Pagotto. Un calcio anche alla morte

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A chi gioca pulito e non considera il danaro obiettivo primario nello sport, nel lavoro e nella vita


Collana editoriale: Inchiostro Rossoblù Direttore di collana: Carlo Caliceti

Per le immagini contenute in questo volume l’Editore rimane a disposizione degli eventuali aventi diritto che non sia stato possibile rintracciare. Direttore Editoriale: Roberto Mugavero © 2011 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Deroga a quanto sopra potrà essere fatta secondo le modalità di legge. ISBN: 978-88-7381-371-2 Minerva edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com


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giuliano Musi

pagotto un calcio anche alla morte

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prefazione Raccontare la vita di un calciatore che ha vinto centinaia di partite in serie A, tre scudetti, titoli europei, Coppe internazionali, vestendo anche la maglia della Nazionale, porta spontaneamente a trascurare il lato familiare per evidenziarne quello agonistico. Rino Pagotto invece è forse l’unico giocatore di grande prestigio degli anni 30-40 in cui proprio questo secondo aspetto si deve considerare prevalente, anche se l’ambito sportivo resta altrettanto basilare. La sua vita infatti è stata irrimediabilmente segnata dal secondo conflitto mondiale, un avvenimento extra calcistico di gran lunga più rilevante e letale di quelli sportivi. Accadimento tragico che lo ha travolto anche se al termine di quasi tre anni terribili è uscito vivo dai campi di concentramento, proprio grazie al calcio che in precedenza lo aveva proiettato ai massimi livelli mondiali. Lavori forzati e calcio, campi di sterminio e grandi stadi, baracche dei lager e lussuosi hotels, cibi raffinati e fame vera, successo e anonimato totale, premi partita favolosi e povertà assoluta, sono stati gli opposti che lo hanno visto comunque protagonista forgiandone il carattere e il fisico. Una tempra d’acciaio, di friulano verace, che lo ha salvato anche davanti al plotone di esecuzione. Grinta e determinazione che gli hanno consentito di riconquistarsi il ruolo di campione quando il calcio ha ripreso slancio nel dopoguerra. Voglia assoluta di ricostruirsi fisicamente (nei lager aveva perso oltre 30 chili), di ritrovare sicurezza economica e ridare un senso alla vita sua e della famiglia che lo aveva pianto per morto. Sempre però con la massima discrezione e riservatezza perché Pagotto non amava le luci della ribalta mediatica che per lui si accendevano comunque ogni domenica e che lo hanno portato tra i primi ad apparire sugli schermi della tv sperimentale, nel 1939 negli studi dell’EIAR a Roma. E infine la consapevolezza che il titolo pleonastico di campione dei campi di concentramento europei, conquistato con la squadra di “Quelli di Cernauti” tra le baracche di Sluzk, valeva più della Coppa dell’Esposizione che alzò al Parco dei Principi di Parigi.

La piastrina di riconoscimento dei campi, neppure cento numeri di differenza tra Pagotto e Rigoni Stern

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paGoTTo, Un CaLCio anCHe aLLa MorTe È passato tanto tempo da quando a Bologna tutti mi conoscevano e stimavano. A metà degli anni trenta ero uno dei pilastri difensivi della squadra “che tremare il mondo fa”. Anche se non ho mai vissuto per la celebrità non nego che fosse molto piacevole e rassicurante sentirmi ammirato e invidiato. Appena uscivo di casa (prima di sposarmi abitavo nel centro storico, a due passi dalla casa del Fascio dove c’era anche la sede del Bologna) incontravo in continuazione gente che mi stringeva la mano, si complimentava e mi dava la carica per la partita della domenica. Quando entravo nei negozi era addirittura imbarazzante perché i commessi servivano in fretta i clienti in attesa per concentrare l’attenzione su di me. Per fortuna anche molti dei presenti, uomini e donne senza differenza, erano tifosi del grande Bologna così tutto si concludeva in gloria. «Ecco qua una bella bistecca per il nostro campione – mi dicevano con grande soddisfazione – se domenica il Bologna non prende gol sarà anche merito nostro». Bologna è sempre stata una città alla mano, molto ospitale e calorosa. Ha affinato lo spirito dell’accoglienza grazie all’Università che nei secoli ha calamitato sotto le Due Torri studenti di ogni parte del mondo. Non ho mai incontrato persone, e specialmente giocatori, che a Bologna non si siano sentiti subito come a casa. Una disponibilità economica superiore alla media nazionale e un livello culturale elevato hanno certamente favorito questa integrazione spontanea ma è soprattutto lo spirito, la bolognesità, che mette tutti a proprio agio. Io venivo dalla campagna, da un tessuto sociale per molti aspetti duro e chiuso ma sono stato accolto e quasi coccolato come fossi nato qua. Se meriti rispetto, a Bologna nessuno te lo nega a priori, se sbagli, non manca neppure la comprensione. C’è un’accettazione dell’errore che altrove è sconosciuta. I bolognesi hanno una passione spiccata per lo sport che nella scala delle priorità cittadine occupa uno dei primi posti. Amano ovviamente vincere ma sanno anche sopportare le sconfitte con spirito “decoubertiniano”, certi che ci sarà occasione per riscattarsi e soprattutto che i veri valori della vita vanno oltre lo sport. Questo non significa che si possa commettere ogni errore in campo e restare impuniti. Al contrario, il bolognese che all’inizio è aperto e ben disposto se ti bolla come inaffidabile, o peggio ancora come falso e truffaldino, è il primo che non ti risparmia critiche feroci e cerca di evitarti; proprio perché hai tradito la sua disponibilità. Io ho cercato fin dai primi giorni della mia permanenza in città di mostrarmi per ciò che ero veramente, un onesto ragazzo di campagna deciso ad affermarsi nel calcio, La foto ufficiale con la maglia della Nazionale in occasione dell’amichevole con la Romania a Roma

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pronto a dare tutto per la società ed i tifosi che rappresentava. È stata la chiave che mi ha aperto ogni porta, così sono entrato in fretta nel cuore della gente che mi ricambiava simpatia e affetto. Non passava settimana che il nostro gruppo non fosse invitato a manifestazioni e feste che si concludevano quasi sempre a tavola. Cosa che metteva tutti in grande difficoltà perché la tentazione era massima ma ci si doveva frenare per mantenere la migliore condizione fisica. Su questo i tecnici con cui ho avuto la fortuna di lavorare erano inflessibili e gli eccellenti risultati che abbiamo ottenuto testimoniano che avevano visto giusto. È stato anche grazie a loro se la mia carriera si è protratta nel tempo nonostante lo stop imposto dalla guerra e le tremende privazioni fisiche che ho dovuto sopportare durante la detenzione nei campi di concentramento. Sono convinto che la mia maggior fortuna sia stata proprio quella di vivere e di giocare a Bologna. In un’altra città, con un presidente diverso da Dall’Ara, difficilmente avrei ritrovato le forze fisiche e morali per ricominciare da zero quando, rientrato dai campi di lavoro forzato ridotto pelle ed ossa, mi consideravo ormai un ex giocatore. Anche nei periodi meno felici Bologna mi è stata vicina e la sua gente mi ha dato la forza per tornare un atleta. Per le vie del centro non mancavano mai i ragazzi che si offrivano di portarmi la spesa pur di accompagnarmi fin davanti al portone. Ci tenevano a farsi vedere insieme a me, mi subissavano di domande sulla squadra, sugli avversari e prima di lasciarmi mi supplicavano di vincere tutti gli incontri fino a fine stagione. «Mario – mi dicevano – regalaci un altro scudetto». È buffo che tutti mi chiamassero Mario perché il mio vero nome è Rino ma da quando mamma Augusta, per non fare confusione coi miei cinque fratelli che avevano nomi con notevoli assonanze, ha iniziato a chiamarmi Mario sono diventato Mario per tutti. Il cognome Pagotto invece non l’hanno mai storpiato, forse perché riempie la bocca nel pronunciarlo e poi perché si presta ai cori di incitamento. «Dai Pagotto, Forza Pagotto» mi urlavano al Littoriale ed io, carico come una molla, entravo deciso sugli avversari che si avventuravano dalle mie parti. Il mio era un calcio meno spettacolare di quello di Gasperi, il famosissimo “terzino volante” che aveva furoreggiato sulla fascia sinistra prima di cedermi il posto, ma era altrettanto redditizio. La mia maggior qualità è sempre stata il tempismo. Avevo l’abilità innata di anticipare di un soffio gli avversari rubando loro il pallone senza commettere fallo. Proprio grazie a questa qualità, se scorrete i tabellini delle tante stagioni in cui sono stato titolare del Bologna, vi accorgerete che ho saltato qualche partita solo per infortunio. Nonostante la mia robustezza fisica infatti non ero quasi mai oggetto di espulsioni. Trattenermi costava tanta fatica perché le provocazioni degli avversari erano senza fine ma ci riuscivo. Anche quando ero preso dalla foga del gioco e facevo valere la mia notevole stazza gli arbitri raramente mi sanzionavano. In tanti anni di attività ai massimi livelli 8


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La bicicletta, la grande passione insieme al calcio, e un ottimo mezzo per spostarsi in economia a Bologna

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avevano verificato di persona che ero un giocatore leale e sempre corretto con gli avversari. Ho perso le staffe solo una volta in una partita contro il Torino. Avevo praticamente annullato l’attaccante che mi era stato affidato in marcatura così lui, non potendo vendicarsi in alcun modo, iniziò ad insultarmi, a commettere falletti cattivi e alla fine mi sputò in faccia mentre l’arbitro non poteva vedere la scena. Solo in quella occasione persi la calma e, grazie ai miei trascorsi da pugile, gli rifilai un diretto al mento che lo mise ko. Poi, senza neppure aspettare che l’arbitro mi espellesse, presi la via degli spogliatoi confortato da una vera e propria ovazione dei tifosi a cui non era sfuggito lo svolgersi dei fatti. Gli spettatori dell’allora Littoriale impazzivano di gioia quando mi vedevano piombare come un falco sulle punte avversarie. Le attaccavo senza esitazioni ma restavano in piedi, senza il pallone però, che immediatamente lanciavo ai miei mediani, gli odierni centrocampisti arretrati. Non ho mai cercato la ribalta, non sono mai stato un tipo che inseguiva gli articoli sui giornali. Se mi intervistavano rispondevo con cortesia, se non mi cercavano era meglio. Ma per gli strani scherzi che riserva la vita, le persone schive come me si trovano quasi sempre costrette a vivere e sopportare, con grande fatica è ovvio, gli esibizionisti. Figuratevi cosa ho dovuto accettare in un mondo come quello del calcio in cui tutti si sentono e agiscono da fenomeni. Io che senza farmi pubblicità un super difensore lo ero diventato davvero; alla fine degli anni trenta infatti ero considerato tra i più forti al mondo. Ho vinto tutto quello che allora era in palio nel

La prima chiamata negli Alpini, prima dell’ingaggio del Bologna e lo spostamento sotto le Due Torri

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calcio professionistico; mi è mancato solo il titolo mondiale. Il Bologna era tra i più forti club del globo così mi trovavo giornalmente a fronteggiare e battere presuntuosi attaccanti sudamericani e italiani che tentavano di mettersi in mostra a mie spese. Pretendendo anche trattamenti economici preferenziali che in molti casi non erano assolutamente giustificati dalla qualità del gioco prodotto. Una fatica incredibile che in parte scaricavo durante gli allenamenti. Quando mi venivano a tiro infatti in un lampo li rendevo innocui e talvolta gli rifilavo anche qualche duro colpetto di assaggio. Per chiarire subito che a parole erano fenomeni ma quando si trattava di fare le cose sul serio con me dovevano abbassare la cresta. Ne ho ridimensionati tanti che non me li ricordo neppure più, compagni di squadra e avversari, obbligati a tornare negli spogliatoi con la coda tra le gambe, spesso fischiatissimi dai loro tifosi. Una soddisfazione unica che la mattina seguente non veniva riportata però come avrebbe meritato sui giornali, da sempre più inclini a giustificare una figuraccia degli attaccanti che ad evidenziare l’abilità dei difensori. Lo scarso apprezzamento dei media l’ho vissuto quasi giornalmente nei miei undici anni al Bologna ma me ne sono fatta una ragione. La mia vita in alcuni periodi è stata talmente difficile e imprevedibile che qualche applauso in più o in meno non ne avrebbe cambiato l’essenza. Di applausi a dire il vero ne ho presi anch’io tantissimi e non poteva essere diversamente perché il Bologna in quegli anni “faceva tremare il mondo”. Ma il mio maggior merito penso sia stato quello di giocare con identica determinazione le partite clou, che ci sono valse scudetti e Coppe internazionali, e quelle che mi hanno salvato la vita e assicurato cibo essenziale nei lager nazisti. Il Parco dei Principi a Parigi, l’Arena e San Siro a Milano, il Littoriale di Bologna per me hanno avuto lo stesso valore dei campi sterrati di Cernauti, Hohenstein, Bialystok, Odessa, Sluzk. Terreni che non erano contornati da maestose tribune e gradinate ma confinavano con le baracche di legno stipate di prigionieri in attesa di morire, stremati dalle privazioni o nelle camere a gas, o di deportati politici che sarebbero stati eliminati dai plotoni di esecuzione. Al termine delle partite non c’erano i giornalisti ad intervistarti, non ci si dava appuntamento per la gara successiva perché spesso giocatori e spettatori svanivano nel nulla prelevati dalle SS. La cosa che più mi sconvolge quando torno con la mente a quei momenti era che negli incontri tra le baracche dei campi ci giocavamo molto più dei punti e del sostanzioso premio assicurato in precedenza dal Bologna. Il successo non era accompagnato dalle mille lire che il segretario ci consegnava personalmente negli spogliatoi del Littoriale ma da qualche alimento supplementare che valeva 11


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addirittura la vita. Con quei generi di conforto io e i miei amici eravamo in grado di sostenerci fisicamente e di nutrire una speranza di liberazione che non è mai venuta meno. Forse è stata la mia abilità come atleta, forse è stata solo fortuna, forse non era ancora arrivata la mia ora, di sicuro in quei giorni pensavo solo a sopravvivere e là ho scoperto il vero senso dell’esistenza. E soprattutto nei miei occhi sono rimasti impressi per sempre i volti di tante persone macilente a cui noi col calcio avevamo regalato un attimo di spensieratezza. Occhi spenti, disperati, persi sul fondo di orbite immense, ben diversi da quelli brillanti e vitali che avevo scorto negli stadi di tutto il mondo e che rividi tornato a casa e reintegrato, grazie al presidente Dall’Ara, nella rosa del mio Bologna. Solo dopo essere rientrato in squadra ed aver nuovamente intascato il premio partita ho capito quanto fosse importante la sporta di verdura e il pane nero supplementare che le SS, e poi i russi, ci regalavano a match concluso, nei campi di concentramento. Ho riprovato la stessa intensa commozione che mi aveva portato alle lacrime dopo aver ricevuto a Genova le prime mille lire conquistate col debutto vincente in serie A. Tutte queste sensazioni, le mie avventure esistenziali, le ho custodite in silenzio per decenni dopo aver chiuso l’attività sportiva. Le condividevo di rado solo coi miei figli o con qualche amico e alla fine me le sono portate quassù dove è inutile che le racconti perché si sa tutto di tutti. Pensavo di tacere per sempre ma i cento anni raggiunti dal mio Bologna mi hanno fatto venire la voglia incontenibile di salire, forse per l’ultima volta, alla ribalta. Era l’occasione giusta per essere non protagonista ma testimone-narratore di eventi terribili che hanno colpito l’umanità e in modo particolare il Bologna. Pochi lo sanno ma è stato uno dei club più martoriati dagli eventi bellici. Durante l’ultima guerra ha perso campioni come Dino Fiorini, fucilato dai partigiani, o tecnici come Arpad Weisz, eliminato con la famiglia nelle camere a gas di Auschwitz. Molti altri giocatori poi sono morti sotto i bombardamenti. L’eliminazione fisica io l’ho sfiorata più volte per denutrizione, malattie e anche davanti al plotone di esecuzione, ma evidentemente non toccava ancora a me. Il Signore ha voluto che tornassi vivo da quell’Inferno e che potessi raccontare ciò che ho visto e vissuto.

La famiglia Pagotto in una foto ufficiale subito dopo il trasferimento da Fontanafredda a Pordenone

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iL Treno Non avrei mai creduto che il treno avrebbe scandito molti dei momenti più importanti della mia vita e invece è stato proprio così. Quando ero bambino, a Fontanafredda dove sono nato, poi a Pordenone dove ci siamo trasferiti poco tempo dopo, il treno era una delle cose che più mi affascinavano. Forse perché ero venuto alla luce in una famiglia contadina che viveva in aperta campagna, con tempi e stile di vita che contrastavano pienamente con la rapidità e la modernità delle Ferrovie; forse perché credevo che il treno fosse padrone della terra che percorreva in lungo e in largo. Appena potevo andavo ad ammirare le locomotive che trascinavano i lunghi convogli merci e passeggeri che volavano ad Est o ad Ovest. Mi sembrava di essere al centro del mondo e vivevo il grande privilegio di ammirare l’umanità che si affannava in tutte le direzioni. Le motrici da Pordenone salivano a Tarvisio per puntare poi su Vienna, altre si lanciavano verso la laguna di Venezia lasciandosi alle spalle una lunga scia acre di carbone bruciato. Io stavo lì per ore a sognare, mi vedevo al finestrino di un vagone intento a scoprire le grandi città e i paesi che sfilavano veloci davanti ai miei occhi, assaporando quel penetrante odore del carbone che non mi ha più abbandonato.

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Molte volte la sera, appena la mamma o mia sorella mi mettevano a letto, prima di addormentarmi volavo con la mente nei paesi più lontani che la maestra ci spiegava a scuola. Li raggiungevo ovviamente in treno anche se erano oltre il Mediterraneo o l’Oceano. Immaginavo il mio vagone che fendeva schiere di indiani a cavallo e di egiziani che costruivano le Piramidi ma non mancavano neppure i romani che combattevano Annibale o i cinesi impegnati sulla Grande Muraglia. Il treno per me era la sintesi dell’esistenza umana. Lento e sonnacchioso in salita, rapido e infuocato in discesa, pronto a gettarsi nella neve così come nella calura od a svanire nella nebbia che ovattava anche lo sbuffare della locomotiva. E poi maestoso nelle entrate in stazione, sinuoso come un serpente nelle uscite, carico di ricordi e speranze di chi saliva o abbandonava i suoi vagoni. Elegante e ricco di mondanità nelle carrozze di prima classe, traboccante di concretezza e umanità nei vagoni di terza. Anche molti anni dopo a Bologna, quando avevo un po’ di tempo libero, andavo sul ponte di Galliera che sovrasta la stazione centrale e trascorrevo momenti unici ammirando il via vai dei convogli, respirando a pieni polmoni i fumi delle locomotive che impegnavano le pensiline. Specie in inverno era bellissimo scomparire nella calda nuvola che avvolgeva il ponte ad ogni passaggio e riapparire subito dopo appena la motrice si era allontanata. Penso che il treno sia una delle cose più democratiche che esistano al mondo perché porta tutti nel luogo in cui vogliono andare, senza distinzioni di razza e censo; la differenziazione per classi è solo un’invenzione dell’uomo. Dipendesse dal treno i passeggeri starebbero felici e comodi allo stesso modo. Poche opere frutto del nostro ingegno sono libere e internazionali come i treni. Svolgono tutti la stessa missione in barba alle sigle nazionali loro impresse. L’ho provato di persona perché Fontanafredda e Pordenone sono sulla direttrice che porta in Austria e prima del conflitto mondiale ho visto una miriade di treni alcuni anche con l’aquila asburgica, la maggior parte col tricolore, sfilare sotto i miei occhi. Tutti avevano la stesso compito, quello di riportare a casa, agli affetti più cari, milioni di persone. Da fonTanafreDDa a porDenone La prima volta che ho preso il treno non la ricordo nemmeno più. Ero molto piccolo ma di sicuro è stato per andare a Pordenone coi miei fratelli, insieme ai genitori. Dopo pochi anni ci siamo trasferiti in Via Nicoletta a Rorai Grande, un quartiere alla 14


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periferia di quella città, e per un bel periodo i miei spostamenti li ho fatti a piedi, in bicicletta o coi mezzi pubblici. Non c’era motivo per prendere il treno. La mia famiglia era di estrazione prettamente contadina formata da padre, madre e sette figli, sei maschi e Gina, l’unica femmina. La vita trascorreva tra casa, stalla, orto, scuola e oratorio. Era tutto molto semplice e scontato per un bambino contadino che aveva un futuro già scritto. Potevo scegliere tra lavorare nei campi e nella stalla per governare le bestie, impratichirmi in un laboratorio artigianale o fare la scelta estrema dell’emigrazione. E in effetti andò proprio così. La scuola non è mai stata la mia passione e neppure quella dei miei fratelli. Lo sbocco più che logico era la campagna. ComIl fratello Antonio emigrato in Francia pletate le scuole di base, a turno ci siamo passati tutti. Braccia robuste per un impegno che iniziava all’alba e si concludeva all’imbrunire. Solo mia sorella, a causa della morte anticipata di mamma Augusta, stroncata dalla seconda ondata della famigerata influenza spagnola, si è divisa tra casa e campi, obbligata giovanissima a riempire l’immenso spazio che la mamma le aveva lasciato, col gravoso compito di curare padre e fratelli. Fratelli che col passare degli anni sono diminuiti di numero. Il più grande è emigrato a Marsiglia dove è si è sposato ed è rimasto fino alla morte mentre Mario, il terzultimo, è caduto in guerra sul fronte d’Albania. Andrea e Giuseppe lavoravano con papà Lorenzo in campagna e arrotondavano saltuariamente come facchini quando capitava l’occasione. Nei campi sono stato impiegato anch’io, per breve tempo però, perché da bambino avevo un fisico abbastanza minuto che non assicurava resistenza alla fatica prolungata. Per questo motivo mio padre mi aveva trovato un’alternativa come apprendista calzolaio e la sistemazione, pur non essendo ottimale, non mi dispiaceva. Gli anni da ciabattino mi sono stati molto utili anche da calciatore affermato. Riuscivo ad adattarmi al meglio le scarpe da gioco che sono essenziali per un atleta e da 15


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nuove richiedono un certo rodaggio prima di vestire il piede in modo ottimale. Ero diventato di fatto il consulente della squadra e davo indicazioni preziose che tutti seguivano. Le scarpe mi hanno sempre affascinato anche fuori dal campo. Forse perché ne conoscevo l’intima essenza mi piaceva comperarle per me e per la mia famiglia. Ogni acquisto implicava un attento esame del prodotto che mi gratificava e mi riportava agli anni della giovinezza quando un paio di scarpe imponeva un investimento che molti, anch’io allora, non si potevano permettere. Ricordo che in seguito mi veniva da sorridere e avevo un motto d’orgoglio nel constatare che potevo concedermene più paia, non solo quelle indispensabili, e che erano definitivamente superati i difficili momenti in cui mi vedevo costretto ad usare quelle dimesse dai fratelli più grandi. La convinzione che fossi un bambino debole era sicuramente accentuata proprio dalle scarpe e dai vestiti di taglia nettamente superiore che mi venivano “girati” dai miei fratelli e addirittura, solo nei primi anni e nei mesi estivi per fortuna, anche da mia sorella. Più volte, con mio grande disappunto, mi hanno vestito con impresentabili completini composti da maglietta e gonnellino che mi gettavano nello sconforto, tanto da non uscire di casa. Ma il nostro livello economico era talmente basso che nessuno si azzardava a protestare. In famiglia tutti vivevano con la speranza di trovare la strada giusta e un lavoro onesto, ben remunerato, così da dare una mano in casa. Il dopo guerra del primo conflitto mondiale però non lasciava troppa speranza e ci si doveva accontentare. Tra BoXe e CiCLiSMo Il fatto di essere considerato gracile e quindi di non finire “spremuto” nei campi come i miei fratelli mi consentì di avvicinarmi allo sport. Mi ci dedicavo quasi sempre di sera, dopo aver terminato il lavoro di ciabattino. Nessuno in casa praticava qualche disciplina. Si arrivava stremati a fine giornata e la meta agognata era la cena, seguita immediatamente dal letto. Io invece qualche energia la conservavo, anche grazie alla mia giovane età, così decisi di tentare la grande avventura nello sport. Ma quale sport? In famiglia non c’erano tradizioni e non esisteva neppure una spiccata passione per qualche squadra. La forza pura come espressione di vita mi affascinava, per questo puntai sulla boxe. Erano gli anni in cui si stava consolidando la leggenda di Primo Carnera, nato a Sequals non tanti chilometri da Fontanafredda, un friulano come me che aveva scoperto e conquistato 16


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l’America. Solo che lui era un vero gigante, dotato di una forza erculea, io invece ero un ragazzo con tanta passione ma con un fisico minuto, meno della metà del suo. Il fascino del gigante Carnera, l’uomo più forte del mondo, aveva contagiato tutti i giovani italiani anche perché il regime fascista ne aveva fatto una delle bandiere sportive nazionali. Le cronache dei suoi incontri erano diventati pura leggenda, in particolare quello con lo spagnolo Uzcudum a Roma. Si svolse sul ring allestito in una Piazza di Siena gremita all’inverosimile e gli fruttò il titolo europeo dei massimi. Al combattimento assistette lo stesso Mussolini, accompagnato dai massimi gerarchi, e il Duce alla fine volle premiare di persona Carnera. Tutti favoleggiavano di seguire le orme del gigante di Sequals che aveva conquistato addirittura la corona mondiale battendo per ko Jack Sharkey a New York. La storia di Carnera era piena di sofferenza. Il duro lavoro da ragazzo, l’emigrazione forzata a Le Mans in Francia, l’esistenza girovaga nei circhi e infine il trionfo sportivo, prima nella lotta poi nel pugilato, legittimavano ogni sogno di gloria anche in ragazzi normali come me. Se c’è riuscito lui posso provarci anch’io, era questa la mia convinzione profonda che non teneva conto di migliaia di componenti avverse, non ultima la stazza fisica. Alcuni amici avevano iniziato a frequentare una palestra di Pordenone, così decisi di aggregarmi al gruppo e di imparare la “nobile arte” del pugilato. Gli allenamenti erano duri ma li reggevo bene. Non ero dotato di una grande muscolatura ma avevo colpo d’occhio, ottimi riflessi, gambe molto rapide e fisico scattante. Doti preziose per un welter, la categoria in cui ero stato inquadrato. L’unica cosa che mi destava qualche preoccupazione era il dover soffrire, il provare un male insopportabile sotto i colpi degli avversari. E queste mie perplessità purtroppo si materializzarono brutalmente già al debutto. Il fac- Carnera, mito di intere generazioni, idolo del giovane Pagotto cia a faccia però non mi spaven- che voleva affermarsi nella boxe 17


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tava, i cazzotti al volto e allo stomaco invece non li digerivo. Nonostante ciò andavo bene, avevo una buona tecnica e riuscivo ad ottenere risultati incoraggianti tanto da essere inserito in fretta nella rosa dei migliori dilettanti regionali. Il momento più difficile però era quando tornavo a casa malconcio e pieno di lividi anche se avevo vinto. Mia madre non tollerava quelle ammaccature e insisteva perché smettessi e cambiassi disciplina sportiva. Una sera ebbi la folgorazione, bastò l’attimo in cui il guantone di un avversario mi centrò il viso procurandomi grande dolore e la rottura del setto nasale. In un lampo raggiunsi la certezza che la boxe non faceva per me. Decisi che avrei fatto felice mia madre e che mi sarei risparmiato tanto male inutile. Per fortuna i danni furono molto limitati e non ci fu bisogno di alcun presidio medico. Si risolse tutto con un intervento manuale che riportò il naso e la respirazione ai parametri abituali. È stata la maggior sofferenza sportiva che ho provato fino a quel momento e anche per questo è rimasta ben incisa nella mia mente. La stessa sera mentre ancora dolorante e frastornato rientravo a casa in bicicletta giurai che non avrei mai più messo piede sul ring. E ne fui ancora più convinto dopo aver visto il sorriso di mia madre nel momento in cui le comunicai la decisione. La profonda delusione si trasformò subito in nuova spinta vitale verso un altro sport che consideravo di casa, la bicicletta. E di casa lo era nel senso letterale della parola perché ad un centinaio di metri dalla mia abitazione aveva vissuto il campionissimo Ottavio Bottecchia, uno dei colossi del nostro ciclismo, autore di imprese memorabili, due volte vincitore del Tour de France. Lo avevo ammirato e invidiato in decine di occasioni mentre insieme al gregario di fiducia andava ad allenarsi. Avevo sognato di imitarne le gesta e di gustare intensamente i trionfi che lui aveva già vissuto. Ricordavo benissimo le feste, la marea di gente sotto la sua abitazione quando rientrava dai successi al Tour e soprattutto la grande ammirazione di cui era oggetto in città. E poi, particolare non trascurabile, mi auguravo di diventare ricco come lui che era nato poverissimo ma grazie alle trionfali cavalcate sulla bici aveva guadagnato cifre ingenti tanto da poter mantenere la famiglia e molti parenti indigenti. Aveva acquistato anche la bella palazzina in cui risiedeva ed una macchina, la favolosa OM 2000 limousine, da cinque posti più autista. A Pordenone il ciclismo è tuttora uno degli sport più seguiti e vanta ottime tradizioni anche a livello professionistico proprio grazie a personaggi come Bottecchia. In un baleno decisi che la mia nuova frontiera era il ciclismo. Iniziai a seguire un programma di allenamenti che avrebbero dovuto consentirmi di raggiungere una forma vincente. L’obiettivo che mi proponevo era quello di disputare da protagonista alcune gare dilettantistiche per destare l’interesse di qualche società. 18


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Gli allenamenti procedevano bene e mi sentivo sempre meglio in sella anche se il mezzo di cui disponevo non era tecnicamente all’avanguardia. Dopo aver lavorato nei campi o come calzolaio verso sera coprivo parecchi chilometri sulle strade di periferia e non perdevo occasione per svolgere commissioni che obbligavano a lunghi trasferimenti in bicicletta. Le motivazioni non mancavano. Il Fascismo investiva molto nello sport anche sul piano dell’immagine e sfruttava ogni occasione per lanciare messaggi in tal Bottecchia, il campionissimo che aveva trovato fama e senso. Su un ragazzo come me il marteldenaro con la bici. Un esempio da imitare lamento del Ministero dello Sport faceva grande presa e la voglia di migliorare era sempre viva. Ma anche l’avventura nel ciclismo ebbe purtroppo uno stop improvviso che mi portò al secondo brusco risveglio. Una sera mentre tornavo a casa al termine di un allenamento molto “tirato”, preso dalla foga delle future competizioni, infilai troppo forte una curva stretta di un viottolo. Finii ad alta velocità nel fossato laterale sbattendo violentemente il volto e una spalla contro l’argine. Rimasi alcuni minuti senza conoscenza. Quando tornai in me ero completamente bagnato, sporco di sangue in volto e sul torace e dolorante in quasi tutto il corpo. Per ironia del destino avevo sfiorato forse la stessa tragedia, ad oggi ancora ammantata di risvolti sconosciuti, che portò alla morte del mio mito Bottecchia. Anche lui mentre si allenava cadde rovinosamente e fu trovato agonizzante in mezzo ad una strada di campagna. La cosa inspiegabile era che la bicicletta non aveva un graffio mentre lui era pieno di fratture, una anche alla base cranica. Un mistero mai risolto, legato forse alla morte del fratello Giovanni, pure lui ciclista professionista, deceduto in un evento simile qualche tempo prima. Si è tentato di spiegarlo con motivazioni politiche o semplicemente truffaldine come il furto di derrate alimentari o scommesse non onorate ma non è mai emersa una verità convincente. Purtroppo Bottecchia morì dopo pochi giorni di ospedale. Ricordo con grande nitidezza i suoi funerali, un evento storico per l’Italia non solo sportiva perché era amico personale di Mussolini; rappresentava il prototipo dell’italiano di successo voluto e creato dal partito fascista. 19


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Io fortunatamente me la cavai solo con profonde escoriazioni e contusioni. Subii però una stangata terrificante nel fisico ma soprattutto nel morale perché mi tolse subito ogni illusione ciclistica. Mentre tentavo faticosamente di ritrovare la via di casa feci sul ciclismo la stessa croce che avevo già messo sulla boxe. La cosa che più mi infastidiva a quel punto non era il male quanto il vuoto sportivo che stavo vivendo. Sapevo che i miei fratelli mi avrebbero canzonato e consigliato caldamente di concentrare ogni energia sul lavoro. Io invece ero determinato a dimostrare che il mio futuro non sarebbe stato nei campi con la vanga in mano o in una bottega di calzolaio ricurvo su una marea di scarpe da aggiustare. La SCoperTa DeL CaLCio Il tempo passava senza che la mia passione sportiva trovasse lo sbocco che sognavo. Ero angosciato anche dal fatto che ormai non ero più un ragazzino e stavo diventando troppo vecchio per tentare la scalata in qualche disciplina. Io mi sentivo sempre giovanissimo e pieno di energie ma temevo che fossero gli altri a vedermi superato e fuori dai giochi. Mi consolavo con qualche partita a calcio disputata all’oratorio con gli amici. Nel calcio mi sono sempre fatto rispettare e negli ultimi tempi mi sentivo ancora più forte ed a mio agio tecnicamente. Ne avevo la conferma anche dall’evidente rispetto che gli avversari nutrivano nei miei confronti e dalla

La formazione dell’Aurora Pordenone nel 1929, Pagotto è il terzo in alto a destra, trampolino verso il Bologna

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facilità con cui vincevo i contrasti. Le delusioni patite in palestra e in bicicletta non erano state però inutili perché avevo sviluppato potenza di gambe e forza pura di braccia, rapidità di movimento del tronco e notevole colpo d’occhio. A quel punto forse valeva la pena tentare la strada del pallone. Non ne ero pienamente convinto ma sentivo forte l’obbligo di riscattare i precedenti fallimenti. Capivo di essere portato per lo sport, avevo la convinzione interiore che avrebbe dato la svolta alla mia vita, ma il tempo passava inesorabile. Non avevo ancora compreso che proprio il calcio, la disciplina che avevo da sempre sotto gli occhi, che praticavo con estrema naturalezza, sarebbe stata il mio trampolino di lancio. Giocare a pallone mi piaceva ma fino a quel momento l’avevo considerato solo un passatempo. E non è che mi mancassero gli esempi positivi perché la terra e gli oratori del Friuli da sempre sono stati fabbriche di talenti. Nella vita il caso gioca un ruolo determinante, l’ho provato decine di volte sulla mia pelle, e così è stato anche quando mi sono presentato la prima volta all’Aurora, una formazione dilettantistica che aveva sede in Parrocchia, a due passi da casa. Ci ero passato davanti decine di volte ma non avevo mai pensato di entrare su quel campo per farne una ragione di vita. Avevo appena compiuto 17 anni e un giorno presi la grande decisione. Invece di andare oltre e guardare soltanto entrai nella sede dell’Aurora e mi presentai ad un dirigente ed all’allenatore. Precisai subito che ero consapevole di essere forse troppo vecchio ma che volevo almeno provare perché mi sentivo portato per questa disciplina. Mi guardarono con attenzione, mi chiesero se avevo avuto esperienze in altri club, furono sorpresi apprendendo che era la prima volta che chiedevo di essere visionato. In alcune occasioni infatti mi avevano visto giocare con gli amici sul campo dell’oratorio e ne avevano sempre tratto una buona impressione. Dopo un rapido cenno di intesa tra loro mi diedero appuntamento per il giorno successivo. La notte quasi non mi riuscì di dormire, ero agitatissimo e dopo tante ore notturne piene di riflessioni mi ero convinto che fosse meglio rinunciare. Ma la spinta interiore mi portò al campo all’ora stabilita e, sudando profusamente per l’emozione, mi presentai alla chiamata con quel poco di abbigliamento calcistico di cui disponevo. Maglietta sdrucita, calzoncini abbondanti, calzettoni rattoppati alla meglio e un paio di vecchissime scarpe, troppo grandi, che avevo portato alla mia misura mettendo parecchio cotone idrofilo in punta. L’allenatore, un appassionato di mezza età che era solito girare per i campetti di periferia a caccia di elementi promettenti, durante il provino svolto con tanti ragazzi più giovani apprezzò subito le mie qualità. Mi tenne in campo più di tutti e mi provò in varie situazioni e con esercizi specifici; voleva capire quanto valevo tecnicamen21


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te e gli eventuali margini di miglioramento. Alla fine mi confermò l’interessamento dell’Aurora chiarendo però all’istante che ero già avanti negli anni e per questo dovevo lavorare duro e con la massima intensità per costruirmi una tecnica calcistica di buon livello. Era la verità, non avevo mai avuto qualcuno che mi insegnasse i fondamentali e i bambini allora non erano certo inquadrati in scuole calcio fin dal primo approccio. Io però avevo innata la rara dote di francobollarmi all’avversario diretto e di bloccarlo, meglio ancora anticiparlo, in ogni condizione e situazione di gioco. Sono sempre stato marcatore preciso e puntuale, sia che avessi davanti un ragazzo, sia che dovessi affrontare le grandi stelle del calcio mondiale degli anni trenta. Dell’Aurora ricordo in particolare un muro. Era quello vicino allo spogliatoio contro cui noi ragazzi trascorrevamo ore ed ore di addestramento per migliorare il contatto e il controllo di palla. Un muro magico perché nella mia mente non aveva confini e si spalancava sui grandi stadi italiani. All’Aurora mi trovai subito bene e miglioravo tecnicamente tanto che ci rimasi tre stagioni. Appena potevo, essendo vicino a casa, andavo ad allenarmi anche da solo nella speranza di recuperare il tempo perduto. Finalmente il muro contro cui avevo calciato migliaia di volte si aprì non sulle arene della serie A ma su quella molto più vicina del Pordenone, la massima realtà calcistica locale che militava in Prima Divisione. Era l’estate del 1932, avevo terminato da poco il servizio di leva negli alpini. L’impegno al muro e le lezioni tecnico-tattiche del mio primo allenatore avevano funzionato a meraviglia. Alcuni osservatori del Pordenone mi avevano notato e il passaggio era stato subito perfezionato. Avere un prodotto dell’Aurora nella massima espressione calcistica pordenonese era un fiore all’occhiello che dava a tutti grande gioia. In ottobre iniziarono gli allenamenti col Pordenone, entrai subito tra i titolari e venne di conseguenza il debutto in Prima divisione (equivalente all’ex serie C). Il fatto di essere arrivato tardi a buon livello non mi creava problemi di identità. Sono nato marcatore e terzino sono rimasto tutta la vita, quasi bloccato entro la mia metà campo. Qualche discesa a rete per la verità me la sarei potuta concedere proprio grazie alla velocità di base, al ritmo di gioco e al colpo d’occhio innato, dote basilare per anticipare l’avversario. Oggi sarei un ottimo difensore di fascia, abile a sganciarsi, a correre sulla linea laterale fino a fondo campo ed a crossare in area per le punte. Se lo avessi fatto negli anni 30 non lo avrebbero di sicuro apprezzato e forse sarei finito in tribuna; il regolamento non consentiva infatti le sostituzioni. Il Pordenone anche grazie a me s’installa saldamente nelle zone alte della classifica; in tre stagioni divento uno dei suoi punti di forza. Il quartetto insuperabile della difesa era formato dal portiere Giro, da me terzino di fascia destra e Cardelli a sinistra, oltre 22


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al mediano Stella. Un poker che non aveva l’eguale in zona tanto che il Pordenone puntava sempre al vertice. La nostra forza si basava soprattutto su un profondo rapporto di amicizia e sulla prestanza fisica di tutti. Era un reparto di “corazzieri” che non si facevano pregare anche se si doveva intervenire solo di potenza. Quando ormai il mio sogno di diventare un giocatore da serie A si sta affievolendo il caso mi rimette di nuovo in gioco. Nell’ambito del Pordenone gravita anche Roncarati, un ispettore delle Ferrovie nato a Bologna che gira l’Italia in lungo e in largo. Quando capita nella sua città d’origine incontra amici che militano in formazioni locali, appassionati di calcio, dirigenti di squadre dilettantistiche e parla ovviamente anche del Pordenone e dei suoi elementi di spicco. La pubblicità che fa alle mie prestazioni un giorno impressiona un dirigente del Bologna che decide di contattarmi, tramite lui, per un provino. Essere convocato dal grande Bologna, nel cui blasone splendono già tanti scudetti, mi riempie di gioia ma nello stesso tempo mi crea tantissime preoccupazioni. La prima, quasi insormontabile, è che non ho i soldi per raggiungere le Due Torri. Le difficoltà economiche però non mi frenano, decido subito che a Bologna ci sarei andato comunque, anche a costo di fare la strada a piedi. Lo stesso consiglio di famiglia in cui annuncio la chiamata però mi rassicura perché tutti concordano che in qualche modo vanno trovati i fondi per la trasferta. È Gina la mia sorella-mamma che brucia papà e i fratelli sul tempo. Ha subito l’idea vincente. Va da una sua amica, la moglie del salumiere presso cui abitualmente fa la spesa, e le chiede un piccolo prestito. L’ottiene assicurando una restituzione rateizzata in tempi stretti. Il maggior ostacolo è superato, nell’estate del 1935 inizia l’avventura a Bologna. iL proVino aLL’anTiSTaDio Il treno che avevo ammirato tante volte da bambino e che avevo in parte dimenticato dopo il trasferimento a Pordenone rientra di prepotenza nella mia vita. Col danaro raccolto da mia sorella Gina posso acquistare il biglietto per Bologna e senza rendermene conto inauguro una serie di viaggi da e per Pordenone che si ridurrà drasticamente solo dopo il matrimonio. La mattina della partenza è un avvenimento per l’intera famiglia. Fino a quel momento nessuno aveva mai preso in considerazione la possibilità che io potessi avere un avvenire lontano da Pordenone e soprattutto uno sbocco professionale che non fosse sui campi, nelle stalle o come calzolaio. Prima di andare nei campi 23


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tutti mi salutarono con grande calore e mi fecero mille raccomandazioni come se dovessi andare in America e non a poche centinaia di chilometri. Indosso l’unico vestito elegante che ho, lavato e stirato per l’occasione da mia sorella. Raggiungo la stazione ovviamente a piedi. È la prima volta che uno dei fumanti convogli che mi sono transitati sotto gli occhi da bambino mi inghiotte per portarmi lontano da casa. Sono talmente affascinato che appena sistemato nello scompartimento mi incollo al finestrino e non partecipo alle abituali discussioni che nascono tra i passeggeri sulle rispettive destinazioni. Sarebbe stato molto bello e qualificante raccontare a tutti che ero ad un punto cruciale della mia vita. Stavo andando al Bologna, una delle squadre più titolate d’Italia, per sostenere un provino che poteva lanciarmi nell’Olimpo del calcio. Ma chi ci avrebbe creduto? Io stesso, pur conscio di avere buone qualità, non osavo neppure pensare che di lì a qualche ora mi sarei misurato con campioni del calibro di Biavati, Sansone, Fedullo, Reguzzoni. Mi tremano le gambe, meglio distrarsi. Così mi godo lo spettacolo della campagna veneta che scappa veloce. È uno dei miei sogni infantili che si avvera, volare sul treno mentre sbuffi nerastri escono dalle ruote della locomotiva. Le stazioni si succedono e finalmente entro nella Centrale di Bologna. L’impatto con la grande città mi aumenta l’ansia, il via vai frenetico di cose e persone è impressionante per un ragazzo di campagna che non è avvezzo a questi ritmi. Bologna è il cuore del sistema ferroviario italiano e in una sola giornata accoglie e smista centinaia di convogli. Non ho neppure mangiato qualcosa perché mi sento lo stomaco chiuso ma non mi spavento. Dopo aver chiesto qualche Una immagine del 1942 in vacanza all’Alba di Riccione, informazione salgo sul servizio pubblico insieme ad altri campioni e ai figli di Mussolini 24


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che mi porta al Littoriale. I palazzi, la circonvallazione e le strade principali scappano via veloci ma cerco di memorizzarle con la massima attenzione perché ho l’intimo convincimento che quel tratto di strada mi diventerà familiare, lo ripercorrerò tante volte in futuro. In venti minuti sono a destinazione. Scendo dal predellino del tram che sfila rapido davanti ai miei occhi e mi trovo all’improvviso faccia a faccia con lo stadio. Sono choccato e ammirato da tanta imponenza. Il Littoriale non l’avevo mai ammirato dal vero, lo conoscevo solo per le foto apparse sui giornali che riportavano di solito le zone interne. La struttura in mattoni rossi è splendida. Subito cerco di immaginare cosa si prova a salire la scaletta che immette al campo di gioco tuffandosi nel frastuono creato da trentamila tifosi che sono lì ad aspettarti. Sessantamila occhi che ti scrutano e altrettante mani che possono decidere il tuo futuro applaudendoti. Mi vedo schierato a centrocampo mentre saluto la tribuna piena di autorità, poi le curve coi tifosi che si accalcano e urlano in attesa del fischio d’inizio. Penso che quella marea di gente è lì, ha pagato addirittura il biglietto, anche per vedere me. È una stranissima sensazione che mi riempie di orgoglio e di paura. Ma per ora la mia destinazione è dalla parte opposta della strada, sono atteso infatti all’Antistadio dove il Bologna abitualmente si allena. Entro timoroso. Il primo dello staff che incontro è Amedeo Bortolotti, il massaggiatore, gli dico chi sono e lui mi mette subito tranquillo. Mi presenta al magazziniere che mi veste da Bologna poi mi pilota nello spogliatoio dove c’è già l’allenatore. «Signor Weisz – dice Bortolotti – questo è Pagotto, quel ragazzo del Pordenone che deve provare oggi». Il tecnico mi lancia uno sguardo interessato, mi spiega per sommi capi come si svolgerà il test e poi congedandomi mi carica al massimo: «Ora vada fuori e si scaldi per bene – dice – quando sarà in partita mi faccia vedere tutto quello che sa fare, senza timori reverenziali per chi avrà davanti. Non abbia paura di sbagliare, è meglio osare che trattenersi». Con Weisz i rapporti sono stati sempre buoni anche se in seguito, quando ero già un giocatore affermato, mi ha ripetuto più volte che mi considerava un prezioso cavallo da tiro ma non sarei mai diventato un purosangue. Non avrebbe mai pensato, povero Weisz, che per tanti aspetti la sua e la mia vita, a distanza di poco tempo, avrebbero corso quasi parallele tra campi di concentramento e lager di eliminazione. Avessi avuto la fortuna d’incontrarlo forse sarei riuscito a salvarlo inserendolo come tecnico nella mia squadra di calciatori-deportati. La sua origine ebrea purtroppo è stata fatale a lui ed alla sua famiglia. Dopo una fase di riscaldamento in gruppo inizia l’allenamento. Nella partitella a ranghi contrapposti Weisz mi mette terzino e noto che mi segue con particolare attenzione. Dopo qualche titubanza iniziale ingrano la marcia giusta e più passa25


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no i minuti più mi sento sicuro e tranquillo. Vedo con grande gioia che anche i campioni affermati, mandati dal tecnico per mettermi in difficoltà, non mi fanno fare figuracce. Spesso sono addirittura loro a finire battuti. So che potrei dare anche qualcosa in più ma non voglio strafare per evitare errori madornali. Il provino va benissimo. Capisco di aver fatto centro anche perché Weisz cambia più volte il mio avversario diretto così da provarmi in marcatura contro elementi con caratteristiche tecniche molto diverse tra loro. Tutti i campionissimi che mi affrontano sulla fascia Un pomeriggio di relax a San Michele in Bosco dove il tecnico mi ha schierato combinano poco. A fine allenamento sento che l’allenatore parla di me con un dirigente e con alcuni degli assi che ho marcato, e questi rientrando negli spogliatoi mi fanno addirittura i complimenti. Sotto la doccia mi sembra di volare perché ho la netta sensazione che il Bologna intenda tesserarmi. La conferma giunge subito dopo essermi rivestito perché il segretario che cura le pratiche mi informa che Weisz ha dato il benestare all’acquisto e che gli ha affidato anche il compito di sviluppare la trattativa col Pordenone. C’è l’intenzione di perfezionarla in tempi brevi. «Caro Pagotto – mi disse – se tutto andrà come spero Lei tra poco sarà dei nostri e si trasferirà a Bologna». Non mi sembrava vero, avvertivo una gioia incontenibile pensando che in poche settimane sarei entrato nella rosa di una grandissima squadra, sia pure iniziando col ruolo di riserva. Trovato l’accordo tra le società, il Bologna mi propose un ingaggio per la verità abbastanza contenuto. Capii però che si trattava di un’occasione irripetibile e decisi che quello stipendio me lo sarei fatto comunque bastare anche se dovevo vivere in una città da tutti ritenuta molto cara. Per la mia famiglia era sempre una bocca di meno che gravava sul bilancio. In casa il trasferimento a Bologna fu accolto con un misto di orgoglio e preoccupazione perché tutti temevano che l’avventura non sarebbe durata a lungo e mi sarei 26


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ritrovato presto deluso e relegato di nuovo all’impiego di ciabattino. Valeva però la pena tentare, così appena terminato il campionato col Pordenone, a fine estate 1935, presi la strada di Bologna e mi sistemai alla meglio in centro, vicino alla Casa del Fascio dove c’era la sede della società. Pensavo solo ad allenarmi dando il massimo ma qualche divertimento non me lo negavo. Le amicizie non mi mancavano grazie alla squadra. Andavo a ballare quando non ero preso dagli allenamenti e proprio in una sala da ballo conobbi la ragazza che nel 1943 sarebbe diventata mia moglie. Lo stipendio iniziale purtroppo era troppo basso, non potevo pensare di crearmi subito una famiglia. Quando arrivava il 20 del mese le difficoltà crescevano velocemente. Per risparmiare andavo agli allenamenti a piedi o in bicicletta. Ma non mi lamentavo perché ero certo di avere la stima della società e dell’allenatore e che il mio futuro sarebbe stato nel Bologna come calciatore professionista. Mi allenavo con la prima squadra, ero nel gruppo che conta e giocavo fisso nelle giovanili dove avevo fatto subito amicizia con altri ragazzi che sognavano come me di affermarsi. Cosa potevo chiedere di più? Amedeo Bortolotti, il massaggiatore, mi aiutava e mi dava tranquillità curandomi al meglio, alla pari dei titolari, anche con massaggi extra a casa sua. Aveva molta iniziativa e tanti suoi presidi terapeutici, come i forni realizzati in base a quanto scopriva all’estero nelle tournée con la Nazionale, erano all’avanguardia. I malanni fisici riportati in campo venivano assorbiti rapidamente. Per tutti oltre che un ottimo professionista era anche un amico, un confidente, un prezioso consigliere. Nelle partitelle infrasettimanali Weisz mi utilizzava sempre, così anche le “stelle” sudamericane iniziavano a conoscermi ed a stimarmi. Mi sentivo ormai uno del gruppo e il giocare al loro fianco mi assicurava un salto di qualità anche nella tecnica. La ViTa a BoLoGna Inizia la serie A del torneo 1936-37 e sempre più frequentemente vengo aggregato alla prima squadra durante le trasferte di campionato. L’essere diventato un quasi titolare mi assicura un maggior stipendio e così molte apprensioni svaniscono. Non sono pagato come gli assi Pomeriggio alla piscina dello Stadio Comunale con giovani tifosi

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