LO SCUDETTO INSANGUINATO

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Carlo F. Chiesa “Voi al mio posto che avreste fatto? Siete sicuri che ne avreste conservato le mani candide? Che non le avreste sporcate pure voi con il sangue di un innocente?”

Lo scudetto insanguinato

“Sapete cos’è un omicidio? Io lo so. Prendere un uomo, prendere il suo futuro, dai minuti successivi fino all’idea di infinito che gli circola nella testa, e scrivere la parola fine”

Minerva Edizioni

Carlo Felice Chiesa, nato a Bologna nel 1954, laureato in Giurisprudenza con una tesi di diritto amministrativo, ha avviato la carriera giornalistica nella cronaca di Bologna del Giornale Nuovo di Indro Montanelli prima di passare al Guerin Sportivo, diventando professionista, poi per lunghi anni inviato speciale del calcio in giro per il mondo anche al seguito della Nazionale e infine caporedattore. Specializzatosi nella storia del pallone mondiale sulle colonne del mensile Calcio 2000, di cui è stato tra i fondatori, attualmente è opinionista televisivo e alterna la collaborazione a quotidiani e periodici alla realizzazione di volumi sulla storia del calcio: tra le sue pubblicazioni, “Il Secolo Rossoblù – Storia, Enciclopedia e Memorabilia dei cento anni del Bologna”, “Il Secolo azzurro”, dedicato ai cento anni della Nazionale italiana di calcio, “Napoli 8½”, sugli 85 anni di storia del Napoli, “Piedi sporchi – L’ultimo scandalo del calcio e tutti i precedenti dal 1912”, “Guinness World Records – I record del calcio”, “Romanzo popolare: l’epopea dello scudetto 1924-25”. Nel 1994 ha esordito nella narrativa col romanzo “Luci in salita”.

scudetto Carlo F. Chiesa

Lo

insanguinato Un caso di doping, un omicidio di cui il mondo non si è accorto

Minerva Edizioni

Nel marzo del 1964 l’Italia è scossa da un “giallo” che in poche settimane travalica le prime pagine dei quotidiani sportivi per diventare caso nazionale. Cinque calciatori del Bologna primo in classifica sono risultati positivi al controllo antidoping, una parola quasi misteriosa con cui presto tutti imparano a convivere. Le sanzioni previste sono gravissime, il sogno di una intera città di tornare per la prima volta nel dopoguerra allo scudetto si incrina. La gente di Bologna reagisce con chiassose manifestazioni di piazza, denunciando un complotto di Inter e Milan. In pochi giorni la situazione precipita: la Procura della Repubblica sequestra le provette contenenti le urine dei giocatori, rendendo impossibili le controanalisi; mentre la stampa emiliana si scontra con quella milanese e grandi giuristi si danno battaglia disquisendo sui possibili sviluppi dell’intricato caso, il Bologna viene penalizzato in classifica e il suo allenatore Bernardini squalificato. Quando sembra che tutto sia perduto, una serie di colpi di scena capovolge la situazione. La stagione sportiva avrà un epilogo rimasto unico in tutta la storia del calcio italiano, pochi giorni dopo la morte di uno dei protagonisti, lasciando una scia di interrogativi destinata a durare nel tempo. Mescolando realtà e invenzione, attingendo a un certosino lavoro di scavo nelle cronache del tempo, l’autore a cinquant’anni dai fatti propone una soluzione dell’enigma: una sorprendente ricostruzione di ciò che probabilmente accadde. Con la tecnica del legal thriller di grande presa emotiva, un romanzo introspettivo ricco di colpi di scena su uno dei grandi misteri della storia dell’Italia repubblicana, in grado di appassionare il lettore dalla prima all’ultima pagina.

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scudetto Carlo F. Chiesa

Lo

insanguinato Un caso di doping, un omicidio di cui il mondo non si è accorto

Minerva Edizioni


Carlo F. Chiesa

Lo scudetto insanguinato

Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Paolo Tassoni Grafica e impaginazione: Francesco Zanarini Fotografie di Walter Breveglieri © 2014 Archivio Walter Breveglieri © 2014 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Deroga a quanto sopra potrà essere fatta secondo le modalità di legge. L’editore rimane a disposizione degli eventuali aventi diritto per le immagini di cui non è stato possibile reperire l’autore. Finito di stampare nel mese di febbraio 2014, per i tipi di Alpha Service, Cesena ISBN: 978-88-7381-559-4 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 40050 - Argelato (BO) Tel. 051.6630557 Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com


Vento quieto di placato inverno; umido sapore di terra fresca sul mio corpo, senile immobilitĂ di pensieri, mi sono oggi ricordato morto (15-3-1973)


Questo libro è un’opera di fantasia. Giornali e sentenze citati sono del 1964 e del 1966, nelle date riportate, con trascrizione fedele. Per il resto, nomi, personaggi, luoghi ed episodi o sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono impiegati in modo fittizio.


Indice

Capitoli 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29.

Una domanda per voi Il mondo nuovo Un incontro casuale Lo scherzo del secolo L’ora della prova Maledetta domenica Azione La cacciata La bomba Attenti a quei tre Il sequestro La speranza L’intruso Il groviglio La mazzata Pasqua di sangue Cercasi Borgia disperatamente Il colpevole smascherato Il fuoriclasse L’assoluzione Il proposito Il ricatto Il duello L’abisso Il sangue versato Latte e fiele Lo strappo La sorpresa La rivelazione

Indice dei personaggi

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1. Una domanda per voi

Il bello stava tutto lì: il corpo stremato, il sangue che pulsa alle tempie e con l’ultimo respiro uno scarto breve delle gambe, lo schiocco del tiro secco, il portiere che si butta goffamente, rassegnato al proprio destino. Il pallone non può essere che questo: un trasalimento felice tra le prime ombre della sera, il sudore e la fatica come un urlo che svapora non appena schiarisci la gola. Se solo si abbassa la prospettiva di una vita felice, Giacomo Bulgarelli appare nella sua veste eternamente giovane di campione: lo sguardo chiaro, il cuore trafelato, il sorriso pieno di chi ha sempre qualcosa da spartire con chi gli sta accanto. Laggiù, invece, dall’alto, quel misto di corsa e di stile a zampette nude non è che l’idea di un destino, il progetto di una grandezza in sboccio in un bambino di dodici anni osservato dal vecchio campione mentre esprime le gemme di una primavera ricca di promesse… L’incipit mi piace, l’articolo in memoria di Giacomo Bulgarelli può nascere così, rivitalizzando per pochi istanti l’antica “arte”, la voglia che un tempo avevo di scrivere e pensavo (senza sbagliare) che non mi sarebbe passata mai. Ma mi interrompo subito. È tutto inutile, come sempre. Se voglio commemorare qualche caro estinto, in questa calda primavera del 2009, tanto vale cominci da me. Va a finire che questa volta lo faccio davvero. E il bancario Nicandro Benni, così a proprio malinconico agio nei panni di pensionato, può tornare a picchiare sui tasti come quando era ragazzo e la vita sembrava un’avventura breve e interminabile come una esaltante partita di calcio. E sia, sensi miei ormai logori. Lasciamo che il vento dei ricordi spazzi finalmente le stanze dell’anima, è ora che i polpastrelli facciano giustizia del Grande Segreto, prima che un’altra morte – la mia – giunga a sigillare per sempre il misfatto, sottraendolo ai voleri della mia coscienza. È passato tanto tempo, eppure sembra ieri. Quarantacinque anni tondi, una vita intera – la mia – nel mezzo, e quei giorni sono ancora qui, uno dietro l’altro, uno dentro l’altro, come un gioco di scatole cinesi o una lugubre matrioska pronta continuamente ad aprirsi e aprirsi per farmi rivivere ciò che non può essere sepolto dall’oblio. D’altronde, ditemi, come si fa a convivere impunemente per quarantacinque anni (tondi) con un omicidio? Attenzione: pensate a quella domanda rivolta a voi stessi, non a un personaggio da cinema, a un delinquente abituale che forse a certi gesti può avere l’anima attrezzata. No, pensate a me come fareste con voi. Una vita normale, 7


studi brillanti, la laurea, i primi passi emozionati nel lavoro dei sogni, la fidanzata, poi la moglie, la famiglia. Tutto perfetto, o quasi. Ecco, a un tratto immaginate tutte le tessere del mosaico che diventano frammenti di mondo impazziti, fatti mulinare da una centrifuga che non ti dà pace, che si diverte a tormentarti. Senza un minimo spazio concesso per cambiare direzione, cambiare giorno, cambiare anno e mondo. Non essere più là, non essere stato tu, per l’eternità. Sapete cos’è un omicidio? Io lo so. Prendere un uomo, prendere il suo futuro, dai minuti successivi fino all’idea di infinito che gli circola nella testa, e scrivere la parola fine, chiudere tutti i conti senza chiuderli perché la morte arriva all’improvviso e sei tu a decretarla, a spingere quell’ideale pietra che separa il respiro dal chiuso di un sepolcro, senza dare all’altro la possibilità di tirare l’ultima riga, completare i calcoli, redigere il bilancio. Ecco, provatevi a essere stati protagonisti di qualcosa del genere e poi aggiungetevi sopra una vita normale, una quotidianità normale, una normale lotta per la sopravvivenza, per sommare i giorni ai giorni, i mesi ai mesi e gli anni agli anni. Non ho pagato abbastanza? Non è abbastanza salato il conto di una così completa eppure inferma normalità? Basta, ho già detto anche troppo e temendo di essere frainteso ritengo di non avere altra possibilità – mentre il tramonto della vita si approssima e pavento di dover render conto di ciò che ho fatto – che raccontare per filo e per segno ciò che accadde in quella maledetta primavera di quarantacinque anni fa, quando la mia vita perse il filo, quella di un altro si perse e basta e nulla fu più come avrei desiderato e voluto che fosse. Lo farò, finalmente, e spero che ciò serva almeno a far scorrere più liberamente il sangue dentro di me, alleggerendo il peso dei ricordi. Lo farò, ve lo prometto, senza nascondere nulla, lasciando che il passato irrompa come il fiume che travolge una diga e torna a scorrere impetuoso tutto trascinando nella sua felice e folle e tragica corsa. Però, concedetemi una contropartita. Alla fine del racconto, dopo aver messo insieme i fatti i pensieri e le omissioni, io avrò maturato il diritto di pretendere da voi un giudizio: non di assoluzione o di condanna, ma di comprensione. Che partirà da una domanda, da questa domanda che sin d’ora vi propongo raccomandandovi di lasciarla costantemente sullo sfondo mentre avrete la bontà di seguirmi: voi al mio posto che avreste fatto? Siete sicuri che ne avreste conservato le mani candide? Che non le avreste sporcate pure voi con il sangue di un innocente? Perché di questo si tratta: il dottor perbene, bancario in carriera con famiglia felice raggrumata attorno come i petali alla corolla, si è macchiato del sangue di un suo simile: lo ha uc8


ciso; senza che nessuno mai lo sospettasse, perché nessuno si è mai accorto di quell’omicidio e dunque ne ha mai cercato il colpevole. Voi che avreste fatto? Voi che farete? Mi condannerete o scuoterete il capo concedendomi il beneficio del fato, di non avere avuto scelta e insomma di meritare il perdono? Ecco: è l’attesa e la speranza di quella risposta a spingermi al racconto, a istigarmi a un nuovo dolore. D’altronde, è fatica lieve, ché la memoria non ha mai smesso di allenarsi, in tutti questi anni, montando e rimontando quel film più e più volte. Allora, se siete pronti, la pellicola può partire. A mo’ di premessa, non posso però tacere un’avvertenza che è al contempo una promessa e una minaccia: non lascerò nulla per la strada, racconterò tutto, per filo e per segno, come mai m’è riuscito neppure in confessione. Perché oggi la verità dev’essere intera, se voglio ottenere la risposta prima di lasciare questo mondo.

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2. Il mondo nuovo

Chi ero io, Nicandro Benni, il 27 gennaio 1964, il giorno in cui comincia questa bizzarra e tragica storia? Un giovane di belle speranze. Dal nome singolare, più unico che raro, voluto da mio papà, Armando, tanto amante della lingua greca coltivata sui banchi del liceo classico da impormi al battesimo un sostantivo che nel suo amato idioma esprime qualcosa del tipo “uomo che vince” (da nike, vittoria, e andros, uomo). Un nome da tempo risuonante nel profondo della mia anima coi rintocchi profondi di una impietosa, crudele beffa; un nome in piena regola, peraltro, ricordo si difendeva puntiglioso il mio genitore ogni volta che qualcuno gliene chiedeva in qualche modo conto: quello di un martire ucciso da Diocleziano il 17 giugno, giorno del mio regolare onomastico. In ogni caso, un nome che non passava inosservato, mentre io per indole ovunque avrei voluto trovarmi nella vita tranne che sotto una qualche luce di riflettori. E in effetti devo riconoscere di essere stato accontentato dal destino: per ciò che attiene alla mia vicenda, sotto il cono di luce della notorietà io non sono finito mai, e per questo il mio è stato – ahi, quanto mi ferisce ripeterlo – un delitto perfetto. Ma andiamo con ordine. Il 27 giugno 1963 mi ero laureato in Giurisprudenza all’Università di Bologna con una tesi di diritto internazionale sugli aspetti legali di pesca e navigazione nei trattati europei. Un mese innanzi avevo fatto il primo timido ingresso nella redazione di un quotidiano della mia città. Quale fosse il quotidiano e quale la città, preferisco non specificarlo. Qualcuno potrebbe aversene a male – chissà? – e oltretutto si tratta di dettagli irrilevanti ai fini della mia confessione. Perdipiù, qualcosa dentro di me suggerisce che rientri nel mio destino d’espiazione rimanere reietto e clandestino, rinnegato dai miei compagni d’avventura di quel periodo come un mucchietto di polvere fastidiosa da nascondere sotto il tappeto o un parente degenerato di cui vergognarsi chiudendolo nel ripostiglio dei ricordi scomodi. Mio padre era di Bologna e a Bologna sono nato anch’io, ma pochi anni dopo la mia venuta al mondo la famiglia si era trasferita. Eravamo ancora in Emilia, non troppo lontano dal capoluogo, non troppo distante da Modena e da qualunque altra parte dell’universo conoscesse come abitudine la nostra parlata a vocali slargate, con le consonanti spesse e un umore quasi sempre gioviale come risposta agli sgambetti della vita. E il giornale? Beh, non ce n’erano tanti, in zona, ma abbastanza per concretizzare quello che oggi si chiamerebbe il 10


pluralismo dell’informazione. Quella che mi accolse era una redazione locale, ma per me poteva valere benissimo il New York Times: tanto avevo desiderato, nel corso degli anni – diciamo più o meno da quando avevo l’uso della ragione, se mai realmente io l’abbia avuto o non semplicemente sprecato – salire in sella al mestiere di giornalista. Come un ragazzino inforca la bicicletta nuova e gli sembra che con quella potrebbe partire per il giro del mondo, sicuro di domarlo con i propri polpacci, l’ardore dell’anima e tanto sudore: così avevo sempre immaginato che un giorno mi sarei proiettato nella vita – quella vera, degli adulti – e lo avrei fatto con una penna in mano e il serbatoio del cuore pieno di parole. Nell’estate del 1963, a cavallo del traguardo degli studi universitari, i miei sogni parevano sul punto di avverarsi, poiché muovevo i primi passi nel nuovo pianeta di carta che m’aveva accolto. Incerti, ma non troppo: la determinazione non mi mancava e anche se ancora non avevo pagato il mio tributo alla patria con la divisa del servizio militare, ero ben deciso a sfruttare l’occasione come base di lancio della mia esistenza futura. Se ero lì, lo dovevo a mio padre, a una sua “spinta” o raccomandazione, termini entrambi che pure d’abitudine lui aborriva. Lavorava in banca, nella filiale in pieno centro del maggiore Istituto di credito cittadino; papà era laureato in Economia e Commercio, aveva fatto in fretta carriera e ora governava il settore del credito e dei titoli con l’autorità di chi sa il fatto suo e quanto la stima di cui gode sia meritata e sudata. Da anni aveva un ufficio tutto per lui e da quando io potevo ricordare di averlo visto e sia pure per brevissimi scorci di tempo della mia vita frequentato, il locale ampio e luminoso annunciato dalla targhetta in legno scuro con la scritta in oro “Dott. Armando Benni” rappresentava il segno inequivocabile del suo posto nel mondo. Un posto di tutta importanza ed evidenza, che ne certificava il successo nella vita. Forse, a dire la verità, non è che quello status symbol – come si direbbe oggi – rappresentasse proprio qualcosa di contiguo al massimo previsto nella scala sociale, ma certo a quei tempi si trattava di una posizione di rilievo, con le soddisfazioni economiche che garantivano alla famiglia un tenore di vita superiore alla media. Una famiglia peraltro ridotta. Eravamo noi tre soli: oltre a mio padre e a me, mia madre Mirella, che grazie al diploma magistrale aveva insegnato per qualche tempo alle scuole elementari di un paesino alquanto disagiato alle prime pendici dell’Appennino, quando io ero troppo piccolo per potermene poi ricordare, prima di scegliere di essere casalinga a tempo pieno al tempo in cui un trasferimento ancora più geograficamente impervio le aveva consigliato l’abbandono. Nel suo ufficio segnalato dalla targhetta accanto all’uscio, papà aveva conosciuto un industriale che lavorava a Sant’Angelo Lodigiano, in Lombardia, 11


ma era originario della nostra città, vi aveva tenuto un conto corrente ed era diventato suo affezionato cliente. Per hobby (costoso) coltivava la presidenza di una piccola società calcistica milanese. Un giorno d’inverno (poco dopo Natale), chiacchierando in confidenza, il dottor Armando Benni gli aveva parlato della mia aspirazione a diventare giornalista e l’altro aveva replicato rivelando di essere in familiarità con un dirigente sportivo molto noto, che dava del tu a parecchi direttori di giornale e cui avrebbe potuto senz’altro chiedere il favore di una segnalazione. La faccenda, non appena mio padre me ne ebbe parlato, era scoccata per me come la scintilla che illumina di colpo una intera città in certe oleografie dell’avvento della corrente elettrica. Proprio mentre avvistavo il traguardo della laurea e si poneva il problema su che fare del futuro, il destino mi indicava una via per tradurre in realtà le mie aspirazioni. Per la verità, a quell’epoca ormai da tempo mi arrovellavo attorno al mio sogno professionale, provando a escogitare, per il periodo che qualche mese più tardi sarebbe intercorso tra la discussione della tesi e l’arrivo della cartolina precetto (ancora di là da venire causa il rinnovato rinvio per motivi di studio), un’idea in grado di assecondare i miei desideri: scrivere una lettera, o magari un articolo di prova, ai direttori di alcuni giornali proponendo la mia candidatura, oppure presentarmi di persona nelle redazioni delle città più vicine o addirittura di qualche testata di Milano (quando la fantasia si faceva più audace) per esibire sfrontatezza e sicurezza nei miei mezzi. Vere e proprie chimere, purtroppo, convinto com’ero che il mio pessimismo e una certa timidezza si sarebbero inesorabilmente opposti a iniziative tanto velleitarie, lasciandomi al palo in una sorta di vuoto pneumatico per quasi un anno in attesa di essere libero dagli obblighi della naja. Il segno del destino propizio, dunque, non avrebbe potuto manifestarsi più a proposito e con migliore tempismo, lasciando presagire grandi novità per l’imminente nuovo anno. Mio padre aveva lasciato cadere il fatidico annuncio a tavola, durante la cena, con un che di studiata noncuranza, quasi si trattasse di una questione di lavoro comunicata per dovere di cronaca o tanto per non lasciar languire la conversazione. Al mio entusiastico incoraggiamento a dare un seguito a quel contatto non aveva replicato, se non con un vago «Vedremo…» e poi il tempo aveva preso a scivolar via senza che io sapessi più nulla in proposito. I giorni passavano, spingendo avanti il 1963 sul quadrante del tempo; io attendevo papà al varco a ogni ritorno dal lavoro, fosse per la pausa pranzo o nel tardo pomeriggio, e ogni volta non aveva nulla da comunicarmi. Avevo finito col mettergli il broncio, rispondendo a mozziconi alle sue domande o 12


ai suoi approcci di conversazione riguardo ai miei studi o a quelli della mia ragazza, quasi non lo ritenessi in diritto di risposte articolate fino a quando non fosse giunto a me un segno che quel tale discorso era destinato a proseguire. Diversamente, era inevitabile per me sentirmi preso in giro, ingannato nella mia buona fede e quindi obbligato a ripagarlo con una moneta ugualmente bruciante. Ogni volta che provavo ad accennargliene, mi rispondeva scrollando le spalle con quel modo tutto suo di essere vagamente in collera con qualcuno o col mondo intero, il che non faceva gran differenza: «Secondo te, dovrei importunarlo un giorno sì e l’altro pure con questa faccenda? È una persona con cui ho rapporti di lavoro seri e articolati, che non posso certo rischiare di compromettere dando l’impressione di volermi approfittare della nostra conoscenza. Lui non ha più parlato della cosa, io devo aspettare il momento opportuno. Ti pare che la gente non abbia altro da pensare che ai tuoi voli di fantasia?» Qui stava forse il punto. Non sapevo se in realtà la prospettiva di un figlio giornalista lo lusingasse o lo infastidisse. Forse, gli era in qualche modo indifferente. Papà poteva garantirmi un impiego sicuro in banca, questo sì, anche se non se ne era mai esplicitamente parlato, ma non era nemmeno tanto ristretto di mentalità da sconsigliarmi apertamente qualche sia pur bizzarra alternativa. Sapeva che non tenevo a diventare avvocato, anche se in mancanza d’altro pareva scontato che dopo la laurea mi sarei acconciato a dedicarmi alla pratica legale, in attesa della chiamata per il servizio militare. L’idea di studiare ancora, per preparare l’esame da procuratore e magari anche quello di magistratura o notariato, non mi allettava per nulla, ma rappresentava la strada alternativa ai miei “voli di fantasia”, come lui li chiamava: la via che probabilmente in cuor suo avrebbe preferito, vedendola lastricata di confortanti realismo e concretezza, a differenza di quella che coltivavo nel mio privato giardino dei desideri. Sto peraltro riferendo più che altro di percezioni vaghe, o supposizioni, chiamatele come volete, ché apertamente con me non ne aveva mai parlato. Papà d’altronde con me era così: avaro di confidenze, e per un singolare non scritto principio di reciprocità anche poco ansioso di riceverne. Il suo modo di vivere e di amare non poteva prescindere dal rigore della serietà in ogni circostanza e ciò finiva col tradursi nella lesina delle parole. La sua era una linea retta nei comportamenti da cui non ci si doveva discostare neppure per eccezione e probabilmente le chiacchiere futili rientravano nel novero delle deviazioni da evitare. Senza contare che l’idea di rasentare in qualche modo il “malcostume” della raccomandazione – fosse per l’istituto bancario come per più fantasiosi approdi – lo disturbava alquanto. 13


La durezza con cui istintivamente tale rigore pretendeva dagli altri, e in particolare da chi gli viveva accanto, la imponeva identica a se stesso, nonostante confliggesse vistosamente con l’ironia che gli abitava a fior di labbra. Cadere sotto le sue taglienti battute era il minimo che potesse capitare a chi lo frequentava, col rischio di fraintenderne completamente l’approccio alla vita. Che tutto era fuorché spensierato, allegro, frivolo. Forse tutti siamo preda di contraddizioni, di certo quelle di mio padre erano visibili a occhio nudo, in un costante ondeggiare tra affettuoso sarcasmo e compunta seriosità che non sempre giovava alla serenità dei miei nervi. Forse, pensavo talvolta, non eravamo fatti per vivere in sintonia, o per comprenderci a volo. E allora pure la mia passione per il giornalismo era probabilmente per lui niente più d’una innocua mania passeggera, una infatuazione cui non concedere eccessivo credito, come quelle che talora manifestano i bambini. Se questa era la sua idea, però, non avrebbe potuto essere più lontana dalla realtà. Raccontare il mondo e la vita, ecco cosa volevo ora che bambino non ero più da un pezzo. Scrivere, innanzitutto, ecco cosa gli rispondevo quando (così raramente) mi chiedeva conto della mia passione “professionale” un poco insana, se non altro perché né lui né alcun altro della sua famiglia o di quella di mia madre ne era mai stato anche solo sfiorato. Non capacitandosene, voleva illuminarne il più possibile l’origine e le motivazioni, se non altro per confermarsi nella sua idea di partenza, di una sorta di capriccio su cui insistevo più per puntiglio che per effettiva convinzione. Fossi stato del tutto sincero (e non avessi temuto di incrinare la sua fiducia nella mia intelligenza, cioè in quel minimo di senso pratico che ne considerava ingrediente essenziale), gli avrei spiegato che avvertivo il desiderio di tornare a mettermi in ginocchio sul pavimento di casa. Proprio così: quando ero bambino, in quel modo – incurante dei blandi rimbrotti di mia madre – usavo sfogliare ogni giorno le grandi pagine del quotidiano, leggendolo praticamente da cima a fondo. Ora che la fanciullezza era lontana e il giornale lo sfogliavo seduto in poltrona o al tavolo del soggiorno, avrei voluto ripartire così, idealmente a quattro zampe, alla conquista del mondo. Come un mastino della notizia, della scrittura, dell’idea che ogni giorno cadeva dal cielo diverso dal precedente soprattutto perché nell’universo – nella mia città come in milioni di altre – si poteva star certi che accadevano cose nuove, si affacciavano protagonisti inediti, tutti pronti a recitare a soggetto sul gigantesco e affascinante palcoscenico dell’esistenza collettiva. Chi se non i giornalisti, un alveare di miliziani della scrittura, in ogni angolo del globo contribuiva in modo decisivo a renderlo costantemente vivo e palpitante? Senza di loro, senza la loro fame 14


di notizie e la loro abilità e passione nel raccontarle, le luci si sarebbero spente, sulla gigantesca ribalta. Tutto sarebbe accaduto come al buio e in un acquario, senza voci e senza risalto: le bocche aperte nel silenzio, i fatti destinati a restare nell’ombra, come se non fossero accaduti. La gente ridotta a un brulichio di fantasmi senza peso e senza immaginazione. Ricordavo come uno dei momenti-chiave della mia infanzia il giorno in cui mia madre, pazientemente, aveva dovuto sia pure a malincuore squarciare la cartapesta dei miei sogni per rivelarmi uno sconvolgente segreto e mandare in frantumi una mia romantica quanto radicata illusione: ciò che leggevo sul giornale non stava accadendo quel giorno, ma riposava ormai nero su bianco sulla carta, in quanto avvenuto il giorno prima. Come, il giorno prima? «Ieri?!» avevo esclamato incredulo, quasi a saggiare l’eventualità che mamma mi stesse come non di rado accadeva prendendo in giro. Ieri! Erano poi bastate poche parole per farmi arrendere al breve ma efficace ragionamento che aveva risposto alla domanda. Per un istante mi ribellai, pensando che se le cose stavano veramente così, forse non valeva la pena distendere ogni giorno a terra quella specie di tovaglia di carta a mo’ di tavola imbandita per prendere a sorseggiarne nella scomoda posizione il contenuto pagina dopo pagina. Tutto già accaduto, tutto già successo, finito, sfiorito. Dunque, un’illusione o poco più. Avevo fatto presto però a rappacificarmi con me stesso: ma sì, in fondo non poteva essere che così; e tutto sommato, anche se di gran lunga meno affascinante di quanto avessi sempre pensato, si trattava di una prospettiva che potevo accettare senza cambiare la mia singolare e deliziosa abitudine. Forse, da un bimbo così ingenuo non poteva che nascere un giovane tanto indifeso di fronte alla vita da aspettarsi che davvero, da un momento all’altro, un mago senz’ali piovuto da Sant’Angelo Lodigiano toccasse proprio me con la sua bacchetta magica, fatta di metallo come i cuscinetti a sfera che produceva la sua azienda: per trasformarmi in giornalista e farmi entrare gattoni dentro il mondo che con molta fatica col tempo mi ero assuefatto a sfogliare non più accucciato a terra come un animale domestico alle prese con un osso invitante. Poi, il 17 giugno – il giorno del mio onomastico (come non pensare nuovamente a un segno del destino?) – quando da qualche settimana sullo scrittoio della mia camera erano impilate, rilegate dalla copisteria in cartoncino grigio, le copie della tesi che di lì a dieci giorni avrei discusso spalancando le porte del futuro, il cliente lombardo aveva telefonato a mio padre comunicandogli di avermi fissato un appuntamento per l’indomani alle 16 nella redazione del giornale che quotidianamente leggevo a casa mia. 15


Là mi aspettava il caporedattore allo sport e se la qualifica non mi diceva nulla, la combinazione di nome e cognome – una “firma” familiare, di quotidiana frequentazione alla lettura – aveva prodotto una immediata accelerazione dei battiti del mio cuore. Forse perché ormai non ci speravo più, ma soprattutto per la singolare sensazione di sentirmi atteso da qualcuno che non avevo mai visto eppure consideravo quasi alla stregua di un amico, avendo letto tanti suoi articoli, senza aver peraltro mai osato sperare di giungere a conoscerlo in carne e ossa. Sempre che in carne e ossa stesse per presentarmisi, e non invece sotto le sembianze di un autografo apposto sotto un editoriale e capace di uscire dalle pagine di carta e restare in piedi in equilibrio, e parlare e agire come un normale essere umano. Il 17 giugno 1963, quando ormai calava la sera, riposta la cornetta del telefono di casa da cui mio padre mi aveva comunicato la grande novità, avevo riaperto con ansia il quotidiano del giorno alla pagina dello sport per cercare la firma del caporedattore. Già il fatto di associarvi per la prima volta tale qualifica mi aveva fatto sentire coinvolto, in qualche modo appartenente a un ristretto club elitario. Pensare che quella sorta di mito nascosto dietro nome e cognome vergati in grassetto sotto un articolo di giornale – ciò che appunto bastava ai miei occhi ancora ingenui a farne una specie di eroe o di privilegiato cavaliere dell’esistenza e dell’avvenire – ora conosceva IL MIO nome e cognome; che forse se li era appuntati e il giorno seguente avrebbe atteso qualcuno che li portava stampati sulla schiena della vita come una targa inconfondibile con quella di chiunque altro; che insomma aveva accettato di parlare con me, e dunque mi aveva in qualche modo tra i suoi pensieri, mi turbava fino all’esaltazione. «Sei contento?» aveva sbuffato mio padre prima di salutarmi, il che rappresentava anche il suo modo estremo di tradirsi soddisfatto per aver elargito un regalo a qualcuno. In quei casi la fronte spaziosa gli si corrugava lievemente, come a sorvegliare che gli occhi non gli ridessero troppo. E così me lo ero immaginato al di là del filo, contento senza troppo darlo a vedere. Papà era alto, dinoccolato, asciutto; sul volto sottile le labbra si disegnavano come increspate da una costante malinconia. «E me lo chiedi?» lo avevo ringraziato, e se non fosse stato per la sua ritrosia congenita, mai arretrata d’un palmo nemmeno nei momenti topici della nostra vita in comune – gioie, dolori, feste, complicità, avventure estive – al suo ritorno a casa lo avrei abbracciato. Quella sera a cena parlammo vagamente della cosa, accennai all’idea di presentarmi con un articolo che avrei scritto l’indomani su qualche argomento di stretta attualità. Papà annuiva senza commentare, quasi già pronto a pentirsi di avere assecondato una pericolosa illusione; mamma dal suo angolo di mondo 16


sorrideva silenziosa, il volto ossuto, i primi fili bianchi tra i capelli indossati con noncuranza, mentre gli occhi scuri sembravano contenere una intera gamma di emozioni ed esprimerla senza bisogno di attivare le parole. Lo rivedo adesso, quel singolare quadretto di famiglia, sospeso nella galassia dentro il cubo della sala da pranzo di casa, come un meteorite sfuggito al controllo e in fuga nell’universo del tempo. Il destino, in quell’attimo preciso – le mie parole, il rimuginare di mio padre e mia madre sul tema – ci fermava un istante per scattare una foto destinata a non scolorire mai più nella sala torture della mia memoria. Il giorno dopo, in tarda mattinata, avevo appuntamento con il professore relatore della mia tesi e la coincidenza sembrava riproporre il gesto del destino intento a collocare con calma una dopo l’altra le tessere di un domino perfetto. Avrei voluto gridarlo a pieni polmoni, per la strada inondata di sole, in bicicletta verso Bologna, e poi sotto il portico di via Zamboni e infine, abbassando sommessamente la voce dentro l’aula fresca tappezzata di libri alle pareti, all’insigne cattedratico in procinto di approvarmi una delle “tesine” di contorno: di lì a poche ore avrei cominciato a diventare giornalista! Di lì a qualche giorno, in un’alba qualunque sorpresa assonnata sul cielo della mia città, il mio nome e cognome – quei segni un po’ singolari, Nicandro Benni, come un geroglifico da decifrare per i lettori – sarebbero apparsi in neretto sotto a un articolo. Sbucando fuori dall’edicola per andare incontro a un bambino accovacciato nel soggiorno di casa a sfogliare i sogni passati da poche ore per la testa del mondo. Per chi abbia la pazienza di seguirmi, tutto ciò risulterà indispensabile onde comprendere quale trappola avesse in serbo per me il destino, quale tragico appuntamento attendesse e andasse apprestando la mia fresca ingenuità di giovane inesperto fino alla sventatezza. Forse, negli eccessi delle attese e delle reazioni sta uno dei motivi più profondi del delitto che di lì a non molto avrei commesso. Oppure una delle attenuanti che disperatamente provo a costruire per l’ideale corte di cui attendo il giudizio. Nel primo pomeriggio del 18 giugno 1963, puntualmente, feci ingresso, col cuore gonfio di speranza, nel palazzo del centro storico tante volte sbirciato da lontano, varcandone il portone con targa in granito che per lungo tempo aveva avuto per me il senso del posto dei miracoli. Erano le quindici e tre quarti, indossavo il completo grigio destinato al giorno della laurea – senza cravatta però per non parere troppo formale – e tenevo sottobraccio la custodia in pelle regalo della mamma per la circostanza (era uscita apposta poche ore prima per acquistarla); conteneva un paio di fogli da me dattiloscritti all’alba impiegando la vecchia macchina per scrivere americana di mio padre. 17


Eccola, un’altra protagonista dei miei primi passi nel nuovo mondo. Pronta a ticchettare ricordi nelle stanze della memoria così come a passare al ruolo di possibile arma del delitto: la pesante “L.C. Smith & Bros.” dalla vernice nera appena scrostata, con il marchio in oro sul poggiafogli, i tozzi montanti d’acciaio sul basamento di legno, dal cui chiodo piantato nella parte anteriore pendeva la cordicella con la gomma circolare rossa e blu per le correzioni. I tasti, circolari, con le lettere nere su fondo madreperla, spuntavano come da tanti trampoli, annegati nell’odore di inchiostro che la fettuccia per metà rossa e per metà nera propagava snodandosi come un balsamico elisir. Ci avevo meditato per gran parte della notte, trascorsa insonne; poi con la luce del giorno avevo tratto il magico ordigno dal mobile in cui lo custodiva mio padre, avevo sollevato la custodia di tela nera e pestando accanitamente con gli indici avevo buttato giù una specie di “articolo” sulla notizia di apertura del telegiornale della sera precedente, integrata con un commento del “Corriere della Sera” che ero corso ad acquistare in edicola non appena sveglio. L’argomento era la politica, quanto di più serio e attuale si potesse immaginare: il leader democristiano Aldo Moro aveva rinunciato all’incarico di formare il primo governo di centrosinistra “organico”, causa i contrasti interni al partito socialista. Avevo esercitato l’ironia, su quell’alleanza tra Dc, Psdi, Psi e Pri che prometteva nebulose novità ed era stata abortita prima di nascere, e soprattutto sulla fronda dei parlamentari socialisti di cui si temeva l’opposizione al momento del voto. I bastiani contrari, li avevo chiamati, e per loro avevo scomodato Ovidio e le mie reminiscenze classiche (“né con te né senza di te posso vivere”). Avevo accennato alla recente scomparsa di papa Giovanni XXIII e alla politica di John Kennedy in favore dello sviluppo degli stati centramericani, mettendole in qualche modo in relazione con la spinta che la storia politica andava prendendo in Italia. Avevo cercato di essere sbrigativo e brillante, traendo spunto dalle mie “firme” preferite delle pagine di politica e attualità. È vero, lo sport non vi entrava neanche di striscio, e questo può apparire quantomeno stravagante, se non altro perché era al caporedattore dello sport che andavo a presentarmi. Il fatto è che, benché di sport fossi appassionato, non era quello il mio obiettivo professionale. Seguivo soprattutto il calcio, il gioco più popolare, spinto dalla passione per i colori del Bologna, e me ne reputavo un esperto soprattutto per l’assiduità con cui frequentavo lo stadio; mi interessavo anche ad altre discipline, nell’ambito della mia curiosità a trecentosessanta gradi, ma le mie ambizioni andavano oltre. Il mio sogno – l’ho detto – era girare il mondo come inviato speciale, raccontando e commentando i grandi fatti di cronaca e i rivolgimenti della storia di cui mi sognavo testimone. 18


Contavo dunque quel giorno di fare colpo, dimostrando al “capo” dello sport di essere in grado di “volare alto” e dunque di puntare ben al di là delle pur importanti pagine cui presiedeva. Immaginavo altresì che vergando qualche banale commentino sul campionato del Bologna, da poco concluso al quarto posto in classifica, avrei destato una impressione miserevole, suggerendo orizzonti e possibilità piuttosto limitati. Nell’articolo avevo cercato di essere pungente e al contempo di non cozzare contro la linea del direttore, i cui editoriali non mancavo mai di bermi tutti d’un fiato. Nella mia infinita ingenuità contavo di dimostrare di essere pronto a partire dallo sport, ma con l’obiettivo di venirne presto se non subito dirottato alla cronaca o alle pagine dell’estero, su cui scrivevano gli inviati. Ripensandoci oggi, un così disarmante candore credo spieghi tante cose della mia vita: in quel giorno di incerto debutto già mi ero prefigurato, grazie a due cartellette in carta riso battute a macchina, una segnalazione nientemeno che al direttore, forse in cuor mio sperando addirittura che quel breve “saggio” venisse considerato degno di pubblicazione! Al momento del dunque, il signor “Grande Firma dello sport” (non lo era, probabilmente, se non per me o nel chiuso cerchio della provincia) srotolò una rapida scorsa ai due fogli dattiloscritti, corrugando lievemente la fronte in segno di interesse e non tradendo la minima sorpresa per l’argomento; poi commentò sibillinamente, mentre io avvertivo le guance arrossarsi per l’emozione e l’attesa: «Beh, almeno è scritto in italiano. Non si stupisca, non è poco al giorno d’oggi, con tutti gli analfabeti che circolano nella nostra professione». Tutto qui. Mi avesse allentato un manrovescio, mi sarei forse sentito meno in imbarazzo. Lo guardai senza riuscire a replicare, ritenendo non fosse il caso di ringraziare lusingato per un simile stringato commento. Era un bell’uomo, decisamente, e conscio di esserlo nonostante gli anni gli avessero ingrigito i capelli e smussato gli angoli dei lineamenti regolari. Portava occhiali dalla pesante montatura nera che gli davano un’aria severa, la mascella e il mento perfettamente rasati irradiavano autorevolezza e serietà. Eravamo noi due soli, uno davanti all’altro, divisi dalla sua ampia scrivania coperta di fogli, giornali sparsi e qualche libro: questo è il ricordo che ne serbo ancora oggi se ripenso a quei lunghi attimi di silenzio. Eppure, c’era gente attorno. Benché a quell’ora la macchina del giornale cominciasse appena a scaldarsi, nel corridoio che intravedevo dalla vicina porta spalancata brulicava un discreto viavai di persone, tra le quali non potevo distinguere giornalisti, uscieri, impiegati, un po’ indaffarati, un po’ impegnati a scambiarsi opinioni sottovoce. 19


Lo Sport, una sorta di Moloch per me che consideravo ogni settore del giornale come un tempio cui accedere in punta di piedi per non turbarne la sacralità, era tutto in un’unica grande stanza. Le pareti erano gremite di fogli appesi a grandi bacheche di legno. Alcuni gridavano titoli di spezzoni di giornali, incombendo sulle scrivanie apparentemente prive di proprietari, ove troneggiavano monumentali macchine da scrivere celesti, la maggior parte delle quali rovesciate all’indietro, come soldati seduti durante una siesta, per fare spazio a fogli per appunti, copie di giornali, posacenere, penne e cancelleria varia. Un universo di cui coglievo vaghi coriandoli allargando lo sguardo intorno a me, assieme a occhiate curiose lanciate da gente di passaggio e voci apparentemente interrogative, forse riguardanti lo sconosciuto che io ero in quel contesto. La mia attenzione era tutta concentrata su di lui, il mio Pigmalione senza macchia e senza paura. Lui li avrebbe fatti tacere tutti, quei sussurri, ammesso che fossero dedicati a me; li avrebbe messi in riga, gli sguardi curiosi da cui mi sentivo accarezzare qua e là come segni di perplessità destata magari dal mio aspetto curato (la scriminatura diritta tra i capelli tagliati corti, la barba perfettamente rasata, l’abito elegante con una spilla d’oro all’occhiello della giacca). Lui sarebbe stato al mio fianco. Apprezzai che non si fosse dato arie particolari. Aveva aggrottato le sopracciglia, poco prima, mentre si fingeva preso dalla lettura; dopo il suo commento cercai di distogliere lo sguardo concentrandomi su un pacchetto di grandi buste arancioni che stazionavano al bordo estremo della sua scrivania, esponendo una singolare stampigliatura – “Fuorisacco” – di cui mi provai invano a cercare di intuire la funzione e il significato. Mi rimase il dubbio che non avesse letto fino in fondo, fino alla frase finale che mi sembrava mi fosse sgorgata a perfetta chiusura del ragionamento “politico”. Una battuta, lieve come un appena accennato gioco di parole, che avevo escogitato come il “colpo di fulmine” in grado di convincerlo. Invece, forse, aveva interrotto ben prima la lettura, a meno che non fosse un fulmine lui nello scorrere le righe. Rimasi in silenzio e per un lungo, interminabile attimo fece lo stesso, quasi sfidandomi a parlare, a raccontargli di me e delle mie aspirazioni. Scrivevo in italiano, capirai che elogio. E che dire di quell’“almeno”? Lì per lì pensai con vago dispetto che se quelle righe le avesse scritte una delle “firme” del giornale, non si sarebbe permesso tanta ostentata sufficienza. Va bene, sorrisi alfine, va bene, per quanto avaro era pur sempre un giudizio positivo. Lo guardai con aria interrogativa, come a chiedere: e adesso? E finalmente prese a snocciolare qualche concetto. Non mi poteva promettere niente, ma 20


avrei fatto bene a buttare di nuovo giù qualcosa non appena avessi intravisto un tema di mio interesse; in ogni campo, precisò, magari cominciando da quello sportivo, aggiunse non senza una punta di ironia, trattandosi del settore nel quale, volente o nolente, ero stato paracadutato. Che si fosse offeso per la presentazione di un argomento avulso dalle sue competenze? Provai a recuperare terreno chiedendogli cosa significasse “Fuorisacco”, per accorgermi subito di avere tradito una ignoranza basilare sulle conoscenze minime della vita di un giornale. «Il problema di un quotidiano è dover uscire tutti i giorni» rispose provocandomi l’improvviso calore alle guance tipico dei momenti in cui sentivo di aver parlato a sproposito: «secondo te riusciremmo in questa titanica impresa se gli articoli dei corrispondenti viaggiassero con la posta ordinaria?» Feci finta di capire, mi sentii vagamente preso per i fondelli, però nello stesso tempo mi rincuorai, riconoscendo nell’improvviso passaggio al “tu” e nella familiarità che l’ironia poteva lasciar trasparire una specie di biglietto d’ingresso ormai acquisito nel tempio del futuro e della felicità. Mi domandò infine, sorridendo maliziosamente, se a mio parere il Bologna avrebbe prima o poi vinto lo scudetto. Forse cercava di cogliermi in fallo di difetto di competenza specifica, ma il Bologna era pur sempre il mio pane, perbacco. Potevo parlare di Kennedy e del “papa buono”, ma non mi perdevo una partita di Bernardini e dei suoi ragazzi, spesso allo stadio, sempre sulle colonne di “Stadio” che compravo il lunedì. «Temo proprio di no» risposi dunque con un pizzico di supponenza, «se Dall’Ara non cambierà idea e oltre a Negri non comprerà anche un terzino destro. Capra ormai non è più affidabile». «Sei sicuro che Bernardini gliel’abbia chiesto?». Di nuovo quel sorriso appena accennato, lievemente enigmatico o ironico, gli era balenato sui tratti regolari del volto, negli occhi scuri e penetranti dietro le lenti, al cui fondo – chissà perché – mi pareva di cogliere l’agitarsi di una misteriosa minaccia. Fulvio Bernardini era l’allenatore del Bologna, Renato Dall’Ara il presidente, il portiere Negri l’unico acquisto fino a quel momento concluso per la stagione successiva in quei giorni in cui era ancora aperto il “mercato” degli scambi di giocatori tra i vari club. Il mio imbarazzato sorriso accompagnò un audace: «Beh, avrebbe dovuto», mentre, preceduto probabilmente da un cenno alle mie spalle, qualcuno stava attirando la sua attenzione avvertendomi che il mio tempo era scaduto. Sin dal giorno successivo, avevo dato corso all’invito ricevuto, pur dovendomi dedicare agli ultimi ritocchi della discussione della tesi. Avevo retti21


ficato in fretta il tiro, cominciando a proporre brevi articoli sul calcio minore, e la sede della redazione aveva finito presto col diventare un pianeta singolare e per molti versi bizzarro che imparavo a conoscere e da cui cominciavo a farmi conoscere. Il palazzo, una volta abituatomi a frequentarlo, mi appariva molto più piccolo di quanto avessi fantasticato. Non reggeva il confronto con l’aula magna dell’Università di Bologna, ove qualche settimana dopo mi ero presentato alfine con molta meno timidezza del previsto a raccogliere il frutto dei miei anni di studio, grazie alla forza interiore che la nuova prospettiva mi aveva infuso. I “fuorisacco”, così chiamati perché erano le buste privilegiate dei giornali, destinate a viaggiare fuori dal sacco di iuta dei vagoni recanti la posta ordinaria, nel corso dei mesi successivi mi sarebbero diventati familiari, simboleggiando una specie di lasciapassare per la professione che immaginavo avrei cominciato presto a catturare tra le mie mani, ora che la laurea – col massimo dei voti e la lode – era finalmente giunta a chiudere la lunga parentesi degli studi e della giovinezza.

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