POTERE ROMAGNOLO. Uomini e politica. Idee, obiettivi e contraddizioni, di chi guida il cambiamento

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abbiamo avuto noi, il modello economico e politico romagnolo va rivisto. Coloro che possono decidere affermano di esserne consapevoli.

MARIO RUSSOMANNO

I nostri figli hanno meno opportunità di quelle che

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Chi sono? Sono sulla strada giusta? Hanno sul serio intenzione di cambiare le cose? cosa ci riserva il futuro.

POTERE ROMAGNOLO

Con questo libro cerchiamo di scoprirlo e di capire

POTERE ROMAGNOLO

Mario Russomanno vive da sempre in Romagna. È autore di rubriche giornalistiche, saggi e romanzi. Da sedici anni conduce la trasmissione Salotto Blu su VideoRegione. Per contattare l’autore: mario russomanno. russomannomario54@gmail.com

Uomini e politica. Idee, obiettivi e contraddizioni di chi guida il cambiamento

MINERVA

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CLESSIDRA Collana di saggistica storica

MARIO RUSSOMANNO

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POTERE ROMAGNOLO Uomini e politica. Idee, obiettivi e contraddizioni, di chi guida il cambiamento

Direzione editoriale: Roberto Mugavero Redazione: Elisa Azzimondi Grafica e impaginazione: Ufficio grafico Minerva

© 2016 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata.

POTERE ROMAGNOLO Uomini e politica. Idee, obiettivi e contraddizioni, di chi guida il cambiamento

ISBN 978-88-7381-836-6

Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 info@minervaedizioni.com www.minervaedizioni.com

MINERVA


INDICE

Vogliamo essere felici

p. 9

Se stiamo assieme ci sarà un perché

p. 13

Gioie e dolori del “partitone”

p. 15

Costo o investimento?

p. 19

All’inizio fu Romagna mia

p. 21

Fiducia, basta la parola

p. 23

La politica, sale dell’esistenza

p. 27

Autonomia romagnola? Grazie, non serve

p. 29

La regione Emilia-Romagna, un affare su cui discutere p. 31 Il potere è a Bologna

p. 33

Il Pci pigliatutto

p. 35

Romagna, provincia di Bologna

p. 39

Le acque e gli studi

p. 41

Ci si laurea in Romagna!

p. 45

Bologna dà, Bologna riprende

p. 49

La Waterloo dei partiti

p. 53

Regione Romagna, sogno e parolaccia

p. 55

Nuovi scenari, la Romagna s’interroga

p. 59

La Auslona, esempio di area vasta. Ma quanto vasta?

p. 61

Il modello economico traballa

p. 65

Politica e banche

p. 71

O torna la fiducia o è notte

p. 73


INDICE

Politica e cooperazione, baci e abbracci?

p. 77

Povertà e riscatto

p. 79

Il partito, grande fratello

p. 83

Dagli amici mi scampi

p. 87

Da capitale morale ad hub

p. 91

L’area metropolitana, chi ce l’ha e chi no

p. 97

Le imprese incalzano

p. 101

Cosa serve e perché

p. 109

Nel Pd non si dorme, si litiga. Fino a poco tempo fa

p. 117

Lo strappo forlivese

p. 119

Irrompe la provinciona, tutti contro tutti

p. 123

I vizi della Regione

p. 129

O si fa la Romagna o si muore. O no?

p. 133

Eppur si muove…

p. 137

Associazioni in movimento

p. 145

Potere romagnolo

p. 149

Il fischio d’inizio

p. 153

Comuni sospesi tra l’essere e il non essere

p. 159

Utili. Oppure no.

p. 161

Conclusioni

p. 165

a Pupa, Nico e Nina.


VOGLIAMO ESSERE FELICI

In Romagna si vive bene? Sì. Certamente meglio di quanto capitasse ai nostri nonni, scampati ai bombardamenti, agli anni feroci e insanguinati del Dopoguerra, alla fame. Quella che loro stessi ci hanno raccontato e che non era correlata solo alla penuria alimentare registrata ai tempi del fronte bellico. Di fame ce n’era stata da vendere anche prima e dappertutto, dalle nostre parti. Oggi le cose vanno meglio. La fame è scomparsa, alcune malattie micidiali anche. Le donne lavorano, sono più libere, i loro uomini non rincasano la sera schiacciati dalla fatica di una vita dura e breve. I ragazzi studiano e viaggiano. Hanno più occasioni dei loro coetanei che vivono nel Sud italiano e nella maggior parte delle aree abitate del mondo. Gli adulti guardano la televisione in schermi da quaranta pollici e in ufficio, prima o poi, l’argomento è quello del weekend da trascorrere nel centro benessere di qualche amena località. Rimane anche il tempo, e l’energia, per coltivare passioni, sport, talenti. Per fare volontariato o associazionismo. Tutto ciò dà la felicità? Chiedetelo a un filosofo, al parroco, a un cantante rock. Non posso esservi d’aiuto, non ho fatto quelle scuole. Però so che potrebbe non durare. Perché? Perché, per dirne una, i nostri figli costituiscono la prima generazione che produrrà meno ricchezza della precedente. Non è un bel vedere. La cosiddetta “generazione Erasmus”, al di là delle suggestioni cosmopolite alimentate da percorsi universitari che non uniscono al fascino la concretezza, arranca tra utopie, precariato e remunerazioni che assomigliano più a sus-


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sidi che a stipendi. Professioni un tempo alla portata di tanti sono diventate inaccessibili, considerando che, per esempio, ci sono più di mille iscritti all’albo degli avvocati di Forlì e Cesena e che altrettanti sono gli architetti affiliati all’ordine di Rimini. Il mercato è saturo e lo sarà per molto ancora. Le Ausl annunciano che serviranno nuovi medici, ma per frequentare quegli studi occorre trasferirsi ad Ancona, Bologna, Firenze, Parma con percorsi che durano una decina d’anni e che sono, di fatto, riservati ai ragazzi ricchi. Come lo erano stati fino a cinquanta-sessanta anni fa. I ragazzi s’inventano mestieri come possono, nascono vinerie e palestre, scuole di danza e di meditazione, ma chiudono aziende con cento dipendenti. I sindaci sbandierano la realizzazione di giardini e piste ciclabili, iniziative meritorie che descrivono una società aperta allo stare assieme e al benessere, ma intanto i centri storici si spopolano di negozi, annichiliti dal crollo verticale dei consumi. La crisi economica ha cambiato i connotati della Romagna. Altrettanto, anche più, la sta cambiando un’immigrazione tanto vasta che, comunque la si giudichi, non è fuori luogo definire epocale e alla quale le nostre comunità politiche e sociali sono, non per colpa loro, impreparate. Su questo argomento, al di là delle schermaglie politiche o delle disquisizioni tra anime belle e brutte, nessuno sa, in Romagna e ovunque, dove mettere le mani; per rendersene conto basta sfogliare la cronaca locale in un qualsiasi giorno dell’anno in una qualunque delle nostre città. Un esempio: il Carlino di Rimini del 18 Agosto 2016 propone una intervista di Mario Gradara al prefetto, Giuseppa Strano Matera, che esorta i Comuni (evidentemente recalcitranti) ad accogliere senza indugio una nuova ondata di profughi dopo avere inviato ai sindaci una lettera dai toni ultimativi. Due pagine oltre, il quotidiano, sempre vigile sui mutamenti sociali in atto, riporta la protesta di tanti riminesi che non tollerano più che il parco Cervi, polmone cittadino e principale percorso di

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collegamento tra centro storico e mare, sia ostaggio di gang di spacciatori magrebini e senegalesi. Non mi accodo alla schiera, sempre più numerosa in verità, di coloro che affermano che troppi migranti senza nulla da fare moltiplichino necessariamente la delinquenza, tuttavia non si può negare l’esistenza di un circuito impazzito, che i giornali registrano, tra direttive statali di dubbia applicabilità, zelanti funzionari in carriera, sindaci impossibilitati a corrispondere, raccolte di firme, comitati di protesta e comunità nelle quali una consolidata tradizione di accoglienza si va spegnendo a causa di ansie che sarebbe sbagliato bollare come ingiustificate. La globalizzazione, poi, con i suoi effetti sulla cultura, sulla concorrenza e sul senso di appartenenza, fa della Romagna qualcosa di diverso rispetto a prima. Perché cambia il suo ruolo nei confronti del mondo. Ammesso che un ruolo intenda continuare ad averlo. Se vuole conservare quel ruolo, la nostra terra deve darsi una mossa. La Romagna, che la cosa vada bene al resto della regione o no, deve darsi una visione comune, diventare un’orchestra che suona la stessa musica da Riccione a Bagno, da Coccolia a Talamello. Noi romagnoli, poi, la musica l’abbiamo inventata, nel settore non abbiamo paura di nessuno. Dobbiamo affrontare le sfide della modernità assieme, offrendo, ciascuna persona e ciascun territorio, il meglio di sé. Superando incomprensioni e limiti, un po’ come ha fatto l’Italia di Conte agli Europei dello scorso giugno, e stupire tutti, a cominciare da noi stessi. Altrimenti non ci porremo più il quesito di prima, se siamo felici oppure no. Perché se saremo costretti a vedere i nostri figli girare a vuoto nella costruzione del proprio futuro, felici non saremo di sicuro.


SE STIAMO ASSIEME CI SARÀ UN PERCHÉ…

Sono tanti, ultimamente, a dichiarare di voler fare, della terra che va da Imola a Cattolica, dalla Campigna al mare, un “sistema”. Di più: leader politici che hanno in mano le chiavi delle Istituzioni e del futuro dichiarano che non si può fare a meno di attivarlo quanto prima, questo benedetto “sistema”. Un’ottima idea, del resto: chi potrebbe ragionevolmente affermare il contrario? Con queste pagine proveremo a capire se sia realizzabile e da quanti condiviso. Se chi detiene il potere decisionale sia consapevole delle esigenze che la Romagna manifesta e sia intenzionato ad agire di conseguenza. Se intenda muoversi, in quale direzione e per fare cosa. Dalla realizzazione di questo sistema (d’ora in avanti lo scriverò senza virgolette) dipende, per altro, secondo autorevoli osservatori, parte considerevole del nostro benessere e di quello delle generazioni a venire. Non si tratta, dunque, di un tema secondario. Per renderci conto di come stanno le cose occorre volgere lo sguardo indietro. Quella del sistema Romagna è idea nuova? Qualcosa si è fatto in passato? Perché solo adesso, e così insistentemente, se ne parla? Quali vantaggi se ne potrebbero trarre? Proveremo a dare risposta a tali quesiti scorrendo, senza filtri di natura ideologica, avvenimenti passati. Molti li ricordano. Chi è giovane, beato lui, ne potrà trarre invece motivi di riflessione. Poi incontreremo i protagonisti del presente. Coloro che hanno il compito di prendere decisioni essendo investiti di un mandato popolare. Vengono tutti dalle file del Partito Democratico. È una constatazione, non


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una preferenza. Le città della Romagna sono guidate da persone che si richiamano al Pd. Le Unioni dei Comuni idem. La maggioranza dei parlamentari e dei consiglieri regionali sono iscritti al Pd. Alla guida degli enti di secondo livello, delle aziende dei trasporti o sanitarie, delle società e dei consorzi pubblici ci sono persone indicate dal Pd. Dunque, per quanto autorevoli personalità politiche militino anche in altri partiti o movimenti, non si può essere discussione su un punto: se vuoi capire cosa bolle nella pentola della Romagna è al Partito Democratico che ti devi rivolgere. Amen. Ci può essere, del resto, un sistema Romagna senza che se ne occupi, che lo promuova, il Pd? La risposta è no. Convince, sul punto, la riflessione di Gian Antonio Mingozzi, acuto osservatore dei cicli della politica, repubblicano, già presidente della provincia di Ravenna, fino al giungno scorso vice sindaco della città, sorridente, pragmatico e schietto come chi è cresciuto nei circoli popolari, quelli dove se dici le bugie gli amici ti girano la schiena: «senza il Pd non se ne parla. È l’unico grande partito rimasto; in grado, se lo vuole, di attivare collegamenti virtuosi tra le città al fine di varare progetti comuni. E ce ne sarebbe bisogno come del pane, basta pensare a come siamo indietro nel settore dei trasporti pubblici e della viabilità». Ma il Pd lo vuole davvero creare questo sistema? L’ho chiesto a un altro abituato a stare in mezzo alla gente e a dire quel che pensa. È Giordano Conti, per due legislature sindaco a Cesena, tornato a insegnare architettura e a scrivere libri. Figlio di un muratore comunista, vota Pd sempre e comunque ma non gli hanno ancora tagliato la lingua: «penso lo voglia, in termini generali, ma non sono certo che riuscirà a superare i conflitti di campanile. Creare il sistema della Romagna sarebbe indispensabile ma neppure ai tempi del Pci, che esercitava sui sindaci un ascendente fortissimo, si riusciva a far sedere troppo spesso, e proficuamente, allo stesso tavolo le città romagnole».

GIOIE E DOLORI DEL “PARTITONE”

Insomma, le carte le ha in mano tutte il Pd. Il punto è come se le gioca. È un partito “grosso”, attraversato da tensioni positive e negative, da contraddizioni, speranze, incertezze, passioni, pragmatismi, sospetti, intelligenze, scontri. Nulla di sorprendente, i partiti “extra large” hanno costantemente vissuto esperienze simili. Il punto è che oggi è impossibile nascondere ciò che in passato si poteva prudentemente occultare. Basta dare un’occhiata a facebook per rendersi conto che la vita, per i dirigenti, non è facile. I cittadini dicono la loro, eccome. Le punture di spillo, e gli attacchi velenosi, arrivano non solo dalle opposizioni, ma anche, oserei dire soprattutto, da simpatizzanti e iscritti. La scomposizione tra “bersaniani” e “renziani”, per esempio, è foriera di lacerazioni di non facile sutura. La questione è tornata prepotentemente in discussione alla luce dei deludenti risultati nazionali del Pd che, nella tornata amministrativa del 2016, ha perso il controllo di città di grande prestigio come Roma e Torino. E con esse l’aura d’invincibilità che circondava Matteo Renzi. Non si tratta, dalle nostre parti, di beghe ascrivibili all’appartenenza correntizia (non si litiga per un posto nel Consiglio della Rai o dell’Inps) ma di visioni diametralmente diverse, che attengono alla forma partito, al ruolo della governance, alle alleanze, alla geografia istituzionale. Posizioni espresse con ruvida franchezza romagnola dai protagonisti dell’acceso dibattito. Il referendum sull’architettura istituzionale proposta dal Governo Renzi, previsto per i prossimi mesi, e “costruito” dal premier come una sorta di giudizio


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di Dio sulla sua personale leadership, costituisce motivo di un confronto tanto acceso da non rendere possibili previsioni sugli esiti che potrà determinare all’interno del Pd locale un risultato oppure un altro. Va aggiunto che il Pd, in Romagna, dominus pressoché incontrastato, è andato incontro, negli ultimi dieci anni, anche a inattese delusioni. È avvenuto, cito le prime località che mi sovvengono, a Castrocaro, Cesenatico, Riccione, Gatteo, Modigliana, Meldola, Cattolica, Rocca San Casciano, Sogliano ove liste di centrodestra, civiche o pentastellate hanno prevalso. Significativo quanto avvenuto a Meldola, ove il sindaco Gianluca Zattini, sostenuto da liste alternative, ha sconfitto per due volte, nel 2009 e nel 2014, il Pd che, invece, ha continuato a prevalere nelle consultazioni regionali, nazionali ed europee. Il caso meldolese sintetizza la tendenza: la Romagna si riconosce di regola nel Pd e le eccezioni, attribuibili a fatti locali e personali, rimangono tali. Le consultazioni tenutesi lo scorso giugno lo confermano. Il Pd ha riconquistato Cesenatico, con il giovane sindaco Matteo Gozzoli, ha vinto a Bertinoro con l’ancora più giovane Gabriele Fratto dopo primarie interne accese. Il Pd ha poi vinto al ballottaggio a Ravenna con un candidato di notevoli qualità, Michele De Pascale, a mala pena trentenne, chiamato a misurarsi con l’eredità non invidiabile lasciata dal sindaco uscente, Fabrizio Matteucci, dopo dieci anni investiti nella candidatura di Ravenna a capitale europea della cultura – che non ha avuto successo – e nell’irrisolta questione della ristrutturazione del Porto. Tanto che è risultato determinante, per la vittoria, il contributo di voti offerto da quel Partito repubblicano che a Ravenna mantiene orgogliosamente una non indifferente fetta di consenso. De Pascale è esponente di punta del ricambio generazionale che il Pd romagnolo ha messo in scena negli ultimi tre anni e che riguarda sindaci, parlamentari, consiglieri regionali, segretari politici. Un cambiamento di stili, un bru-

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sco, efficace, restyling di linguaggi, atteggiamenti, visioni che, almeno elettoralmente, hanno dato i loro frutti. La morale che se ne trae è che il Pd in Romagna, pur in mezzo a mille problemi, propri e delle comunità, puntando sulla freschezza di volti nuovi, continua a vincere: tanto che i competitor ne prendono atto e si regolano di conseguenza. Anche creando nuove geometrie politiche. Mi riferisco a Rimini ove, lo scorso giugno, il sindaco Andrea Gnassi è stato riconfermato di slancio al primo turno. Chi conosce la città non nutriva dubbi sulla vittoria di Gnassi, un vulcano di energia in grado di offrire agli elettori una visione di Rimini efficacemente proiettata nel futuro. Se Gnassi manterrà le promesse, lo dirà la storia. Intanto quel che ha colpito gli osservatori è che Sergio Pizzolante, un tempo schierato all’opposizione, in quest’ultima tornata elettorale è stato sorprendentemente ispiratore di una lista di sostegno al sindaco uscente. Raccogliendo un insospettabile consenso: circa il 14% del voto complessivo dei riminesi. Pizzolante ha esperienza da vendere: è deputato di Area Popolare, è stato segretario regionale della Uil, è cresciuto vicino a Bettino Craxi. Sarebbe riduttivo definire la sua una scelta di potere, dietro quell’iniziativa c’è evidentemente una strategia rivolta al futuro che, comunque la si valuti, prende pragmaticamente atto della granitica centralità, in Romagna, del Pd. Valutazione fatta propria anche dall’irrequieta borghesia delle partite iva riminesi che hanno sostenuto la lista di Pizzolante. Fino a quando le cose staranno così? Non lo so, ma so che, per molti motivi, i leader democratici sono, al di là delle dichiarazioni ufficiali, preoccupati della “tenuta” del partito. Alle insidie portate dal Centrodestra e dalla Lega, oppositori dell’ultimo ventennio, s’aggiungono quelle proposte ultimamente dal Movimento 5Stelle, nuovo e impegnativo avversario. In grado, per esempio, di vincere a Cattolica, nello scorso giugno, contro le previsioni della vigilia.


COSTO O INVESTIMENTO?

Sono parimenti preoccupati, i dirigenti Dem, della sfibrante transizione economica che investe da tanto la comunità romagnola senza che si veda la luce in fondo al tunnel. Una crisi più profonda di quanto la si descriva, i cui effetti non sono ancora stati percepiti interamente dalla pubblica opinione. E neppure, in qualche caso, dagli stessi amministratori pubblici, chiamati a occuparsi non solo di aiuole fiorite e di rotonde: il fatto che stiano in Romagna “saltando” banche come fossero tappi di Champagne da loro qualche pensiero? Verosimilmente sì ai più avveduti tra i leader Dem che vedono nella messa a punto del sistema Romagna una risposta a entrambe le emergenze: quella economica e quella della crescente disaffezione dei cittadini. Troppi ritardi pesano sulla bilancia della pubblica opinione. Questo non è tuttavia, lo premetto, un libro sulle storture, vere o presunte, del potere. È un tentativo di capire cosa ci riserva il futuro in termini di scelte d’indirizzo che potranno, oppure no, risultare utili alle comunità, all’economia, alle persone. Preferisco maneggiare con cura la politica: non nutro eccessive attese, ma non faccio prevalere il sospetto quando incontro persone che se ne occupano. So bene che chi fa politica per mestiere di certo non ci rimette. Basti pensare alla lauta remunerazione di parlamentari e consiglieri regionali, o ai sontuosi stipendi dei dirigenti di pubbliche amministrazioni, o di aziende all’interno delle quali, bando alle chiacchiere, se non ti ci mette la politica non ci finisci di certo. Anche se sei il miglior tecnico o professionista del pianeta.


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Dirigenti che, proprio per questo, sono, di fatto, politici a tempo pieno. Anche se lo negano e si arrabbiano se glielo rammenti. Privilegi difficili da accettare da chi (tantissimi uomini e donne della nostra terra) deve combattere con la precarietà della condizione economica e professionale propria e dei propri figli. Da chi fa il proprio dovere dietro remunerazioni appena sufficienti a una vita dignitosa, da chi, lavorando nel privato, non è certo che l’azienda in cui è occupato fino al sabato aprirà i battenti il lunedì successivo. Ecco perché chi scrive della “casta” in termini coloriti e talvolta violenti, gridando allo scandalo, raggiunge popolarità e vendite. Sappiamo come funzionano le cose, anche in editoria. Nulla di male, tanto più che frequentemente le ragioni di malanimo sono condivisibili. Ma non è ciò che intendo fare con questo libro o che posso promettere al lettore. Parlando di un qualsiasi politico, l’elemento discriminante è se fa le cose seriamente, con competenza e perseguendo l’interesse collettivo: di opportunità, i politici, ne avrebbero parecchie per essere utili. Se non riescono a esserlo, rappresentano un costo e non un investimento per ciascuno noi. Obiettivo di questo libro è, dunque, capire se chi comanda in Romagna si sta muovendo perché il suo operato, nel prossimo futuro, risulti un investimento.

ALL’INIZIO FU ROMAGNA MIA

Non mi avventuro nel tentativo di definire dove cominci e finisca, geograficamente, la Romagna. Sull’argomento sono state scritte migliaia di parole, inutile aggiungerne altre. Una cosa, invece, l’affermo pur sapendo di andare contro corrente: i romagnoli cominciarono a percepirsi davvero tali non centinaia di anni fa, come frequentemente si è detto, ma in tempi ben più prossimi. Avvenne non più di una sessantina di anni fa, canticchiando in coro la celebre Romagna mia di Secondo Casadei, il re del liscio. Un genio modesto e laborioso, non consapevole (me lo ha confidato la figlia, la squisita signora Riccarda) di avere lanciato un pezzo musicale che sarebbe stato diffuso in tutto il mondo. E ancor meno consapevole che il testo della canzone avrebbe costituito una sorta di manifesto cultural-popolare della Romagna. Come in effetti avvenne, perché fu in quel periodo che maturarono circostanze che modificarono, in meglio, la vita di tantissimi romagnoli e abbatterono distanze fino ad allora mai colmate. Quella canzone finì dunque per costituire un riferimento, non riconosciuto come tale dalle elites culturali, ma fatto proprio dai romagnoli: gente concreta che, fino ad allora, era stata troppo presa dalla durezza del vivere per potere impiegare energie nel vagheggiare nuovi assetti istituzionali. Negli anni tra le due Guerre, infatti, in una società contadina (il 70% della popolazione era impegnata in campagna) e stanziale, non risultava infrequente che persone che abitavano poderi situati a non più di 40 chilometri da Ce-


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