deciso il tasto di plastica trasparente, in basso a destra, da qualche tempo dedicato al numero diretto del colonnello Kovalenko. «Nikolaj. Corri da me.» Avevo scorto sul volto del colonnello un’inconsueta agitazione che, per un istante, si era manifestata in una smorfia di fastidio. Mi aveva guardato serio, come sempre peraltro, e mi aveva ordinato di seguirlo dopo aver preparato le sue “cose”. Improvvisamente si era fermato, aprendosi e raccontandomi l’evoluzione di quelle telefonate così 25
brevi e delicate: «Andropov ha avuto il via libera da Brežnev sulla questione del cadavere di Hitler, mi ha detto che lo sentiva picchiettare sull’orologio a timone che tiene sulla sua scrivania. Lo fa quando ha paura che qualcosa possa andare storto. Andropov avrebbe voluto rassicurarlo, ma il segretario era di corsa perché doveva vedere i vertici del Pcus. Sarà una mattinata intensa. Lo immagino mentre attraversa il lungo salone del Cremlino: si sarà fermato per alcuni istanti dinanzi alla vetrata scura che si affaccia sulla grande piazza, certo che nessuno potrà vederlo, lanciando lo sguardo verso il breve profilo della collina Borovickij e poi verso l’argine della Moscova, oltre le mura di Ivan il Grande. Gliel’ho visto fare nei giorni difficili. Probabilmente si starà accendendo l’ennesima Novost… lui fuma molto, non so se lo sai… E dopo farà la sua entrata al Politburo, con la testa pervasa del dramma bellico: l’Armata Rossa schiacciata e il colpo di reni dell’intero popolo russo per respingere i nazisti. Era stata l’epopea di Stalin, “l’enorme riscatto dei proletari e dei Soviet”, come ha più volte e solennemente spiegato ai giovani della scuola politica». Perché Kovalenko mi avesse raccontato tutto ciò non l’avevo inteso. Forse voleva farmi comprendere la delicatezza e il peso che i nostri giorni avrebbero assunto da quel momento. C’eravamo io e lui, certamente, ma sopra di noi c’erano Brežnev e Andropov, il massimo livello. Il connotato dell’urgenza, in quelle telefonate, era dettato dall’impatto che la nostra missione avrebbe avuto sulla Storia: dovevamo rivangare la fine del nazismo, spalancare le tombe del male, tor26
nare a tu per tu con chi aveva tentato di distruggere l’Unione sovietica. Probabilmente, avevo pensato, recandosi al Politburo, Brežnev stava immaginando di poter imprimere un suo sigillo, l’ultimo, alla “Grande Guerra Patriottica6”, venticinque anni dopo. E forse stava rimuginando, perché non poteva godersi quel momento. Il vertice del Pcus si era infatti già radunato nella Sala di San Vladimiro, in una mattina particolarmente chiara e senza neve. Come sempre tutti i componenti erano in attesa del segretario, seduti e composti, attorno al lungo tavolo a forma di “T”, ingombro di carte e portadocumenti, sorvegliato da un maestoso candeliere in bronzo, pendente da una cupola di cristallo alta 18 metri che illuminava la vasta stanza carica di rilievi e croci gregoriane. Kovalenko, scendendo lentamente le scale, mi aveva detto che il vertice avrebbe esaminato i rapporti del Dipartimento Siam e probabilmente affrontato la questione del golpe del primo ministro cambogiano Lon Nol ai danni del sempre barcollante regime del principe Sihanouk. Sull’argomento Brežnev aveva già manifestato la sua idea, seppure in separata sede e con affidabili collaboratori, con il solito cinismo. Di sicuro, pensavo, l’ordine del giorno, non lo appassionava: nulla poteva smuoverlo da quel salto all’indietro nel 1945. Ero sicuro che avrebbe preferito essere insieme ad Andropov e al suo uomo migliore, a consultare il corposo fascicolo «Operazione Archivi. Segreto», con l’epigrafe nera tracciata 6
Così Stalin indicava la Seconda guerra mondiale. 27
a penna, con il normografo. Proprio il fascicolo sulla salma di Hitler. *** Perduti in questi pensieri, eravamo giunti alla Lubjanka prima del previsto, un’ora dopo la telefonata di Brežnev. Nessuno poteva indovinare i motivi per cui quell’accigliato e taciturno colonnello chiedeva di essere ricevuto dal grande capo. Kovalenko non aveva calcato spesso i pregiati pavimenti del grande palazzo: solo un paio di volte, per visite ufficiali, o nei ranghi di qualche generale. In ogni caso, non era cambiato l’approccio con uscieri e commessi, allo specchio di un tavolo in noce stretto tra le pareti verdastre. «Nikolaj, esatto. Colonnello Nikolaj Grigor’evič Kovalenko, capo della cellula Kgb presso l’unità militare 92626, lui è il mio attendente», aveva risposto deciso all’impiegata. «Prego, colonnello, da questa parte», aveva replicato la donna, probabilmente senza essersi mai domandata cosa potesse significare essere il capo di una cellula presso un’unità militare dal numero a cinque cifre. Avrà di certo saputo che gli incarichi formali non corrispondevano per nulla alla realtà. Gli stessi agenti speciali della Smerš7, che erano andati a caccia del corpo del Führer appena conquistate le rovine della Cancelleria, nel 1945, mentre gli ultimi ragazzini del7 Dipartimento di controspionaggio dell’Armata Rossa, contrazione di “Smert’ špionam”, morte alle spie, istituito nel 1941 a tutela della Rivoluzione.
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la Hitler-Jugend fuggivano nella Berlino travolta dal fuoco e dall’Armata Rossa, erano stati semplicemente catalogati come uomini del settantanovesimo reparto fucilieri. Invece, implacabili e addestrati, avevano l’ordine di recuperare il cadavere del dittatore. Per consegnarlo a Stalin. In quello stesso momento era comparso davanti a noi Andropov che, terminata la lunga scalinata, aveva infilato il corridoio che accompagnava alle stanze centrali della Lubjanka. Kovalenko aveva rallentato il passo, segno evidente che non intendeva precederlo: eravamo rimasti a debita distanza: lui davanti, io dietro. «Avanti, bisogna lavorare!», aveva intimato Andropov ai suoi funzionari varcando la porta dei suoi uffici. E subito dopo aveva ordinato: «Rompiamo questo ritmo blando, ci sono cose che trascendono la quotidianità, faccende che restano. Oggi non voglio chiamate né visite». Aveva accolto il colonnello sbrigativamente, quasi innervosito: da settimane lo sentiva quotidianamente al telefono e aveva accantonato il protocollo. Kovalenko mi aveva presentato come suo uomo di fiducia e attendente, lo aveva già fatto in precedenza, evidentemente lo considerava ogni volta un atto dovuto. Andropov si era limitato a lanciarmi un fugace sguardo, poi aveva guardato nuovamente il colonnello. Avevo inteso chiaramente che dovevo togliermi da lì, pertanto mi ero spostato svelto verso una sedia posta a discreta lontananza. Dalla mia posizione avevo finalmente potuto osservare con attenzione il mio capo. Quel giorno indos29
sava un abito largo e il portamento era quello di un soldato in congedo. Aveva i capelli inchiodati al cranio da una brillantina opaca. Avevo sciolto un cenno di sorriso pensando che lo stile di Kovalenko fosse almeno insolito per un temprato cinquantatreenne. Prima del colloquio con Andropov gli avevo consegnato una cartella marrone a doppia tasca, che teneva sotto il braccio. Calzava mocassini logori, cravatta nera sottile, con nodo piccolo e stretto. Sulla pelle del viso si poteva notare l’ombra scura della barba, rasata da oltre dodici ore, perché Kovalenko aveva la consuetudine di radersi la sera. Un’abitudine presa da ragazzo nella sua Kiev, in Ucraina. L’impressione complessiva che ne avevo tratto era che mostrasse indiscutibilmente quell’attitudine alla concretezza e alla forma che lo facevano considerare una specie di monumento tra gli agenti operativi. *** C’era tensione. E non era stato difficile, poco dopo, comprendere la ragione di tanto nervosismo da parte del capo del Kgb. Aveva il terrore di essere in forte ritardo. Avrebbe voluto chiudere il discorso sul cadavere di Adolf Hitler già a febbraio. Invece aveva dovuto aspettare il 20 marzo di quel fatidico 1970, proprio quel giorno, per poter innescare l’operazione. Si trattava della salma semi-carbonizzata del padre del nazismo da far sparire per sempre. Sapevamo dove era custodita, lo avevamo letto sui rapporti dei nostri 30
eroici soldati, ed era da distruggere. Ma la missione non finiva lì, come io e Kovalenko avevamo appreso da qualche giorno. Nella stessa buca erano sepolte anche le spoglie di Eva Braun. Insieme ai cadaveri di tutta la famiglia di Joseph Goebbels: l’ex “ministro imperiale”, la moglie Magda, i loro sei figli. In più, c’erano i resti decomposti di Hans Krebs, capo di Stato maggiore negli ultimi giorni del Terzo Reich, quando immeritatamente subentrò all’eroe della Blitzkrieg, il generale Guderian8. Infine, ma questo lo sapevamo fin dall’inizio, erano da recuperare e smaltire anche i due cani di Hitler, l’amata Blondi e il suo cucciolo Wolf. Carne solo in parte guastata dal fuoco nel maggio del 1945. Anche quelli sepolti, nella stessa fossa. Con Kovalenko già avevamo ragionato sulla delicatezza e la complessità della missione. E avevamo riletto fino a sfinirci la storia di quei cadaveri. Nel 1945 i pochi uomini delle SS rimasti tra i ruderi della Nuova Cancelleria avevano gettato quei corpi ad ardere nella buca scavata da una bomba della Terza armata sovietica, a pochi metri dall’uscita del bunker. Ma le cremazioni erano state solo parziali, appena accennate e bruscamente interrotte. Poi il Reich era scomparso e tutto era stato sequestrato dai soldati russi. Grazie ai primi riscontri avuti leggendo le carte della missione avevamo scoperto che i nostri uomini avevano immediatamente recuperato quei corpi, li avevano portati in un campo segreto lontano da Berlino e là abban8 Heinz Guderian (1888-1954), il più abile generale tedesco dagli anni Trenta e per tutto il conflitto. Stratega delle truppe corazzate, eroe della guerra lampo.
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donati seppellendoli. Perché Stalin aveva emanato un ordine assoluto: il sarcofago del nazismo doveva scomparire dalla scena. Così era avvenuto. Allo stesso modo, a me e a Kovalenko, trascorsi venticinque lunghissimi anni, era capitato di ricevere l’ordine successivo. L’Urss aveva preso una nuova decisione: quei resti dovevano essere letteralmente spazzati via dal mondo e dal tempo. Polverizzati. Erano da «archiviare», verbo che aveva scelto direttamente Brežnev per indicare l’intero piano. Questa era la priorità assoluta dei servizi speciali. Azzerare la questione, e dunque: «Cancellare ogni traccia».
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