Panini. Storia di una famiglia e di tante figurine – Leo Turrini

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Alla mia famiglia



Prefazione di Walter Veltroni Postfazione di Giovanni Malagò

MINERVA


PREFAZIONE

di Walter Veltroni

È una grande storia italiana, quella qui raccontata magnificamente da Leo Turrini. Un giornalista legato alla sua terra, non scevro di passioni sanguigne, appassionato dell’epica dello sport, si è messo, come un investigatore del tempo, a ricostruire l’epopea di una delle famiglie della nostra imprenditoria, il cui nome è entrato, letteralmente, nelle case di intere generazioni di italiani. Tutti coloro che sono stati bambini a partire dagli anni Sessanta sanno infatti chi sono i Panini. Hanno comprato i loro album, incollato le loro figurine, scritto, ansiosi di risposta, al loro indirizzo di Modena. I fratelli Panini fanno parte dell’immaginario collettivo. Quel cognome identificava le irremovibili e struggenti madeleine di ciascuno. Le figure da loro create rappresentano nella memoria collettiva l’emblema di noi, una volta bambini. Fossero l’immagine maldestramente colorata da un litografo di Parma del coriaceo centrocampista “Maciste” Bolchi, prima figurina Panini, quella di Garibaldi in Uomini illustri, le vignette di Prosdocimi che riproducevano gli idoli canori del tempo, da Celentano a Tony Astarita, le fotografie di inconsapevoli canguri nelle collezioni sugli animali. Quei rettangoli di carta ci ricordano i nostri pomeriggi senza pensieri e ansie. E con l’assoluta fiducia nel futuro. 5


Le figurine si prestavano a un doppio uso, individuale e collettivo. Tanti anni fa mi capitò di scrivere, per celia, un saggetto sulla teoria marxiana a proposito del valore d’uso e di scambio, applicandola alle figurine. Io rifuggivo, da ragazzo, da un utilizzo che consideravo prosaico, volgare e blasfemo delle immagini Panini. Non avrei mai aperto un commercio lascivo, uno scambio mercantile che avrebbe finito con il ledere la sacralità di quelle fotografie colorate. La sfida per completare l’album era con chi lo aveva prodotto, e quindi imbastire un sordido mercanteggiamento con i coetanei era da me considerato immorale. In questi scambi, con figurine orrendamente spiegazzate appallottolate nelle tasche di grembiuli blu, veniva fissato di solito dal più forte dei mercanti un prezzo. Se l’acquirente era milanista l’immagine di Rivera ne valeva, allo scambio, almeno tre. Se poi l’avido venditore percepiva nel cliente il febbrile bisogno di una specifica figurina per completare una pagina o una squadra, allora il prezzo lievitava e un ghigno alla Scrooge compariva sul viso di chi, come un cucciolo di sfruttatore, usava il bisogno altrui per accrescere il proprio capitale. I fratelli Panini sono stati i nostri Disney. Hanno lavorato per farci felici. Non erano dei figli di imprenditori. Erano otto, tanto per cominciare. E scusate se è poco, in tempi di gramigna demografica. Ed erano povera gente. Il padre, Tonino, dopo aver combattuto sugli incerti aerei della Prima guerra mondiale, era morto giovane, a neanche quarantacinque anni. Aveva lasciato queste otto creature e immagino che, chiudendo gli occhi nell’Italia buia e affamata del 1941, avrà pensato con terrore al loro fu6


turo. Ma doveva fidarsi della genialità della donna che lo aveva accompagnato in vita. Perché Olga, figlia di un casaro, amava la lettura e aveva un carattere a prova di bomba. Qui, nel racconto di Turrini, fa irruzione il caso, il meraviglioso o terribile arbitro del nostro destino. Se un giorno non fosse accaduto quello che Turrini racconta, la storia di quella famiglia e di milioni di bambini nel mondo sarebbe stata diversa: Olga non rimase insensibile, quando una sera ascoltò il racconto della figlia Veronica, appena tornata a casa dal lavoro. Veronica aveva trovato un’occupazione presso uno studio legale di Modena. Faceva la dattilografa e aveva captato le confidenze del titolare, l’avvocato Guidelli. Costui si lamentava perché un suo socio non riusciva a risolvere un grattacapo: aveva dato in gestione una edicola a un tizio che puntualmente si dimenticava di pagare l’affitto. Forse l’unica soluzione era chiuderla, l’edicola. Del resto, mica c’era la coda per acquistare una copia del “Corriere della Sera” o la rivista dedicata agli idoli del cinema in bianco e nero.

C’era il fascismo e i giornali erano pochi, e tutti dicevano le stesse cose. Ma Olga vede il futuro e racimola le seimila lire necessarie per rilevare l’edicola della piazza di Modena. Ancora Turrini, usando le parole di Umberto: All’alba del 6 gennaio 1945, noi due fratelli più piccoli, Franco e io – ventisette anni in due, pantaloni corti e calzettoni fatti in casa – andammo insieme ad aprire quel chioschetto. Venimmo incaricati noi due perché Franco aveva una certa esperienza nel settore, era infatti garzone presso la cartoleria Gialuppi. Quel giorno c’era la neve, tanta neve, un mucchio di neve così alto che non si trovava 7


la porta. Era un chiosco esagonale e tutte le ante sembravano uguali, tanto che al primo colpo scavammo dal lato sbagliato e dovemmo ricominciare a scavare. Finalmente aprimmo la porta e spalancammo le finestrelle.

Si immagina la scena, la loro emozione per i primi clienti. Dopo pochi mesi, con la Liberazione, le edicole saranno invase da giornali di ogni tendenza e quella neve si scioglierà mostrando fiori di tutti i colori. Il resto della storia lo leggerete qui. Troverete la fatica, il coraggio, la genialità, la sensibilità di ragazze e ragazzi figli del popolo diventati, in poco tempo, quando la speranza non era un’illusione, degli imprenditori di giochi intelligenti, come sono le figurine. Quando, con “l’Unità”, stupendo molti riproponemmo i vecchi album dei calciatori avemmo un successo incredibile. Il giornale era esaurito alle otto di mattina in tutta Italia. Gramsci, attento alla cultura popolare, credo sarebbe stato contento. Gli esseri umani hanno bisogno di codici unitari per la memoria, che siano una canzone, un film, un libro. O l’immagine di ragazzi nati durante la guerra che, a vent’anni, sorridevano ai bambini da un album prodotto a Modena, in Italia. I Panini sono un pezzo dell’identità e della genialità del nostro Paese. Li ho conosciuti. Erano persone semplici e curiose. Amavano la loro terra, i motori, la cultura, il gioco, gli animali. Erano emiliani, italiani, figli di un mondo che esploravano con curiosità. E ai giorni nostri dei bambini, o dei grandi, che parlano decine di lingue diverse sanno che ciò che li diverte

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oggi e li commuoverà domani è nato in Italia. E risiede in un luogo, magico come Disneyland. Il luogo è in viale Emilio Po, al 380. Emilio Po era un ebanista, soldato, partigiano, ucciso dai fascisti in un modo barbaro. Era un emiliano, un italiano, un cercatore di libertà. È bello che al suo nome sia associata la storia della famiglia Panini e che quel nome sia stato scritto nel tempo, migliaia di volte, da ragazzi che desideravano gioia e gioco. I fratelli Panini assomigliano all’Italia migliore. La loro storia, raccontata da Turrini, infonde speranza, fiducia e orgoglio. Fatica e genio. L’Italia.

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PROLOGO

Dal fondo di quel fosso in cui era stato gettato da sedicenti rivoluzionari, strana gente convinta che il semplice possesso di un trattore rappresentasse chissà quale cedimento alla logica del capitalismo infame, Antonio Panini vedeva la luna. Gli avessero detto che un giorno i suoi otto eredi, quattro figli maschi e quattro figlie femmine, avrebbero idealmente colmato la distanza che separava il fosso dal satellite lassù nel cielo – grossomodo 384.000 chilometri! – stampando piccoli pezzi di carta, mica ci avrebbe creduto. Eppure è accaduto davvero. A metterle in fila, una dopo l’altra, le figurine pensate e prodotte dalla famiglia Panini arrivano dalla Terra alla Luna. E ne avanzerebbero ancora, tante da completare il viaggio di ritorno. Tante che forse il bizzarro dettaglio statistico vale come testimonianza di una avventura che è stata straordinaria, fino a trasformarsi in un simbolo dell’Italia genuina e coraggiosa del Novecento. Come sempre, dietro e dentro la suggestione si coglie il sentimento. Partendo da quel fosso e da quell’inutile gesto di violenza gratuita, si snoda la favola di un piccolo mito nazionalpopolare. Dagli anni Sessanta

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del secolo scorso fino a oggi, fino al nuovo millennio, non c’è italiano che non abbia avuto per le mani una figurina. Sono cambiate le mode, si sono trasformati gli stili di vita, naturalmente diversissime sono diventate le abitudini. La figurina invece è rimasta, intatta nel suo fascino semplice. Curioso esempio di resilienza e di resistenza all’usura dei tempi, verrebbe voglia di aggiungere. Probabilmente non a caso resilienza e resistenza, accompagnate da una sana propensione alla fantasia che aiuta a tradurre il sogno in realtà, sono state il tratto distintivo della dinastia che, figurina dopo figurina, dalla Terra arrivò alla Luna. È venuto il momento di raccontarla, la leggenda della famiglia Panini. Troppi in una casa «Quando è così, le assicuro che non c’è problema. Adesso salgo di sopra, elimino quattro figli su otto e mi metto in regola…» C’era tutto lo spirito, libero e ironico, di un uomo che non aveva paura delle trappole della vita. C’era quella forza d’animo che rende l’individuo pronto a confrontarsi con le insidie e con le sofferenze senza abbassare lo sguardo, senza assumere un atteggiamento rassegnato, da vittima. Sì, c’era tutto questo, nella replica fulminea che Antonio Panini, patriarca di una famiglia piena zeppa di figli, otto, quattro maschi e quattro femmine, oppose in una mattina di primavera al proprietario di 12


un appartamento in Rua Muro, cuore di Modena. Il padrone di casa non era cattivo, però era stato esplicito, al momento di stilare il contratto di affitto: lui, checché predicasse il capoccione venuto da Predappio, sì, insomma, il Duce d’Italia, sua eccellenza il cavalier Benito Mussolini, checché blaterasse il capo del Governo sui meriti eterni dei genitori di prole numerosa, ecco, con tutto il rispetto il signor proprietario inquilini con più di quattro bambini non ne voleva. Facevano presto i gerarchi del regime a proclamare la necessaria vittoria sul fronte della crescita demografica: però, aveva notato Antonio, nelle loro belle residenze la prole abbondava meno dei privilegi. In fondo, quel Panini nato nel 1897 sulla terra coltivata dai contadini di Pozza di Maranello, aveva intuito in fretta che nel Belpaese, nel regno dei Savoia, alla teoria non sempre si sovrapponeva la pratica. A ben pensarci, era una sorta di maledizione nazionale. La differenza sistematica, spesso dolorosamente pungente, tra le parole e i fatti. Prendiamo la leggenda del Risorgimento, vivissima ancora quando Antonio era venuto al mondo. Il mito della unificazione patriottica era l’unico collante tra gente diversissima. Per gli eredi di Dante Alighieri, persino la lingua non era un patrimonio comune. Quando gli era capitato di incontrare un veneto sotto le armi, al giovane Panini era parso di dialogare con uno straniero. L’Italia creata da re Vittorio Emanuele e dal conte Camillo Benso di Cavour altro non era che una babele di dialetti. C’era una distanza incolmabile 13


tra il Paese dei pochi ricchi benpensanti e la massa sterminata degli analfabeti. Ignoranti non per scelta, ma per disperata conseguenza delle umili origini: chiunque avesse voluto almeno ridurre le divisioni avrebbe dovuto azzerare quel gap, cancellare il buco nero. Investire in due parole che all’epoca, all’alba del Novecento, venivano invece considerate inevitabilmente inconciliabili: cultura popolare. E chissà se nelle sue meditazioni Antonio osava immaginare che proprio i suoi figli, sangue del suo sangue, carne della sua carne, sarebbero stati i protagonisti di uno straordinario approccio alla cultura che esce dalle aule polverose delle élite per avvicinarsi all’uomo della strada (allora si sarebbe meglio detto dei campi). Ci arriveremo a quel momento che a Tonino, d’ora in poi chiamiamolo così, sarebbe stato impossibile vedere. Ah, l’Italia risorgimentale! Forse non per caso Giuseppe, uno dei rampolli di Tonino, sin dalla sua adolescenza esuberante avrebbe sentito battere il cuore per Peppino “il Generale”. Lui, Giuseppe Garibaldi. L’eroe dei due mondi. L’unico simbolo della patria che qualcosa poteva dire ai poveri, ai diseredati, a chi aveva come traguardo obbligato la sopravvivenza. Con tutto il rispetto, Cavour era stato un genio della diplomazia, ma era difficile per un ragazzo di campagna non perdersi nelle trame intricate e talvolta indecifrabili di un asso della politica, dalla spedizione di Crimea agli accordi sottobanco con Napoleone “il Piccolo”, come spregiativamente lo chiamava Victor Hugo. Il re, il Savoia, era bello da vedere nei ritratti e nei monu14


menti per quei baffoni che erano una testimonianza di ostentata virilità: nelle taverne si vociferava delle molte avventure sentimentali collezionate dal monarca, ma a gente abituata alla miseria risultava impossibile identificarsi con il privilegio della dinastia. Quanto a Mazzini, forse aveva ragione con la sua utopia repubblicana, ma era stato dipinto dai preti come un feroce sovversivo, quasi un terrorista. E la Chiesa, seppur ostile al moto unitario della nazione, contava ancora tantissimo, eccome se contava. Ma Tonino, il capostipite, di queste cose poco sapeva. In compenso – persino a sua insaputa! – caratterialmente era una camicia rossa. Era un garibaldino nell’anima. Ci fosse stato, sarebbe stato uno dei Mille. Pensava, come il Generale, che l’azione era tutto. A suo modo, si capisce. Lui non era un combattente, non era un conquistatore, non esagerava con le ambizioni. Ma quanto a intraprendenza, era un generale anche lui. Esuberante, facile alla battuta talvolta smargiassa, uno che al bar non si tirava indietro se c’era da battagliare verbalmente e anche da bere un buon bicchiere. Un brav’uomo, per farla breve. Al brav’uomo, la patria creata da Garibaldi mandò la cartolina precetto mentre l’Europa bruciava. Per lui, classe 1897, le trincee della Prima guerra mondiale questo rappresentavano: il completamento della lotta di indipendenza e liberazione, la restituzione all’Italia di terre che più non potevano essere separate dal regno. C’erano stati illustri strateghi che si erano sgolati per spiegare come e perché il barcollante Impero 15


austro-ungarico sarebbe stato disposto a concedere al Governo di Roma quanto reclamava, senza ricorso a cannoni e baionette. E da un punto di vista storiografico, sebbene la storia meriti di essere revisionata in continuazione, forse avevano ragione. Però, c’era una generazione, la generazione di Panini il ragazzo, che della guerra aveva un’idea romantica. L’orrore di armamenti sempre più crudeli era sconosciuto alle masse. Quella generazione lì si cullava nella epopea degli scontri del Risorgimento. Avanti Savoia, viva Verdi, cioè Vittorio Emanuele re d’Italia! Se non lo conosci, se non lo vedi da vicino, lo scempio della carneficina non riesci a percepirlo. Fu una esperienza terribile. Poiché era coraggioso di natura, Tonino aveva scelto per la sua partecipazione al conflitto il ruolo dell’aviatore. Era affascinato dalle prodezze acrobatiche di Francesco Baracca, l’eroe dei cieli, uno che sarebbe indirettamente entrato nella fascinosa cavalcata di un conterraneo di Antonio, perché il cavallino rampante, suo simbolo, diventò poi il marchio della scuderia automobilistica fondata a Modena da Enzo Ferrari nel 1929. Tornava sempre, nel modo di essere di Tonino, l’irruenza di una fantasia che ardeva libera. Non a caso nell’Italia del primo Novecento una popolarità persino eccessiva aveva accompagnato le liriche di Gabriele d’Annunzio, il poeta della ridondanza, dei sentimenti grondanti, delle parole che riempivano il vuoto senza spiegarlo. Il male della «inutile strage», come la definì il papa, si fece largo, paradossalmente, solo dopo il trionfo di 16


Vittorio Veneto. A costo di un indicibile massacro, le truppe del sovrano Vittorio Emanuele III avevano compiuto la missione, scampando alla catastrofe di Caporetto. La Quarta guerra di indipendenza era stata vinta, anche con l’aiuto di Antonio Panini da Pozza di Maranello. Eh, ma avevano ragione gli antichi Romani! Avevano coniato l’etichetta di “vittoria di Pirro” per descrivere una impresa destinata a ritorcersi contro chi l’aveva realizzata. L’Italia del 1919, l’Italia del dopo Vittorio Veneto, non scampò alla maledizione. Il prezzo pagato era troppo alto. Troppi i morti. Troppi i feriti. Troppi i reduci abbandonati al loro destino. Troppe le ferite lasciate da uno schianto paneuropeo che, soprattutto, non aveva migliorato di un passo la condizione degli umili, dei diseredati, dei poveri. Sull’uno e sull’altro fronte, a prescindere dal risultato, era stato gettato il seme della disperazione. Nessun orizzonte di pace si materializzava. Crudelmente, nella convulsione collettiva era già visibile l’embrione di un altro, più sanguinoso macello. La Prima guerra mondiale, con il suo carico di nobili promesse non mantenute, rappresentò l’addio alle illusioni. Di quali gloriose prospettive potevano cibarsi i popoli, quando la sussistenza, meglio, la sopravvivenza restava l’unico traguardo? I fascisti presero il potere nell’autunno del 1922. Benito Mussolini si era convertito. Inizialmente socialista, era diventato il nemico giurato delle forze della Sinistra rivoluzionaria. Ma era dubbio che in una nazione ancora 17


largamente illetterata, nella quale il diritto di voto era negato alle donne, con un tasso di mortalità infantile altissimo, in una nazione prigioniera di una miseria terribile, era dubbio, davvero, che in un Paese così le masse fossero concretamente interessate alla battaglia per il potere. In assenza di una autentica democrazia pluralista, erano minoranze chiassose a giocare la partita. Due decenni più in là, nei giorni tremendi della guerra civile, dopo l’8 settembre 1943, scrisse Renzo De Felice che in realtà la stragrande maggioranza degli italiani pensava a scamparla, stava alla finestra non per ignavia, ma perché il destino non consentiva, se non agli illuminati, ai colti e ai fanatici, il diritto di una scelta ragionata. Antonio Panini da Pozza di Maranello, nel fatidico ottobre 1922, mese e anno della marcia su Roma delle camicie nere, per un po’ rimase affascinato dalla mitologia del capo, il dittatore chiamato dal destino a rifare grande l’Italia. Raccontò agli amici, Tonino, di avere persino partecipato a quella marcia fatale. Esagerava, e infatti anche in famiglia davano poco peso alle parole in libertà. La verità era, banalmente, che lui con la politica c’entrava poco. Non era un intellettuale. Non era colto. Non era un fanatico. Nemmeno era un vigliacco. L’iniziale simpatia per i fascisti era la conseguenza di un episodio sgradevole: nel 1920 un gruppo di contadini in rivolta se l’era presa con lui perché lo aveva visto a bordo di un trattore. Senza dargli tempo di spiegare, lo avevano scaraventato in un fosso, credendolo un proprietario terriero. Per la rabbia provata, Tonino era andato 18


a iscriversi al fascio. Ma presto quella adesione a labari e gagliardetti si sarebbe trasformata in una infastidita indifferenza. Del resto e per fortuna, nella sua vita c’erano ormai altre priorità . Era arrivato l’Amore. Con la maiuscola.

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