PENNE AL VETRIOLO di Alberto Mazzuca (collana "Clessidra")

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ALBERTO MAZZUCA

Spreca

male

pagati

sindacati

promette pensioni

medicine

regala

mucchio

è un Paese falso

affaristi e di maneggioni

Cover by Alessandro Battara (www.morskipas.it)

In quella cena Mattei fa notare come dei tre partiti di massa la DC sia quella che ha fatto eleggere «il maggior numero di mezze figure; è veramente una “palude” afflitta da uno spirito gregario sconsolante. Tutti mediocrissimi: Gronchi come Tupini». Commenta Ansaldo: «Andiamo bene…».

PENNE AL VETRIOLO

Alberto Mazzuca, romagnolo, giornalista e scrittore, vive a Milano. I suoi libri: I potenti del denaro; Confindustria, una poltrona che scotta; La erre verde: ascesa e caduta dell’impero Rizzoli; La Fiat da Giovanni a Luca, un secolo di storia sotto la dinastia Agnelli; Il mito Alfa; I numeri uno del made in Italy; Torino oltre: venti storie di innovazione della nuova Torino e del nuovo Piemonte; Angeli tra noi, alla ricerca di chi si dona a Dio e agli altri; Guazzaloca, una vita in salita; Recordati, trent’anni di Borsa. Per Minerva sono usciti nel 2013 Gardini il Corsaro, storia della Dynasty Ferruzzi (prefazione di Marco Vitale) e nel 2015 Mussolini e Nenni. Amici nemici (scritto con Luciano Foglietta).

La macchina dei partiti costa. E anche parecchio, già nel 1963 un’inchiesta de Il Mondo aveva calcolato una cifra attorno ai cento miliardi di lire. Il grosso dovuto alla DC e al PCI. Il settimanale aveva anche elencato le fonti di finanziamento: gestione fuori bilancio dei ministeri; enti economici statali e parastatali; governi stranieri; Confindustria; i grandi del capitalismo industriale e della finanza; società di import-export gestite direttamente dai partiti; attività discrezionali della pubblica amministrazione. Un mare di soldi che alimenta la corruzione, gli scandali, il mismanagement, la mala economia in cui si tuffano e prosperano anche i criminali e le mafie di vario tipo e nome. Il mondo degli affari, in particolare quello che ruota attorno alle grandi industrie, si L’Italia lega sempre al sistema democristiano. E il capitalismo di;casa nostra non è più un Paese povero; è male amministrata. mostra così diverse sfaccettature: decine di migliaia di aziende piccole e medie si investe male; spende educare uomini che manda adi servire fanno concorrenza e restano sul per mercato grazie all’abbondanza mano d’opera a basso costo,per a un’alta produttività, a un lavoro non delimpiegati tutto sindacalizzato, a una l’arricchimento di altri Paesi; mantiene conflittualità bassa, a una maggiore evasione fiscale; in Italia sotto l’inchiesta, una o troppo pagati per quello che fanno male e quello grande iniziativa del Corriere della Sera che per due anni ha impegnato in giro per il si lascia imporre salariparla che delle tante cheper non fanno;un daiteam di cinque giornalisti, paese, regione regione, Montanelli piccole imprese che a Milano vivono all’ombra dei giganti «ma gelosamente che difendendo non è economico dare; la propria autonomia e indipendenza». Invece i grandi industriali privati, da Agnelli a saranno pagatedacon monetaMoratti svalutata; ha ferrovie chehanno servono Pirelli, da Pesenti a Falck, Massimo ad Attilio Monti, bisogno anche di appalti, credito agevolato, sovvenzioni nanziamenti a fondo perduto e bene soltanto quelli che nonpubbliche, pagano il fibiglietto; quindi si allineano sulle posizioni governative. Giorgio Galli parla dell’instaurarsi di a malati immaginari; ai chirurghi «un rapporto privilegiato col potere politico, per cui permette all’imprenditore schumpeteriano, amante del rischio e dell’innovazione, si sostituisce l’imprenditore politico integrato di far pagare somme che nessun ospedale straniero, meglio col potere». fornito dei nostri, metterebbe in conto; ha un Si sviluppa anche il fenomeno dei “treni della speranza” che dal Sud, soprattutto impiegati statali dei quali una(quasi gran parte per aziende dalla Puglia di e dalla Sicilia, portano al Nord 1500lavora chilometri percorsi in venti ore e mezzo)private; gruppi èsempre più numerosi di meridionali aff amati di lavoro, in gran costretta a cedere le sue industrie agli stranieri. parte manodopera disperata e a buon mercato. Torino ha una crescita impressionante , con unapiù ricchezza nonnel ’58 sono Insomma, legata alla Fiat, nel 1956 arrivano 44 mila persone, nel ’57 di 50 mila, 42 mila, nelesistente, ’59 superano i 45 facendo mila, neldebiti ’60 quasi 60 mila.cambiali, Nel 1961 con la città supera che vive e firmando il milione di abitanti, assorbendo in dieci anni un numero di immigrati pari alla reciproci inganni, il tutto a profitto di un piccolo gruppo popolazione di una città di medie dimensioni come Brescia. Il paese comincia a essere e digli distributori di quasi irriconoscibile: i contadini lasciano le campagne per fare operai nelle fabbriche o per aprirepolitici negozietti nelle città, la speculazione edilizia s’impenna e i costruttori di piccoli stipendi. si arricchiscono, la produzione industriale cresce e accanto alla grande industria cominciano a svilupparsi in varie zone piccoli imprenditori che si specializzano in determinati prodotti, la Borsa è ancora quasi sconosciuta e poche mani controllano Giuseppe Prezzolini il mercato finanziario favorendo avventure folli, i bilanci delle società quotate sono quasi tutti falsi, in pochi pagano le tasse, compaiono nelle case frigoriferi e televisori, s’immatricolano sempre più auto: 196 mila nel 1957, 209 mila nel ’58, 253 mila nel ’59, 381 mila nel ’60, quasi 500 mila nel ’61. «Neppure il colera è uguale per tutti. (…) Ma i Lauro, i Gava, i costruttori napoletani, i principi partenopei, coloro che figurano in testa nell’elenco dei redditieri, lor signori insomma, com’è che non hanno dovuto mettersi in fila per farsi vaccinare? Com’è che il vaccino, loro, l’hanno subito trovato, e hanno i limoni in casa, e se, Dio non voglia, si ammalano, non gli viene neppure in mente di farsi trasportare al Cotugno? La legge li protegge, la magistratura li rispetta, lo Stato non gli fa pagare le tasse dovute, i pubblici poteri li riveriscono e ora si vede che perché hanno i soldi, unicamente perché hanno i soldi, possono ridersene anche del colera».

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In Italia esiste comunque l’arte dell’arrangiarsi, «una filosofia di vita», dirà Prezzolini. E arrangiandosi il paese riesce a risollevarsi. Secondo Prezzolini, «il personaggio più significativo del tempo fu “il magliaro” al quale andrebbe dedicato un monumento. Salvò la patria. (…) Il governo quasi non esisteva. Gli stranieri lasciavano fare. I metodi si sa quali furono: il mercato nero, la bustarella, la camorra, il duro lavoro, l’aiuto familiare, le raccomandazioni, i sistemi dubbi o illegali, la prostituzione. Così fu rifatta l’Italia. Non fu certo con metodi “costituzionali”». Si arriva quasi all’assurdità: nonostante tanta povertà, scrive Nenni in uno dei suoi diari, Tempo di guerra fredda, «il paese offre, a chi l’osservi superficialmente, una impressione di cuccagna e di spreco. E in verità la classe benestante e ricca è di un cinismo senza uguali». Aumentano infatti i nuovi ricchi, coloro che, racconterà Elena Giacomini in L’Italia allo specchio, «pur appartenendo alla piccola e media borghesia, con astuzia e disinvoltura avevano saputo approfittare delle circostanze e, con mezzi più o meno leciti, si erano ricavati un ruolo insostituibile e redditizio». Gianni Agnelli ha un sogno: arrivare all’alleanza tra produttori e operai su obiettivi comuni. Una «nuova frontiera» nel mondo delle relazioni industriali, decisamente controcorrente rispetto al muro contro muro adottato da Valletta. I suoi primi sforzi sono proprio quelli di svecchiare l’azienda che con Valletta è stata guidata come una caserma piemontese, non ha nemmeno qualcosa che assomigli a un organigramma, nessuno sa (l’unico a saperlo era Valletta) se guadagna, dove guadagna, quanto guadagna. E per modernizzare l’azienda con gradualità (significa sfoltire da un lato la Dalasciando GianNaaPreda FortebracC struttura dei dirigenti casa pera primi quelli cheio. hanno più di settant’anni e ridisegnarla dall’altro con manager si attornia di uomini di fiducia. Meglio, Insieme a GiovanN ino nuovi) Guareschi, Leo Longanesi, dal momento che non ha grande capacità nel valutare gli uomini, si attornia di quelli Indro MontanelLi, GiovanNi Ansaldo, EnNio Flaiano, che lo fanno divertire secondo un metodo, dirà Marco Vitale, «da reggia più che da Mario PanNunzio, ArRigo BenedetTi, Ernesto RosSi, impresa». Ma sa anche utilizzarli con quel cinismo che in fondo, affermerà Montanelli, GiusepP e PrezZolini, CamilLa Cederna, «è l’arte di servirsi degli uomini». È il 12 dicembre 1969, un venerdì.FalL Alle aci, 16.37 Eugenio esplode a Milano una bomba nella Enzo Biagi, Oriana Scalfari, sede della Banca Giorgio nazionale dell’agricoltura di piazza Fontana: diciassette i morti, BocCa, Giampaolo Pansa... una novantina i feriti. Montanelli annota: «Il Vietnam a Milano». Nell’arco di un’ora scoppiano tre bombe a Roma (una vicino alla Banca nazionale del lavoro di via Veneto, due all’Altare della Patria) ma senza vittime. Un’altra bomba è trovata inesplosa a Milano nella sede della Banca commerciale in piazza della Scala. Un piano studiato, complesso. I sindacati parlano subito la stessa sera di «vile attentato fascista perpetrato con l’evidente scopo di atterrire la popolazione e predisporla a un colpo di mano di destra». Nella sede milanese della DC, in via Nirone, il senatore Giovanni Marcora dice in una tempestosa riunione che le bombe fanno parte di un piano voluto dalle destre estreme. Indro Montanelli commenta nel suo diario, I conti con me stesso: «La caccia alle false streghe, per consentire a quelle vere di compiere i loro misfatti, entra nella sua fase critica». La Cederna invece scrive sull’Espresso un articolo sulla MINERVA strage intitolato “Una bomba contro il popolo”. Inizia quella che molti anni dopo, nel 2015, Giampaolo Pansa definirà in La Destra siamo noi «una tragica parodia della guerra civile, recitata soprattutto nelle strade da tanti ragazzi che si pestavano, si sparavano, si accoppavano».

PENNE AL VETRIOLO I GRANDI GIORNALISTI RACCONTANO LA PRIMA REPUBBLICA

Da Gianna Preda a Fortebraccio. I due estremi, dalla destra alla sinistra politica. Ovvero dalla giornalista de “Il Borghese” definita «la tigre» da Prezzolini, la «Maxwell della politica» da Giorgio Torelli e «l’Oriana Fallaci della destra» da Marcello Veneziani, al corsivista de “l’Unità” che nasce borghese, ha un passato da democristiano prima di diventare comunista e trasformarsi in quello che Michele Serra descrive come «un gentiluomo che lavora per la classe operaia», Oreste Del Buono chiama «unico» ed Enrico Berlinguer «un capolavoro». E insieme a loro le migliori firme del giornalismo italiano: Giovannino Guareschi, Leo Longanesi, Indro Montanelli, Giovanni Ansaldo, Mario Pannunzio, Arrigo Benedetti, Ennio Flaiano, Ernesto Rossi, Oriana Fallaci, Camilla Cederna, Enzo Biagi, Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa e altri ancora. Questa è la storia della Prima Repubblica italiana, quella che va dalla Liberazione nel 1945, si butta alle spalle la monarchia, arriva inizialmente alla caduta del comunismo nel 1989 e, in seguito, a Tangentopoli nel 1992. Per dare poi vita alla cosiddetta Seconda Repubblica che si rivelerà solo la brutta copia della Prima. Poco meno di cinquant’anni visti attraverso le loro penne corrosive, aggressive, taglienti, spesso satiriche. Cinquant’anni in cui si agitano e sgomitano per il potere affaristi, speculatori, boiardi di Stato, malfattori, rivoluzionari, golpisti, terroristi. E in cui nasce la partitocrazia, dilaga la corruzione, si espande la criminalità organizzata fino ad arrivare a trattare con lo Stato, si formano le caste, si favorisce il compromesso. Ma ci sono anche gli uomini che tentano di opporsi alla malapolitica, alla malaeconomia e alla malafinanza. A cominciare da un prete non amato dal Vaticano, don Sturzo.


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Sommario

Prefazione ................................................................................................. 7 L’Italia provvisoria................................................................................... 11 La grande paura...................................................................................... 53 E iniziano a turarsi il naso..................................................................... 103 “Ma la Madonna è Dc?”....................................................................... 153 La lunga marcia (verso i socialisti)........................................................ 205 Tra golpe fantasma e supplizi cinesi..................................................... 253 Solo un destino cinico e baro?.............................................................. 301 “Un tornado di follia”........................................................................... 349 Per lor signori un “maoista” al Corriere .............................................. 397 “L’Italia verso una marmellata”............................................................ 447 Come nel Far West................................................................................ 499 Dalla loggia al garofano......................................................................... 555 Crolla il muro. Fine di un’epoca?......................................................... 609 Come prima, peggio di prima............................................................... 663 Indice dei nomi .....................................................................................681 Bibliografia ............................................................................................699

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PREFAZIONE

Non è un saggio di politica o di economia. È solo una storia, la storia della Prima Repubblica italiana, dalla Liberazione e dallo sconcio di quel che è avvenuto a piazzale Loreto sino alla caduta del muro di Berlino che certifica il crollo del comunismo e determina tutto quello che poi avverrà da noi. E cioè la fine della Prima Repubblica con la nascita, dopo il terremoto di Tangentopoli, della cosiddetta Seconda Repubblica che si dimostrerà essere invece uguale alla Prima. «Cambiano i suonatori ma la musica è sempre la stessa», dirà Enzo Biagi. Già, perché la Seconda Repubblica, chiesta quasi a furor di popolo di fronte alla forte voglia di cambiamento espressa dagli italiani, si è dimostrata solo una specie di bufala, utilizzata per far credere a una grande svolta del Paese che invece non c’è stata. La nostra storia, vista con gli occhi delle grandi firme del giornalismo italiano (di destra, di sinistra, di centro), ripercorre in particolare i primi quarantacinque anni di vita della Repubblica italiana. È la storia di un Paese uscito dal ventennio fascista per inoltrarsi nel mondo inesplorato della democrazia, un passaggio che Prezzolini definirà a metà degli anni Sessanta in maniera splendida: il passaggio «dall’educazione della caserma all’educazione della sagrestia». E caratterizzato, meglio ancora bloccato, dalle due chiese che hanno condizionato la vita della Prima Repubblica: la Dc e il Pci. La Dc costantemente al potere con sempre (o quasi sempre) gli stessi uomini che l’hanno fatta diventare un grosso centro di affari con la scusa di dover essere la diga contro il comunismo, il Pci alla costante ricerca del potere facendo leva sulla piazza ma indossando contemporaneamente “il doppiopetto blu” e finendo così per accettare il consociativismo. Con la caduta del comunismo, si sgretola l’impalcatura dell’ideologia comunista, ma si sgretola anche l’impalcatura dell’ideologia anticomunista. E tutto si aggrava, con un’Italia sempre più boccheggiante in un’Europa appannata, a trazione tedesca e con una moneta unica.

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Penne al vetriolo

È una storia con molti protagonisti: politici responsabili e irresponsabili, affaristi, imprenditori, speculatori, idealisti, boiardi di Stato, ladroni, malfattori, galantuomini, rivoluzionari, mafiosi, golpisti, terroristi. E con loro le “penne al vetriolo” del nostro giornalismo, da Gianna Preda a Fortebraccio. La prima fascista, non bella ma con la grinta di una tigre e punto di forza del settimanale “Il Borghese” fondato da Leo Longanesi; il secondo antifascista, borghese, cattolico dallo spirito sottile e dall’ottima cultura, dapprima democristiano e poi comunista, per anni sferzante corsivista de “l’Unità”. Rappresentano i due estremi politici in cui si agita la gracile democrazia italiana, sono un po’ come il “Visto da destra” e il “Visto da sinistra” dei tempi de “Il Candido” di Giovannino Guareschi, il papà di Don Camillo e Peppone. Tra questi due estremi, tante altre grandi firme del giornalismo, molte certamente più famose, più importanti, più determinanti nel tentativo di influenzare, in un senso o nell’altro, quella debole democrazia italiana in cui ognuno vuole la propria libertà ma è pronto a disprezzare quella degli altri, tanto da far dire a Prezzolini che gli italiani «sono uno dei popoli meno liberali del mondo». Longanesi sosterrà che la democrazia italiana ha un solo grande male, essere nata esclusivamente come «avversaria del fascismo morto con Mussolini»; Montanelli sintetizzerà la storia della Prima Repubblica in una lotta tra chi è contro il comunismo e chi è a favore del comunismo; Oriana Fallaci parlerà della Resistenza «come uno dei nostri momenti più belli» ma riconoscerà anche di avere scelto «l’esilio» americano perché era troppo doloroso vivere in un’Italia con gli ideali finiti nella spazzatura; Giorgio Bocca chiederà, anche se sembra già avere la risposta in tasca, se da noi sia davvero possibile non rubare; Mario Pannunzio, antifascista, anticomunista, anticlericale, mostrerà una fortissima passione civile per combattere quella che chiamerà «l’Italia alle vongole», e cioè pasticciona, conformista, corporativa; Scalfari dirà che sin dalla nascita della Repubblica siamo stati guidati da un’oligarchia, «la sola forma di democrazia», mentre è «un pessimo sistema» la democrazia diretta che si esprime attraverso il referendum. Curioso: sono state pochissime le reazioni alla frase del fondatore de “la Repubblica” quando

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anni prima Montanelli era stato preso a pernacchie dall’intellighenzia di sinistra per avere affermato che da noi «le maggioranze non hanno mai contato». Ma al di là delle loro idee, condivisibili o non condivisibili, queste “penne al vetriolo” hanno, chi più chi meno, il grande merito di avere denunciato i guai che da subito sono emersi nel Paese nella quasi indifferenza generale: la partitocrazia, la corruzione, lo sperpero di denaro pubblico, la criminalità organizzata che a un certo punto tratta da pari a pari con lo Stato, le caste di potere e, per dirla alla Fortebraccio, “i lor signori” che si azzannano più che altro per interessi personali e di bottega, il conformismo che, affermerà Ernesto Rossi, acceca i tanti «utili idioti» approdati nel mondo intellettuale di sinistra, le veloci corse per salire ogni volta sul carro del vincitore finendo per attribuire al Paese e agli italiani, che più cambiano e più restano uguali, un simbolo particolare: il camaleonte secondo Gianna Preda e Giorgio Bocca, il gattopardo secondo Montanelli e Massimo Fini. Il libro vuole essere una testimonianza dell’impegno di queste penne al vetriolo, ricorrendo anche a notizie inedite o dimenticate. Una testimonianza per rinfrescare la memoria di chi ha colpevolmente dimenticato il passato e per far comprendere, a chi invece non ha vissuto quegli anni, i motivi per cui oggi ci troviamo in un Paese in declino, con i giovani che non trovano lavoro e sono costretti ad andare all’estero, con il ceto medio quasi cancellato, con politici e dirigenti disonesti, con la povertà in aumento, con buona parte del giornalismo che non fa il suo dovere. Certo, è una storia amara perché documenta, al di là di ogni possibile dubbio, la miseria intellettuale della nostra classe dirigente. Ma quella miseria potrebbe anche essere, è la nostra speranza, il punto da cui ripartire. A.M.

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L’ITALIA PROVVISORIA

La guerra finisce in Italia nell’aprile del 1945 con la liberazione del Nord e i corpi di Mussolini, degli altri gerarchi del fascismo e di Claretta Petacci appesi a Milano a testa in giù ai ganci di un distributore di benzina di piazzale Loreto. La gente è eccitata e in molti fingono di avere vinto la guerra. C’è la corsa a liberarsi dei distintivi del partito fascista, cresce quasi per miracolo il numero dei partigiani, sui muri compaiono scritte di “Viva Nenni”, “Viva Togliatti” e manifesti contro la monarchia e a favore della repubblica. Ma, rileva Indro Montanelli, rientrato proprio in quei giorni a Milano dal rifugio in Svizzera, la città ha un «aspetto calmo e operoso», le manifestazioni politiche sono volute da «una ristretta minoranza», solo «i muri sono rivoluzionari». Ed Ernesto Rossi, anche lui a Milano in «quei giorni di buriana», scrive a Gaetano Salvemini: «Un’insurrezione popolare non c’è stata». Ma si consumano, di notte e di giorno, le vendette, si fa giustizia da soli, diventa spietata la mattanza di fascisti noti e meno noti. Tremila, dirà Giorgio Bocca, i giustiziati a Milano, 12.000-15.000 nell’alta Italia. Saranno molti di più. «Pietà l’è morta, la peste fascista deve essere annientata» scrive su “l’Unità” Giorgio Amendola, alto dirigente del Pci e figlio dell’esponente liberale ucciso, nel 1926, dalle botte degli squadristi. Francesco Saverio Nitti, l’ex premier che è stato tra i primi ad avere abbandonato il Paese alla vittoria del fascismo, ritorna nel maggio del 1945 in Italia dopo il ventennale esilio in Francia e la prigionia in un campo di concentramento tedesco. Dirà: «Quello che mi fu dato di vedere tornando e mi fece dolorosa impressione fu l’esaltazione della violenza partigiana. Senza dubbio vi erano stati partigiani veri e persone che avevano lottato e lottavano ancora coraggiosamente contro il fascismo, così come prima cittadini, anche eroici, che avevano saputo lottare dissimulando i loro sentimenti antifascisti. Ma sapevo anche che tutta l’Italia, per sentimento, per necessità o per calcolo, era stata fascista [...]. Tutti

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si vantavano con me di ciò che avevano sofferto per abbattere il fascismo con loro grave pericolo e invocavano in compenso dure persecuzioni ai fascisti. Quella fredda ferocia antifascista postuma che involgeva tutti mi parve soprattutto falsa». Soffia impetuoso il “vento del Nord” chiesto sull’“Avanti!” da Pietro Nenni, segretario del partito socialista che si chiama ancora Psiup. Il vento di liberazione che sorge a Milano, capitale della Resistenza, per «imporre non una rivoluzione di parole ma di cose» e che non potrà appagarsi di promesse e mezze misure: «Se la salvezza del Paese è nella riconciliazione dei suoi figli, alla riconciliazione si va non attraverso l’indulgenza e la clemenza ma l’implacabile severità contro i responsabili della dittatura fascista e della guerra». Un articolo che fa sorgere dal passato l’ombra di Marat, l’ombra di Lenin, il fantasma dei comitati di salute pubblica. Mario Pannunzio si domanda perplesso su “Risorgimento Liberale”: «È dunque questo vento del Nord, un vento di sangue e di vendetta?». Nenni è a Roma, liberata dagli alleati più di un anno prima, nel giugno del 1944; Vittorio Emanuele III ha ceduto i poteri al figlio Umberto, nominato luogotenente del Regno, ma abdicherà solo il 9 maggio 1946 nel tentativo estremo di salvare la monarchia; al governo c’è Ivanoe Bonomi, un settantaduenne monarchico e conservatore che è già stato premier nel 1921, prima ancora, quindi, dell’arrivo di Mussolini al potere, ed è ora anche presidente del Cln, il Comitato di liberazione nazionale sorto dopo l’8 settembre 1943 e composto dai rappresentanti di sei partiti antifascisti: comunisti, socialisti, democristiani (gli unici tre partiti di massa) e poi gli azionisti del partito d’azione, i liberali e la Democrazia del lavoro, nata nel 1942 su iniziativa di Bonomi e Meuccio Ruini e definita da Emilio Lussu «un partito politico in embrione» in quanto senza seguito tra gli stessi antifascisti. Ora che la penisola è tornata unita, Nenni chiede un radicale cambiamento di passo del governo, una netta rottura istituzionale con il passato, nella convinzione che invece a Roma prevalgano già il compromesso e il tradimento degli ideali della Resistenza. «Colpire in alto [...] e cominciare dall’oligarchia industriale», invoca. Sandro Pertini gli dà man forte: «Nel Nord abbiamo fatto piazza pulita».

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Gli azionisti del partito d’azione sono in sintonia con i socialisti nel volere la discontinuità proprio mentre assistono al ripescaggio nelle alte sfere della politica di vecchi uomini che hanno avuto responsabilità nell’avvento di Mussolini al potere, alla veloce involuzione della lotta politica con una certa indulgenza per la monarchia, alla restaurazione dei compromessi, delle ambiguità, delle vecchie concezioni dei partiti. Emilio Lussu ricorderà una frase ripetuta come un principio assoluto: «Monarchia vuol dire fascismo». Il partito d’azione, nato in clandestinità nel giugno 1942 nell’abitazione romana di Federico Comandini da un incontro di liberali di sinistra, esponenti socialisti ed ex di Giustizia e Libertà, annovera un bel gruppetto di intellettuali, da Norberto Bobbio ad Alessandro Galante Garrone, da Riccardo Bauer e Mario Berlinguer a Piero Calamandrei e Carlo Cassola, da Ugo La Malfa a Eugenio Montale, da Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini a Leo Valiani e Altiero Spinelli. Dispongono di un loro giornale, “L’Italia libera”; hanno un orientamento repubblicano, liberalsocialista, decisamente radicale; sono bene introdotti nelle università e nelle banche ma hanno una debole struttura organizzativa e una scarsa presenza sul territorio; già dopo la liberazione di Roma sono esclusi dal patto che affida il monopolio del sindacato a comunisti, socialisti e democristiani. Montanelli, che non li ha in grande simpatia, parlerà di «robespierrismo da salotto», Giorgio Bocca di un antifascismo di tipo «puritano, ossessivo». Il 21 giugno 1945 nasce il primo governo dell’Italia liberata. E al posto di Bonomi è nominato presidente del Consiglio Ferruccio Parri, azionista e uno dei principali capi partigiani con il nome di battaglia “Maurizio”. Piemontese di Pinerolo, modesto, paziente e occhiali da vista che spesso porta sulla fronte, Parri ha organizzato insieme a Carlo Rosselli la fuga in Francia di Filippo Turati, ha conosciuto il carcere e il confino, ha perso il lavoro al “Corriere della Sera” prima di approdare all’ufficio studi della Edison. Ha 55 anni, i capelli bianchi e il volto serio, si definisce «un partigiano qualunque» al di sopra di ogni partito, è capace di lavorare 14 ore di seguito, mangiare un panino seduto alla scrivania, dormire su una brandina militare. Ed è timido, cortese ma anche rancoroso. Leo Valiani sostiene che non c’è «nessuno più francescano di lui»; Montanelli

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lo dipinge come «un galantuomo», un politico «onesto e probo»; Carlo Levi parla della sua «natura angelica» fatta di «ostinata bontà». Edgardo Sogno, liberale monarchico e altro capo partigiano, racconterà: «Gli volevo molto bene. [...] E poi era molto piemontese. Non pregiudizialmente ostile alla monarchia, anche se diceva: “I re sono come le belle donne, se ti tradiscono una volta, è finita per sempre”». Alcide De Gasperi lo sopporta con fatica, Nenni lo paragona a «una ghiacciaia» perché nei comizi non è un tribuno come è invece lui, dice anzi che ha «meno comunicativa di Bonomi» ma gli riconosce la caratteristica dominante della «coscienza del dovere. È un vero giansenista della politica. Al Viminale [allora sede del governo, ndr] ha portato quel che forse non ci fu mai e cioè un’onestà intransigente». Durissimo il parere di Togliatti, gli dà del «coglione». Vicepresidenti sono Nenni e il liberale Manlio Brosio, il capo dei democristiani, De Gasperi, va agli Esteri, il capo dei comunisti, Palmiro Togliatti, alla Giustizia. E poi Marcello Soleri finisce al Tesoro ma muore poco dopo e al suo posto subentra Epicarmo Corbino, Mauro Scoccimarro alle Finanze, Giovanni Gronchi all’Industria, Giuseppe Romita ai Lavori Pubblici, Ugo La Malfa ai Trasporti, Emilio Lussu all’Assistenza postbellica, Mario Scelba alle Poste, Fausto Gullo all’Agricoltura, Vincenzo Arangio-Ruiz all’Istruzione. I problemi sono enormi: l’industria è in gran parte ancora valida ma sono carenti i trasporti con il 40% delle ferrovie fuori uso, mancano le scorte, la flotta mercantile è ridotta a un decimo; scarso l’approvvigionamento di carbone e grano, il pane è razionato, il latte scarseggia, fiorisce la borsa nera, non c’è lavoro, è alto il numero degli sfollati, molti i fenomeni di banditismo, il contrabbando fa di Napoli il primo porto italiano. Il mezzo di trasporto più comune è la bicicletta, ci si arrangia in tutti i modi, le osterie sono comunque sempre piene di gente, a Milano escono in quel periodo ben diciassette quotidiani anche se quasi tutti con due sole pagine. Nell’Italia delle macerie e della fame è forte l’incubo dell’epurazione. Soprattutto nel Centronord. A Torino Giovanni Agnelli, il fondatore della Fiat che ha 79 anni e sta vistosamente declinando (morirà pochi mesi più tardi, nel dicembre 1945), passa una notte in carcere alle Nuove, è liberato il giorno dopo con tante scuse anche se è accusato di collabo-

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razionismo e se ne torna a casa a piedi; la sua villa è posta sotto la protezione degli uomini della brigata che fa capo al partito d’azione, il comando s’installa al primo piano e Giorgio Bocca, all’epoca uno dei capi partigiani, ricorderà le bevute con gli ottimi vini della cantina Agnelli. Vittorio Valletta, l’unico in grado di poter mandare avanti la Fiat, è invece sequestrato in azienda da operai e partigiani comunisti che lo vogliono mettere al muro, riesce a svignarsela su un’ambulanza e portato al sicuro con l’aiuto degli inglesi e degli uomini della Franchi di Edgardo Sogno proprio quando, in un comizio nella sala mensa di Mirafiori, Giorgio Amendola ne annuncia tra gli applausi la condanna a morte. Valletta sarà poi riabilitato grazie anche al pressing sul Cln degli angloamericani, persino il presidente della potente Bank of America, Amedeo Giannini, dichiara che «per avere aiuti dagli americani bisogna prima ristabilire l’ordine economico interno, l’epurazione toglie uomini capaci da posti che ne hanno bisogno». Due ministri del governo Parri vorrebbero addirittura inviare subito Valletta negli Stati Uniti per sollecitare crediti a favore dell’Italia. A Milano Alberto Pirelli, che ha poco più di sessant’anni, si rifugia in Svizzera dopo essere stato colpito da un procedimento di epurazione da parte del Cln aziendale; ma prima dell’ordine di arresto, gli uomini del Cln si assicurano che sia al sicuro. Scappa in Svizzera anche Franco Marinotti, numero uno della Snia, mentre rifiuta di farlo Guido Donegani, responsabile della Montecatini: considerato “nemico del popolo”, è rinchiuso a San Vittore, processato e prosciolto. Ma c’è chi parla di sentenza comprata: nuovo mandato di cattura e questa volta Donegani fugge scegliendo la latitanza; si nasconde per più di un anno, è nuovamente assolto, morirà a settant’anni nell’aprile 1947 a Bordighera in un grave stato di deperimento psicofisico. Agostino Rocca, uno dei fondatori della siderurgia italiana, numero uno della Dalmine e direttore generale dell’Ansaldo, è arrestato per collaborazionismo, nonostante abbia rifiutato la tessera del partito fascista durante la Repubblica di Salò e sia stato incarcerato due volte per tradimento e propaganda antifascista. Una volta in libertà, Rocca preferirà nel febbraio 1946 andarsene in Argentina dove costruirà quell’impero industriale che prende il nome di Techint.

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Angelo Rizzoli, l’editore diventato ricco sotto il fascismo pur vantandosi di non aver quasi mai indossato la camicia nera, è prelevato in azienda a Milano da cinque uomini armati, caricato su un camioncino e trasportato nei dintorni di Monza dove è processato da un improvvisato tribunale del popolo. Ricompare la sera in azienda, sembra di colpo invecchiato, dice di essere stato assolto perché durante il fascismo ha dato lavoro anche agli antifascisti, forse tira in ballo qualche altra giustificazione. Particolare curioso: Rizzoli convince i partigiani, non convince invece il comando alleato che gli nega l’autorizzazione per l’uscita di “Oggi” perché lo considerano troppo compromesso con il fascismo. Così, per fare uscire il settimanale, deve ricorrere a un escamotage: accetta che sia Edilio Rusconi, il quale non ha invece problemi con gli alleati avendo fatto parte nella Resistenza del gruppo Sogno, a coprire giuridicamente il ruolo di editore di “Oggi”. E solo nel 1948 Rusconi firmerà l’atto di cessione della testata alla casa editrice Rizzoli. Rachele Mussolini è internata per tre mesi a Terni in un campo di concentramento e nel luglio 1945 trasferita con due figli, Romano e Anna Maria, a Ischia. Faranno la fame. Vittorio Mussolini, il primogenito, riesce a nascondersi prima in un collegio milanese retto dai frati, quindi in un orfanotrofio a Rapallo, infine a Roma in un istituto religioso. Poi riuscirà ad andare a Buenos Aires. Edda, la vedova di Galeazzo Ciano, è in Svizzera, prima confinata in un convento e poi in una clinica: venti giorni prima dell’uccisione del padre, ha firmato il contratto col “Chicago Daily News” per la pubblicazione dei diari di Galeazzo. Ma in Svizzera è ospite non desiderata. Nell’agosto 1945 è così espulsa, consegnata alla frontiera di Chiasso agli americani che la portano prima a Milano e poi a Grosseto, alla fine è condannata a due anni di confino a Lipari, la stessa isola in cui il fascismo aveva inviato migliaia di oppositori. Cercheranno anche di toglierle tutti i beni. Edda chiederà aiuto a Pietro Nenni: da piccola, ai tempi in cui Nenni e Mussolini erano amici e finivano insieme in carcere per le loro idee rivoluzionarie, lei lo chiamava “zio”, una volta gli aveva fatto anche la pipì sui pantaloni. E “zio” Nenni le darà una mano. Va meno bene alle due aquile reali regalate a Mussolini e custodite in un bel gabbione alla Rocca delle Caminate. Con il ritorno

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alla libertà la vendetta colpisce anche loro. La gabbia è aperta e le due aquile sono prese a bastonate. Una tenta di fuggire ma cade subito a terra con un’ala rotta. E rimane stecchita sotto un’altra scarica di legnate. L’altra perde un occhio ma riesce a volare via. Tutti si scoprono antifascisti L’Italia esce dal conflitto con «quaranta milioni di fascisti – riconoscerà sessanta anni dopo Eugenio Scalfari in un’intervista a Pietrangelo Buttafuoco – che scoprirono di essere antifascisti». E che accettano, osserverà Giordano Bruno Guerri, «la religione dell’antifascismo proprio come vent’anni prima avevano accettato quella fascista, perché era meglio fare così, perché era l’aria che tirava, perché tanto la nuova religione, come la passata, chiedeva solo ciò che gli italiani danno a qualunque credo vincente: un’adesione più formale che di contenuto». Una religione depositaria dei valori della Resistenza che Montanelli definirà «un mito ancora più falso di quello del Risorgimento» perché, spiegherà a Tiziana Abate in Soltanto un giornalista, «la Resistenza non era stata affatto, come pretendeva d’essere, la lotta d’un popolo in armi contro l’invasore, bensì una lotta fratricida tra i residuati fascisti della Repubblica di Salò e le forze partigiane, di cui l’80% si batteva (quasi mai contro i tedeschi) sotto le bandiere di un partito a sua volta al servizio di una potenza straniera». Ernesto Rossi, con più di dieci anni di carcere e di confino all’isola di Ventotene dove insieme ad Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni aveva redatto il manifesto sul federalismo europeo, si mostra con Salvemini molto preoccupato: «Non si sa con quale materiale umano costruire un’Italia democratica [...]. Noi antifascisti dalla “marcia su Roma” siamo quattro gatti. Gli altri antifascisti quasi tutti applaudirebbero ancora Mussolini se non avesse trascinato l’Italia in questa guerra bestiale». E in un’altra lettera indirizzata sempre in quei giorni a Salvemini conclude sconsolatamente: «Non bisogna farsi illusioni. Il fascismo non era Mussolini e una piccola cricca di delinquenti. Era il popolo italiano». Dopo vent’anni di dittatura, quasi cinque di guerra con il Paese spaccato in due e con un aspro conflitto civile nel Centronord,

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può emergere solamente un’Italia inquieta, ambigua, confusionaria, debole. Un’Italia provvisoria. Giovannino Guareschi, che solo alla fine di agosto del 1945 riesce a lasciare la Germania e rimettere piede nel suo Paese dopo due anni di prigionia, intitola proprio così, Italia provvisoria, un suo libro del 1947 con gli italiani divisi in tre grandi categorie: quelli che la pensano in un certo modo, quelli che la pensano in maniera del tutto opposta e quelli che non pensano per niente. Anche se in realtà, aggiunge utilizzando l’arma del paradosso, pure gli appartenenti alle prime due categorie risultano alla fine classificabili con gli italiani che non pensano affatto. Per sentirsi così qualcuno, sostiene, gli italiani hanno bisogno di credersi sovversivi e di essere contro qualcosa: «O per la Juventus o contro la Juventus, o per Verdi o per Wagner, o per i bianchi o per i neri: nello sport, nella musica, nella politica, tutto diventa per l’italiano una questione di fede». Carlo Levi divide invece gli italiani in “contadini” e “luigini”. Autore nel 1945 di Cristo si è fermato a Eboli e nel 1950 de L’Orologio sull’esaurirsi della stagione di speranza nata dalla Resistenza, Levi vede nei “contadini” «tutti quelli che fanno le cose, che le creano, che le amano, che se ne contentano». Quindi i contadini, gli imprenditori, i tecnici, gli operai, lo sono anche gli artigiani, i medici, i matematici, i pittori, le donne («ma quelle vere, non quelle false»), persino gli intellettuali. “Luigini” sono «gli altri, la grande maggioranza della sterminata, informe, ameboide piccola borghesia, con tutte le sue specie, sottospecie e varianti, con tutte le sue miserie, i suoi complessi di inferiorità, i suoi moralismi e immoralismi, e ambizioni sbagliate, e idolatriche paure... Sono quelli che dipendono e comandano; e amano e odiano le gerarchie, e servono e imperano...». Una «folla» di burocrati, statali, bancari, militari, magistrati, avvocati, poliziotti, parassiti, industriali e commercianti che si reggono sui miliardi dello Stato, anche i preti. E poi i politicanti, tutti, «di destra e di sinistra, rivoluzionari o conservatori o reazionari che siano o pretendano di essere». Il tempo della Resistenza è stato quindi “contadino” («Ci si riconosceva, così allo sguardo, a fiuto. Si era tutti d’accordo. Ciascuno era al suo posto») ma i “luigini” sono nel Paese la maggioranza. Anche la politica è “luigina”, «uno sta-

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gno di interessi e di intrighi di cui sfuggiva la ragione, un mondo chiuso e impenetrabile». Restringe il campo Carlo Muscetta, trentacinquenne di Avellino, studioso di letteratura italiana, critico e poeta, definito da Giaime Pintor «colto, arguto [...], strano miscuglio di umanista e intrigante meridionale» e dipinto da Carlo Levi come un fanatico settario nonostante un «tenero viso di prete-bambino». È uno scrittore già apprezzato durante il fascismo da Giuseppe Bottai, è consulente della casa editrice Einaudi insieme a vari intellettuali di sinistra, è anche primatista nel cambiare casacca politica per cui, grazie a quella che chiama «dissimulazione onesta», ha cambiato quattro partiti in quattro anni: prima fascista, poi azionista, quindi in una concentrazione repubblicana formata da fuoriusciti del partito d’azione, infine comunista. Nel 1947 Muscetta farà su “l’Unità” una distinzione tra «uomini non qualunque» e «uomini qualunque». I primi sono gli antifascisti iscritti al Pci e tutti coloro che aderiscono alle battaglie comuniste in nome di una superiorità «etica e morale» dei comunisti, quindi sono «uomini di qualità», i “migliori”; i secondi sono tutti coloro, antifascisti compresi, che invece non riconoscono e non condividono la superiorità etica dei comunisti, quindi sono semplicemente “non uomini”. Mario Pannunzio, giornalista trentacinquenne allievo di Leo Longanesi e vicino a Benedetto Croce, scrive sul giornale che ha fondato, “Risorgimento Liberale”: «L’Italia, come il bastimento di Ibsen, porta un cadavere nella stiva. Quel cadavere è il cadavere del fascismo. I vecchi piloti della nave ignorano o vogliono ignorare. Ma l’equipaggio più giovane e più sveglio è colpito dall’orribile persistente odore che avvelena il respiro. Il fascismo è stato per i minori di quarant’anni la prima e l’unica spietata esperienza politica. Molti hanno creduto appassionatamente, altri si sono lasciati ingannare senza resistenza. Ebbene, è proprio per questo che sulla maggior parte di essi pesa una condanna che toglie ogni ragione di vita. Troppi devono nascondersi, restare da parte. Nello stesso modo che durante il fascismo era delitto l’essere antifascista, oggi è delitto essere stato, senza colpa, iscritto a un partito che si chiama fascista. Nessuno si alza a parlare in nome di un’intera generazione infelice e ripudiata».

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Giuseppe Prezzolini, il fondatore di due riviste come il “Leonardo” e “La Voce” da cui era emerso il meglio del fascismo e dell’antifascismo quando fascismo e antifascismo ancora non esistevano, si trova sempre negli Stati Uniti dove vive dal 1929 insegnando alla Columbia University. E ai suoi studenti americani dà questo giudizio sulla fine della guerra in Italia: «Il tentativo di formare uno Stato nazionale è fallito. L’Italia sarà una provincia dell’impero europeo». Ancor prima, all’inizio del conflitto, aveva detto: «Se vince l’Inghilterra, l’Italia è frolla; se vince la Germania, l’Italia è lessa». E quando anche l’Italia era entrata in guerra: «Se si vince si diventa una provincia tedesca, se si perde una russa. In ogni modo l’Italia del Risorgimento è finita». Nel 1977 Prezzolini, più che novantenne, darà questo giudizio sul drammatico periodo dell’Italia divisa in due: «[...] fascisti e antifascisti hanno collaborato alla rovina dello Stato italiano e si sono dati una mano per distruggerlo: i fascisti dichiarando la guerra, gli antifascisti facendo vedere agli alleati che l’Italia era disunita e quindi la più vulnerabile. I fascisti, così, consegnarono l’Italia alla Germania; gli antifascisti agli alleati. Tutti e due prepararono la schiavitù politica sotto lo straniero, che essi preferivano alla vittoria dell’avversario politico interno, cioè italiano. I fascisti non capirono che la Germania non lavorava per il fascismo ma per sé; gli antifascisti non capirono che gli alleati non lavoravano per l’antifascismo ma per sé». Pensieri che non scalfiranno l’intramontabile definizione data da Prezzolini, ancora nel lontano 1921, nel Codice di vita italiano: «I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi». Nel clima ciellenista nasce la partitocrazia I partiti antifascisti, uniti nell’azione armata contro Mussolini, sono nella realtà divisi negli obiettivi. Si dividono tra repubblicani e monarchici, estremisti e moderati, laici e cattolici, progressisti e conservatori, comunisti e non comunisti, sono divisi anche al loro interno. Si scontrano e si sfibrano secondo quella che Mario Pannunzio definisce la «strategia della mangusta», ovvero assimilare l’avversario o colpirlo dopo avergli fatto abbassare la guardia, mentre Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini parlano della tecnica

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del «deglutirsi» a vicenda. In questa lotta passionale per il potere dopo un così lungo silenzio c’è anche un paradosso: inizialmente nessun partito vuole essere di destra, né essere considerato conservatore. I partiti antifascisti, dai democristiani ai liberali, dai socialisti ai comunisti sino agli azionisti, sono talmente impegnati a essere antifascisti da non volersi nemmeno confondere con quel ceto medio moderato che in passato, sotto la dittatura di Mussolini, era stato semplicemente alla finestra. Nel 1977 Claudio Quarantotto pone a Prezzolini in Intervista sulla Destra proprio questa domanda: «Nell’immediato Dopoguerra [...] dove sono i conservatori?». E Prezzolini: «Sono nella Democrazia cristiana che, almeno per un certo periodo, è un partito conservatore, anche se non voleva e non vuole riconoscerlo. Ma forse perché deve battere la concorrenza dei comunisti, presso la massa operaia, e quindi cerca di apparire in un certo modo». Per quanto espressione di quel mondo cattolico che nel complesso ha accettato il fascismo, la Democrazia cristiana – nata nell’ottobre 1942 in clandestinità nell’abitazione milanese di un imprenditore, Giorgio Enrico Falck – non è ancora il contenitore che sarà in seguito ma è già pesantemente influenzata dalle diverse possibilità di intendere il partito cristiano. Repubblicana al Centronord e monarchica al Sud ma comunque sostenitrice di una cooperazione fra le classi e non del predominio di una sulle altre, ha già perso per strada le frange dei cattolici comunisti di Franco Rodano e dei cristiano sociali di Gerardo Bruni ed ora è strattonata da tre diverse tendenze: una di centro, la più forte, formata in larga parte dagli ex popolari sturziani e portata più per la mediazione che per le scelte integraliste. Ne fanno parte De Gasperi, che ha la leadership del partito, Attilio Piccioni, Giuseppe Spataro, Mario Scelba, Umberto Tupini, Bernardo Mattarella, Giulio Andreotti. Una tendenza liberal-cattolica, con il conte Stefano Jacini, espressione del patriziato lombardo, Francesco Maria Dominedò, avvocato e specialista nel diritto della navigazione, Giuseppe Pella, biellese esperto di problemi economici e finanziari, esponenti dell’Azione cattolica come Luigi Gedda: è favorevole a una rinascita spirituale e cristiana del mondo cattolico ma con una visione anticomunista. Infine una tendenza progressista ma con sfumature diverse, da quella di Giovanni

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Gronchi, derubricata dai giornali a «un’opposizione personalistica e capricciosa» dello stesso Gronchi nei riguardi di De Gasperi, a quella molto più radicale dei cosiddetti “professorini”: Giuseppe Dossetti, il leader indiscusso, Amintore Fanfani, Giuseppe Lazzati, Giorgio La Pira. Una Dc quindi con diverse anime che non la fanno essere né un partito borghese né tanto meno un partito rivoluzionario ma alimentano quella che Sandro Setta definirà l’«illusione» della classe dirigente democristiana: essere a capo di un blocco più progressista che moderato. Lo stesso De Gasperi ripeterà più volte: «La Dc è un partito di centro che si muove verso sinistra». Non vogliono essere considerati di destra nemmeno i liberali che infatti si dichiarano di centro, Edgardo Sogno parlerà di una «palude centrista raccolta attorno a Croce». Oltre a tutto il piccolo partito liberale, ricostituito dopo il 25 luglio 1943 per iniziativa di alcuni esponenti storici del liberalismo italiano come Croce ed Einaudi, è anche diviso tra monarchici (la gran parte) e repubblicani (i più giovani). Addirittura i monarchici non sono nemmeno d’accordo tra loro: Croce ma anche Alessandro Casati, Einaudi, Soleri, considerano tutti i Savoia troppo compromessi con il fascismo; Manlio Brosio salva invece Maria Josè, la vorrebbe anzi per il suo antifascismo al posto di Umberto fino al momento di fare salire al trono lo stesso Umberto. Per un liberalismo decisamente riformista è un gruppo molto determinato di trentenni e quarantenni antifascisti e anticomunisti: Pannunzio, direttore del “Risorgimento Liberale” che è il giornale ufficiale del partito; Nicolò Carandini, aristocratico e benestante, genero di Luigi Albertini, ambasciatore a Londra prima di far parte della delegazione alla Conferenza di pace di Parigi; Leone Cattani, avvocato umbro a cui è affidata la segreteria del partito. Pannunzio è convinto (illudendosi) che il partito liberale non sia più quello di un tempo, ora è «un partito nuovo, giovane e progressivo», non è di destra, non è conservatore, non difende gli interessi dell’alta industria, dell’alta borghesia, dell’alta finanza; anzi, scrive su “Risorgimento Liberale” ancora nel 1944, essere liberali significa «essere socialisti in modo più avveduto e attuale di quel che credono gli epigoni di Marx...». Infine il Pci. Palmiro Togliatti, in Italia dal marzo del 1944 dopo aver trascorso diciotto anni da fuoriuscito, ha da Stalin la direttiva

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(ma la conferma si avrà solo molti anni più tardi, con la testimonianza di Krusciov e con i documenti emersi dagli archivi sovietici dopo la caduta del comunismo) di prendere il potere in maniera democratica dal momento che, con gli accordi di Yalta, l’Italia rientra sotto l’orbita americana e un’insurrezione armata sarebbe stata repressa dai soldati americani. Così i comunisti italiani entrano, ai tempi ancora del Regno del Sud, in due governi monarchici creando uno strappo così forte da essere bollato da un azionista pugliese, Vincenzo Calace, come «il compromesso liberale-comunista con la monarchia». Togliatti vuol fare del Pci il partito guida dell’antifascismo, un “partito nuovo” dice, un partito di massa in grado di dare vita a una politica di «democrazia progressiva», socialmente avanzata e costituzionale. Un partito con una larga base operaia, pronto a distribuire patenti di antifascismo, ad accogliere senza una dichiarazione preventiva di fede marxista anche quegli intellettuali e «compagni di strada» di estrazione borghese e popolare che Pannunzio chiamerà «gli zelanti neofiti dell’antifascismo», ad espellere o delegittimare chi la pensa diversamente e non accetta un’alleanza subalterna. E governare insieme agli altri due partiti di massa, i socialisti e i democristiani, non sotto la spinta di un gruppo di «professionisti della rivoluzione» ma indossando “il doppiopetto blu”. O, per dirla come Giorgio Bocca, «recitando la parte del gentiluomo liberale». Già fisicamente Togliatti ha poco del rivoluzionario. Fabrizio Onofri, a lungo antifascista «da caffè e da salotti», ne darà questo ritratto nel 1949 in Esame di coscienza di un comunista: «Piccolo, con quel suo vestito blu spigato, gli stivaletti alti, neri, la forfora sul bavero, gli occhialetti tondi, la voce un po’ strascicata e l’accento di chi ha vissuto a lungo all’estero. Era il classico ritratto del funzionario del Cominform. [...] Affabilissimo e impenetrabile, a volte sarcastico, si esprimeva con l’umorismo di un attempato professore che parla alla scolaresca. Emanava un fascino freddo, come il motore di una macchina elettronica: si sentiva il leggero scricchiolio dell’intelligenza in moto...». Nenni, anche lui affascinato, ne parla come di una «macchina cerebrale». Nasce quello che Nello Ajello definirà «il mito di Togliatti». Diventerà infatti “il Migliore”.

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